ARTICOLI

Qui di seguito trovate gli articoli che i nostri soci hanno pubblicato su diverse testate. Buona lettura.

IL LUTTO NON E’ UN EVENTO PRIVATO. I compiti della famiglia nell’elaborazione del lutto

Quando muore qualcuno, agli altri spetta di vivere anche per lui”

Alessandro Baricco

Malgrado sia la famiglia il luogo naturale dove si vive una perdita e si elabora il lutto, da sempre l’esperienza della perdita è stata affrontata dalla psicoanalisi in termini individuali, per la risonanza emotiva che assume nella vita più intima del soggetto colpito dal dolore per la perdita di un affetto. Tuttavia non possiamo fermarci alla dimensione individuale, ma è necessario indagare anche gli effetti che il lutto produce nella dimensione più ampia della famiglia.

Il lutto costituisce, come affermano Andolfi e D’Elia (2007), “un affare di famiglia” ed è quindi nel contesto familiare che vanno ricercate le risorse per la sua elaborazione o per la sua mancata elaborazione. Risulta quindi necessario coinvolgere il mondo interno della persona, le sue relazioni familiari e sociali, i suoi valori, la sua cultura (Onnis, 1988).

Per la famiglia di oggi è molto più difficile affrontare il lutto rispetto al passato. In passato, la perdita di un affetto attivava un processo di condivisione del dolore a cui tutti i membri della famiglia stretta e dell’intera comunità partecipavano attivamente. Generalmente la persona moriva in casa, tutta la famiglia era coinvolta in uno specifico cerimoniale che iniziava con la cerimonia funebre e si concludeva generalmente dopo un anno, con il rito dell’anniversario di morte, momento in cui la famiglia stretta si legittimava a non indossare più abiti neri in segno di lutto.

Negli ultimi anni invece, si è assistito ad un incremento dei contesti assistenziali istituzionali, così la morte, da un momento di saluto condiviso del proprio caro, è diventato qualcosa da evitare e da vivere in solitudine, rimanendo a tutti gli effetti  un tabù da cui bisogna proteggersi. Il risultato è che spesso manca l’appoggio reciproco e il rischio è che tutti si sentano soli, trovandosi improvvisamente di fronte ad una morte che avevano previsto, ma che non hanno potuto preparare. Le famiglie di oggi così poco numerose  e così diverse dal passato, hanno più difficoltà a contenere in un gruppo solidale un evento particolarmente doloroso e traumatico come la perdita di uno dei suoi membri. Riuscire ad accettare ed elaborare la morte di un familiare dipende, ancora una volta da diversi fattori quali l’età del defunto, la natura della morte, la posizione occupata in vita nella famiglia e le implicazioni emotive, ma anche dalle caratteristiche del sistema familiare e dal suo grado di “apertura e flessibilità”.

La famiglia funziona come un sistema unitario, la perdita di uno dei suoi membri è un evento stressante per tutto il sistema familiare, soprattutto per i cambiamenti e i riadattamenti che essa impone. Al pari delle relazioni individuali, anche la famiglia vive la stessa sequenza di reazioni: shock, negazione e rifiuto, disperazione, rielaborazione, fase di accettazione e fase di lutto. In ciascuna di queste fasi p verificarsi una sorta di blocco o di irrigidimento che non consentirà al sistema di procedere oltre nelle tappe successive del lutto né di giungere alla sua completa elaborazione, spesso per una reciproca protezione dal dolore. Ad esempio potrà generarsi un tacito accordo secondo il quale non si può far riferimento all’evento luttuoso in nessuna situazione, oppure porterà i singoli a svolgere compiti e funzioni sempre uguali a loro stesse, con lo scopo di consolare e proteggere il familiare che secondo tutti, è stato quello più danneggiato dalla perdita. In entrambi i casi viene bloccata l’elaborazione del lutto e la possibilità di una ripresa della vita familiare. Secondo Minuchin (1982), la famiglia che ha sperimentato una morte o un abbandono può avere delle difficoltà nella riattribuzione dei compiti del membro che manca. Spesso si fisserà in un atteggiamento tipo: se la mamma fosse ancora viva, saprebbe cosa fare. Ciò significa che subentrare alla madre nelle sue funzioni sarebbe un atto di infedeltà alla sua memoria. Minuchin individua le morti prenatali o perinatali, gli aborti (volontari o involontari), le morti di bambini a pochi giorni, come le perdite più rilevanti che modificano la struttura emotiva della coppia e della famiglia. Per esempio l’aborto anche se è un evento programmato “scelto” e non accidentale è un lutto particolarmente difficile da elaborare proprio perché viene vissuto intimamente come qualcosa di cui vergognarsi e raramente viene condiviso. Sempre secondo Minuchin i “tempi” di elaborazione del lutto rientrano tra i 9-12 mesi, entro questo “tempo” la famiglia e l’individuo si evolverà verso una nuova situazione (sviluppo del processo di elaborazione) oppure si cristalizzeràsulla struttura organizzativa presente (blocco del processo di elaborazione). Alcune persone affrontano il lutto nascondendolo a loro stesse, spesso in terapia accade che la persona arrivi a parlare del lutto quasi accidentalmente, in questi casi parliamo di “negazione dell’evento doloroso”. Tra i diversi meccanismi di difesa che consentono alla persona di non entrare in contatto con una realtà troppo dolorosa e con i sentimenti ad essa legati, c’è appunto la “negazione” quella modalità per cui i contenuti dolorosi possono accedere alla coscienza alla sola condizione di essere negati. Ne risulterà un’accettazione esclusivamente razionale, negando tutto l’impatto emotivo che l’evento porta con sé.

Un altro elemento che può facilitare o bloccare l’elaborazione del lutto è l‘ambiguità dei confini familiari. I confini familiari sono intesi come l’insieme di norme che regolano i rapporti tra i vari sottosistemi (Minuchin, 1977). Come la membrana attorno alla cellula, i confini devono essere “solidi” al fine di assicurare l’integrità dell’individuo e “permeabili” per assicurare la comunicazione tra i membri della famiglia. In questo modo si definiscono i ruoli familiari, si marcano le differenze evolutive fra i membri della famiglia, venendo incontro ai bisogni emotivi di ciascun membro. Si individuano due tipologie di famiglie: famiglie invischiate (confini deboli) caratterizzate da un elevato livello di coesione, eccessiva vicinanza e indebolimento dei ruoli familiari; famiglie disimpegnate (confini rigidi) caratterizzate da uno scarso livello di coesione, marcata differenziazione e scarsa connessione tra i sottosistemi.

La tipologia di confini, dopo un primo momento in cui l’ambiguità dei confini sembra essere fisiologica, influenzerà la modalità con cui la famiglia reagirà al lutto.

Byng-Hall (1998), sostiene che chi subisce una perdita deve necessariamente assolvere a due compiti: piangere la persona scomparsa e dover rinunciare alle speranze e alle aspettative per ciò che sarebbe successo nel futuro con la persona che è venuta a mancare. In sostanza, la famiglia si ritrova a piangere il “copione” familiare che la famiglia aveva scritto per il futuro e dover riscrivere un “nuovo copione” che preveda l’assenza della persona defunta. Byng-Hall (1988) definisce i copioni familiari come le aspettative condivise dalla famiglia su come i ruoli familiari debbano essere rispettati all’interno di contesti diversi e su cosa deve essere detto o fatto all’interno delle relazioni familiari. Di fronte ad una perdita, la famiglia deve elaborare il lutto per quel copione familiare che prevedeva la presenza di tutti i suoi componenti. L’esempio più significativo è quello di genitori che perdono un figlio, insieme al lutto per il figlio dovranno elaborare il lutto per le speranze e le aspettative che avevano per il futuro del loro figlio, trovando la forza per piangere il vecchio copione e allo stesso tempo la forza per riscriverne uno nuovo.

Murray Bowen, nel saggio dal titolo “La reazione della famiglia alla morte” definisce la morte come un’onda d’urto emotiva che si diffonde intergenerazionalmente, generando disturbi psicopatologici nei suoi membri che spesso ne ignorano l’eziologia. L’onda d’urto emotiva non è direttamente correlata alle reazioni di dolore ma è piuttosto espressione del livello di fusione emotiva e di indifferenziazione presente tra i componenti della famiglia. La si può paragonare ad una sorta di contagio emozionale dove la sofferenza si diffonde dall’uno all’altro membro della famiglia sulla base della dipendenza emozionale esistente, di mancata differenziazione e di ipercoinvolgimento.

Due caratteristiche del sistema familiare possono facilitare oppure ostacolare l’elaborazione del lutto: un “sistema relazionale aperto” e un “sistema relazionale chiuso”. Nel sistema relazionale aperto, i sentimenti possono essere espressi liberamente senza timore di contagiare gli altri. La differenziazione tra i membri permette uno scambio comunicativo ampio e significativo e di conseguenza, una più semplice elaborazione del lutto per la persona che sente di poter condividere con i membri della sua famiglia i contenuti emozionali. Un sistema relazionale chiuso, invece, è rappresentato da quella famiglia in cui un individuo non è libero di comunicare pensieri, sentimenti e fantasie a causa della dipendenza emotiva dall’altro, non tutte le emozioni hanno l’autorizzazione ad essere espresse, ed è per questo meccanismo che spesso il lutto si trasforma in un argomento tabù di cui non si può assolutamente parlare.

La capacità comunicativa rispetto alla profondità del dolore, è una risorsa della famiglia, quando questa capacità viene meno, si manifesteranno modalità protettive e collusive, l’elaborazione del lutto sarà complicata e rallentata. Norman Paul (1965), evidenzia come eventuali lutti non risolti nel passato familiare possano avere un impatto significativo sugli scambi trigenerazionali, questo punto di vista pone l’accento su come il lutto non risolto possa tramandarsi di generazione in generazione. Per Canevaro (2005), lo scenario naturale del lutto non è solo la famiglia nucleare , bensì l’intero sistema trigenerazionale, che costituisce la rate allargata e che, insieme agli amici, si trasforma nel supporto più importante del sistema familiare nucleare e del singolo soggetto.

A seguito della perdita di uno dei suoi membri, sia il singolo che la famiglia, si trovano a dover svolgere una serie di compiti. I compiti che spettano all’individuo sono di natura intrapsichica, quelli invece, che spettano alla famiglia hanno una matrice relazionale che si fonda sullo scambio comunicativo e sulla capacità di riorganizzazione della struttura familiare.

Goldberg (1973), Gilbert (1996) e Pereira (1999), hanno individuato i compiti che la famiglia dovrà affrontare per una buona elaborazione del lutto:

riconoscere la perdita e che ciascuno dei membri della famiglia vive il proprio dolore
permettere a ciascun membro di esprimere sentimenti di tristezza, vuoto e dolore
rinunciare alla presenza della persona scomparsa
favorire la condivisione della sofferenza e del dolore tra i vari membri della famiglia
riallineare i ruoli, per permettere alla famiglia di riorganizzarsi  al proprio interno
riallineare i ruoli e i confini extrafamiliari, la famiglia si occuperà di riorganizzare la sua relazione con il mondo esterno
riaffermare il sentimento di appartenenza al nuovo sistema familiare

In conclusione affinché il lutto possa essere elaborato è necessario che la persona colpita possa dare libero sfogo alle proprie emozioni (paura, struggimento, collera, tristezza, senso di colpa), ovvero che attraversi tutte le fasi di elaborazione del lutto. Quando questa possibilità viene negata (dal soggetto stesso o dal sistema familiare), il lutto si blocca ed i vissuti emozionali che non hanno trovato il giusto ed adeguato sfogo, determineranno una pressione costante e duratura sul singolo fino ad arrivare ad un tipo di funzionamento patologico.

Dott.ssa Angela Pia Giampalmo

Psicologa-Psicoterapeuta

Bibliografia

Andolfi, M.- D’Elia, A. (2007), Le perdite e le risorse della famiglia, Raffaello Cortina, Milano.

Bowen, M. (1979), Dalla famiglia all’individuo, Astrolabio, Roma.

Byng-Hall, J. (1998), Le trame della famiglia. Attaccamento sicuro e cambiamento sistemico. Raffaello Cortina, Milano.

Canevaro, A. (2005), Approccio trigenerazionale al lutto familiare. In saggi, Child development and disabilities, Vol. XXXI, Associazione la nostra famiglia, Bosisio Parini.

Goldberg, S.b. (1973), Family Tasks and reactionsin the crisis of death, Family Service Association.

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Minuchin,S., Fishman, H.C. (1982), Guida alle tecniche della terapia della famiglia, Astrolabio, Roma.

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Pereira, R. (2006), Un approccio sistemico al lutto, in Psicobiettivo, Fascicolo 1, Franco Angeli, Milano.

BIOFILIA E TERAPIA FORESTALE

Il termine biofilia (letteralmente amore per la vita) è stato introdotto da Fromm nel 1964 inteso come tendenza psichica, intrinseca alla biologia umana, a rivolgersi istintivamente verso la natura e le altre forme di vita. Secondo questa teoria, l’uomo di fronte a paesaggi naturali subisce una forma di “fascinazione”, intesa come attenzione involontaria che, contrariamente all’attenzione diretta e sostenuta, non richiede sforzo. Questo permette alla nostra mente di riposare e rigenerarsi, riconoscendo nella natura incontaminata un ambiente familiare, in qualche modo già conosciuto e riconoscibile.

I suoni e le immagini che provengono dalla natura, ci rimandano ad una sorta di memoria ancestrale, sono stimoli che non abbiamo bisogno di elaborare ed interpretare cognitivamente con sforzo, perché i nostri sistemi sensoriali sono, a partire dall’inizio della vita dell’uomo sulla terra, strutturati ed ottimizzati per elaborare quello specifico tipo di sensazioni. Non si viene mai sorpresi, l’attenzione non è mai catturata in modo attivo, non è mai allerta e questo facilita il recupero energetico ed il benessere psicofisico.

La terapia forestale, prende origine a partire proprio dai costrutti della biofilia, ovvero dell’evidenza che il contatto con la natura, a diversi livelli (dal più indiretto a quello più immersivo) genera benessere. Lo sanno bene i giapponesi che per primi hanno adottato il Shinrin-yoku (letteralmente bagno con il bosco) come parte delle strategie di prevenzione delle malattie croniche e tutela della salute pubblica. Nel 2020 l’ONU ha riconosciuto la frequentazione degli ambienti forestali come pratica di medicina preventiva, in particolare nel contrastare gli effetti successivi alla pandemia e, in Italia, il Ministero per le politiche agricole ha indicato la terapia forestale come un servizio socio culturale nel nuovo piano per le politiche forestali

Nonostante alcune ricerche abbiano dimostrato che già l’esposizione virtuale ad ambienti forestali sia sufficiente a ridurre i livelli di ansia percepita, la terapia forestale normalmente propone attività più strutturate e immersive come camminate consapevoli, meditazione, yoga, mindfulness e semplici attività manuali, svolte in piccoli gruppi guidati da guide specializzate affiancate da operatori sanitari della salute mentale.

Gli effetti benefici sono “dose dipendente”, ovvero più tempo si trascorre in un contesto naturale incontaminato, maggiori e più duraturi sono i benefici per la salute fisica e psichica. In media si consiglia di trascorrere nell’arco di una settimana almeno 2 ore immersi in ambiente naturale per avere benefici in termini di benessere percepito.

Quello che viene proposto è di compiere una esperienza immersiva, ovvero che coinvolga tutti i 5 sensi:

LA VISTA: è stato dimostrato che anche la sola stimolazione visiva con immagini forestali proiettate su uno schermo portava benefici psicologici e fisiologici. La visione di un contesto naturale, meglio ancora se selvaggio e incontaminato, con presenza di corsi d’acqua e con diverse tipologie di alberi e arbusti, produce una significativa riduzione dei livelli di ansia percepita.

IL TATTO: con qualsiasi parte del corpo di un elemento naturale produce un effetto calmante e un aumento dell’attività parasimpatica. Il contatto, in particolare con il legno di alcune specie arboree, soprattutto conifere, induce rilassamento rilevabile a livello fisiologico. Interessante notare che questo avviene sia in ambienti naturali all’aperto che in ambienti indoor in cui siano presenti manufatti in legno.

IL GUSTO: connette ancor più profondamente all’ambiente naturale, si pensi non solo alla gratificazione nel gustare piccoli frutti selvatici, ma anche ai possibili benefici di alcune piante selvatiche.

L’UDITO: gioca, ancor più della vista, un ruolo importante nell’indurre rilassamento; il suono di un ruscello, del vento tra gli alberi da soli possono determinare una sensazione di benessere

L’OLFATTO: è il senso che viene più coinvolto negli effetti benefici derivanti dalla terapia forestale. Quando ci troviamo, in particolare in un bosco, respiriamo quello che le piante emettono, cioè, composti organici volatili biogenici (detti BVOC), ovvero biomolecole con importanti effetti benèfici; da soli, anche a basse concentrazioni, sono ad esempio in grado di ridurre la percezione di ansia.

Biomolecole diffuse da piante diverse possono avere effetti diversi: antiinfiammatori, antiossidanti, calmanti, ansiolitici, antidepressivi, benèfici rispetto ai disturbi del sonno (conifere) antimicrobici, antiinfiammatori, anti-emorragici (latifoglie), neuroprotettivi(faggio).

I BVOC sono facilmente solubili nel sangue per cui vengono assimilati molto facilmente e sono in grado di superare facilmente la barriera ematoencefalica e quindi di produrre un effetto diretto sul cervello. Effetti simili si possono avere anche in ambienti chiusi in presenza di manufatti in legno, suoi derivati o oli essenziali.

Come illustrato la terapia forestale ha effetti benefici, in grado di prevenire tutta una serie di disturbi, inserendosi quindi come utile strumento di prevenzione primaria. È in grado, infatti, di prevenire alcuni disturbi a livello circolatorio, diminuendo la frequenza cardiaca, la pressione sanguigna e i livelli di cortisolo, e migliorando l’efficienza del sistema immunitario, con una maggiore produzione di linfociti Natural Killer

Nuove evidenze si stanno raccogliendo anche rispetto alle possibilità terapeutiche della terapia forestale che si dimostra di ausilio nel trattamento di alcuni disturbi. Si è evidenziata ad esempio una riduzione della sintomatologia depressiva in particolare quando la terapia forestale si associa a pratiche meditative. Altre evidenze riguardano l’impatto della terapia forestale nel disturbo da dolore cronico, nel disturbo d’ansia e nel trattamento delle demenze in particolare nelle funzioni di attenzione e memoria. Negli ultimi anni sono diversi i filoni di ricerca che riguardano le applicazioni terapeutiche della terapia forestale; un elemento di criticità va rintracciato però nella difficoltà di indentificare protocolli standardizzati, ripetibili e controllati che permettano di strutturare protocolli terapeutici ufficiali.

In conclusione, ancora una volta si ha evidenza di come l’equilibrio mente corpo non possa prescindere dall’equilibrio con la natura e col ritrovare antichi rituali e paesaggi che ci rimettano in contatto con una dimensione naturale ancestrale dove la bellezza e l’armonia contribuiscono al nostro benessere.

Dott.ssa Chiara Delia

Bibliografia

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BALBUZIE E AGGRESSIVITA’: una lettura psicoanalitica

Quante volte ci siamo imbattuti in una di quelle giornate estenuanti dove risulta faticoso anche articolare le parole? Come ci sentiamo in quella situazione? Cosa percepisce il nostro interlocutore? Immaginiamo che questo avvenga quotidianamente e che non sia influenzato dalla stanchezza. Immaginiamo che possa accompagnare le giornate di una persona fin dall’infanzia con ripercussioni in ambito sociale, sull’interazione e sull’autostima.

Stiamo parlando di balbuzie, ma di cosa si tratta?

L’Organizzazione Mondiale della Sanità considera la balbuzie un disordine del ritmo della parola, un disturbo di fluenza del linguaggio.

Si tratta di un disturbo universale, cioè si riscontra in tutta la popolazione e nei diversi ambiti sociali. Diversi personaggi celebri erano balbuzienti e nonostante la loro difficoltà sono stati capaci di fare della comunicazione il loro mestiere, basti pensare tra i tanti ad Aristotele, Virgilio, Wittgenstein, re Giorgio VI (meravigliosamente ritratto nell’affrontare la sua difficoltà nella pellicola Il discorso del re), Churchill e Marilyn Monroe.

In genere la balbuzie insorge più facilmente durante la prima infanzia, all’inizio della scuola primaria e con la pubertà, mentre l’insorgenza in età adulta è legata a traumi o patologie neurologiche. La maggiore frequenza è nella fascia di età 3-6 anni ed è considerata fisiologica, poi la frequenza diminuisce e si attesta sotto l’1% oltre la maggiore età. La maggiore incidenza è presente nel sesso maschile con un rapporto 3-6:1 rispetto alle femmine. Vengono riconosciute tre forme di balbuzie: la tonica, che prevede blocchi improvvisi durante l’emissione; la clonica, che vede la ripetizione di una lettera, una sillaba o una parola all’inizio della produzione; una forma mista delle due precedenti. Un’ulteriore distinzione è tra balbuzie primaria e secondaria, dove la prima si riscontra nei primi anni di vita e il bambino non ne è consapevole, mentre nella seconda vi è coscienza del disturbo e si manifesta in età scolare.

Che ruolo ha la psiche in tutto ciò?

Nell’eziologia della balbuzie vengono riconosciuti fattori organici ma anche funzionali, ovvero la psicologia del soggetto e il funzionamento dell’ambiente. Viene riconosciuta l’implicazione degli aspetti psicologici e relazionali. L’insorgere del disturbo è spesso correlato a episodi traumatici e l’espressione e l’uso dell’aggressività è uno degli aspetti principali della balbuzie.

Ma oltre agli aspetti psicologici individuali, qual è il ruolo dell’ambiente?

Gli studi sulle dinamiche affettive hanno evidenziato che nella nostra cultura occidentale l’ambiente familiare relazionale del balbuziente pare caratterizzato da alcuni elementi specifici:

– iperinvestimento della parola, dove l’aspetto formale è più importante del contenuto affettivo;

– educazione rigida e formale;

– tensioni e contrasti soprattutto con la figura paterna;

– forte richiesta dei genitori che il figlio soddisfi le loro aspettative narcisistiche di successo, ma quando queste vengono disattese si instaura un clima di tensione e un atteggiamento passivo e dipendente del balbuziente o all’opposto manifestazioni di instabilità emotiva.

L’interesse per la balbuzie e gli studi su di essa risalgono a molto tempo fa e diversi psicoanalisti hanno contribuito al tema con i loro apporti teorici.

Uno dei primi psicoanalisti a occuparsi di balbuzie fu proprio Freud (1892-95), che nell’analisi di Frau Emmy von N. evidenziò il disturbo a seguito di una serie di incidenti traumatici. In seguito, lo stesso Freud (1901), in Psicopatologia della vita quotidiana la considera indice di un conflitto interiore.

Successivamente con la psicoanalista Melanie Klein si apre una riflessione rispetto alla balbuzie come una fissazione a uno stadio di sviluppo specifico e diversi autori apportano i loro contributi.

La Klein (1923) espone il caso di una bambina balbuziente e mette in luce come nel linguaggio ci possa essere la sublimazione delle fissazioni orali, cannibalesche e sadico-anali. Fenichel (1945) considera la balbuzie principalmente un sintomo di fissazione allo stadio sadico-anale, mentre per Wassef (1955) sarebbe associata a problematiche edipiche che non si risolvono a causa di conflitti irrisolti negli stadi precedenti. Da questi tre diversi contributi emerge l’aspetto di aggressività.

Altri autori inseriscono nella riflessione sulla balbuzie il ruolo dell’ambiente e della famiglia, che abbiamo precedentemente detto avere un ruolo importante nell’insorgenza e nel mantenimento del disturbo.

Johnson (1959) sostiene che vi sia una visione negativa del linguaggio da parte del balbuziente tale da inibire la parola, evidenziando l’importanza della famiglia nell’insorgenza del disturbo. Glauber(1943, 1950, 1951) riporta le origini della balbuzie al rapporto madre-bambino e alla fissazione a livello orale-narcisistico, che si traduce in aspetti di dipendenza e passività tipici del balbuziente. In un articolo pubblicato postumo l’autore considera il linguaggio come una funzione dell’Io che opera preconsciamente, ovvero il parlare diventa un automatismo. In tal senso la balbuzie sarebbe una disautomatizzazione, il processo non è più inconscio ma controllato dall’Io (Glauber, 1968). Egli avanza l’ipotesi che la disautomatizzazione, ovvero l’investimento conscio delle funzioni preconsce, possa derivare da un trauma. Questo avviene nella separazione dall’identificazione con la madre e l’aggressività che si genera in seguito colpisce il linguaggio nell’automatismo e nella fluenza.

Una visione che prende in considerazione la regressione o la fissazione a più stadi di sviluppo è quella proposta da Anzieu (1964, 1969, 1980, 1982). Secondo lo psicoanalista francese il sintomo della balbuzie si manifesta contemporaneamente su tre registri – paranoico, ossessivo e isterico – corrispondenti rispettivamente ai tre stadi orale, anale e fallico. Il linguaggio costituisce la conquista del simbolico e rappresenta l’accettazione delle differenze generazionali e del divieto dell’incesto, ovvero il superamento dell’Edipo. Secondo tale visione la balbuzie è il sintomo che esprime il conflitto tra il desiderio inconscio e la sua non ammissione. Come per Glauber, anche per Anzieu la balbuzie si manifesta quando le tematiche edipiche di madre e figlio colludono e il balbuziente non riesce a superare la posizione edipica non potendo accedere alla sessualità genitale e al godimento. Per Anzieu, in accordo con Glauber, il sintomo è ineliminabile per la sua natura arcaica e difensiva.

Sulla scia di una visione più allargata la balbuzie viene interpretata come un sintomo, che può presentarsi in diverse forme nevrotiche che esprimono diverse problematiche, in cui gli organi del linguaggio diventano il luogo più adatto per esprimere il conflitto (Sigurtà, 1955, 1970).

Bion (1967, 1970) sottolinea l’aspetto relazionale del balbettare dove lemozione sottostante alla formulazione verbale con cui viene espressa l’esperienza non può essere contenuta dal contenitore linguaggio e ciò che viene espresso è spogliato del suo significato.

Un’altra visione è quella che avvicina la balbuzie a sintomi psicofisici, come l’asma bronchiale (Gaddini, 1980). Secondo Gaddini De Benedetti (1980) vi è un riferimento al distacco e alla separatezza dall’oggetto primario, che hanno un’influenza sulla mente infantile, la quale connette il parlare e il respirare per riattivare una delle prime esperienze della mente, ovvero succhiare e deglutire mentre si respira. Anche Giannitelli (1976) evidenzia nella balbuzie l’attivazione delle pulsioni aggressive e distruttive sulla base di angosce traumatiche di separazione con la localizzazione somatica sulle vie aree, che rimandano all’iperinvestimento dell’aria della fissazione anale – “a livello del pensiero primitivo l’apparato respiratorio sembra diventare la sede dell’incorporazione degli oggetti alla stessa guisa di quello intestinale: alla stessa guisa si prendono e si ricevono sostanze dal mondo esterno, o si restituiscono, si ridanno ad esso”. La balbuzie e le malattie respiratorie sono per l’autore comunicazione di richiamo al rapporto per via somatica con modalità di espressione non verbali.

Le varie letture proposte mettono in luce diverse sfaccettature e convergono in una visione psicoanalitica che considera la balbuzie un sintomo la cui origine si lega a fasi precoci dello sviluppo affettivo, dove l’aggressività è fondamentale e funzionale nei processi di separazione e differenziazione di sé dall’altro. Viene riconosciuta una stretta connessione tra espressione psichica e substrato organico e la balbuzie è considerata una conversione del conflitto psicologico sull’organo – il sistema respiratorio o l’apparato articolatorio-fonatorio. L’aggressività costituisce un nodo fondamentale, è necessaria per stabilire il confine tra sé e l’altro e la parola può attraversare lo spazio che si genera diventando un segno di separazione ma anche di relazione, ma tutto ciò diventa molto faticoso quando alla base vi è un’angoscia di separazione tale da minare la relazione.

Ma come intervenire?

Quando parliamo di trattamento della balbuzie dobbiamo avere a mente che esistono diverse metodologie e tecniche.

Una di queste è il trattamento logopedico, che si avvale di tecniche di rilassamento, di controllo della respirazione e dell’emissione di parole e si occupa di sviluppare abilità verbali e non verbali e di favorire l’interazione comunicativa. Nella prima infanzia generalmente viene sconsigliato il trattamento logopedico, in quanto affinchè esso abbia effetto il bambino deve avere coscienza della balbuzie e ritenerla disturbante. In tale fase si lavora dando consigli ai genitori per evitare che il sintomo si fissi.

Oltre alla figura professionale dello specialista in logopedia, un contributo importante nel trattamento della balbuzie può essere dato dallo psicoterapeuta. Nello specifico, avendo sottolineato l’importanza della visione del disturbo in un’ottica relazionale secondo la quale la balbuzie è un disturbo della relazione interpersonale, si ritiene elettivo il trattamento psicoterapeutico dove terapeuta e paziente si incontrano all’interno di una relazione sufficientemente buona che potrà tradursi in un’esperienza emozionale correttiva (Alexander, 1946).

Dott.ssa Tatiana Giunta

 

BIBLIOGRAFIA

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Klein, M. (1923). Analisi Infantile. In Scritti 1921-1958. Torino, Boringhieri, 1978.

Sigurtà, R. (1970). Balbuzie e psicoanalisi (articolo non pubblicato). Istituto di Psicoanalisi, Milano.

Sigurtà, R., De Benedetti Barbieri, M. (1955). La balbuzie. Milano, Minerva Medica, 1956.

Wassef, H.W. (1955). Étude clinique de différentes modalités structurales au cours de psychanalyses de bègues. Revue Française de Psychanalyse, 19, 440-472.

IL DOLORE COME ESPERIENZA UNICA E SOGGETTIVA. Fibromialgia e malattie psicosomatiche

Il provare una qualsiasi forma di “dolore” molto spesso è parte integrante della sofferenza psicologica, ne può effettivamente essere causa o conseguenza, oppure anche entrambe assieme.

Le persone a volte esperiscono dolori ai quali non riescono a dare delle spiegazioni e la sofferenza può risiedere anche e soprattutto nel fatto che, dopo diversi e accurati esami specialistici, neanche la medicina riesca a trovare un riscontro organico, qualcosa di “malfunzionante” all’interno dell’organismo, del corpo in generale. Di questo, ne fanno esperienza le persone che soffrono di una malattia cronica psicosomatica, appunto.

Per comprendere ciò, bisogna prima distinguere tra due tipi di dolore: quello “acuto” e quello “cronico”.

Il dolore “acuto” è occasionale, in risposta a uno stimolo inatteso e intenso, relativo allo stato attuale e reversibile, poiché ha un inizio e una fine.

Il dolore “cronico”, invece, è persistente e costante, quotidiano ed è una risposta disadattava del nostro corpo.

La International Association for the Study of Pain (IASP), nel 2020, ha definito il dolore cronico come “un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata o simile a quella associata a un danno tissutale reale o potenziale”.

La American Psychological Association, già nel 2013, sosteneva,infatti, che il punto cruciale non è il sintomo somatico in sé ma il modo in cui la persona lo presenta e lo interpreta.

Con questi interventi e queste “nuove” e aggiornate definizioni si può parlare di una effettiva rivoluzione nel considerare questo tipo di dolore derivante non solo da un malessere fisico o organico, biologico ma anche da fattori psicologici e sociali dell’individuo. Prende in considerazione la soggettività e l’unicità della persona, esattamente la sua personale esperienza.

Ne deriva, quindi, che il vissuto di  dolore dovrebbe essere sempre compreso e rispettato, dato che, inoltre, le persone apprendono il concetto di dolore attraverso le loro esperienze di vita.

Sebbene il dolore di solito abbia un ruolo adattativo, può avere effetti negativi sulla funzionalità e il benessere sociale epsicologico.

Con ciò, bisogna anche tenere in considerazione che la descrizione verbale non è l’unico modo per esprimere il dolore e che l’incapacità di comunicare non nega la possibilità che un essere umano stia provando malessere: ovvero, se non esplicito verbalmente che ho dolore, non vuol dire che sia scontato che io non ne abbia. Un po’ come “se non sto chiedendo aiuto non vuol dire per forza che non ne abbia bisogno”.

Più in generale, l’OMS, invece, definisce la malattia cronica come un “problema di salute che richiede un trattamento continuo durante un periodo di tempo che può andare da anni a decadi”.

Nonostante l’elenco sia molto lungo e si suddivida anche per categorie, prendiamo come esempi solo alcune delle malattie psicosomatiche croniche, quelle che potrebbero essere le più “conosciute”:

Gastrite
Colite spastica (sindrome del colon irritabile)
Psoriasi
Artrite reumatoide
Fibromialgia

Negli ultimi anni, l’attenzione medica e psicologica si è soffermata in particolar modo sulla fibromialgia. La fibromialgia è una sindrome dolorosa cronica caratterizzata dall’insorgere di numerosi sintomi differenti tra loro ed associata ad ulteriori disturbi come stanchezza cronica, disturbi cognitivi, problemi psichici, alterazioni del sonno e sintomi somatici.

Colpisce in Italia oltre 2 milioni di persone, corrispondenti circa al 3% dell’intera popolazione. Si tratta di una sindrome che potremmo definire «di genere» perché più dell’80% di coloro che ne sono affetti sono donne tra i 30 e i 60 anni.

Le cause della fibromialgia sono ancora da identificare. Si suppone che per comprenderle appieno bisogna centralizzare la soggettività della persona, prendendo in considerazione dunque la sua intera storia di vita: fattori psicologici, sociali, ambientali e non solo una possibile vulnerabilità biologica.

Il sintomo cardine della malattia, presente in ogni persona che ne è affetta, resta comunque il dolore cronico. Più precisamente, si parla di “dolore nociplastico”: in questa forma, non vi è un danno al sistema nervoso né al sistema tissutale ma è presente un’alterazione della nocicezione. La nocicezione è quel processo sensoriale che rileva i segnali e le sensazioni di dolore, tutto ciò tramite l’attivazione di recettori periferici (terminazioni nervose), chiamati appunto “nocicettori”. Come se fossero i “sensori del dolore” del nostro corpo: nella fibromialgia, questi sensori funzionano “male” e attivano la percezione di dolore anche laddove non è presente nessuno stimolo reale.

Tramite studi e ricerche sul tema, si è notato come esistano delle costanti negli aspetti psicologici, comuni in tutte le persone che soffrono di fibromialgia:

Uno stile di attaccamento insicuro o disorganizzato
Uno o più eventi di vita traumatici
Alessitimia (la difficoltà nel riconoscere, esprimere e distinguere le proprie emozioni e sensazioni corporee)
Bassa autostima

Per trattare la fibromialgia in maniera sufficientemente efficace e permettere alla persona di condurre una vita il più “normale” possibile, l’intervento elettivo è sicuramente quello multidisciplinare: una terapia farmacologica utile ad alleviare i sintomi della malattia e, parallelamente, la psicoterapia, utileinvece soprattutto a:

Aiutare il paziente nel differenziare sensazioni, esperienze ed emozioni;
Mantenere o rendere consapevoli dei propri vissuti e delle proprie emozioni;
Individuare nuove abitudini;
Attivare processi di consolidamento delle abitudini funzionali;
Lavorare sull’accettazione della nuova condizione;
Sostenere durante queste nuove fasi di vita.

Il paziente vive nel corpo la sua sofferenza. Il suo è un dolore soggettivo al quale si va ad aggiungere e confondere quello fisiologico della malattia; una malattia che struttura la rappresentazione di sé con la malattia stessa; una malattia che continuamente “auto-attacca” il proprio corpo.

Il dolore ha sempre un’importante accezione soggettiva e personalizzata: non tutti proviamo dolore allo stesso modo, per le stesse cose. Per questo, è sempre necessario sospendere il nostro giudizio a riguardo, comprendere il più possibile e rispettare il malessere che esso provoca nella persona che abbiamo di fronte, sia che siamo professionisti della salute oppure no. Anche questo è terapeutico.

Dott. Riccardo Falconieri

Bibliografia

“Il corpo malato. L’intervento psicologico”, a cura di Bruno G.Bara, Raffaello Cortina Editore

“Il ruolo dello psicologo nel piano nazionale cronicità”, ConsiglioNazionale Ordine Psicologi, fonte reperibile online

“Psicologia e Salute”, Antonella Delle Fave e Marta Bassi, Utet Università

SCUSA una parola tanto semplice quanto difficile da pronunciare

 

Elton John citava “Sorry seems to be the hardest world / Scusa sembra la parola più dificile del mondo”. Ebbene sì, scusa è davvero una parola così tanto difficile da pronunciare. Ma come mai è così difficile chiedere scusa?

Come essere umani ed esseri imperfetti, capita sovente di inciampare, di sbagliare sia con chi ci sta più a cuore che con chi non si conosce. Chiedere scusa, per quanto possa essere una parola così corta e semplice da pronunciare, è in realtà, per alcune persone, la più difficile e temuta. La difficoltà spesso risiede nell’ammettere di aver commesso un errore. Questo comporta in alcuni casi, ammettere di non essere infallibili e questa dura verità può suscitare un profondo senso di vergogna che si cerca con tutte le proprie forze di nascondere. In altri casi invece, comporta ammettere che il proprio comportamento può aver ferito l’altro; entrare in contatto con il dolore dell’altro e sentirsene responsabili può diventare spaventoso da gestire dentro di sé. 

Chiedere scusa tuttavia, ha un profondo effetto riparativo. Quando le scuse sono sincere e autentiche, chi le riceve si sente compreso e confortato. La rabbia lascia il posto ad una sensazione di sollievo che permetterà di non radicarsi dentro di sé trasformandosi poi, in risentimento e rancore. Anche chi le porge sente nascere dentro di sé una sensazione di benessere e sollievo. È il potere della riconciliazione, della riparazione che segue ad una possibile frattura relazionale che si può inevitabilmente creare tra due o più persone.

Ci sono casi in cui è semplice porgere le scuse e altre in cui, è più difficile. Nel primo caso, ci troviamo di fronte a tutte quelle situazioni in cui nessuno è responsabile di qualcosa come per esempio, quando ci si scusa per essere arrivati in ritardo ad un appuntamento a causa di un incidente che ha bloccato il traffico. Ci sono situazioni invece, in cui è davvero difficile. Si tratta di tutte quelle volte che a pagare le conseguenze di una negligenza è una relazione significativamente importante; il non porgere le scuse può diventare il deterrente per lo sfilacciarsi di quel legame così speciale. Ci sono poi, situazioni in cui si procrastina quel fatidico momento perché non si ha il coraggio, non si vuole essere intrusivi o ancora, perché si teme quella che possa essere la reazione dell’altro perché, chiedere scusa significa anche far vedere all’altro la propria vulnerabilità. Così come, diventa difficile farlo, quando si è quasi “obbligati”, quando l’altro le pretende perché vuole che ci si assuma la responsabilità della sua sofferenza. Certo, chiedere scusa richiede anche il compito gravoso non solo di gestire la propria vulnerabilità ma di dover gestire quello che la rabbia e dolore dell’altro possono suscitare dentro di sé.

Ad ogni modo, sta di fatto che il bisogno di scuse e di riparazione resta una prerogativa tipicamente umana. Cerchiamo giustizia e riparazione per i torti subiti. A volte questi torti siamo noi a riceverli, altre volte siamo noi a causarli. Di sicuro, è rassicurante sapere che nella maggior parte dei casi, abbiamo la possibilità di rimediare o perlomeno di provarci perché non è mai troppo tardi.

Vediamo ora cinque aspetti da tener a mente quando dobbiamo chiedere scusa.

 

  1. La consapevolezza del “ma” e del “se”

I “ma” e i “se” sono degli intrusi che spesso susseguono rapidamente le scuse. Introdurre questi piccoli avverbi può minare l’autenticità e la sincerità dell’offerta di pace che si sta porgendo in quanto, rappresentano un tentativo di giustificare le proprie azioni o di mostrarsi accondiscendenti verso la persona che si è sentita ferita. 

Non serve aggiungere molto ad una parola così semplice quanto complessa come “Scusa”. È il primo passo per la riparazione, successivamente si possono creare ulteriori situazioni in cui spiegare le ragioni del proprio comportamento all’interno di un clima più disteso.

 

  1. “Mi dispiace che tu l’abbia presa così”

“Mi dispiace che tu l’abbia presa così” è una frase molto comune che appartiene alla categoria delle pseudo-scuse. In questo caso, quello che avviene è che ci si focalizza non tanto sulle proprie azioni quanto sulla risposta dell’altro, rischiando così di non assumersi la propria responsabilità in merito all’accaduto.

 

3.Le scuse mistificanti

A volte capita che ci si possa ritrovare in situazioni in cui venga chiesto di assumersi la responsabilità per le reazioni dell’altro. “Chiedi scusa a tuo fratello per avergli fatto venire mal di testa con la tua musica assordante”.; si tratta di un chiaro esempio di scuse mistificanti. Maggiore saranno ansia e sensi di colpa, maggiore sarà la tendenza ad assecondare questo tipo di scuse.

 

  1. “Perdonami – e subito!”

Alcune persone sono convinte che ricevere delle scuse sia l’unica e solo strada percorribile per il perdono. Ritenere di dover essere subito perdonati per aver leso l’altro corrisponde in realtà, ad un bisogno personale di rassicurazione per alleviare il proprio dolore e senso di colpa.

Quando le scuse sono considerate una merce di scambio, per esempio con il perdono, il loro reale scopo riparatore rischia di far sentire l’altro nuovamente ferito e non rispettato in quelli che possono essere i suoi tempi per gestire eventuali emozioni come rabbia e tristezza.

Le scuse spesso hanno bisogno di tempo e spazio per arrivare a destinazione.

 

  1. Le scuse intrusive

A volte, può capitare che le scuse che arrivano frettolosamente fanno sentire nuovamente non rispettati e feriti. Seguire l’impulso di entrare in contatto il prima possibile con chi è stato ferito, per cercare di rimediare ai propri errori e attenuare i propri sensi di colpa, può essere percepito come intrusivo e poco attento allo stato emotivo dell’altro.

Ricordiamoci che lo scopo delle scuse è alleviare la sofferenza che le nostre azioni o parole hanno suscitato nell’altro e non alimentare il disagio.

 

Dott.ssa Antonia Di Pierro

Psicologa – Psicoterapeuta

 

Bibliografia e sitografia

Harriet Lerner (2018) “Scusa. Il magico potere di ammettere i propri sbagli”. Feltrinelli

Winch Guy (2021) “We all know people who just can’t apologize – here’s why” ed.ted.com

 

SINDROME DEL NIDO VUOTO. Riscoprirsi come individui e coppia

 


L’uscita dei figli da casa, spesso nel ciclo di vita di una famiglia rappresenta un momento di paure e difficoltà, è una fase evolutiva in cui il nucleo originario diventa un trampolino di lancio per i figli e allo stesso tempo dà alla coppia la possibilità di reinvestire nel loro progetto di vita insieme.
E se è vero che in Italia oggi l’uscita da casa è sempre più spesso rimandata dai giovani adulti a causa di condizioni di lavoro precarie che non portano immediatamente a rivendicare l’indipendenza, allora è anche vero che quando finalmente arriverà questa indipendenza, potrà risultare un momento di crisi per gli stessi genitori: sembra che dopo averli spronati, non siano così
disposti a lasciarli andare.
Ogni famiglia si sviluppa e si evolve continuamente. Per le famiglie con bambini, questo inizia con la formazione di una coppia, in seguito con la nascita e la crescita del bambino, continua con l’uscita di quest’ultimo dalla casa di origine e in un’età più matura termina con il ritorno della coppia. Pertanto,la necessità d’indipendenza, che incoraggia i giovani adulti a lasciare gradualmente
la famiglia d’origine, rappresenta uno stadio fisiologico familiare.
La famiglia è, infatti, un trampolino naturale per il ragazzo verso il mondo esterno. Ma anche se questa è una fase perfettamente normale nel ciclo di vita di ogni unità familiare, alcuni genitori lottano più di altri per separarsi dai loro figli, e il “nido vuoto” non è un problema.
Quella che viene comunemente chiamata sindrome del nido vuoto può riguardare sia le mamma e che i papà, ma sembra che siano più predisposte le donne a trovarsi in questa spiacevole situazione presentando sentimenti di tristezza e solitudine, accompagnati da una sensazione di vuoto e perdita di significato. A volte possono verificarsi difficoltà di concentrazione, stanchezza, fatica e una sensazione di preoccupazione eccessiva e diffusa.
Per meglio prevenire e affrontare questo momento di transizione, è importante guardarlo da una diversa prospettiva, comprese le dimensioni individuali, le relazioni coniugali e la genitorialità. Le persone più vulnerabili rispetto alla sindrome del nido vuoto, sono persone che si sono identificate
principalmente nel loro ruolo di genitori nel corso degli anni e vivendo per la maggior parte secondo i bisogni della loro prole e non riconoscendo il proprio bisogno di uno spazio individuale.
Questo non significa certamente interruzione dei rapporti familiari, ma la loro riorganizzazione con un ruolo più paritario mantendo i genitori sempre come punto di riferimento con la possibilità di
sperimentarsi e responsabilizzaresi. L’allontanamento da casa produce un vuoto che, nei casi più gravi, può portare a una perdita di significato nella vita e assumere il significato di lutto reale.

Questa condizione è caratterizzata da reazioni disadattive che si estendono nel tempo e si traducono in alcune costellazioni sintomatiche che affliggono i genitori.
I sintomi più frequenti associati alla sindrome del nido vuoto sono tristezza, ansia, senso di colpa, rabbia,irritabilità,solitudine,che possono causare gravi psicopatologie in termini di depressione maggiore, disturbi d’ansia e,in rari casi, scompenso psicotico.
È importante chiarire che non tutte le coppie sviluppano sintomi negativi della sindrome del nido vuoto. Alcuni studi hanno anche rilevato la presenza di emozioni positive associate ad un aumento dei livelli di intimità, soddisfazione coniugale e libertà. Il fattore protettivo per lo sviluppo della sindrome del nido vuoto è la capacità di svolgere un ruolo diverso.Alcuni studi hanno evidenziato
che le donne che,infatti,costruiscono la propria identità principalmente nel ruolo della madre e dedicano tuttala loro esistenza alla cura del figlio tendono a sviluppare la sindrome perché a seguito del distacco sperimentano una crisi d’identità causata da una mancanza di capacità di adattarsi al nuovo ruolo.
Oltre a questo, è utile anche rinvigorire il rapporto con il proprio partner, che è un punto di riferimento immutabile, individuando nuovi momenti di intimità e condivisione. Inoltre, è necessario cambiareil rapporto con il figlio, riconoscendolo come adulto, costruendo legami più maturi, cos’ come concordare dei confini che renderanno la relazione stabile e funzionale.
Questo potrebbe essere il momento per riprendere possesso della propria dimensione, prendendosi più cura di se stesso e dare voce ai propri desideri. Rivolgere l’attenzione a sé stessi che in precedenza era dedicata maggiormente ai propri figli, magari sentendo vecchi amici o riscomprendo e scoprendo nuovi hobby e passioni.
I partner, che da tempo si sono riconosciuti quasi esclusivamente come genitori, notano che in questa fase è importante ristabilire la dimensione della coppia.
Dopo la prima destabilizzazione, sarà bello riuscire a reinvestire energie emotive e fisiche nella relazione stessa: creare nuovi interessi, dedicarsi ad attività spesso riservate ai figli, poter viaggiare, magari iscriversi a corsi di danza, sviluppare relazioni amichevoli, dedicarsi all’intimità. Pensare di nuovo insieme, in modo che possa riscoprire la coppia, fare progetti, pensarsi ancora insieme e
divertirsi come quando non c’era la responsabilità dei figli. E’ importante saper ridefinire il rapporto tra genitori e figli,”rinnovandolo”ad una nuova fase della vita, pur potendo riconoscere ed accettare l’autonomia dei propri figli e le loro scelte, magari non sempre pienamente condivise ma percepirsi con legati ma con la possibilità di entrare e uscire con la propria individualità.
Dott. Mirco Carbonetti
Psicologo – Psicoterapeuta

Dormiamo sonni tranquilli?

Una parte della popolazione sempre più consistente è affetta negli ultimi decenni da disturbi del sonno: alcune persone non riescono ad addormentarsi, altre hanno risvegli troppo precoci, altre credono di dormire bene, ma si risvegliano con una stanchezza cronica e molte altre varianti, poco considerate o spiegate con generiche cause anagrafiche o legate allo stress quotidiano.

La classificazione dei disturbi del sonno è in realtà molto ampia e complessa, comprendendo forme patologiche leggere e transitorie, fino ad arrivare a forme severe e talvolta gravi.

La prima distinzione va fatta tra forme primarie, legate alla disregolazione dei meccanismi alla base delle funzioni di sonno e veglia (metaboliche, cardiocircolatorie con interessamento del sistema respiratorio, ormonali) e forme secondarie legate a malattie organiche (es. Parkinson, Alzheimer, malattie della tiroide, diabete).

Durante il sonno aumenta la produzione di alcuni ormoni denominati anabolici, come ad esempio l’ormone della crescita e il testosterone e contemporaneamente, diminuiscono ormoni catabolici come il cortisolo. Durante il periodo di sonno vengono messi in atto processi di recupero e riparazione di tessuti dell’organismo: è stato ad esempio dimostrato come venga aumentata la sintesi proteica a livello muscolare e a livello del sistema nervoso centrale, pertanto il sonno svolge un importante funzione anti invecchiamento.

Studi condotti sugli effetti della deprivazione di sonno mettono in evidenza quanto impattante sia ad esempio il danno sulla memoria: ciò consente di ipotizzare che durante il sonno avvenga la sintesi di proteine cerebrali implicate con la fissazione dei ricordi.

Il sonno incide anche sui processi di termoregolazione che, infatti, risultano alterati nei casi di grave deprivazione.

La letteratura ci dimostra quanto la durata e la qualità del sonno influenzi lo stato di veglia e vigilanza diurna e abbia un impatto su funzioni come l’attenzione, la concentrazione e la gestione emotiva. Non dormire a sufficienza può favorire una riduzione delle prestazioni cognitive durante la veglia, umore instabile e labilità emotiva, inficiando sensibilmente la qualità della vita (Morin et al., 2015).

Il sonno, per essere riposante, deve avere una sua architettura precisa, divisa in quattro fasi, con caratteristiche differenti e individuabili all’EEG (elettroencefalogramma): il rispetto della sequenza e della durata di queste fasi assicura un sonno valido e ristoratore.
Per semplificare, il sonno p
uò essere suddiviso sostanzialmente in due fasi: sonno non-REM (fase 1,2,3) in cui non vi è memoria dell’attività onirica e vi è una progressiva diminuzione dell’attività muscolare, e  sonno REM, associato ad attività onirica, ad una riduzione quasi totale dell’attività muscolare e in cui sono presenti movimenti rapidi oculari, in cui avviene l’effettivo riposo cerebrale.

Dovremmo ipoteticamente dedurre allora che chi dorme più a lungo abbia adottato uno stile di vita più sano, ma non è sempre così: non tutti sanno infatti che un eccesso di ore di sonno può essere correlato talvolta ad una maggiore probabilità di patologie cardiovascolari e quadri patologici di tipo depressivo.

Bisogna pertanto dormire il giusto, né troppo nè troppo poco…ma chi lo stabilisce quante ore di sonno sarebbero giuste per noi?

La risposta sta nella nostra soggettiva percezione di benessere, funzionalità e sensazione di riposo ed efficienza durante la vita attiva. Per tutte le persone che non sentono soddisfatti questi requisiti o che nutrano dei dubbi sulla qualità del proprio sonno ci si può rivolgere ai reparti di Medicina e Terapia del Sonno, presenti nella maggioranza degli ospedali cittadini oppure a centri privati o convenzionati che forniscono consulenze ed esami specifici per verificare la qualità del sonno.

Il principale disturbo del sonno è l’insonnia: condizione caratterizzata da un peggioramento soggettivo nella qualità del sonno, da difficoltà di addormentamento, da risvegli mattutini precoci o da risvegli nel mezzo della notte che determinano uno stato di stanchezza cronica durante il giorno, per una durata di almeno tre mesi e con una frequenza di 3 o 4 notti a settimana.

In genere chi soffre di insonnia, durante il giorno, manifesta una serie di problematiche collegate alla carenza di sonno tra cui fatica, difficoltà a concentrarsi, umore irritabile e disturbi di memoria con conseguenti problematiche sul lavoro o nello studio, legate allo scarso riposo notturno. Nonostante l’insonnia sia un disturbo molto comune e diffuso, spesso rimane sotto-diagnosticata e non trattata efficacemente.

In generale se i disturbi del sonno si verificano per periodi brevi (da qualche giorno a qualche settimana) si parla di disturbo acuto del sonno. Quando invece il disturbo si manifesta per almeno tre mesi si parla di insonnia conclamata.  

L’insonnia può associarsi ad altri disturbi medici (ad es. ipertensione e disturbi cardiaci) o psichiatrici (ad es. disturbi d’ansia e disturbi dell’umore). Quali siano causa e quali conseguenza è un aspetto che deve essere ancora chiarito e su cui si stanno eseguendo numerosi studi, ma sicuramente è dimostrata la correlazione tra disturbi del sonno e lo sviluppo di patologie al sistema cardio-respiratorio, metabolico, neurologico, oltre che associate a sviluppo di disturbi psichiatrici.

Sono numerosi gli studi scientifici sull’argomento finora pubblicati ed è ormai noto che l’insonnia rappresenta un fattore di rischio per l’insorgenza di disturbi d’ansia, dell’umore e disturbi da uso di sostanze (Yoo et al., 2007).

Il disturbo da insonnia può presentarsi anche in conseguenza alla patologia psichiatrica stessa e, una volta insorto, alimenta lo sviluppo e il mantenimento di un circolo vizioso che peggiora i sintomi del paziente, compromettendone la qualità di vita (Sateja MJ, 2009).

Risulta, quindi, necessario un trattamento specifico sui sintomi d’insonnia da affiancare al trattamento rivolto al disturbo psichiatrico presentato.

Un fattore interessante è che gli studi più recenti stanno evidenziando lo spostamentodell’insonnia da effetto di alcune malattie mentali a causa – o almeno con-causa – di tali disturbi. Un cambiamento prospettico da non sottovalutare, sia per le diagnosi sia per le terapie, che emerge in particolare da uno studio dell’Università di Oxford pubblicato da The Lancet Psychiatry (2016). I ricercatori dello Sleep and Circadian Neuroscience Institute hanno svolto un importante studio coinvolgendo un ampio campione di studenti (3755) con una diagnosi di insonnia, dislocati in 26 università del Regno Unito, divisi in modo casuale in due gruppi.

Per affrontare le difficoltà del sonno degli studenti, i ricercatori hanno scelto per un gruppo un trattamento di terapia cognitivo-comportamentale focalizzato sul disturbo, che è stato “somministrato” online,  mentre il secondo gruppo era libero di ricorrere a trattamenti standard (gruppo di controllo). Nel primo gruppo dopo alcune settimane è stato riscontrato un notevole miglioramento dell’insonnia, insieme a piccole riduzioni nella paranoia e nelle allucinazioni (tali sintomi psicotici erano il primo obiettivo di indagine degli psicologi inglesi) e si sono registrati miglioramenti anche nella sintomatologia della depressione, dell’ansia, riduzione degli incubi, più in generale, un miglioramento soggettivamente percepito di benessere psicologico. Il gruppo di controllo ha raggiunto risultati meno significativi e univocamente interpretabili.  E’ stato dunque ipotizzato che aiutare le persone a dormire meglio potrebbe essere un primo passo importante per affrontare problemi psicologici ed emotivi.

Come affermato da Lino Nobili, Responsabile del Centro della Medicina del Sonno dell’Ospedale Niguarda di Milano, chi ha un sonno migliore, ha “sintomi migliori” anche all’interno del proprio disturbo mentale, meno severi ed invalidanti. La deprivazione del sonno altera le funzioni del cervello principalmente nella zona frontale che, insieme con il lobo parietale, coordina il nostro pensiero e regola le funzioni del Sé. Studi longitudinali sui decorsi clinici di pazienti con Disturbi del sonno dimostrano che nel soggetto con insonnia aumenta sensibilmente il rischio di sviluppare sintomatologia depressiva. E quando la depressione è già diagnosticata al momento della rilevazione della sintomatologia di disturbi del sonno, l’insonnia può agire da aggravante: la connessione sonno-depressione è nota da tempo.

Nel 90% dei casi di Depressione Maggiore vi sono alterazioni della struttura e della durata del sonno: da un punto di vista clinico possiamo avere difficoltà di addormentamento, con latenze eccessive o insonnia iniziale, risveglio precoce o insonnia terminale oppure un sonno interrotto da un eccessivo numero di risvegli non seguiti da rapido ri-addormentamento. Anche l’ipersonnia, cioè un aumentato bisogno di sonno e numero di ore totali di addormentamento, può essere parte del suddetto quadro clinico: ciò avviene circa nel 10% dei casi e soprattutto in alcune forme specifiche che vengono definite Depressioni Atipiche, proprio per la peculiarità di alcune manifestazioni sintomatologiche o nelle forme di Disturbo Affettivo Stagionale chiamate anche SAD o Winter-blues. Spesso in questi casi è anche presente l’iperfagia cioè un aumento dell’appetito, sintomo raro nelle altre forme di Disturbo Depressivo.

Anche i pazienti con Disturbi d’Ansia tendono ad avere difficoltà di addormentamento (insonnia iniziale) e presentano risvegli notturni: il 70% dei pazienti affetti da Attacchi di Panico ha insonnia con risvegli multipli. In questo caso è essenziale trattare il disturbo del sonno perché esso favorisce la comparsa dell’attacco di panico, sia diurno che notturno.

Nel Disturbo Ossessivo Compulsivo sono presenti disturbi del sonno caratterizzati da una riduzione del numero complessivo di ore di sonno, con un aumento dei risvegli notturni.
Il Disturbo Post Traumatico da Stress è caratterizzato da ritardo dell’addormentamento e soprattutto dalla presenza di sogni terrifici in cui il paziente rivive le esperienze traumatiche vissute o sogni che generano stati emotivi che il paziente ha vissuto durante il trauma.
Nella fase euforica del Disturbo Bipolare i pazienti mostrano una notevole riduzione delle ore di sonno senza influenza sulla qualità della veglia, riescono cioè a mantenere la vigilanza diurna valida nonostante la mancanza di sonno e non riferiscono stanchezza né sonnolenza diurna.
In questo contesto è sempre indispensabile trattare i disturbi del sonno poiché la mancanza di sonno rallenta la risoluzione dell’episodio stesso.

In sintesi, come possiamo notare, sono molteplici le connessioni tra disturbi emotivi e disregolazioni del sonno, tuttavia dobbiamo essere attenti e informati sull’igiene del sonno anche in assenza di un disturbo clinico conclamato poiché la letteratura scientifica e la clinica della Medicina del Sonno ci indicano che alcune persone riescono a cogliere le proprie difficoltà legate al sonno,poichè sono chiaramente avvertite dal paziente stesso (per esempio un ritardo nell’addormentamento o risveglio precoce, oppure numerosi risvegli notturni), in taluni altri casi invece viene avvertita solo l’eccessiva stanchezza diurna, la difficoltà mattutina al risveglio o lo stato di nervosismo durante la giornata, poiché la fase di sonno non presenta veri e propri risvegli, ma un non approfondimento del sonno verso la fase NREM 3 e REM, che permettono il riposoreale del paziente e lo sviluppo di tutte le funzioni metaboliche e rigenerative necessarie al nostro organismo durante la notte. In questi casi, senza un’accurata anamnesi, aumenta il rischio di non attribuire la giusta causa al proprio stato fisico ed emotivo.

Come abbiamo già sottolineato, in alcuni casi l’insonnia è uno dei primi segnali dello sviluppo di un disturbo psichiatrico e va identificato e trattato per tempo. In altri casi invece l’insonnia si mantiene a causa di cattive abitudini comportamentali (ad es. l’abuso di caffeina, l’utilizzo eccessivo di smatphone, tv, pc, tablet o il passare troppo tempo a letto) o cognitive (ad es. sforzarsi o preoccuparsi di non riuscire ad addormentarsi). In altri casi ancora l’insonnia stessa può essere la causa scatenante di un aumentato rischio di sviluppo di malattia neurodegenerativa in età avanzata.

Alcune stime suggeriscono che circa il 30-35% della popolazione mondiale manifesti qualche difficoltà nel sonno ma solamente il 10-15% lamenti difficoltà quotidiane correlate al disturbo del sonno. Nei più giovani il sintomo più frequente è la difficoltà nell’addormentamento, mentre i risvegli frequenti durante la notte sono più tipici della mezz’età e dei soggetti più anziani.

L’insonnia è più frequente nelle donne rispetto agli uomini, poiché il ritmo sonno-veglia è determinato anche dalla presenza di alcuni ormoni, quali la melatonina e la serotonina, che, in particolare nel genere femminile, risultano aumentati dopo l’insorgenza della menopausa in quanto subiscono una forte alterazione nelle quantità e nel rilascio durante la giornata.

L’insonnia può manifestarsi a qualsiasi età, anche se il primo episodio avviene in genere nella tarda adolescenza, prima età adulta.

Le cause che determinano lo sviluppo di un disturbo del sonno sono molteplici e in molti casi legati alla tipologia di insonnia che il paziente presenta.

Nonostante l’alta prevalenza dell’insonnia nella popolazione generale, le cause che determinano il disturbo del sonno non sono ancora completamente comprese (Morin, 2015). Si ritiene comunque che a favorire l’esordio e il mantenimento del disturbo sia un insieme di fattori  genetici, clinici, comportamentali, emotivi e cognitivi.

Fattori genetici: studi hanno dimostrato che circa il 30% dei soggetti affetti da insonnia ha un familiare che soffre dello stesso disturbo. C’è quindi una predisposizione genetica che rende alcuni individui più sensibili di altri a sviluppare l’insonnia.
Fattori clinici: presenza di comorbilità con ipertensione, aritmie cardiache, BPCO, apnee ostruttive del sonno, demenze, diabete, tutte cause che possono essere aggravate da un disturbo cronico e non curato del sonno.
Fattori comportamentali: ci sono alcune abitudini comportamentali che favoriscono l’insorgenza o il mantenimento dell’insonnia. Tra questi troviamo: passare molto tempo a letto, avere orari e ritmi di sonno/veglia irregolari, fare riposini durante il giorno, utilizzare videoterminali prima di addormentarsi (ad es. computer o smartphone).
Fattori emotivi: eventi di vita avversi e preoccupazioni possono causare e mantenere l’insonnia. In molti casi il disturbo esordisce durante un periodo di stress acuto e tende poi a cronicizzarsi.
Fattori cognitivi: alcune caratteristiche cognitive possono favorire l’insonnia, ad esempio la tendenza alla rimuginazione. La tendenza ad indugiare sulle preoccupazioni genera spesso infatti difficoltà nell’addormentamento. Tali difficoltà possono inoltre generare ulteriori preoccupazioni (ad es. essere preoccupati di non riuscire ad addormentarsi) che instaurano così un circolo vizioso cognitivo che peggiora il quadro dell’insonnia.

Lo studio delle cause di insonnia deve essere il primo passo verso la terapia.

Appurate le cause, escluse tutte le possibili causalità biologiche, il ripristino di una corretta igiene del sonno, cioè l’insieme delle abitudini e dei comportamenti quotidiani che favoriscono un buon sonno e quindi un adeguato rendimento diurno, è il primo passo terapeutico.
I soggetti che soffrono d’insonnia devono imparare a rispettare alcune regole fondamentali
, evitare alcuni cibi e bevande che hanno un forte potere eccitante, soprattutto nelle ore serali.

Dormire durante il giorno è sconsigliato, benchè aiuti a mantenere una vigilanza efficiente, influenza negativamente la capacità di addormentarsi e mantenere il sonno. L’abitudine a un breve pisolino, con orario di sveglia prefissato, non è necessariamente dannosa in chi non presenta disturbi del sonno. L’attività fisica disturba il sonno ed è quindi sconsigliata nelle ore serali, contraddicendo la diffusa idea che stancarsi fisicamente favorisca il sonno. È invece utile a questo scopo lo svolgimento di un’attività aerobica moderata nelle ore diurne. Non esagerare con i liquidi nei pasti serali poiché molti soggetti insonni se risvegliati dalla necessità di urinare faticheranno a riprendere il sonno. E’ importante creare condizioni esterne di calma, comodità e buio, in un ambiente silenzioso e con una temperatura non eccessiva. Importante anche mantenere una certa regolarità negli orari in cui ci si corica.

In conclusione sarà lo psicoterapeuta, che ha con il paziente il rapporto più continuativo e duraturo, con una maggiore disponibilità temporale durante le sedute, a dover fare una indagine su possibili disturbi del sonno, che potrebbero esser causa di altre patologie collegate, facendo un po’ da connettore anche tra la rete degli specialisti interpellati.

Il Terapeuta, dopo aver ravvisato un possibile disturbo del sonno, nel caso in cui abbia anche riscontrato all’anamnesi un aumentato rischio di fattori fisiognomici (sovrappeso, grandezza eccessiva del collo, difficoltà fisica evidente, presenza di dispnea, anamnesi patologica che coinvolge ipertensione, diabete, malattie dell’apparato cardio-respiratorio) sarebbe opportuno che facesse un invio del paziente ad uno specialista (neurologo, pneumologo, otorino, endocrinologo) per gli approfondimenti necessari: primo tra tutti l’esecuzione di polisonnografia notturna cardiorespiratoria, al fine di escludere o confermare la causa primaria del disturbo del sonno, che nella maggior parte dei casi sono le Apnee notturne. La verifica di tale diagnosi, dell’eventuale tipologia di apnea e l’impostazione terapeutica è fondamentale per curare il disturbo del sonno e anche per prevenire importanti conseguenze cardio-circolatorie, ed è fondamentale che venga eseguita da un medico specialista.

Consuelo Aringhieri

Psicoterapeuta

Ludovico Recupero

Tecnico di Neurofisiopatologia

Il suicidio negli anziani

Dagli ultimi 50 anni l’età media si è allungata di una ventina d’anni. E continuiamo a guadagnare circa tre mesi ogni anno. Dagli anni Ottanta abbiamo guardato sempre solo al successo, al fascino della gioventù e del benessere, trascurando che siamo diventati il Paese più vecchio del mondo insieme al Giappone: oggi un italiano su quattro ha più di 65 anni.

Quando un quarto della popolazione è anziana entrano in gioco cambiamenti di natura demografica, sociale ed economica che interagiscono in modo complesso con la sfera individuale del soggetto.

All’aumentare dell’età, aumentano le difficoltà di carattere fisico e cognitivo, mentre si restringono le possibilità di interazione sociale.

L’aumento dei problemi di salute e della solitudine possono portare la persona a sviluppare pensieri suicidi.

Spesso quando si pensa al suicidio e a far prevenzione su questo tema ci si rivolge agli adolescenti e giovani adulti, come se fosse questa la fascia d’età più a rischio, ma secondo la rilevazione Istat “Decessi e cause di morte”, nell’anno 2010 tra i residenti in Italia si sono tolte la vita 3876 persone, di queste il 78% erano uomini. Gli over 65enni rappresentano circa un terzo di tutte le vittime di suicidio.

Sia per gli uomini che per le donne la mortalità per suicidio cresce con l’aumentare dell’età ma, mentre per le donne questo aumento è piuttosto costante, per gli uomini si evidenzia un incremento esponenziale a partire dai 65 anni. Tra gli uomini nella classe di età 65-69 anni si registra un tasso pari a circa 14 suicidi ogni 100.000 abitanti della stessa età, che aumenta progressivamente fino a raggiungere, tra gli over 95enni, un picco di circa 46 suicidi ogni 100.000.

Per gli uomini la mortalità per suicidio comincia ad aumentare in modo esponenziale proprio in coincidenza con l’età al pensionamento, che frequentemente coincide anche con la fuoriuscita dei figli dalla famiglia di origine, eventi questi che spesso si associano a una riduzione dei ruoli sociali e a un restringimento dell’ampiezza e densità delle reti di relazione. Tutto ciò, contestualmente al peggioramento dello stato di salute generale legato al naturale processo di invecchiamento, può aumentare il rischio di isolamento sociale che a sua volta concorre ad aumentare il rischio di suicidio. Tra i fattori che contribuiscono ad amplificare il rischio di isolamento sociale c’è anche la perdita del coniuge ed è stato evidenziato come l’essere vedovo sia associato a un rischio cinque volte maggiore di suicidio rispetto alla condizione di

coniugato e che l’impatto della vedovanza sul rischio di suicidio è maggiore per gli uomini che non per le donne.

Sono cifre importanti che rivelano un fenomeno di cui nessuno parla, ma il suicidio nell’anziano è un problema di sanità pubblica in quanto gli anziani rappresentano il gruppo con la più elevata prevalenza di suicidio, soprattutto se di sesso maschile.

Il 75% degli anziani muoiono al loro primo tentativo di suicidio in quanto l’atto è stato pianificato da tempo e non si configura quindi come un atto impulsivo.

Gli anziani non riportano frequentemente pensieri suicidi e non utilizzano servizi preposti quando disponibili. Quindi il suicidio è evento molto frequente, ma poco se ne parla.

Le cause sono legate alla solitudine, alla fragilità fisica e a bisogni esistenziali non soddisfatti. Il suicidio nell’anziano non sempre si verifica in presenza di un disordine mentale o psichiatrico, perché causato dal sommarsi di malattie somatiche o da eventi di vita stressanti.

Il suicidio viene compiuto prevalentemente in solitudine, e in luoghi in cui altre persone non possano intervenire; raramente è una protesta contro l’ambiente, l’aggressività è rivolta contro l’interno, al fine di eliminare le difficoltà ad accettare le tante perdite e i cambiamenti che la vecchiaia comporta.

Diventa possibile, pur nel rispetto della libertà e della autonomia dell’individuo, pensare anche un intervento di prevenzione e di aiuto, tanto più se la suicidarietà è correlata a una condizione psicopatologica o, comunque, a una sofferenza grave che ha molteplici cause e che può essere affrontata.

I farmaci soprattutto quelli antidepressivi potrebbero ridurre i pensieri suicidari e il suicidio. La depressione nell’ anziano si manifesta nel contesto di altre malattie, in associazione alla disabilità, a mutate situazioni sociali. Non deve essere confusa con la tristezza; ma non raramente la depressione è sottosoglia.

La riduzione del supporto sociale per lutto famigliare, il pensionamento, il cambio di abitazione o di setting curativo-assistenziale sono fattori di rischio da valutare adeguatamente; anche l’ insonnia è segno rilevante di depressione e richiede attenzione anche per il possibile impiego di farmaci che riducono l’ attenzione e l’equilibrio (cadute) dell’ anziano. Gli eventi stressanti devono essere rilevati durante l’ anamnesi così come la presenza di malattie come il

cancro, ictus, diabete, cardiopatia con scompenso, politerapia, dolore cronico, lutto recente, storia di ideazione suicida, ipotiroidismo, carenza di vitamina B12 e acido folico.

La prevenzione del suicidio: è possibile?

 

Si dovrebbe cercare di aumentare la resilienza delle persone anziane con esercizi di mindfulness che si contrappone a “mindlessness”, ovvero chiusura mentale, cioè essere incastrati in schemi cognitivi passati, non più funzionali nel presente; l’ obiettivo è il benessere psicofisico della persona, soprattutto anziana.

Sarebbe importante, conoscendo i fattori di rischio, fare prevenzione delle malattie croniche, attivare palestre cognitive, intervenire su situazioni di disagio sociale (solitudine) e psicologico (depressione).

E poi si dovrà aiutare ad elaborare il lutto di chi sopravvive al suicidio di un congiunto anziano.

25 Novembre – giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Confronto tra intelligenza artificiale e una donna sulla violenza di genere

“Dire omicidio ci dice solo che qualcuno è morto.

Dire femminicidio ci dice anche il perché”

Michela Murgia

 

 

Novembre 2023, 106 femminicidi.

Nel 2022 sono stati 126

nel 2021, 115 nel 2020, 128

nel 2019, 111

Si stima che almeno l’87% dei femminicidi sia commesso da un familiare, e la metà dal partner/ex.

E non ci sono solo le morti.

Le denunce per maltrattamenti sono passate dalle circa 9.700 del 2013 alle 19.900 di un 2023 che deve ancora finire.

Nello stesso decennio le denunce per atti persecutori è passata da circa 9.600 alle 13.800 di questi 11 mesi. E ricordiamoci che lo stalking è reato solo dal 2009.

Le violenze sessuali hanno registrato un incremento del 40,2% negli stessi dieci anni.

Numeri freddi e spaventosi che è bene sottolineare fanno riferimento ai soli casi denunciati, escludendo quindi quelli che sfuggono alla cronaca e tutto un sommerso che riguarda in particolare le donne più fragili come le migranti, le trans, le sex workers.

 

Il 25 novembre non deve parlare di donne, deve parlare di uomini. Agli uomini.

 

In un Paese nel quale continuano a diminuire gli omicidi, i femminicidi restano pressoché immutati e le violenze sulle donne aumentano. Questo spinge ad una riflessione obbligatoria ma ancora troppo ostracizzata: perché gli uomini uccidono le donne? Perché questa violenza sistemica che tocca trasversalmente donne di qualunque etnia, età, estrazione sociale? E’ una dinamica di potere che le vuole sottomesse. E’ PATRIARCATO.

Una parola “divisiva”, dice chi ha il privilegio di sedere dal lato dei carnefici.

“Not all men”, non tutti gli uomini, gli fanno coro altri, più preoccupati dal sentirsi (dirsi) innocenti che dal capire come recuperare una “dignità di genere” comprensibilmente e profondamente messa in discussione. Eppure nessun uomo è esonerato dal fare la propria parte per smantellare la società che lo privilegia tanto, a discapito di altri. È ora che gli uomini capiscano che possono piangere, chiedere aiuto, sentirsi fragili, che la cultura machista deve finire per la loro libertà e per la nostra sicurezza.

Gender pay gap, pinkwashing, mansplaining, catcalling, victim blaming, tone policing, un mondo di inglesismi che racconta una quotidianità fatta di differenze salariali, di molestie, di controllo economico, di uomini che zittiscono o che pretendono di spiegare alle donne per quali istanze che le riguardano dovrebbero combattere e come farlo. A voce bassa e senza disturbare troppo, grazie.

“Avete già ottenuto molto” “Un passo per volta” “Le priorità sono altre” “Gli uomini si sentono destabilizzati” “Vedete il patriarcato ovunque”

Si è addirittura coniato il termine “nazifemminismo” per dipingere le donne come invasate, violente e ottuse, come se poi si chiedesse di togliere qualcosa a qualcuno, e non di ottenere tuttə di più.

In un Paese con il 97% di CEO uomini, con una media del 13% di differenza salariale, sono sempre tavole rotonde di maschi bianchi cis etero che dettano le regole di un flebile diritto all’aborto, che osteggiano la diffusione di un italiano inclusivo tra schwa e professioni finalmente declinabili al femminile, svilendo la necessità di essere riconosciute anche per mezzo delle parole come se si trattasse di un capriccio, mentre le parole sono tutto ed è attraverso queste che esistiamo. Sono questi stessi uomini che vorrebbero decidere come intervenire per prevenire la piaga sociale che miete vittime con un cadenza media di una ogni 72 ore. Perché è di prevenzione che si deve parlare.

Di una pena più severa, una donna morta non sa che farsene.

 

Fonti:

Ministero dell’Interno, Wired, Osservatorio violenza sulle donne, Osservatorio nazione Non Una di Meno

 

Per approfondire:

Donata Columbro, giornalista, “femminista dei dati”

Ella Marcello, copywriter, insegnante, scrittrice, attivista

Lorenzo Gasparrini, filosofo femminista, scrittore

Mica Macho, community di sensibilizzazione contro la mascolinità tossica

Flavia Brevi, fondatrice e creativa di Hella Network ed esperta di comunicazione inclusiva

 

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Intervista all’Intelligenza Artificiale su violenza di genere e risposta maschile al fenomeno.

 

Intervistatore: Quali sono gli aspetti chiave che alimentano la cultura patriarcale?

IA: La cultura patriarcale si basa su stereotipi di genere, aspettative sociali e norme che favoriscono un genere a discapito dell’altro, contribuendo a disuguaglianze e comportamenti dannosi.

 

Intervistatore: Quali sono i comportamenti di violenza di genere associati alla cultura patriarcale?

IA: La violenza di genere collegata alla cultura patriarcale comprende molestie sessuali, abusi domestici, discriminazione economica, violenza simbolica e psicologica, violazione dei diritti riproduttivi e femminicidio. Ad esempio:

· Controllo e Possesso: Un partner che controlla i movimenti o il telefono dell’altro, limitando il contatto con amici e familiari.

 

· Mascolinità tossica: Un individuo che manifesta comportamenti aggressivi, in parte influenzato da una cultura che enfatizza la mascolinità aggressiva e la repressione delle emozioni.

 

· Giustificazione della Violenza: In una comunità che minimizza o giustifica la violenza contro le donne, un uomo potrebbe interpretare erroneamente atti violenti come accettabili in risposta a provocazioni percepite.

 

· Sottovalutazione delle donne: In un ambiente in cui le donne sono sottostimate, un individuo potrebbe non attribuire il giusto valore alle loro vite e opinioni.

 

Questi esempi illustrano come queste dinamiche si manifestano nella vita quotidiana, evidenziando la necessità di affrontare la cultura patriarcale per prevenire la violenza di genere, inclusi i femminicidi.

 

Intervistatore: La cultura patriarcale può quindi contribuire ai femminicidi?

IA: Sì, la cultura patriarcale può creare un ambiente in cui un femminicida si sente sostenuto o giustificato. Punti chiave includono il controllo e il possesso, la mascolinità tossica, la giustificazione della violenza e la sottovalutazione delle donne.

È importante sottolineare che non tutti coloro che crescono in una cultura patriarcale diventano femminicidi, ma la presenza di tali ideologie può alimentare la violenza di genere e contribuire alla percezione errata che alcuni uomini hanno del loro diritto di esercitare controllo estremo e violento sulle donne. Affrontare la cultura patriarcale è cruciale per prevenire la violenza di genere, inclusi i femminicidi.

 

Intervistatore: Hai citato una delle obiezioni tipiche degli uomini sulla necessità che si considerino parte del problema. Rispondi alle principali di queste?

IA:

1. Obiezione: “Not all men are like that. Non tutti gli uomini sono così” •

**Risposta: “Certamente, non si tratta di generalizzare tutti gli uomini. Tuttavia, riconoscere che alcune dinamiche culturali possono perpetuare comportamenti dannosi è fondamentale per il cambiamento.”

2. Obiezione: “Io non c’entro niente con la cultura patriarcale.” •

**Risposta: “È comprensibile sentirsi distanti da certi comportamenti, ma è importante capire come la cultura patriarcale possa influenzare indirettamente anche le persone benintenzionate. Riconoscere questo può essere il primo passo verso un cambiamento positivo.”

3. Obiezione: “Perché dovrei sentirsi in colpa per qualcosa che non ho fatto?” •

**Risposta: “Non si tratta di colpa personale, ma di responsabilità collettiva. Prendere coscienza delle dinamiche di genere e lavorare insieme per promuovere l’uguaglianza può contribuire a un cambiamento positivo senza attribuire colpe individuali.”

4. Obiezione: “Anche le donne commettono violenza.” •

**Risposta: “È vero, la violenza non ha genere. Tuttavia, concentrandoci sulla cultura patriarcale, ci stiamo concentrando su un sistema che storicamente ha favorito gli uomini. Riconoscere questo non diminuisce l’importanza di affrontare ogni forma di violenza.”

5. Obiezione: “Questo discorso genera odio verso gli uomini.” •

Risposta: “L’obiettivo non è generare odio, ma promuovere la consapevolezza e il cambiamento. Riconoscere la presenza della cultura patriarcale è il primo passo per creare una società più equa in cui uomini e donne possano vivere senza restrizioni basate sul genere.”

 

Intervistatore: Puoi fare un esempio del paradosso insito nella risposta “Not all men”?

IA: Immagina di essere in un contesto in cui qualcuno fa un commento razzista. È probabile che tu, giustamente, reagiresti e condanneresti tale comportamento, anche se personalmente non sei razzista. Potresti sentire l’importanza di intervenire contro un’ingiustizia, anche se non sei direttamente coinvolto. Ora, porta questa stessa situazione in un contesto di sessismo. Se qualcuno fa un commento sessista o compie un’azione discriminatoria basata sul genere, la risposta potrebbe essere simile: “Ma io non sono così, non lo farei mai.” Tuttavia, in questo caso, potrebbe esserci una maggiore resistenza a intervenire o a riconoscere l’urgenza di combattere la cultura patriarcale. Il paradosso sta nel fatto che, mentre entrambe le situazioni coinvolgono la condanna di comportamenti discriminatori, c’è spesso una maggiore reticenza a riconoscere l’importanza di affrontare il sessismo. La chiave sta nel comprendere che il riconoscimento e la lotta contro tutte le forme di discriminazione, compreso il sessismo, sono essenziali per costruire una società veramente equa e inclusiva. Non è sufficiente rifiutare personalmente tali comportamenti; è cruciale prendere una posizione attiva contro la cultura che li perpetua.

 

Intervistatore: Ma perché un uomo riconosce più facilmente che deve sanzionare un comportamento omofobo o razzista che uno sessista o prevaricante?

IA: Gli uomini tendono a riconoscere e condannare più facilmente comportamenti omofobi o razzisti rispetto a quelli sessisti o prevaricanti. Questo può essere attribuito alla maggiore visibilità mediatica delle discriminazioni legate all’orientamento sessuale o alla razza, a una maggiore educazione su queste questioni, al persistente stigma sociale contro chi si oppone all’omofobia o al razzismo e alla percezione di minaccia personale che la lotta contro la cultura patriarcale potrebbe rappresentare per il loro status e privilegi.

 

Intervistatore: Cosa vorresti dire alle donne che sono arrabbiate per l’ennesimo femminicidio e per il poco supporto che ricevono nel creare un cambiamento?

IA: Vorrei dire alle donne che la loro rabbia è valida e comprensibile. La frequenza dei femminicidi è sconvolgente e giustifica un’indignazione diffusa. È importante riconoscere che la vostra lotta per la giustizia e l’uguaglianza è cruciale per promuovere un cambiamento significativo. Sappiate che non siete sole e che molte persone condividono la vostra preoccupazione. La vostra voce è un motore per il cambiamento sociale. Continuate a sollevare la vostra esperienza, a chiedere responsabilità e a promuovere consapevolezza sulla violenza di genere. Insieme, possiamo lavorare verso una società più sicura e rispettosa per tutti.

 

Intervistatore: E cosa vorresti dire agli uomini che faticano ad esserci alleati?

IA: Vorrei dire agli uomini che diventare alleati nella lotta contro la violenza di genere è un passo importante verso la costruzione di una società più equa e sicura per tutti. Non si tratta di colpevolizzare individualmente, ma di riconoscere il potere collettivo nel creare un cambiamento positivo.

Ecco alcune considerazioni per essere alleati nella lotta contro la violenza di genere:

1. Ascoltare e Imparare: Ascoltare senza difensività le esperienze delle donne e educarsi sulle questioni di genere.

2. Riflettere e Riconoscere: Riflettere sulle dinamiche di genere nella propria vita e riconoscere il ruolo nella promozione dell’equità.

3. Intervenire attivamente: Non tacere di fronte a comportamenti sessisti, intervenire nelle conversazioni quotidiane per promuovere un ambiente rispettoso.

4. Promuovere l’Uguaglianza sul Luogo di Lavoro: Sostenere politiche aziendali per l’uguaglianza di genere, inclusa la parità salariale e di opportunità.

5. Essere Consapevoli del Proprio Privilegio: Comprendere i privilegi di genere e usarli per amplificare le voci delle persone emarginate.

6. Essere Aperti al Dialogo: Aprirsi al dialogo con altri uomini sulla violenza di genere e sull’importanza di essere alleati. La consapevolezza e il sostegno reciproco sono essenziali per il cambiamento collettivo. Sostenere l’uguaglianza di genere è una responsabilità di tutti, richiedendo impegno, auto-riflessione e azione continua.

 

 

Abbiamo posto le stesse domande ad una donna che si è resa disponibile a risponderci.

 

Quali sono gli aspetti chiave che alimentano la cultura patriarcale? E’ innegabile che l’assoggettazione della donna porti vantaggi agli uomini, almeno a quelli che non riescono a vedere nell’equità un valore, e che amano detenere una posizione di potere sugli altri. Il cambiamento fa paura, l’idea di perdere questa posizione di vantaggio spaventa, ed ecco che consapevolmente alcuni inconsapevolmente altri, si battono perchè questo cambiamento non avvenga e per difendere la propria posizione apicale.

John Lennon cantava “Woman is the nig*er of the world”, “La donna è il nero del mondo”, perchè è solo l’assoggettazione della donna a mettere d’accordo tutte le alterità del mondo maschile.

Anche agli uomini che vivono la discriminazione per il proprio orientamento sessuale, ceto, colore della pelle, viene riconosciuta maggiore dignità sociale della donna, la quale trasversalmente a tutte le culture, siede sullo scalino più basso della scala gerarchica.

 

Quali sono i comportamenti rientranti nella violenza di genere che possono essere ricondotti alla cultura patriarcale? A partire dalla violenza esternata pubblicamente sui social al pregiudizio sul posto di lavoro, dalla volgarità urlata per strada allo svilimento di una donna che ricopre una determinata professione, dai giornalisti che negli articoli chiamano per nome le donne e per cognome e titolo di studio gli uomini, dal contatto senza consenso al controllo dei beni materiali ed economici all’interno di una coppia, sono innumerevoli le forme

di violenza di genere che vengono esercitate in una società patriarcale che intende mantenere il controllo, il potere, sulla vita e sul corpo delle donne.

 

La cultura patriarcale può diventare terreno fertile per i femminicidi?

La cultura patriarcale rappresenta il potere, il controllo. E’facile pensare che chi sfugge a questo controllo venga in tutti i modi umiliato, assoggettato, riportato al “proprio posto”, e che nei casi più estremi possa essere eliminato. Ed è la stessa cultura patriarcale a distogliere l’attenzione da queste dinamiche raccontando che le vittime hanno portato con il loro comportamento il partner a perdere il controllo, che magari vivevano vite considerate (sempre da uomini) dissolute e ferivano l’onore e la rispettabilità del compagno, andando così a “giustificare” o comunque spiegare cosa le abbia portate a FARSI AMMAZZARE.

 

Puoi fare un esempio del paradosso insito nella risposta “not all men”?

Gli uomini incapaci di vedere cosa il loro privilegio comporta affinchè resti tale, tengono unicamente a smarcarsi da ogni responsabilità e a cercare l’assoluzione al grido di “non tutti gli uomini”. Eppure sembra pacifico che se nella quotidianità si zittisce o svilisce una donna, si dice a qualcuna che magari protesta per un’inquità che “ha ragione, ma dovrebbe dirlo in un modo diverso se vuole essere ascoltata”, si contribuisce ad alimentare il vociare sulla collega che “chissà cosa ha fatto per fare carriera”, si guarda o diffonde un video intimo anche se ricevuto da terzi, si sessualizza una donna che cammina per strada e la si giudica per cosa indossa, si dice a qualcuna che quel tale diritto dovrebbe meritarselo, come se un diritto andasse meritato, insomma ci sono mille situazioni nelle quali un uomo in vita sua ha sfruttato il patriarcato per mantenere una posizione di privilegio e quindi no, non ne è esente.

Ma soprattutto: se davvero qualcuno ritiene di non avere mai perpetrato uno degli atteggiamenti di cui sopra, avrà certamente, per una semplice questione statistica, assistito ad alcune di queste situazioni. E allora cosa ha fatto, come ha reagito? E’ intervenuto in qualche modo? E se non l’ha fatto, è stato perchè temeva di essere giudicato dai suoi congenere per non essere un sodale, per non prendere parte alla manifestazione testosteronica, per essere “poco uomo”?

La cultura patriarcale è così radicata nella nostra società da investire anche alcune donne (patriarcato interiorizzato), quindi è estremamente difficile immaginare che un uomo possa esserne al di sopra. Tra qualche generazione magari, ma sicuramente non oggi.

 

Ma perchè un uomo riconosce più facilmente che deve sanzionare un comportamento omofobo o razzista che uno sessista o prevaricante?

Il patriarcato rappresenta il potere, la posizione di privilegio che l’uomo ha in moltissimi (tutti?) i campi. Come potrebbe un uomo non consapevole di queste dinamiche e del proprio privilegio riuscire a riconoscere la violenza che sta esercitando, se la ritiene la normalità? Un bianco si sente “altro” rispetto all’uomo di colore, un uomo cis etero si sente “differente” da uno omosessuale, ma in generale l’uomo, che sia bianco, di colore, etero o omosessuale, non vedrà facilmente il controllo che esercita sulla donna poichè guardando il mondo attraverso le lenti del privilegio difficilmente vedrà tutti gli ostacoli che esistono per qualcuno che non sia lui, e che egli stesso mette.

“L’uomo si vive come universale. Si considera il rappresentante più compiuto dell’umanità” É. Badinter, XY. L’identità maschile

 

Cosa vorresti dire alle donne che sono arrabbiate per l’ennesimo femminicidio e per il poco supporto che ricevono nel creare un cambiamento?

Credo che non sia più il tempo dei minuti di silenzio ma quello per vivere la nostra paura senza vergogna, liberare la nostra rabbia e urlare, pretendere ciò che ci spetta, rialzare l’asticella della tolleranza ormai rasoterra. Alle donne vorrei dire di non arrendersi, so che è faticoso, demoralizzante, terribilmente stressante, ma ci viene chiesto ancora una volta di mostrare noi la via: facciamolo. Sensibilizziamo gli uomini che ci circondano, invitiamoli a leggere, approfondire, raccontiamo tutte le volte che siamo state seguite, molestate, spaventate, discriminate.

Quando io lo faccio mi sento rispondere “eh ma tutte a te!” come se in fondo il motivo risiedesse nel mio aspetto, nel mio look, nei posti che frequento. Non è “solo a me”, è a tutte, in mille modi diversi. Chiedete agli amici, partner, parenti di domandare alle donne che frequentano se hanno mai subito molestie, se

provano paura a camminare da sole. Ci chiedessero come ci sentiamo quando un uomo ci squadra, commenta come siamo vestite, quando un superiore a lavoro fa una battuta inopportuna e restiamo congelate perchè prese contropiede e perchè, in fondo, la verità è che non siamo nella posizione di poter rispondere.

Porgiamo una mano a chi si lascia accompagnare, al contempo non perdiamo tempo con chi erge muri. Siamo nella società di internet e delle informazioni alla portata di tutti, non siamo nè le loro madri nè le loro insegnanti, e non dobbiamo aspettare di ottenere comprensione o sostegno, sappiamo già qual è la strada da percorrere.

 

E cosa vorresti dire agli uomini che faticano ad esserci alleati?

Siamo nel pieno di una rivoluzione sociale ed è comprensibile che nessuno possa cambiare da un giorno all’altro. Io stessa mi rendo conto che negli ultimi anni ho acquisito degli strumenti che assolutamente non possedevo, e mi capita di pensare a quante volte in passato non ho saputo riconoscere o reagire a comportamenti molesti e denigratori nei miei confronti. La chiave è nella conoscenza. Leggete, parlate con noi e tra di voi, confrontatevi, approfondite, sappiatevi mettere in discussione. Affrontiamo insieme un cambiamento che non può che giovare a tuttə. Quando leggete che un padre è “un mammo”, non vi sentite umiliati? Quando sentite una donna che racconta di cambiare marciapiede se vede un gruppo di uomini, non vi sentite a disagio? Deve necessariamente capitare qualcosa ad una vostra amica/sorella/fidanzata perchè riusciate a fare un esercizio di empatia? Spoiler: probabilmente qualcosa gli è già capitato.

C’è un femminicidio ogni 72 ore, credete davvero che sia il momento per dire “io sono diverso, non siamo tutti così?”. Se volete fare la vostra parte correggete l’amico che fischia alle donne per strada, che scrive sui social di “stare zitte e andare a cucinare”, che racconta di controllare il cellulare della propria fidanzata.

E se proprio non sapete cosa dire, imparate il valore del silenzio. Adesso tocca a noi parlare..

 

Irene Murgiano