Autore: <span>Eco Associazione</span>

L’ Assertività, di cosa si tratta?

Fonte: pixabay free

Essere assertivi è una condizione dell’essere liberi,

dove per essere liberi non si intende

un affrancarsi dai condizionamenti,

ma un poter scegliere responsabilmente.

(Franco Nanetti, La forza di ritrovarsi, 2002)

 

                                                                                       Comunicare assertivamente è… dire la verità

(Robert E. Alberti, Essere assertivi, 1977)

 

La parola “assertività” deriva dal latino ad serere, e significa «asserire» o anche affermare se stessi. L’ assertività è la capacità di esprimere i propri sentimenti, di scegliere come comportarsi in un determinato momento/contesto, di difendere i propri diritti, di esprimere serenamente un’opinione di disaccordo quando lo si ritiene opportuno, di portare avanti le proprie idee e convinzioni, rispettando, contemporaneamente, quelle degli altri.

Sviluppare un comportamento assertivo permette di gestire le relazioni professionali e sociali con fermezza, evitando sia la risposta aggressiva, sia quella passiva. Infatti quando si parla di assertività ci si riferisce ad uno stile di comportamento che si colloca in un’area intermedia tra gli altri stili di comportamento definiti passivo e aggressivo e rappresenta la modalità più efficace di interazione dal punto di vista sociale. Ciascuno di noi è caratterizzato da una particolare tendenza di comportamento, tuttavia lo stile adottato può variare a seconda delle circostanze in cui ci troviamo: “non esistono persone sempre assertive, ma solo comportamenti assertivi, che possono essere manifestati da tutti. Ciononostante, è vero che esistono persone che tendono ad essere aggressive, passive o assertive nella maggior parte delle situazioni” (Giannantonio, Boldorini, 2005).

Una caratteristica dello stile assertivo è riuscire a esprimere in modo autentico se stessi, a creare rapporti interpersonali basati sul rispetto reciproco e su modalità comunicative efficaci e, al tempo stesso, affrontare con efficacia anche le situazioni stressanti e problematiche.

 

Cenni storici del concetto di Assertività

Nel 1949 lo psichiatra statunitense Andrew Salter fu il primo che parlò di “personalità eccitatoria” ovvero in grado di esprimere i propri punti di vista e le proprie emozioni apertamente, in modo entusiasta e spontaneo.

Al contrario, una personalità “inibita” veniva descritta dall’Autore come schiava della logica e del pensiero, incapace di riconoscere ed esprimere i suoi sentimenti più intimi e di assecondare i suoi impulsi naturali.

Salter ipotizzò anche che la maggior parte degli scompensi psicopatologici fosse riconducibile a tratti di personalità inibiti, cioè a tratti che si formavano nella relazione precoce con figure parentali che tendevano ad inibire, spesso anche con modalità punitive, alcuni comportamenti sociali.

Salter intese così l’assertività come un modello di comportamento interpersonale, capace di garantire non soltanto un livello di civiltà nei rapporti tra gli uomini ma contemporaneamente uno stato di benessere emotivo a chi la mette in pratica.

Salter getta le prime basi per lo sviluppo delle tecniche di quello che oggi, in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale, viene chiamato Training Assertivo ovvero quell’insieme di procedure utili a migliorare la competenza sociale delle persone.

Dieci anni dopo, nel 1959 Joseph Wolpe introdusse il termine assertiveness e, riprendendo Salter, evidenziò l’importanza di esprimere apertamente i propri sentimenti come comportamento sano.

Robert E. Alberti e Michael L. Emmons nel 1974 idearono il primo Training Assertivo rivolto all’attivazione di potenziale e non al trattamento clinico di disturbi psichiatrici. Essi enfatizzarono l’importanza dei diritti di ciascun essere umano, a prescindere dal suo status sociale.

Secondo gli autori, ognuno ha il diritto di essere padrone della propria vita e di agire secondo il suo personale interesse e secondo le sue credenze, nonché di esprimere liberamente il suo punto di vista e i suoi sentimenti.

Il principale obiettivo del training era quello di aiutare le persone ad agire sulla base dei propri irrevocabili diritti personali. Lo sviluppo dell’autostima e di uno stile comportamentale assertivo non erano considerati, dunque, solo desiderabili, ma anche necessari per tutti i soggetti.

Nel 1981 Arnold P. Goldstein sviluppò una serie di esercizi volti ad acquisire certe competenze sociali. Questi esercizi erano rivolti a soggetti con difficoltà di apprendimento che venivano erroneamente ricondotte a deficit intellettivi, invece che a difficoltà relazionali. Tra gli esercizi ideati vi erano: osservare l’interlocutore, esprimere disaccordo, fare richieste, rispondere alle critiche, relazionarsi con persone insistenti, parlare in pubblico, etc.
Ad oggi si intende l’assertività come un concetto multidimensionale, che si correla a diversi concetti: immagine di sé, autostima, autoefficacia, abilità sociali, regolazione emotiva, gestione dei conflitti, tolleranza allo stress. La difficoltà ad essere assertivi si collega spesso a scarsa autostima, difficoltà nelle relazioni interpersonali, impulsività, carenze nella gestione delle emozioni e dello stress. Inoltre numerose ricerche mostrano come l’anassertività sia uno dei fattori che sovente si associano a problemi clinici quali l’ansia (specialmente l’ansia sociale) e la depressione.

Da ciò è derivata la diffusione di numerosi training di assertività, cui si è accennato in precedenza,  intesi come attività trasversale e autonoma che permette di allenare, appunto, lo stile di comportamento assertivo, con benefici sia sul piano soggettivo, emotivo che sociale.
Un presupposto importante da considerare, quando si parla di comportamenti adeguati e efficaci, riguarda la consapevolezza di se stessi, dei propri pensieri, sentimenti e atteggiamenti, del proprio modo di relazionarsi con gli altri e l’ambiente esterno. La consapevolezza è ciò che ci permette di conoscere e di scegliere quale comportamento mettere in atto in una particolare circostanza e in maniera responsabile. È importante dire che, attraverso un training di assertività, non si imparerà ad essere sempre assertivi ma si lavorerà su di sé, sulla conoscenza e consapevolezza di se stessi al fine di avere in mente le possibili alternative e poter attuare scelte responsabili e autonome, con l’auspicato obiettivo di imparare a mettere in atto comportamenti efficaci e funzionali.

Come già anticipato, la competenza assertiva non è intesa quindi come un’abilità innata ma come un’abilità che può essere appresa e potenziata, attraverso la conoscenza teorica e l’allenamento pratico. Proprio questo è lo scopo del prossimo “Corso online di Assertività” organizzato dalla Dott. Ssa Katia Querin e dalla Dott. Ssa Maria Grazia Esposito dell’Associazione Eco, che partirà il 30 Novembre 2020 attraverso la piattaforma Zoom.

Dr.sse Esposito e Querin

Bibliografia

– Anchisi R., Gambotto Dessy M., (2013) “Manuale di assertività, Franco Angeli, Milano;

– Boldorini A., Giannantonio M., (2005) “Autostima, assertività e atteggiamento positivo”, Ecomind;

– Faiella A., “Toglimi quel piede dalla testa per favore. Migliorare le relazioni con l’assertività: farsi rispettare senza prevaricare”, (2010) Gruppo24ore.

 

QUANTO CONOSCIAMO LA NOSTRA SESSUALITA’? Uno sguardo agli elementi che caratterizzano il sesso e le relazioni

Il sesso è un incidente: ciò che ne ricaviamo è momentaneo e casuale;

noi miriamo a qualcosa di più riposto e misterioso di cui il sesso è solo un segno, un simbolo”

Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, 1935/50 (postumo, 1952)

In psicoterapia di cosa si parla? Direi di tutto…. Di tutto ciò che occupa un interesse per il paziente. E in questo “tutto” una buona fetta è rappresentata dal sesso.

Molti varcano la soglia dello studio di un professionista proprio quando compare un “problema” nella camera da letto. Quando si inizia a percepire una propria mancanza di desiderio sessuale, o in quella del partner, emerge, infatti, anche una preoccupazione.

La tematica del sesso viene affrontata in seduta più frequentemente di quanto si immagini; e a dire il vero, racchiudere il contenuto che emerge solo con la parola “Sesso” è anche riduttivo.

Quando si parla di Sesso, in realtà, si sta parlando di come si decide di stabilire o evitare legami emotivi; come si esprime o si nega la propria mascolinità o femminilità; come si alleviano le ansie e le tensioni quotidiane; quali bisogni, desideri, piaceri si intrecciano; quali fantasie si utilizzano per ricercare l’eccitazione e come essa viene mantenuta.

Dare attenzione alla nostra sessualità, in poche parole, significa dare attenzione alla nostra persona e comprenderla permette di comprendere meglio noi stessi.

Come anticipato, nella sessualità troviamo tantissimi elementi intrecciati, spesso aggrovigliati, che rendono la “matassa” difficile da districare, ma un primo bandolo di essa è rappresentato dal senso di sicurezza.

Tutti noi siamo alla ricerca di un senso di sicurezza, sia fisica che emotiva. Così come cerchiamo di evitare situazioni pericolose fisicamente, tendiamo anche ad evitare quello che potrebbe minare la nostra sicurezza psicologica. Perché il senso di sicurezza venga percepito dall’individuo bisogna sperimentare un attaccamento sicuro: fin da piccoli si attiva questa ricerca e un attaccamento insicuro ci farebbe sentire in pericolo.

Un altro bandolo è rappresentato da colpa e preoccupazione che spesso compaiono insieme. Si è costantemente preoccupati di ferire gli altri e quando questo accade emerge il senso di colpa.

Colpa e preoccupazione compaiono già nei primi anni della nostra vita: un bambino non riesce a comprendere che un genitore ha una vita separata da lui e che non è lui ad esserne responsabile (pensiero onnipotente o egocentrico).

Un genitore se si ammalerà, divorzierà o morirà, il bambino si sentirà regolarmente in colpa, come se la causa fosse lui.

Ovviamente durante lo sviluppo, il bambino imparerà a differenziare le proprie motivazioni da quelle altrui, ma il senso di colpa per molti rimane radicato ed esso andrà ad influenzare negativamente l’eccitazione sessuale.

Altro elemento che cogliamo nella sessualità è la vergogna che con essa comporta sentimenti di inadeguatezza, rifiuto e impotenza. Se la colpa riguardava la convinzione che stiamo ferendo gli altri e di conseguenza li rifiutiamo, la vergogna si attiva quando ci sentiamo vulnerabili e indegni agli occhi degli altri e, di conseguenza, ci sentiamo rifiutati.

Tutti noi ci siamo sentiti respinti nella nostra vita, fin da piccoli accade, quando i genitori ci sgridano e/o ci criticano; a volte vergogna e rifiuto sono lievi, altre volte traumatici.

Proverò, ora, a guidarvi nel cogliere meglio tali aspetti: per tanto cerchiamo di comprendere come il senso di sicurezza, la colpa, la preoccupazione e la vergogna si manifestino nella sessualità.

Senso di sicurezza. Come precedentemente anticipato, la famiglia in tal senso gioca un ruolo cruciale. Essa è la prima finestra che ci permette di affacciarsi al mondo sociale.

Nella nostra famiglia acquisiamo forze e virtù ma anche credenze patogene che modellano le nostre esperienze di femminilità e mascolinità.

Le bambine crescono idealizzando l’amore romantico, ricercando una relazione stabile perché essa rappresenta una sicurezza sia oggettiva che soggettiva, evitando in questo modo la possibilità dell’abbandono.

I bambini, d’altro canto, devono crescere manifestando costantemente la loro virilità, crescono dovendosi separare dalle madri e rafforzare la loro mascolinità.

Il ruolo del padre è fondamentale poiché deve essere in grado di accogliere l’indipendenza del figlio e la sua mascolinità che si va a definire man mano che cresce, senza però svalutare e allontanare troppo la madre. Tutto questo si complica quando la figura paterna è emotivamente o fisicamente assente.

Negli uomini, quindi, l’oggettivazione delle donne e dei loro corpi permette di dividere il sesso dall’intimità, evitando di rimanere invischiati nei sentimenti e nei bisogni delle loro partner sessuali, garantendo un senso di sicurezza (momentaneo) tale da permettere l’eccitazione.

Colpa e preoccupazione. Sebbene il senso di colpa sia universale, le donne sembrano essere più inclini. Vengono educate fin da piccole a essere sensibili ai bisogni dei propri partner, ad essere gratificate nel dare e non nel ricevere, ad essere oggetto del desiderio piuttosto che desiderare qualcuno.

Per quanto la donna abbia lottato negli anni alla ricerca di un’emancipazione, ci portiamo tutt’ora dietro gli strascichi di una società maschilista: alcune donne sentono che una volta impegnate (l’impegno viene percepito maggiore quando c’è il matrimonio e i figli) si deve abbandonare la vita sessuale, il piacere che ha caratterizzato gli anni in cui si era single. Si da quasi per scontato che una donna dopo essere diventata madre perda automaticamente la propria passione, la propria energia sessuale, il proprio desiderio.

Tutto questo rende difficile far sì che si segua il principio del piacere e si manifesti la propria eccitazione. Ci si trova a preferire un ruolo sottomesso, mentre il ruolo dominante attrae maggiormente gli uomini.

Neanche gli uomini, però, sono esclusi dal senso di colpa e preoccupazione. Fin da piccoli si insegna loro a non mostrare emozioni perché “la sensibilità diventa debolezza”.

Ed ecco che l’approccio educativo a cui siamo sottoposti da bambini genera una conseguenza anche nella nostra sessualità da adulti: le donne tenderanno a ricercare Amore, ricercando l’eccitazione sessuale all’interno di una relazione, mentre gli uomini tenderanno a scindere il piacere sessuale dalla gratificazione emotiva.

Queste dinamiche sono così radicate nella nostra cultura al punto che le nostre menti diventano terreno fertile in cui portarle avanti. È visibile, infatti, nei messaggi pubblicitari, nel mondo della moda, nella pornografia, nei film, nei fumetti ecc.: le donne sono gli oggetti di sguardi maschili.

La donna, con la sua abilità seduttiva, attira l’attenzione dell’uomo ma non può esprimere un desiderio attivo autonomo.

Vergogna e senso di rifiuto. Pensiamo a come la sessualità spesso venga utilizzata per fornire un sollievo, temporaneo, dal disgusto che proviamo per noi stessi. Una persona eccitata non si sentirà né inadeguata, né imbarazzata per il proprio corpo, ma vien da sé che queste sensazioni quando sono presenti minano la sensazione di piacere, ostacolando eccitazione e sessualità.

Se si prova vergogna si crede che gli altri ci possano rifiutare; se si è eccitati si ricerca l’altro e ci si sente forti: in pratica, sono agli antipodi.

Ed ecco che crescendo si delineano le fantasie sessuali come soluzioni delicate al senso di colpa e preoccupazione, ma anche alla vergogna e alla sensazione di rifiuto che l’essere umano prova.

Il sadomasochismo, il piacere nel farsi legare e bloccare, il feticismo, il voyeurismo sono solo alcune delle fantasie sessuali che si attivano inconsciamente per tranquillizzare le ansie relative alle nostre credenze patogene. Credenze che fin da piccoli si sono rinforzate su quanto i nostri bisogni e desideri potessero determinare un danno ai nostri caregiver, di essere un pericolo magari per una mamma debole e depressa e per tanto di esserlo per tutte le donne, o di non meritare di ricevere cure da quella madre che era troppo assorbita dalla propria sofferenza da non riuscire a sintonizzarsi con i bisogni del proprio figlio.

Si utilizzano scenari in cui si prende o si cede il controllo, si scambiano i ruoli psicologici che nella realtà si sono vissuti per sentirsi momentaneamente sollevati e permettersi di sentirsi abbastanza sicuri per eccitarsi.

L’intento di questo articolo non è sicuramente quello di avanzare una “spiegazione” delle nostre fantasie sessuali, anche perché inevitabilmente otterremo il risultato opposto: lo spegnersi dell’eccitazione. Apportare, però, uno sguardo alle relazioni in senso più ampio e agli elementi che inconsciamente ricerchiamo, ci rende più consapevoli, anche sulla nostra sessualità.

Dott.ssa Sonia Allegro

Psicologa-Psicoterapeuta

Bibliografia:

Michael Bader “Eccitazione. La logica segreta delle fantasie sessuali” , Raffaello Cortina Editore, 2018.

La psicoterapia di gruppo online

La storia della terapia di gruppo ha inizio con il lavoro pionieristico di Joseph H. Pratt, medico internista del Massachusetts General Hospital. Agli inizi del ‘900 il Dott. Pratt organizzò un gruppo psicoeducativo per pazienti malati di tubercolosi, dedicando comunque attenzione al supporto psicologico ed alla condivisione degli aspetti emotivi tra i partecipanti.

Successivamente, negli anni 20 del ‘900, lo psichiatra Jacob Levi Moreno, partendo dall’analisi del funzionamento di piccoli gruppi, arrivò all’ideazione dello psicodramma, una forma di psicoterapia in cui i partecipanti al gruppo esplorano emozioni e vissuti personali attraverso la drammatizzazione teatrale.

In Europa, durante la Seconda guerra mondiale, l’utilizzo dei gruppi in ambito clinico ha ricevuto notevole impulso, partendo dalla necessità di trattare un alto numero di soldati con disturbi psichici. Fondamentale fu quindi l’opera di Bion, ideatore della Gruppoanalisi, un approccio psicoterapeutico di gruppo ad orientamento psicodinamico. Altrettanto rilevante fu il contributo di Foulkes che, come Bion, aveva lavorato negli ospedali militari, e che ha enfatizzato i poteri terapeutici del gruppo.

Nel periodo successivo al secondo dopoguerra poi, l’utilizzo di un setting gruppale per il trattamento di disturbi psichici è uscito dall’ambiente militare, trovando ampie applicazioni e focalizzandosi su interventi specifici che vanno dalla gestione di problemi specifici all’acquisizione di abilità comportamentali e cognitive.

La psicoterapia di gruppo è una forma di psicoterapia praticata dal gruppo nei confronti del gruppo stesso, incluso il suo conduttore.
Il gruppo è un insieme capace di pensiero e di elaborazione emotiva, il pensiero del gruppo opera su elementi appartenenti allo spazio e al campo comune, il terapeuta è anche lui un pensatore, che promuove e mantiene la comunicazione nel gruppo.

Esistono 3 tipi di gruppi:
1 Monosintomatici (le persone hanno lo stesso disturbo psicologico, si vedono per un numero definito di volte e in un numero definito)
2 Di medicina generale (sintomi organici e il gruppo ha lo scopo di elaborare i vissuti relativi alla malattia)
3 Analitici (la finalità di cambiamento strutturale di sé e dell’altro).

Caratterizzano i gruppi terapeutici:
– Il processo di cambiamento si basa sull’alleanza terapeutica, che è sia verticale, terapeuta verso il gruppo, sia orizzontale del gruppo verso il gruppo.

– Il clima è come si sta in un gruppo: coinvolgimento, evitamento, conflitto.

– Coesione: indispensabile. Atmosfera positiva, senso di appartenenza e affidamento, produttività.

Col gruppo si passa dalla libera associazione alla libera discussione.

Il terapeuta non è un facilitatore, ma un co-pensatore.

La gruppo analisi vede le persone non come individui separati, ma come nodi di una rete interconnessi tra di loro attraverso la comunicazione. Il gruppo terapeutico dà origine ad una sua matrice, che è l’identità dinamica del gruppo, formata da tutti gli elementi consci e inconsci, familiari e personali, che tutti i partecipanti portano nel gruppo.
Più si interagisce emotivamente, più questa matrice si forma.

Nella terapia di gruppo si assiste a due fenomeni: Risonanza emotiva con gli altri, e il Rispecchiamento, guardarsi negli occhi degli altri. Questo rispecchiamento avviene tutti con tutti.
La psicoterapia di gruppo è indicata se è indicata la psicoterapia, a meno che i soggetti non siano paranoici, o non riescano a mantenere gli accordi.

I gruppi online possono essere:
– Asincroni: forum, con scambi per iscritto, che non avvengono contemporaneamente
– Sincroni- contemporaneamente nella stessa stanza virtuale.

Online non siamo più fisicamente vicini, ciò modifica il nostro sentire l’altro. Si crea una entimacy, ciò che le persone possono dirsi se accettano di non avere un corpo.
Online passiamo da 3 a 2 dimensioni.
Il terapeuta cura l’ambiente fisico del gruppo, perché influenza la possibilità del gruppo di funzionare. Il setting ha la funzione di contenere.
Online il terapeuta perde il controllo dell’ambiente.

Come si può allora allestire un setting adeguato?
Il terapeuta è il  garante del setting per esempio risolvendo i problemi tecnici dei pazienti nell’uso della piattaforma. Talvolta il paziente ne sa di più e questo non è un problema. È un esempio di come i pazienti si aiutano tra di loro anche online.

Quali sono le differenze tra gruppi nati online e traslocati?
Accordi: se il gruppo nasce online sono tutti d’accordo a fare terapia online. Se si trasloca gli accordi vanno discussi.
Alleanza, clima, coesione esistono già nei traslocati. Questi elementi sono facilitatori del trasloco online. I gruppi che nascono online devono formarsi con il tempo.
Setting online. Prima di tutto lo deve preparare il paziente per se stesso (ciò agevola il coping adulto), per essere a suo agio, per dire qualcosa di sé.

Accordi: tutti devono trasmettere audio e video. Tutelare privacy propria e altrui. Collegarsi un po’ in anticipo per vedere se tutto funziona. Si può allestire una sala di attesa virtuale.

Quando online il terapeuta è presente quanto di persona? Una parte di questa presenza passa attraverso lo sguardo. Nella terapia online lo sguardo è perso, non si capisce chi sta guardando chi. L’interazione è disincarnata. La disposizione nello schermo non è uguale per tutti. Il terapeuta può essere più presente online nel suo volto, con il tono della voce. Per aumentare la presenza online c’è l autosvelamento, portare di più cosa il terapeuta prova e assumere la responsabilità per i propri errori.

Vediamo infine le caratteristiche della comunicazione online:
– Immersione: essere qui e lì
– Effetto schermo, ovvero di disinibizione, che può essere un fattore di aiuto nella terapia.

La terapia online non è né buona né cattiva, è un’opportunità. L’opportunità di coltivare la propria capacità di adattamento.

Dr.ssa Luigina Pugno e Dott. Stefano Lagona

ALIMENTAZIONE: TRA SCIENZA E SPETTACOLO

In principio furono i blog. Se ci pensiamo, prima dei blog di cucina, la cura che si rivolgeva non tanto alla presentazione dei piatti, quanto alla riproduzione di immagini e foto sui libri, aveva lo scopo di illustrarci il risultato atteso più che di invogliarci a mangiare. Sono stati proprio i blog prima, e Instagram poi, a esasperare l’attenzione nei confronti dell’aspetto del cibo. Ora si parla di cibo instagrammabile, si usa l’hashtag #foodporn, i corsi di fotografia includono moduli sulla food photography, si studiano gli effetti dei social media sulle abitudini alimentari della popolazione. Inoltre è nata, o meglio, si è strutturata la figura del foodie. Tale termine, coniato nel 1984 da Levy e Barr e la cui traduzione letterale è “buongustaio”, rappresenta l’amatore che sa cucinare, ha buone competenze gastronomiche, considera i pasti non solo un’esigenza ma un’esperienza da assaporare appieno e condividere, ma non è né uno chef né un critico. Oggi i foodies sono bloggers, influencers, insegnanti, divulgatori, presentatori tv.

Una sorte analoga a quella dei libri hanno attraversato le trasmissioni di cucina: in passato occupavano uno spazio di una decina di minuti all’interno di programmi contenitore, adesso sono veri e propri show in onda in prima serata. 

In buona sostanza, se prima libri e programmi tv di cucina svolgevano un servizio, un po’ come il telegiornale, rendendo fruibili nuove ricette da sperimentare, attualmente rappresentano spettacoli in piena regola godibili anche dal vivo, si pensi ad esempio agli show cooking o alle materclass che gli chef organizzano in occasione di fiere ed eventi o del lancio dei loro libri di cucina. Si è passati da un valore informativo alla rappresentazione di uno stile di vita curato e patinato cui ambire, complice anche l’intuizione di alcuni dirigenti di reti televisive, che hanno visto nel cibo e in un nuovo modo di raccontarlo l’opportunità di veicolare i consumi.

L’avvento di un modo di comunicare che sfrutta prevalentemente il canale visivo ha influito su questa progressiva trasformazione della modalità di narrare il cibo. Possiamo però ipotizzare che abbia trovato terreno fertile, considerato il modo in cui ci procacciamo il nutrimento. L’uomo, per giudicare la commestibilità di una sostanza, si serve sì dell’olfatto ma anche, e  in maniera significativa rispetto ad altre specie, della vista. Viene descritto come microsmatico, ovvero come un animale dall’odorato poco sviluppato. Da un punto di vista anatomico, il volume cerebrale deputato nell’Homo sapiens all’elaborazione dei messaggi olfattivi risulta modesto se confrontato con quello riservato a vista e udito o con altre specie. Non è detto che a questo corrisponda necessariamente una ridotta funzionalità, sebbene sia evidente come alcuni animali, il cane tra tutti, dispongano di competenze olfattive importanti e su esse facciano molto affidamento. Studi comparativi sul genoma dei primati hanno dimostrato come la percentuale di pseudogeni olfattivi, ossia di geni che non si esprimono, aumenti dalle proscimmie ai primati arrivando a rappresentare il 50% dei geni olfattivi nell’uomo. Si è inoltre visto come tale percentuale sia inversamente proporzionale all’acquisizione di una vista pienamente tricromatica. Nonostante siano necessarie ulteriori ricerche, utili anche a fare luce su alcune incongruenze tra i dati rilevati, si può ipotizzare che per queste specie la selezione degli alimenti, prima effettuata tramite l’olfatto, sia diventata possibile e anche più efficace in base ai colori (es.: discriminazione di frutti maturi e acerbi, etc.) e che siano rimasti attivi, in ognuna di esse, i geni con un valore adattativo, fondamentali cioè per garantire la sopravvivenza. Non è ancora chiaro come mai questo processo non sia uniforme per tutte le popolazioni umane.

Si può a questo punto affermare che, insieme all’olfatto, la vista rivesta un ruolo primario nella selezione del cibo e che sia proprio quest’ultimo senso che foto e programmi televisivi di cucina stimolano. Il gusto interviene in una fase successiva rispetto a quella della selezione per mantenere o estinguere il comportamento (se il cibo selezionato ha un buon sapore continuerò a mangiarlo, altrimenti no).

Nella descrizione appena proposta manca un tassello importante: mangiare procura piacere. Ciò accade perché quando mangiamo si attiva il circuito cerebrale della ricompensa che a sua volta stimola la prosecuzione/ripetizione dell’azione e la ricerca del piacere stesso (è un circuito coinvolto anche nelle dipendenze) sedimentando memorie affettive legate al cibo. Anche questo meccanismo ha un valore adattativo, poiché induce l’uomo a ingerire la quantità e la qualità di alimenti atti a garantirne la sopravvivenza e dunque a preservare la specie.

Scorrere la bacheca di Instagram o guardare show di cucina procurerà piacere perché il cibo è intrinsecamente legato ad esso. 

Social network e televisione potranno sfruttare tale legame per promuovere stili di vita e direzionare i consumi. 

Alcuni studi si sono occupati di indagare il legame tra social media, acquisiti e abitudini alimentari di adolescenti e giovani adulti, maggiori fruitori di social network. Da essi è emerso come tali strumenti riescano a influenzare il mercato attraverso campagne pubblicitarie che fanno largo uso di immagini (vista) e hanno una forte valenza emozionale (piacere, ricompensa, ripetizione) piuttosto che informare circa la qualità dei prodotti. La potenza emotiva del messaggio è in genere evocata dalla proposta di uno stile di vita a cui ambire. Tale strategia è utilizzata anche da personaggi che curano canali social volti a promuovere stili di vita salutari, supportando coloro che decidono di ingaggiarsi nel miglioramento delle proprie abitudini. Rispetto all’alimentazione, la possibilità di ricevere sostegno da una comunità che condivide obiettivi analoghi appare fondamentale nel perseguimento degli stessi e potrebbe rappresentare una risorsa da estendere anche a contesti clinici e di cura. Il consumo di cibo sano promosso da questi canali tuttavia, quando diviene ossessivo e genera preoccupazioni costanti circa la salubrità degli alimenti, può portare all’ortoressia nervosa, descritta da Bratman come un’ossessione patologica per cibi salutari e naturali. In effetti, l’uso dei social media è associato anche a sviluppo e mantenimento di disturbi alimentari, poiché da un lato pone un’attenzione eccessiva sul peso e dall’altro rischia di promuovere comportamenti alimentari disfunzionali.

Riassumendo, si può dire che il rapporto dell’uomo con il cibo è mediato da un complesso sistema che gli ha garantito la sopravvivenza fino a oggi e che coinvolge olfatto, vista e circuito della ricompensa. I mezzi di comunicazione di massa e i social media hanno intuito questo legame cibo-piacere-consumo e se ne sono serviti per direzionare gli acquisti, facendo leva sulla proposta di stili di vita da sogno da perseguire. Sarà importante cercare di sfruttare la consapevolezza del funzionamento di questi meccanismi per promuovere abitudini alimentari salutari e per minimizzarne gli effetti su individui vulnerabili rispetto allo sviluppo di disturbi del comportamento alimentare. 

Dott.ssa Arianna Calabrese

 

Bibliografia

  • Holley, A. (2015), Le Cerveau gourmand. (Pizzone A. trans.) Paris: Les Éditions Odile Jacob (original work published in 2006).
  • Ketchum, C. (2005). The essence of cooking shows: How the Food Network constructs consumer fantasies. Journal of Communication Inquiry, 29(3), 217-234.
  • Klassen, K.M., Borleis, E.S., Brennan, L., Reid, M., McCaffrey, T.A., Lim, M. (2018). What people “Like”: Analysis of social media strategies used by food industry brands, lifestyle brands, and health promotion organizations on Facebook and Instagram. Journal of medical internet research, 20(6), 1-9.
  • Vassallo, A.J., Kelly, B., Zhang, L., Wang, Z., Young, S., Freeman, B. (2018). Junk food marketing on Instagram: Content analysis. JMIR Public Health and Surveillance, 4(2), 1-11.
  • Wilksch, S.M., O’Shea, A., Ho, P., Byrne, S., Wade, T.D. (2020). The relationship between social media use and disordered eating in young adolescents. The international journal of eating disorders, 53(1), 96-106.

GAP: giodo d’azzardo patologico

Fonte: picsart freetoedit

La patologia da gioco d’azzardo rappresenta un argomento di indiscusso interesse, dato il crescente numero di soggetti che manifestano comportamenti inappropriati di gioco. 

L’analisi del tema richiede un approccio che comprenda lo studio di più componenti: quella storica, quella sociale e naturalmente quella clinica.

Risulta infatti necessario approcciarsi all’argomento con un’ottica sistemica, considerando tutti i fattori che hanno contribuito, nel corso degli ultimi decenni, alla costruzione di una nuova categoria nosografica, quella del giocatore d’azzardo patologico.

 Il presente articolo intende pertanto analizzare il fenomeno da più punti di vista, consapevole della multifattorialità che contraddistingue tale patologia, ma che comunque non esula da un dato importante: la crescente offerta di prodotti di gioco d’azzardo lecito che ha caratterizzato gli ultimi vent’anni.

Partiamo da un dato storico e sociale: scommettiamo da sempre! 

La previsione di un evento incerto e futuro infatti, è sempre stato un elemento presente nella storia dell’umanità. Gli antichi erano soliti lanciare i dadi per conoscere la volontà delle divinità. I primi dadi sono stati rinvenuti in Cina e risalgono a più di 5000 anni fa. L’origine etimologica della parola “azzardo” deriva dal francese “hasard”, che a sua volta deriva dall’arabo “az-zahr”, che significa, appunto, dado.

In italia, fino al 1992, il gioco d’azzardo veniva considerato tra i rischi rilevanti per l’ordine sociale, la legalità ed i conti finanziari pubblici, indi per cui la governance prevedeva l’autorizzazione, il controllo, la repressione e la sanzione del gioco attuato fuori dei canoni consentiti dalla normativa, secondo un paradigma molto semplice: tutto illegale, salvo che in poche modalità autorizzate dalla legge.

Sul finire del Novecento, nel 1992 sull’Italia gravavano dei seri rischi di default del debito pubblico ed il gioco pubblico d’azzardo divenne progressivamente uno strumento per incrementare le entrate erariali dello Stato, un’asse della politica nazionale per avvicinare il più possibile il prelievo tributario ai fabbisogni crescenti della spesa pubblica. Sulla spinta dell’emergenza finanziaria, il gioco pubblico si trasformò in una fonte importante di entrate fiscali e tributarie: iniziò, così, un’escalation velocissima ed il consumo di gioco aumentò. 

Tra il 1999 e il 2000 gli italiani spendevano all’anno circa 10 miliardi di euro in giochi.

Arriviamo al 2003, anno in cui si arriva alla costruzione della economia finanziaria dei giochi e si attua la decisione di diffondere capillarmente i giochi: lotterie istantanee, 350 mila slot machines collocate ovunque, poker on line. La spesa in azzardo di 17,5 miliardi del 2003 passa a 35,4 nel 2006, per arrivare a 54,4 nel 2009, e a 60 miliardi nel 2010. Una corsa che si attesta sugli 88,5 miliardi registrati nel 2012, in netta controtendenza con la pesante recessione economica. 

Il circuito del gioco d’azzardo durante il 2017 ha raggiunto la cifra record di 101,8 miliardi e nel 2018 di oltre 105 miliardi. In Italia si è giocato sempre di più, a dispetto di crisi economiche e crisi del mercato del lavoro. Rimane da capire cosa succederà nel futuro, tenuto in conto dell’impatto del Covid – 19 sulla nostra economia.

Questo è il tessuto storico, sociale ed economico da cui partire, ma, come detto, la comprensione della patologia da gioco d’azzardo deve necessariamente considerare altri punti.

Il gioco d’azzardo patologico viene considerato una forma di dipendenza comportamentale che presenta alcuni tratti caratteristici in comune con la dipendenza da sostanze stupefacenti. Sono infatti presenti sintomi legati all’assuefazione, all’astinenza, alla perdita di controllo, all’evitamento di stati emotivi negativi.

Assai frequente è il fenomeno definito “rincorsa della perdite”, condizione che si presenta spesso anche in giocatori con bassi livelli di problematicità, per cui il soggetto gioca sempre di più nel tentativo di recuperare il denaro perso.

Anche in riferimento allo studio delle cause della patologia da gioco, è utile rifarsi ad un’ottica multidimensionale che consideri più aspetti: fattori socio ambientali, fattori neurologici e fattori individuali.

I primi fanno riferimento al contesto familiare, alle abitudini del gruppo dei pari, alle reti di sostegno sociale e all’ambiente culturale in cui un individuo vive. L’azzardo patologico sembra colpire prevalentemente le persone di sesso maschile, con un basso livello di istruzione, con un basso livello economico o disoccupati. Un livello di istruzione medio-alto, in grado di fornire abilità analitiche e di ragionamento più raffinate, può agire come fattore di protezione contro la generazione di pensieri falsi e irrazionali. Un fattore di rischio ambientale è costituito dalla presenza in famiglia di giocatori problematici o patologici. Infatti, gli individui i cui genitori hanno avuto problemi di gioco, possono andare incontro maggiormente all’acquisizione di un comportamento maladattivo di gioco.

Per quanto concerne i fattori neurobiologici, gli studi ipotizzano che nei giocatori patologici ci siano disfunzioni nei sistemi di produzione, alterazione e rilascio di neurotrasmettitori quali la serotonina, la dopamina e la noradrenalina. La serotonina, che ha un ruolo fondamentale nell’iniziazione e nella disinibizione comportamentale, se presente in quantità troppo basse, risulta correlata a livelli elevati di impulsività, alla ricerca di sensazioni forti e ai disturbi del controllo degli impulsi 

Inoltre, anche il sistema di produzione, alterazione e rilascio della noradrenalina, considerato alla base della sollecitazione, dell’eccitazione e della ricerca di sensazioni forti, può essere implicato nel gioco d’azzardo patologico.

In riferimento invece ai fattori individuali, alcune ricerche hanno identificato i tratti di personalità del giocatore d’azzardo ed attualmente esiste un accordo nella comunità scientifica sulla presenza di alcuni tratti temperamentali quali impulsività, ricerca di sensazioni forti (sensation seeking), ricerca di novità (novelty seeking) e accettazione di comportamenti a rischio (risk taking behaviour).

Come visto, lo scenario è molto complesso e la presa in carico di un giocatore patologico richiede interventi a più livelli che coinvolgono l’individuo (e spesso anche la famiglia) non solo su un piano strettamente clinico, ma anche su uno più pratico e quotidiano legato alla gestione del denaro, al monitoraggio del budget giornaliero, all’individuazione di strumenti di prevenzione per le ricadute e all’impiego del tempo libero.

 

Dott. Stefano Lagona

Psicologo Psicoterapeuta

 

Nomofobia: posso fare a meno dello smartphone?

Fonte: pixabay

E’ consuetudine controllare prima di uscire di casa di avere con sé le cose essenziali e così, come rituale automatico, ci accertiamo di avere preso le chiavi di casa, della macchina, il portafoglio e naturalmente il telefono, o sovente i telefoni, tablet, pc.

Per quasi tutti noi è una banale routine, ma per qualcuno è molto di più.

Immaginiamo di trovarci già per strada per andare al lavoro o per andare al ristorante e accorgerci improvvisamente di aver dimenticato a casa lo smartphone. Come reagiremmo? E’ probabile che verremmo colti da un senso di smarrimento e un impulso a ritornare immediatamente indietro per recuperare il nostro oggetto rassicurante.

Ma quando tornare indietro non è possibile, che cosa accade?

Alcune persone vengono travolte da una vera e propria sensazione di ansia molto forte, di panico, alla sola idea di non essere rintracciabili, di non poter rintracciare a propria volta chi si desidera e di non poter avere accesso ad un costante aggiornamento sulle informazioni condivise dagli altri.

O ancora, una sensazione di nervosismo molto intensa, tachicardia, sudorazione, alla sola idea di non poter accedere alle app di quotidiano utilizzo.

Si palesa in pratica un fortissimo timore di restare disconnessi, anche solo per una serata, come se restare costantemente connessi fosse una vera e propria necessità.

Questa manifestazione tipica di malesseri viene descritta in letteratura come Sindrome da Disconnessione o più comunemente detta Nomofobia.

Il termine deriva dal prefisso anglosassone “no-mobile” e dal suffisso “fobia” e descrive la transitoria sofferenza legata al non avere con sé il telefono e rimanere esclusi dal contatto della rete internet mobile.

Il termine è stato coniato nel 2008, in Gran Bretagna in occasione di uno studio commissionato ad un qualificato Ente di ricerca britannico, YouGov da Stewart Fox-Mills, responsabile del settore telefonia di Post Office Ltd.

Nella persona con nomofobia è presente la sensazione persistente di perdersi qualche cosa di importante, di significativo, se non si controlla costantemente il cellulare.

Nonostante nel nome compaia il termine “fobia” e che i sintomi siano riconducibili all’ansia, uno studio condotto da ricercatori del Panic and Respiration Laboratory, dell’Università Federale di Rio de Janeiro (2010) sembra indicare che la Nomofobia sia da considerare una dipendenza patologica piuttosto che un disturbo d’ansia.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) descrive la dipendenza patologica come:

Quella condizione psichica e talvolta anche fisica, causata dall’ interazione tra una persona e una sostanza tossica, che comporta risposte comportamentali e da altre reazioni, e che determina un bisogno compulsivo di assumere la sostanza in modo continuativo o periodico, allo scopo di provare i suoi effetti psichici e talvolta di evitare il malessere della sua privazione”.

Le nuove dipendenze, “new addictions”, sostituiscono alla sostanza nuovi comportamenti patologici (gioco d’azzardo, shopping compulsivo, sexting, abuso di internet, ecc), che creano nella mente delle persone gli stessi meccanismi della sostanza: come in ogni dipendenza il meccanismo che si innesca porta la persona ad sentire il bisogno di aumentare il dosaggio trovandosi a mettere in atto una vasta gamma di comportamenti disfunzionali.

Nel caso della nomofobia, accade dunque, che spesso senza rendersene conto, si inizi a trascorrere sempre più tempo al telefono, aspettare con inquietudine la risposta dell’altro, aver bisogno di sollecitarlo se la risposta attesa non arriva in modo istantaneo, con in mente l’assunto implicito e la pretesa che anche le altre persone siano sempre costantemente connesse e rintracciabili in modo istantaneo.

Si ha la curiosità continua di vedere che cosa accade agli amici nei diversi social network (circa l’80% degli accessi ai social network avvengono tramite l’utilizzo dei cellulari, Kuss, Griffiths, 2017), commentare e condividere, non spegnere mai il dispositivo neanche nelle ore notturne, talvolta svegliarsi persino di notte per controllare le notifiche, portarsi lo smartphone ovunque, anche in luoghi non appropriati (es. bagno, chiesa, letto, terapia, ecc).

Sintetizzando quindi, le problematiche nell’ utilizzo eccessivo degli smartphone sono simili a quelle di qualsiasi Addiction: comportamento compulsivo, tolleranza, impatto sulla vita quotidiana, preferenza di relazioni virtuali rispetto alle relazioni reali, craving, pensiero pervasivo e ripetuti tentativi di smettere e a volte irregolarità nel ritmo circadiano (Lin, Lin, Lin, Lee, Lin Chiang, Chang, Yang & Kuo, 2017).
Si è riscontrato inoltre che i soggetti portatori di questo tipo di condizione clinica rispondono meglio ad un trattamento specifico per le dipendenze patologiche, rispetto al trattamento tipico dei disturbi d’ansia (King A.L. at all., 2010).

Recentemente, i neuroscienziati hanno teorizzato che è possibile rintracciare il desiderio da uso crescente e disregolato dello smartphone nel sistema di reward, ovvero il network corteccia-gangli della base-talamo implicato nella gratificazione e ricompensa in cui si vedono protagonisti i neurotrasmettitori dopamina e gaba, fondamentali per la componente motivazionale e di apprendimento alla base del desiderio da smartphone.

La dopamina è un neurotrasmettitore coinvolto nel circuito della ricompensa: ad ogni notifica o like ricevuto, il livello di dopamina s’innalza dandoci la sensazione che ci sia qualcosa di nuovo e interessante in serbo per noi. Questo ci spinge a ricontrollare frequentemente lo smartphone, con un meccanismo simile a quello che s’innesca ad esempio nel giocatore d’azzardo. Lo smartphone può essere assimilato ad uno strumento che produce premi e rinforzi ad intervalli, innescando una reazione-stimolo al suo utilizzo gradualmente sempre maggiore fino a poter diventare in taluni casi costante: in queste situazioni l’uso si configura in un vero e proprio abuso avendo come conseguenza uno stato permanente di disattenzione. Sono ormai numerosi i neuroscienziati che sostengono come le continue distrazioni presenti sui nostri smartphone ‘ricablano’ il nostro cervello, rendendolo a lungo termine meno efficiente.

Non solo, secondo uno studio della Rutgers University pubblicato da Journal of Behavioral Addictions, l’uso dello smartphone nelle pause – lavorative o da studio – impedirebbe al nostro cervello di ricaricarsi, portando a livelli maggiore di distrazione, rendendo così molto difficile ripristinare l’attenzione su quello che si stava facendo.

Nonostante la sua rilevanza clinica, la nomofobia non è stata ancora ufficialmente riconosciuta come una condizione psichiatrica. In “A proposal for including nomophobia in the new DSM-V” Nicola Luigi Bragazzi e Giovanni Del Puente hanno proposto un riassunto della letteratura esistente sul tema e hanno sottolineato la profonda rilevanza clinica della nomofobia, sostenendo con forza la necessità della sua introduzione all’interno del manuale menzionato. Secondo i redattori del DSM V tuttavia l’ internet addiction, o cyber dipendenza, è attualmente una condizione che necessita di ulteriori studi, perciò ufficialmente non può essere ancora inserita all’ interno del manuale. Pur non essendo possibile al momento pertanto una diagnosi ufficiale, la comunità scientifica è concorde nel sottolineare la rilevanza e la prevalenza clinica di questo disturbo, vista la sua ampia diffusione, evidenziando anche come questi comportamenti di utilizzo disregolato di smartphone siano diventati patrimonio culturale diffuso delle nuove generazioni, tanto che in queste descrizioni molte persone non trovano probabilmente nulla di anomalo, poiché ormai abitudini comuni delle nostre quotidianità.

I ricercatori italiani Bragazzi e Del Puente hanno fornito una descrizione di alcuni comportamenti che potrebbero rappresentare dei fattori di rischio per lo strutturarsi di questa dipendenza:

  • possedere uno o più dispositivi connessi in rete

  • usare con regolarità uno smartphone e trascorrere molto tempo della propria giornata con questo oggetto in mano (oggi alcuni telefoni ci indicano anche il feedback di quanto tempo abbiamo trascorso connessi)

  • controllare frequentemente il livello di batteria del dispositivo e portare sempre con sé caricabatterie o powerbank per scongiurare il rischio di restare senza carica

  • percepire uno stato di agitazione e ansia quando il proprio telefono non è disponibile fisicamente nelle vicinanze, o non prende la rete internet oppure il contesto non permette di utilizzarlo (ad es. durante una riunione di lavoro).

  • evitamento dei luoghi e delle situazioni in cui è vietato l’uso del dispositivo (come cinema, teatri e aeroporti)

  • guardare sovente lo schermo del telefono per verificare se sono stati ricevuti messaggi o chiamate, anche interrompendo frequentemente l’attività che si sta svolgendo

  • controllare che il credito sia sempre sufficiente per mantenere attiva la rete dati e chiamate

  • non spegnere mai il telefono, neppure durante le ore notturne o in occasioni palesemente non necessarie/adeguate e addormentarsi leggendo cellulare o tablet, mantenedoli vicino al letto

  • perdere il senso del tempo trascorso online

  • avere problemi nel portare a termine i propri compiti, a casa o al lavoro, trovandosi ad essere spesso oberati di attività arretrate trascurate

  • isolamento dalla famiglia e dagli amici della vita reale, in favore di relazioni o attività virtuali (phubbing)

  • sentimenti di colpa legati all’uso di internet a discapito delle relazioni e contemporaneamente sensazione di irritazione quando qualcuno fa notare la propria dipendenza dal telefono

  • sentire un senso di euforia, di rilassamento e appagamento quando connessi

  • Vamping: utilizzo della rete fino a notte fonda, trovandosi poi il giorno successivo molto stanchi (questo processo ciclico porta le persone ad alterare il loro ciclo sonno/veglia, con conseguenze sul rendimento lavorativo o scolastico e sulla salute)

E’ molto probabile che molti di noi, leggendo, si siano ritrovati in alcuni di questi comportamenti, ma allora siamo tutti nomofobici?
I ricercatori raccomandano di evitare di considerare tutti i comportamenti sopracitati come patologici, tuttavia è importante tenerli presenti come fattori di rischio, se ci ritroviamo in molti di questi comportamenti.

Possiamo considerare che divenga un disturbo clinico quando una persona inizia a mostrare difficoltà nell’ interagire con le persone reali, quando si trascorre più tempo sui social media, sui giochi e sugli smartphone che impegnati in attività pratiche, creando conseguenze negative sulla propria qualità della vita e su quella delle persone intorno a noi, con conseguenti difficoltà relazionali importanti nella vita reale. Secondo Suler (1999), ci si trova di fronte ad un problema significativo nel momento in cui “la propria vita reale si dissocia da quella virtuale”, l’attività in rete diventa la propria realtà e l’autoconsapevolezza e l’esame di realtà falliscono.

Importanti studi sulla nomofobia sono stati portati avanti anche da Francisca Lopez Torrecillas, docente presso il dipartimento di personalità e di valutazione psicologica e trattamento delle dipendenze dell’Università di Granada, la quale ha svolto una ricerca su campo con giovani adulti tra i 18 ei 25 anni. Lo studio mette in luce come la maggior parte delle persone colpite da questa condizione sarebbero giovani adulti con bassa autostima e problemi nelle relazioni sociali, pregressi all’utilizzo massivo dello smartphone, i quali sentono il bisogno di essere costantemente connessi e in contatto con gli altri attraverso il telefono cellulare. Sono persone che mostrano noia quando si effettuano altre attività ricreative, e questo potrebbe derivare proprio dall’ utilizzo patologico di telefoni cellulari (Lopez Torrecillas F., 2007). Questi risultati hanno fatto ipotizzare che alcune persone relazionalmente più fragili utilizzino il telefono come mezzo per colmare la propria solitudine e mitigare apparentemente la propria condizione di isolamento. Lo smartphone infatti, per chiunque lo utilizzi, è un mezzo che regola la distanza nella comunicazione e nelle relazioni, gestisce la solitudine e l’isolamento assumendo talvolta quasi il ruolo di antidepressivo multimediale e permette di vivere e dominare la realtà regalando l’idea di poter essere presenti e capaci di fermare lo scorrere del tempo con uno o più scatti (Di Gregorio, 2003).

Tuttavia il rischio di farsi fagocitare il tempo dallo strumento è piuttosto consistente: il rapporto con il cellulare è oggi potenzialmente pericoloso per qualunque persona.

Esiste infatti l’eventualità che, in un periodo della nostra vita particolarmente difficile, lo smartphone diventi un oggetto su cui canalizzare uno stato di disagio (affettivo, relazionale, lavorativo…) e acquisti più importanza della vita reale.

Pensiamo a quanto è stato fondamentale per tutti noi, durante il Lockdown appena trascorso, avere la possibilità di restare connessi con il lavoro, con la scuola, con le persone a noi care, pur restando fisicamente in isolamento: è stato fondamentale per mantenere il proprio equilibrio psico-emotivo. Tuttavia proprio questo anomalo periodo ha indotto molte persone ad un significativo aumento di utilizzo dei dispositivi e la difficoltà adesso di poterne fare a meno.

Gli adolescenti sono apparsi i soggetti più a rischio di sviluppare questa nuova forma di dipendenza patologica, ma è necessario tenere presente l’impatto che la tecnologia sta avendo anche sui più piccoli. Molti genitori mostrano preoccupazione perché i propri figli, anche in età infantile, passano sempre più tempo con computer, smartphone, tablet e giochi elettronici, tuttavia spesso l’esempio disfunzionale proviene proprio dall ’interno del nucleo familiare stesso, con comportamenti da parte degli adulti di utilizzo improprio e prolungato degli smatphone, spesso giustificati da esigenze di lavoro. E’ sufficiente guardarsi intorno quando si cammina per strada, si prende un mezzo pubblico o al ristorante per osservare come non siano soltanto gli adolescenti ad essere ipnotizzati dal telefono. Quante volte possiamo notare famiglie, coppie, gruppi di amici, fisicamente insieme, ma ognuno concentrato sul proprio telefono?

Spesso inoltre, con i bambini, smartphone o tablet vengono utilizzati come rinforzi o per un intrattenimento prolungato, allo scopo di mitigare alcuni stati alterati del piccolo (pianti, urla o lamentele aspecifiche).

I pediatri della SIPPS (Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale), riuniti in convegno a Caserta nel 2016, hanno sottolineato il bisogno di creare linee guida per limitare il più possibile l’uso dei telefonini ai bambini, evitandone totalmente l’uso prima dei 10 anni e limitandone l’utilizzo dopo tale età, un po’ come i nostri genitori facevano con la televisione.

Non vi sono tuttavia attualmente sufficienti ricerche che possano considerare questa precocità di utilizzo un fattore predittivo di una futura nomofobia in quanto la Sindrome è nuova e ancora poco studiata, ciò però non smentisce l’ipotesi che possa essere possibile o creare un fattore di fragilità.

E allora che cosa possiamo fare? Oggi l’utilizzo di uno smartphone, di un tablet o di un computer è indispensabile nella quotidianità poiché strumento di facile impiego per le attività lavorative e scolastiche e, come tutte le tecnologie, estremamente produttivo in quanto permette in tempi più brevi di raggiungere obbiettivi che nell’ ordinario richiederebbe più tempo o più risorse. Non possiamo perciò certamente immaginare di creare una quotidianità priva di tecnologia: dobbiamo creare un’educazione all’ utilizzo consapevole e funzionale della tecnologia, affinché un potenziale positivo non divenga uno strumento danneggiante.

E’ pertanto importante istruire i giovani, ed auto istruirsi da adulti, ad un rapporto più equilibrato con il nostro smartphone, imponendosi di tanto in tanto una pausa dalla sua presenza rassicurante, per poter assaporare come una vita realmente vissuta sia più gratificante di una vita virtuale.

Dr.ssa Consuelo Aringhieri

Conosciamo le emozioni. Progetto svolto dall’Associazione ECO in collaborazione con l’associazione ASAI

Oggigiorno, nell’ambito dell’età evolutiva, si assiste ad un incremento sempre maggiore di problemi di disregolazione emotiva e di disturbi correlati come, il disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD) e disturbi del Comportamento Dirompente, tra cui il Disturbo Oppositivo-Provocatorio e il Disturbo della Condotta. Le ripercussioni di tali disturbi sono solitamente riscontrabili in ambito scolastico (es. calo del rendimento scolastico), familiare (es. ricorrenti situazioni conflittuali) e sociale (emarginazione del soggetto dal gruppo dei pari).

Numerosi studi dimostrano che la capacità di regolare le proprie emozioni è strettamente correlata con lo sviluppo delle abilità personali e relazionali. Non a caso, nei casi di disregolazione emotiva o di un eccessivo controllo delle proprie emozioni, si assiste ad una maggiore difficoltà nella comprensione emotiva propria e altrui. Bambini con difficoltà legate alla regolazione emotiva infatti, sono più predisposti a manifestare aggressività verbale e/o fisica, impulsività, irascibilità, iperattività o disattenzione. Possono presentare inoltre, difficoltà legate al problem solving, essere meno efficaci degli altri bambini nel generare un numero di soluzioni adattive di tipo interpersonale e possono considerare l’aggressività come una strategia per regolare le relazioni interpersonali.

Anche la performance scolastica può essere inficiata dalla scarsa capacità di gestione delle emozioni, anche in assenza di compromissione delle capacità neurocognitive: le capacità cognitive possono infatti, risentire di una gestione non adattiva delle emozioni.

Il progetto di intervento strutturato presso l’Associazione Asai è stato finalizzato a promuovere e sostenere le abilità sociali, emotive e relazionali dei bambini per prevenire fenomeni come la marginalizzazione e l’isolamento sociale. Il fulcro principale del lavoro è stato un intervento psicoeducativo volto a fornire ai bambini (destinatari principali del progetto) le conoscenze base delle emozioni per poterle riconoscere, capire le funzioni evoluzionistiche legate alla sopravvivenza, offrire strumenti di gestione delle stesse e strategie di regolazione in ottica intra e interpersonale. Inoltre, si è seguito un approccio integrato e multidisciplinare coinvolgendo le figure di riferimento dei bambini e quelle educative dell’Associazione Asai. L’idea è che il lavoro con chi si prende cura dei bambini è imprescindibile da un lavoro esclusivo con gli stessi.

Nello specifico, il progetto è stato suddiviso in dieci incontri con cadenza settimanale. I gruppo dei partecipanti, erano bambini dai 9 ai 10 anni definiti insieme agli educatori in modo eterogeneo.

Nei primi incontri è stato dato spazio alla presentazione personale di ogni componente in modo da creare un clima di conoscenza e condivisione, orientata ad un ascolto curioso e non giudicante dell’altro. Questo ha permesso di costruire sin da subito, un clima cooperativo all’interno del gruppo. Nella prima fase, si è data importanza ad uno spazio in cui co-costruire una serie di regole di gruppo, dove ognuno dei partecipanti doveva impegnarsi nel rispettarle e nell’aiutare chi si fosse trovato in difficoltà nel farlo. Inoltre, sono stati individuati alcuni obiettivi a medio e lungo termine per promuovere e sostenere il lavoro di gruppo attraverso il sistema della Token Economy. Quando il partecipante o la classe raggiungeva il numero di punti stabilito, era possibile sorteggiare il premio precedentemente scelto dagli stessi partecipanti.

I primi incontri, sono stati dedicati ad un lavoro psicoeducativo delle emozioni, sottolinenadone l’importanza e funzione. In questa fase, ogni bambino, in modo libero e autonomo, ha condiviso alcune esperienze personali. Fin da subito, infatti, tutti i bambini hanno accolto con interesse e curiosità questa attività, mettendosi in gioco in prima persona. Il lavoro fondamentale è stato quello di imparare a riconoscere l’emozione provata e provare a pensare in modo individuale e gruppale, alcune strategie funzionali per poterle gestire quando troppo intense. Ogni componente del gruppo poteva consigliare le strategie che per loro, in altri momenti, si erano rivelate efficaci.

Durante i vari incontri, i bambini si sono sentiti legittimati nel poter esprimere e dare così voce alle emozioni che man mano sperimentavano e che non avevano a che fare solo con l’emozione oggetto di studio ma anche e soprattutto, con quelle che lo stesso gruppo attivava sul singolo come vergogna, imbarazzo, paura, rabbia. Si è potuto così sperimentare dal vivo quanto appreso sia a livello di conoscenza teorica che pratica.

All’inizio, durante e alla fine del percorso con i bambini, sono stati condotti dei gruppi sia con i genitori che con gli educatori per esporre il progetto, monitorare l’andamento e per restituire quanto emerso. Il riscontro è stato molto favorevole. Nell’ultimo incontro, gli stessi genitori hanno mostrato interesse circa il tema trattato e di quanto sia qualcosa che non solo possa essere utile per i bambini ma anche per loro stessi.

dott Mirco Carbonetti e dr.ssa Antonia Di pierro

La sindrome da burnout: lo stress lavoro correlato e le sue implicazioni

Fonte: royalty free

 

Afferra la stretta di qualcuno che ti aiuterà, e poi utilizzala per aiutare qualcun altro.
(Booker T. Washington)

 

 

 

L’organizzazione Mondiale della Sanità definisce il Burnout come una sindrome stress lavoro
correlato che non è stato gestito con successo, è caratterizzato da: sentimenti di esaurimento o
esaurimento energetico; maggiore distanza mentale dal proprio lavoro o sentimenti di negativismo o
cinismo relativi al proprio lavoro; ridotta efficacia professionale.
Esso compare già nell’ ICD-10 (International Classification of Diseases), ma solo nella classificazione
ICD-11, che entrerà in vigore nel 2022, verrà caratterizzato come fenomeno strettamente professionale
infatti verrà inserito nel capitolo “dei fattori che influenzano lo stato di salute”.
Il termine Sindrome da Burnout (BOS) risale al 1974 ad opera di Herbert Freudenberger che descrive
una particolare reazione allo stress sperimentata dagli operatori delle professioni di aiuto, cioè le
helping profession, ma si deve a Maslach e al suo gruppo di lavoro la seguente definizione: «è una
sindrome di esaurimento emozionale, di depersonalizzazione e di riduzione delle capacità personali
che può presentarsi in soggetti che, per professione, “si occupano della gente”» e sempre a loro si deve
la realizzazione di uno degli strumenti psicometrici per valutarlo (Maslach Burnout Inventory – MBI).
La sindrome da burnout, secondo Cherniss, è un processo che si articola in tre fasi:
1. stress lavorativo: squilibrio in eccesso o in difetto tra richieste dell’istituzione lavorativa e risorse
disponibili;
2. tensione (strain): risposta emotiva allo squilibrio immediata e di breve durata, caratterizzata da
sensazione di ansietà, nervosismo, affaticamento ed esaurimento;
3. conclusione difensiva (coping): accomodamento psicologico caratterizzato da una serie di
cambiamenti nell’atteggiamento e nel comportamento (rigidità, cinismo, ritiro, distacco emotivo).
In linea generale è la valutazione cognitiva che ogni individuo fa dello stimolo e la valutazione delle
proprie competenze che può mettere in atto per fronteggiarlo a determinare il potere stressante dello
stimolo stesso. Inoltre, secondo Karasek, lo squilibrio è aggravato da alcuni fattori: elevata richiesta
lavorative, bassa libertà decisionale, inadeguato sostegno sociale di lavoro.
Gli stati d’animo più comuni sono: ansia, irritabilità, esaurimento fisico, panico, agitazione, senso di
colpa, negativismo, ridotta autostima, empatia; tra le somatizzazioni si annoverano: emicrania,
sudorazione, disturbi gastrointestinali, parestesie; tra le reazioni comportamentali: assenze o ritardi
frequenti a lavoro, distacco emotivo dall’interlocutore (Fontana eal, 1993).
Ad oggi ci sono diverse teorie in merito alla eziopatogenesi del disturbo. La prima ritiene che il BOS
abbia cause multifattoriali in cui si incrociano fattori di rischio socio-ambientali (es. eccessivo carico
di lavoro, burocraticizzazione, etc.) e fattori di rischio individuali (es. tendenza eccessiva a
responsabilizzarsi, aspettative irrealistiche, significato attribuito al proprio lavoro, etc.). La teoria
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biochimica, invece, ritiene che nella BOS siano coinvolti bassi livelli di cortisolo, dopamina e/o
serotonina, ciò determina un aumento dei livelli di prolattina, tutto ciò sembra essere in relazione ai
sintomi sopra descritti (all’esaurimento emozionale, decremento della realizzazione personale
percepita, distaccamento/depersonalizzazione).
Quali sono le figure professionali maggiormente a rischio burn out?
In realtà, il rischio di burn out può riguardare tutte le professioni, poiché come descritto nelle righe
precedenti, rappresenta una sindrome complessa e multifattoriale, contraddistinta da aspetti individuali
ma anche ambientali.
In generale, sembra potersi presentare con maggior frequenza all’interno di professioni caratterizzate
da un alto livello di responsabilità e implicanti relazioni umane. Per tale motivo si riscontra
prevalentemente nell’ambito delle professioni “di aiuto”, operatori sanitari, medici, infermieri; ma
anche nell’ambito dei lavori assistenziali (assistenti sociali, operatori socio sanitari), cosi come tra il
personale delle forze dell’ordine. Inoltre, le persone che si occupano della cura possono essere esposte
al trauma vicario, cioè quella traumatizzazione che deriva dal coinvolgimento empatico con le
esperienze traumatiche altrui. In tali professioni, oltre agli aspetti specifici connessi al compito
professionale, un importante ruolo è giocato da fattori organizzativi, quali i lunghi e pesanti turni di
lavoro, la riduzione dei tempi di riposo e la mancanza di tempo libero. Da ricordare anche il campo
educativo, e quindi gli insegnanti di scuola, di qualunque ordine e grado: la responsabilità legata al
ruolo che si scontra con le difficoltà organizzative e istituzionali. Un altro settore a rischio è
rappresentato dai lavoratori autonomi e liberi professionisti in cui la precarietà e l’incertezza
lavorativa, oltre alla necessità di procacciarsi il lavoro, rappresentano importanti fattori predisponenti
allo stress.
Non sempre è facile rendersi conto di essere in questo processo disfunzionale, pertanto la presa di
consapevolezza che le emozioni quali tristezza, rabbia e frustrazione possono influire negativamente
sul lavoro e sul rapporto con i colleghi e al contempo la consapevolezza che tutto ciò potrebbe essere
legato al contesto di lavoro possono essere due importanti passi per chiedere aiuto.
Per prevenire autonomamente i principali sintomi del Burn Out, si possono seguire alcuni semplici ma
utili consigli, quali ad esempio:
 Staccare la spina: ritagliarsi uno spazio in cui dedicarsi al proprio benessere personale, coltivare
un hobby, una passione, concedersi un momento di relax o di divertimento. La parola d’ordine
è: “curati di te”, “fai quello che ti piace.” È importante recuperare uno spazio personale, extra
lavorativo, in cui poter “ricaricare le batterie”. Se il proprio lavoro prevede fasce orarie di
reperibilità, cercare di limitarle per un periodo, ove possibile.
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 Mantenere uno stile di vita sano: curare l’alimentazione e preservare il sonno, cercando di
dormire almeno 6-8 ore di notte; svolgere regolarmente dell’attività fisica, in quanto dedicare
attenzione al corpo facendo ciò che piace, scioglie tensioni e stimola benessere psicofisico.
 Limitare l’utilizzo di strumenti tecnologici quali computer, tablet, cellulare, soprattutto se già
ampiamente impiegati per lavoro. In particolare sarebbe bene evitare di utilizzare tali strumenti
nelle ore serali in quanto questo può interferire con la qualità del sonno e del riposo.
 Condividere ciò che si sente, parlarne con qualcuno di fidato, se possibile e se è previsto nel
proprio ambiente di lavoro richiedere il confronto in gruppo oppure in équipe: a tale proposito
è bene ricordare il beneficio legato ai confronti all’interno dell’èquipe di lavoro, utile per
rinforzare il senso di appartenenza e condivisione all’interno dello stesso contesto lavorativo.
 Ove tutto ciò non fosse sufficiente è opportuno rivolgersi ad un professionista, senza timori o
vergogna: è importante legittimare ciò che si sente, riconoscere ed esprimere i propri vissuti
emotivi, per evitare che essi diventino soverchianti; non sono da sottovalutare infatti le
ripercussioni che si possono avere non solo a livello individuale, ma anche familiare, sociale e
lavorativo.
A tale proposito, quando si intraprende un percorso di psicoterapia, al fine di contrastare la
sintomatologia del Burn Out, spesso vengono utilizzate alcune tecniche di riduzione dello
stress, come ad esempio:
 le tecniche di rilassamento hanno come obiettivo il riequilibrio psicofisiologico, sono delle
azioni volontarie che il soggetto mette in pratica per ridurre l’ansia e lo stress;
 la mindfulness è una pratica meditativa che trae origine da quelle impiegate nel buddhismo, la
definizione di Jon Kabat-Zinn recita: “porre attenzione in un modo particolare:
intenzionalmente, nel momento presente e in modo non giudicante”;
 le tecniche di biofeedback mirano ad insegnare a modificare la propria attività fisiologica al
fine di il benessere (Association for Applied Psychophysiology and Biofeedback, AAPB,
2008).
In situazioni di emergenza, come quella attuale, è possibile che il personale che lavora in prima linea
sia soggetto a questa particolare forma di malessere che, in alcuni casi, può avere come conseguenza
non solo la sindrome da burnout, ma anche lo sviluppo di un disturbo post traumatico da stress (PTSD).
Pertanto è importante che si intervenga tempestivamente per il sostegno al benessere psicofisiologico.

 

Dr.sse Debora Tonello e Katia Querin

IMPARARE UNA SECONDA LINGUA CAMBIA LA TUA PERSONALITA’? I VANTAGGI DEL BILINGUISMO

I limiti del mio linguaggio costituiscono i limiti del mio mondo”

Ludwig Wittgenstein

La maggior parte dei bambini del mondo cresce in ambienti multilingue e tutte le ricerche svolte in materia di bilinguismo, negli ultimi 15 anni, confermano i numerosi vantaggi di cui gode chi parla 2 o più lingue.

Oltre ad avere migliori prospettive di lavoro, i bilingue:

hanno minori probabilità di sviluppare demenze senili (la possibile insorgenza di Alzheimer viene ritardata di 5 anni rispetto a coloro che parlano una sola lingua);

sono avvantaggiati dal punto di vista cognitivo;

manifestano maggiore autostima e sono aperti alla sperimentazione e al cambiamento;

hanno maggiore flessibilità mentale e capacità di multitasking;

hanno maggiori abilità artistiche e una migliore capacità di interpretare il mondo.

In particolare, l’utilizzo più rapido e migliore delle funzioni esecutive, come la capacità di controllare l’attenzione, sembra derivare dal fatto che i bilingue imparano ad inibire una delle lingue mentre si esprimono nell’altra, imparando ad alternare rapidamente compiti diversi.

Questa abilità di task-switching, è una delle più impegnative per il sistema esecutivo. Quando un bilingue si districa in questo passaggio, rispetto a un monolingue fa due cose: usa le reti cerebrali del linguaggio anche per compiti non linguistici e attiva meno il cingolo anteriore, una struttura profonda della corteccia frontale fondamentale per coordinare l’attenzione. Vale a dire che i bilingue sanno riciclare quelle strutture cerebrali che nei monolingue sono adibite solo al linguaggio per usarle come impalcature alternative del controllo cognitivo.

Per lo stesso principio, i bilingue riescono anche a prendere decisioni critiche in modo più rapido. Tener separate due lingue per non fare confusione, infatti, attiva le stesse strutture neurali che vengono usate per prendere decisioni rapide. Essere abituati ad usarle di più fin dalla nascita, garantisce ai bilingue un maggior sviluppo anatomico, cioè uno spessore maggiore della materia grigia nel cingolo anteriore. Per lo stesso motivo, i bilingue hanno anche più capacità di risolvere i conflitti cognitivi. Questo vantaggio si aggiunge al fatto che, essendo abituati ad usare il cingolo anteriore, possono farlo in automatico senza “impegnare la corteccia” per prendere decisioni. Un po’ come avere più memoria di lavoro nel computer, questo caratteristica rende i bilingue più rapidi ed efficienti, con meno sforzo.

Il bilinguismo protegge anche dai problemi cognitivi che possono derivare da un ictus o dalla semplice vecchiaia, perché ritarda il declino cognitivo.

A livello neurale, ciò si spiega col fatto che imparare una seconda lingua ispessisce anche la materia bianca, cioè gli assoni presenti nel cingolato anteriore che ci permettono di trasmettere le informazioni tra aree del cervello. E questo si verifica non solo nell’infanzia ma anche in età adulta o avanzata.

Ciò spiega perché, anche a parità di età, di livello socioeconomico e di altre varianti rilevanti, i bilingue siano meno propensi a sviluppare demenze senili. Ci sono studi scientifici che sottolineano come finanziare corsi di lingua per anziani potrebbe addirittura essere più utile di altri interventi per ridurre i deficit cognitivi negli over 65!

Crescere bilingue

Le neuroscienze ci illustrano tutta questa mole di vantaggi ma, nel concreto, come si imparano due lingue? Ed è consigliabile crescere un bambino bilingue?

Per quanto sembri strano, il neonato possiede un cervello universale per il linguaggio in grado di riconoscere gli elementi fonologici di tutte le lingue del mondo. Con il tempo, il bambino svilupperà le barriere fonologiche proprie solo della sua lingua di appartenenza. In pratica, quel che succede, è una perdita di risoluzione: si perde la capacità di identificare i fonemi che non appartengono al proprio gruppo sociale. Tra i 6 e i 9 mesi, il bambino identifica quei fonemi che appartengono solo alla sua lingua e il suo cervello smette di essere potenzialmente universale.

E’ da segnalare, inoltre, che i bambini non imparano le parole lessicalmente: non si formano una sorta di dizionario mentale in cui ciascun termine viene associato ad un significato. Il significato viene dopo.

Questo è uno dei problemi che riscontriamo nell’imparare una lingua da adulti. Non usando più questo procedimento, impariamo la lingua con l’apparato cognitivo in modo cosciente. “Se imitassimo il meccanismo naturale di consolidare prima la musica delle parole e le regolarità di intonazione della lingua, l’apprendimento sarebbe molto più semplice ed efficace” (Sigman) perché riprenderebbe il sistema utilizzato dai bambini.

Nel crescere un bambino bilingue, il dubbio di molti genitori è che egli possa confondersi se in casa vengono mescolati due idiomi e che, pertanto, apprenda con più difficoltà a parlare.

Gli studi ci dicono che se è vero che durante l’infanzia i monolingue hanno un vocabolario più ampio, questo effetto scompare e persino si inverte con la crescita. Anzi, i bilingue hanno una maggiore conoscenza della struttura del linguaggio, ne notano i meccanismi e questo gli facilita l’apprendimento anche di una terza o quarta lingua. Per di più, essi imparano a leggere in media un anno prima dei monolingue avendo più facilità nel riconoscere le corrispondenze tra lettere scritte e suoni.

Inoltre, ci sono studi su casi di bilinguismo in cui i genitori parlano ciascuno una lingua (come nelle zone di frontiera italo-slovene) ed altri in cui i genitori parlano indifferentemente due lingue. Lo sviluppo dei bambini bilingue in questi casi è identico.

E il motivo per il quale i neonati non si confondono se la stessa persona parla due idiomi è che, per produrre fonemi di ogni lingua, si forniscono indicazioni gestuali – il modo di muovere la bocca o il viso – su quale lingua si sta parlando. Diciamo che si fa una faccia da francese o da italiano. Queste chiavi, per un neonato, sono facili da riconoscere” (Sigman).

Crescere bilingue, dunque, sembra non portare grossi problemi e offre svariati vantaggi che possiamo riassumere in una migliore capacità di gestire le funzioni esecutive del cervello durante lo sviluppo e nel trovare strade alternative. Un bambino in grado di essere pilota del proprio cervello avrà migliori capacità sociali e ciò avrà buone ripercussioni anche sulla sua salute e le sue prospettive future.

Ma le ultime ricerche hanno evidenziato dei risvolti ancora più interessanti: a seconda di quali specifici linguaggi i bilingue padroneggino, la loro visione del mondo cambia di conseguenza.

Due lingue, due personalità?

Sembra che il linguaggio e il pensiero siano interconnessi, e che la lingua in cui ci esprimiamo influenzi il modo in cui concepiamo e categorizziamo il mondo.

Vale a dire che il comportamento e il modo in cui un bilingue interpreta il mondo dipenderebbero dalla lingua parlata in un determinato momento e cambierebbero drasticamente variando l’idioma in cui egli si esprime.

Per fare un esempio, i madrelingua tedeschi tendono a descrivere lo scopo, o l’obbiettivo, di un’azione, perché la loro  lingua guarda agli eventi nel loro insieme, mentre chi parla inglese avrebbe la tendenza a concentrare l’attenzione unicamente sull’azione in se stessa, perché la lingua gli richiede di esprimere grammaticalmente quando un evento è in fase di svolgimento.

Quindi, posti di fronte a uno stesso video di una persona che cammina in direzione di una macchina, il tedesco dirà “una persona che cammina verso la sua macchina”, mentre l’inglese dirà “una persona cammina”.

Il filologo Athanasopoulos, in uno studio pubblicato sulla rivista Psychological Science, ha verificato questo risultato nei suoi studi e, ripetendo l’esperimento con persone bilingue inglesi/tedesche, ha trovato che la risposta dipendeva effettivamente dalla lingua che il soggetto stava utilizzando al momento. Quando i ricercatori hanno fatto concentrare i bilingue sul tedesco, le risposte sono state infatti simili a quelle dei madrelingua tedeschi, e viceversa. Cambiando inoltre lingua a metà dell’esperimento, il risultato era lo stesso.

Inoltre, è stato dimostrato che questa differenza non avviene solo nell’espressione linguistica (cioè il modo in cui dico una cosa descrivendo una scena) ma anche nella categorizzazione non verbale (il modo in cui penso alla scena).

Questo risultato sembra dar conto, almeno in parte, del perché molti riportano di sentirsi in qualche modo diversi quando usano un’altra lingua.

Il fatto che parlare una seconda lingua possa influire sulla nostra psicologia più profonda, modificando la percezione di noi stessi e del mondo circostante, sta diventando sempre più d’interesse nel mondo della ricerca.

La psicologa Ramírez-Esparza ha somministrato a dei cittadini bilingue un doppio test della personalità, chiedendo loro di descriversi in spagnolo e in inglese.

Ne è emerso che quando utilizzavano l’inglese “i candidati si percepivano come più cortesi, estroversi, aperti alla cooperazione e responsabili rispetto alle occasioni in cui utilizzavano lo spagnolo. In generale la loro presentazione toccava più facilmente questioni legate a traguardi personali e lavorativi, alle esperienze di studio e alle attività quotidiane. Al contrario, scrivendo in spagnolo i temi centrali erano quelli della relazione con la famiglia e con il proprio partner e quelli legati ai propri hobbies extralavorativi” (Ramírez-Esparza).

Uno studio simile era già stato fatto negli anni ’50 dalla linguista Ervin-Tripp su donne bilingue, giapponesi e americane, alle quali aveva chiesto di completare nelle due lingue delle frasi, scoprendo che le risposte erano modellate dalla lingua utilizzata. In giapponese esprimevano una visione del mondo più conservatrice, mentre in inglese esprimevano una maggiore propensione all’emancipazione e all’indipendenza.

Anche la percezione di sé sembra essere influenzata dalla lingua. Uno studio su bambini ebrei e finlandesi ha portato alla luce che i bambini che parlano ebraico raggiungono con un anno di anticipo la consapevolezza della loro identità di genere, perché la loro lingua assegna sempre un genere alle parole, mentre in finlandese vi è una ben più ampia possibilità di mantenersi nell’indeterminazione.

Ancora, la lingua che parliamo sembra avere implicazioni anche su come percepiamo il tempo.

L’economista Chen ha scoperto che i cinesi, che non hanno un preciso tempo verbale per indicare il futuro, dimostrano un’inclinazione maggiore del 30% a mettere da parte dei risparmi rispetto a chi invece utilizza lingue nelle quali il tempo futuro è disponibile nel vocabolario. Non poter attribuire una forma definita al futuro lo rende molto più prossimo al presente, molto più incombente, e porta i cinesi a voler risparmiare di più.

Rispetto al tempo, Athanasopoulos e Bylund fanno l’esempio degli Aymara che vivono principalmente tra Perù e Bolivia. Nella lingua degli Aymara la parola che indica il futuro (qhipuru) significa letteralmente “dietro il tempo”. L’asse temporale degli Aymara è invertito rispetto al nostro: il passato sta davanti mentre il futuro è alle spalle. E per quanto ci sembri contro intuitivo, il loro concetto segue invece una logica stringente: il passato, essendo già noto, è perfettamente visibile; il futuro, al contrario, rimane sconosciuto come qualcosa che sta dietro di noi e resta fuori dal nostro campo visivo.

Ma alcune differenze nella percezione del tempo le riscontriamo anche in occidente. Svedesi e inglesi misurano il tempo come se fosse una cosa concreta, facendo riferimento a distanze (per esempio, ci si prende una “breve pausa” ma mai piccola). Gli italiani, i greci e gli spagnoli tendono invece a usare di più quantità e grandezze fisiche per connotare la durata del tempo (una “piccola pausa”). Quindi, in un esperimento in cui si chiedeva di stabilire quanto tempo fosse trascorso osservando una linea che cresceva, gli svedesi erano portati a pensare che più la linea cresceva più tempo passava. Lo stesso collegamento non era automatico per gli spagnoli, più abituati a concepire il tempo come una quantità, come un volume che occupa spazio.

Da tutti questi esempi, è facile intuire che ogni lingua, insieme alle sue possibilità espressive, veicola anche il proprio tessuto culturale. Quando usiamo una lingua piuttosto che un’altra, ci inseriamo in uno specifico orizzonte di significati e pensiamo utilizzando gli strumenti che quel linguaggio ci mette a disposizione.

Ciò significa che riuscire a farsi comprendere in un’altra lingua non è così semplice e non richiede solo una conoscenza perfetta della grammatica o del vocabolario. Cos’altro serve?

Saper pensare in un’altra lingua

Tutti nella vita abbiamo sperimentato, almeno una volta, la difficoltà di rendere il nostro pensiero, far comprendere la nostra visione delle cose al nostro interlocutore.

Questa difficoltà aumenta se ci troviamo a dover tradurre il nostro pensiero in un altro idioma. Perché non è solo una questione linguistica o lessicale: un buon traduttore deve “saper pensare nell’altra lingua” per poter far capire il proprio messaggio. Non si tratta, cioè, di esprimere un concetto trasferendo le parole da una lingua all’altra e variando le strutture sintattiche, si tratta di accordarsi ad un modus cogitandi, un modo di classificare e guardare l’esperienza.

Ma possiamo quindi dire che è la lingua che parliamo che influenza il nostro modo di percepire e pensare la realtà? Essa influisce sul nostro modo di pensare, determinando un diverso modo di classificare i dati dell’esperienza?

Tutto questo sottende un dilemma: nasce prima il pensiero e poi la parola per dirlo o la parola forma il pensiero che verrà poi espresso?

Per rispondere dobbiamo far cenno ad una teoria, che va sotto il nome di ipotesi di Sapir-Whorf, formulata già negli anni ’30 del Novecento, che ha goduto di fama altalenante.

Secondo Benjamin Whorf, linguista, e il suo maestro Edward Sapir, antropologo, la lingua che parliamo non è solo frutto del nostro modo di organizzare l’esperienza. Essi sostenevano invece l’idea che la lingua determini i nostri processi di pensiero, definendo il sistema linguistico di sfondo come “il programma e la guida dell’attività intellettuale dell’individuo” (Whorf).

Questa versione “forte” della loro ipotesi, nota come determinismo linguistico, arrivò a teorizzare che noi abbiamo esperienza solo di ciò che siamo in grado di “dire” con il nostro linguaggio. Ciò che le parole non sanno dire, l’occhio non sa vedere. Questo, semplicemente perché non abbiamo le categorie, le “caselle”, entro cui sistemare la nostra esperienza.

Gli anni ’60 del Novecento cominciarono a confutare questa ipotesi. Gli studi del famoso linguista Chomsky dimostrarono infatti che esiste una grammatica universale insita nel genere umano. I bambini manifestano già da piccoli delle conoscenze grammaticali molto più complesse di quelle che potrebbero aver ricevuto dalla loro breve relazione sociale con gli altri. Questa teoria porterebbe dunque a pensare che il linguaggio sia antecedente all’esperienza e che non ne sia influenzato e non la influenzi, al contrario di quanto sostenuto da Sapir e Whorf.

Alla fine degli anni ’80, però, la psicologia e la linguistica fecero grandi progressi e l’ipotesi venne rispolverata.

Venne valutato, ad esempio, l’impatto che il linguaggio della politica del tardo Novecento ebbe sui modi di pensare delle masse. Secondo il filologo Klemperer, la lingua usata dal Terzo Reich evidenzia come il nazismo sia riuscito a rendere consueto un certo tipo di linguaggio arrivando a strutturare il pensiero non solo dei dominatori ma anche dei dominati. “Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico. Se per un tempo sufficientemente lungo al posto di eroico e virtuoso si dice ‘fanatico’, alla fine si crederà veramente che un fanatico sia un eroe pieno di virtù e che non possa esserci un eroe senza fanatismo”.

Anche in chiave positiva, possiamo tutti pensare ad un momento in cui abbiamo provato un disagio o un’emozione che ci faceva stare male ma non sapevamo esprimerlo. Ecco che quando qualcuno ci fornisce le parole per esprimere quello che sentiamo allora noi “leggiamo” l’esperienza, le diamo un nome, la “proviamo” alla luce di quelle parole. E così, la categorizziamo e sappiamo collocarla nella nostra realtà (anche interiore).

Questo incredibile potere del linguaggio lo sperimento tutti i giorni nel mio lavoro di psicoterapeuta. Aiutare le persone a “dire” come stanno, cercare insieme di costruire una metafora che renda bene conto di quello che stanno vivendo, apre ad un processo in cui quella situazione non solo diventa “dicibile”, ma anche “pensabile” e, dunque, posso farne qualcosa, che sia risolverla o lasciarla andare.

In modo più tangibile e meno romantico, la psicologa Spelke e la sua collega Hespos hanno effettuato degli studi, sulla scia di quelli di Athanasopoulos, che provano che i parlanti di lingue diverse hanno diversi modi di vedere la realtà.

Mettendo a confronto Coreani e Americani, queste due psicologhe hanno verificato che il linguaggio li porta a mettere in evidenza elementi diversi dello stesso evento presentato e a non vedere, al contrario, caratteristiche che parlanti di lingua diversa invece notano. Gli adulti inglesi e coreani, posti di fronte ad uno stesso evento, lo categorizzano dunque secondo il loro linguaggio. Quindi “vedono” solo ciò che il loro linguaggio è capace di esprimere.

Ma il loro studio ha aggiunto un elemento in più: il fatto che il linguaggio porti gli individui a leggere in modo diverso la realtà, non significa che, nei bambini, il pensiero venga dopo l’apprendimento del linguaggio.

Le loro ricerche hanno dimostrato, infatti, che bambini di soli cinque mesi, con genitori di lingua inglese e coreana, erano in grado di osservare la realtà nello stesso modo. Quegli eventi che i loro genitori, proprio perché parlanti lingue diverse, non erano più in grado di vedere allo stesso modo, nei bambini erano ugualmente notati, indipendentemente dalla lingua parlata dai genitori. Come a dire che il linguaggio non struttura il pensiero di questi bambini ma, semplicemente, il fatto che il linguaggio dei loro genitori non contenga parole per “dire quell’esperienza”, fa sì che, crescendo, quell’esperienza inespressa lentamente venga lasciata perdere. Non sia più presa in considerazione.

Viene da fare un parallelo con la tendenza dei bambini a selezionare solo quei suoni che appartengono alla lingua (o alle lingue) a cui sono esposti, come abbiamo visto. Così come lentamente si diventa insensibili ai suoni che si ritengono irrilevanti, perché non contenuti nella lingua madre, allo stesso modo si impara ad ignorare parti della realtà più che a categorizzare e di conseguenza conoscere.

Il fatto che non ci venga insegnato a vedere certi aspetti, ci fa disimparare a vederli.

In generale questo è un meccanismo sano e funzionale. Il nostro cervello si basa sulla categorizzazione e la semplificazione, perché cerca di fare ordine in un’esperienza altrimenti caotica e frammentata. Dare forma alla realtà, selezionando gli stimoli che riteniamo rilevanti, ci aiuta a sopravvivere, ma restringe irrimediabilmente il campo della nostra percezione.

Esserne consapevoli potrebbe aiutarci a comprendere e rispettare i diversi modi di vivere e categorizzare come ugualmente tendenti al solo scopo di dare una forma e un senso a ciò che ci circonda.

L’errore, al solito, sta nella rigidità del ritenere la propria via, la verità. In questo, l’apprendimento di una seconda lingua può venirci in soccorso: saper comunicare con una lingua diversa dalla propria rende liberi perché ci apre nuove prospettive culturali e ci spinge a utilizzare nuovi modi di pensare.

Ogni lingua traccia intorno al popolo cui appartiene un cerchio da cui è possibile uscire solo passando, nel medesimo istante, nel cerchio di un’altra lingua.

L’apprendimento di una lingua straniera dovrebbe essere pertanto l’acquisizione di una nuova prospettiva nella visione del mondo fino allora vigente e lo è in effetti in certo grado, dato che ogni lingua contiene l’intera trama dei concetti e la maniera di rappresentazione di una parte dell’umanità.

Wilhelm von Humboldt

 

Dr.ssa Valeria Lussiana

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