Autore: <span>Eco Associazione</span>

SECONDO LOCKDOWN E MECCANISMI DI NEGAZIONE: UNA RIFLESSIONE PSICOANALITICA

La pandemia da Covid-19, come fenomeno che ha colpito l’intera umanità, è stata un’esperienza che ha accomunato le persone a livello mondiale in termini di sensazioni, paure e vissuti. In pochi mesi ci siamo ritrovati, in qualunque parte del mondo, a porci le stesse domande, ad avere simili preoccupazioni e a condividere l’esperienza dell’attesa, dell’ignoto, del lutto e del cambiamento. La stessa terapia ha subìto diverse modifiche per adattarsi al nuovo contesto pandemico. Nello specifico, la psicoanalisi ha attraversato alcuni cambiamenti nella pratica clinica che hanno avuto un forte impatto sul setting, sull’alleanza terapeutica e sul modo di concepire la terapia. Analista e paziente, abituati alla stanza dei sogni con poltrone e lettino, si sono incontrati in una nuova veste con uno schermo a dividerli e a connetterli.

La psicoanalisi, nonostante sia nata più di cento anni fa, non è nuova alle trasformazioni e nel tempo si è modificata per adattarsi ai valori e ai bisogni attuali. Essa è diventata più flessibile, meno autoritaria, più pratica e più recettiva dei bisogni di un insieme di pazienti più ampio con origini culturali e sociali molteplici. Molti autori hanno trattato il tema delle cosiddette variazioni rispetto a una tecnica psicoanalitica classica. Fenichel (1941) scriveva “possiamo e dobbiamo sempre essere elastici nell’applicazione delle regole tecniche. Ogni cosa è ammissibile, se solo si sa perché”. Anche Anna Freud (1954) espresse l’opinione che i cambiamenti nell’applicazione delle regole e dei procedimenti tecnici sono a volte necessari quando possono essere teoricamente giustificati in relazione alla struttura di un determinato caso.

La pandemia ha avuto un forte impatto sulle terapie, sui terapeuti e sui pazienti. Il contesto così straordinario, ma allo stesso tempo comune a tutti, ha reso possibile che analista e paziente al di là dei loro ruoli e in quanto persone sperimentassero la piena condivisione di una realtà conosciuta ad entrambi perché vissuta proprio nell’hic et nunc. Il momento storico si rifletteva nelle esperienze dei pazienti così come in quelle del terapeuta. La riflessione sull’esperienza dell’essere terapeuti durante il primo e il secondo lockdown ha messo in luce delle differenze nelle due fasi e da qui è nata la curiosità di conoscere come i pazienti abbiano vissuto questi due momenti e se vi siano state delle discrepanze anche per loro.

Sicuramente ciò che è avvenuto in entrambi i momenti è stato un cambiamento radicale nel setting. La modalità da remoto, che prima non era così diffusa, è stata letteralmente sdoganata rendendo possibile confrontarsi con un nuovo modo di fare terapia sia come terapeuti, sia come pazienti. L’analista è stato chiamato quindi a modificare il suo metodo per il benessere del paziente. Questo ha portato con sé nuove riflessioni sul senso di una telefonata o di una videochiamata a seconda del tipo di trattamento che era in atto con il paziente, l’introduzione di un terzo nella relazione che era appunto lo strumento telematico (ma anche il contesto storico entro il quale ci si stava muovendo) attraverso il quale sono stati rivelati dei dettagli privati del terapeuta o del paziente che sono stati inevitabilmente condivisi (ad esempio spazi della casa, animali domestici). Anche il non presentarsi in seduta da parte del paziente si è modificato, non telefonando o non videochiamando e ciò ha sicuramente portato a un pensiero differente nel terapeuta rispetto alle assenze nel setting classico. Al ritorno in studio vi è stata inoltre l’introduzione di un aspetto medicalizzato, come l’igienizzazione delle mani e la compilazione di moduli.

Nel primo lockdown il vissuto del terapeuta è stato quello di avere la necessità di trovare una strategia, quella del fare come si può, che invece nella seconda chiusura si è tradotto nella possibilità di scegliere (ad esempio se continuare da remoto, come in alcuni casi richiesti dal paziente, oppure tornare in presenza). I contenuti delle sedute durante il primo lockdown erano focalizzati sulla pandemia, sulla paura del contagio, sul rispetto della norma. La sensazione, come terapeuta, era di essere un contenitore, ma allo stesso tempo di trovarsi letteralmente sulla stessa barca del paziente. Il secondo lockdown ha fatto emergere altri contenuti, temi e vissuti. Si è osservata una maggiore negazione della pandemia e un aumento nel non rispetto delle regole, anche in modo quasi inconsapevole. In questa fase è stato evidente come ci si sia trovati davanti alla fragilità dell’umanità, tema difficile per una società non abituata a questo ma orientata verso onnipotenza e narcisismo. Lingiardi e Giovanardi (2020) descrivono così quello che è stato il vissuto durante la seconda ondata: “Stiamo nel pieno di una nuova ondata, e il rischio di rivivere un trauma psichico è molto alto: per molti il ritorno al lockdown può accompagnarsi a paure profonde e innescare comportamenti fobici (reclusioni eccessive e preventive) e controfobici (assembramenti negazionisti, vita sociale indiscriminata). Il senso della ripetizione di un’esperienza che genera spavento e incertezza può essere molto invalidante. Colpisce nel profondo il proprio senso di continuità e la propria motivazione, ingredienti fondamentali per avere un senso di sé integrato e ben funzionante. Per una volta, invitiamo a risalire sul lettino”. Il vissuto del terapeuta è stato quasi l’opposto di quello dei pazienti: più consapevole della situazione e dei meccanismi di difesa, meno difeso e di conseguenza più sofferente e con più difficoltà nello stare vicino al paziente, nella stessa sua condizione ma con vissuti diversi.

Oltre al ruolo terapeutico in fase pandemica, la psicoanalisi è stata ingaggiata fuori dalla stanza d’analisi per spiegare alcuni fenomeni sociali. Rispetto al tema del negazionismo, della negazione e quindi del diniego a ottobre 2020 la rivista scientifica The Lancet ha pubblicato un articolo su ciò che è stato definito negli Stati Uniti d’America “un caso di non adesione ai consigli medici” unico nella storia (Ratner e Gandhi, 2020). È chiaro come la gestione della pandemia negli USA sia stata diversa da quella in Italia, tuttavia anche in Italia e nel resto del mondo si è assistito a un rafforzamento dei meccanismi di diniego, che sono emersi in modo massiccio nella seconda ondata pandemica. Gli psichiatri Austin Ratner e Nisarg Gandhi, autori dell’articolo, hanno chiesto un coinvolgimento della psicoanalisi nella gestione della situazione di negazione e della non adesione ai consigli medici legati al Covid-19. I meccanismi di negazione psicologica della malattia si legherebbero successivamente alla mancata aderenza alle raccomandazioni mediche.

Ma come può la psicoanalisi (e gli psicoanalisti) aiutare a comprendere e gestire la negazione di massa? Nello stesso modo con cui gli epidemiologi trattano i pericoli per la salute pubblica, ovvero aumentandone la consapevolezza. La psicoanalisi è chiamata a lavorare con le persone sul funzionamento dei loro meccanismi di difesa, nello specifico sottolineando come la negazione allontani dalla coscienza ciò che è intollerabile: il pericolo e l’ansia. Carl Gustav Jung (1946) invitava la psicoanalisi a “superare la profonda scissione esistente nell’uomo e nel mondo”.

In un momento delicato come quello della pandemia, il coinvolgimento della psicoanalisi è stato “un importante riconoscimento del potenziale trasformativo che la psicoanalisi può esprimere non solo come terapia individuale, ma come forza di cambiamento sociale” (Ratner e Gandhi, 2020).

Dott.ssa Tatiana Giunta

Psicologa – Psicoterapeuta

 

BIBLIOGRAFIA:

Fenichel, O. (1941). Problemi di tecnica psicoanalitica. Torino, Bollati Boringhieri, 1974.

Freud, A. The widening scope of indications for psychoanalysis discussion. Journal of the American Psychoanalytic Association, 1954.

Jung, C.G. (1946). Psicologia del transfert. Milano, Mondadori, 1985.

Lingiardi, V., Giovanardi, G. Psicoanalisi Anti negazionista. Il sole 24 ore, 02/11/2020.

Ratner, A., Gandhi, N. Psychoanalysis in combatting mass non-adherence to medical advice. The Lancet, 19/10/2020.

“COME CHI VOGLIO ESSERE?” LA FUNZIONE DELL’IDENTIFICAZIONE E L’USO DELLA FIABA IN PSICOTERAPIA

L’IDENTIFICAZIONE  

Nello sviluppo del bambino e dell’adolescente il processo identificativo è fondamentale perché consente al giovane di proiettare sull’oggetto parti di sé che ancora non hanno una forma definita e che egli deve ancora comprendere.  La parola Identificare deriva, infatti, dal latino “idem-fieri”,  e significa “divenire il medesimo”; nella sua forma riflessiva significa “Divenire una cosa stessa, Immedesimarsi”.

Nell’epoca moderna sono soprattutto i personaggi delle serie tv, dei cartoni di animazione, degli anime o dei manga ad essere utilizzati a questo scopo, come fulcro della possibilità di proiettare e vedere rispecchiate delle parti interne; in passato la stessa funzione che oggi hanno serie tv, film d’animazione e anime l’avevano le fiabe.

La fiaba è un racconto popolare fantastico all’interno del quale possono essere messe in scena argomentazioni tipiche del comportamento umano, da parte di personaggi vari, appartenenti sia al mondo naturale che a quello sovrannaturale. Possiamo dire che all’interno del mondo della fiaba vengono rappresentate e messe in scena tematiche appartenenti alle principali fasi evolutive dell’essere umano, interpretate da personaggi specifici.

Esse hanno una lunga tradizione orale e, prima di essere state trascritte, sono state raccontate per generazioni, dunque modificate e trasformate.

I racconti popolari rappresentano dei modelli, delle “soluzioni”, individuati per risolvere conflitti interni, di personalità, di consapevolezza e integrazione di sé stessi, attraverso la trasmissione tra generazioni. La fiaba può essere definita come una “soluzione collettiva” volta a risolvere i problemi tipici dei vari periodi di sviluppo ed evoluzione dell’uomo, tesa a favorire la coscienza e l’integrazione di parti interne di sé. È proprio per questo motivo che le fiabe sono destinate primariamente a bambini, fanciulli e adolescenti.

I PERSONAGGI

A rendere i personaggi delle fiabe (e spesso anche di molti anime e manga) così facilmente “attaccabili” dalle proiezioni dei bambini vi è sicuramente il fatto che essi non sono ambivalenti: di solito o sono buoni o sono cattivi e non possiedono caratteristiche intermedie. Ciò favorisce la polarizzazione della identificazione che domina la mente del bambino/adolescente. Caratteri opposti non vengono mai interpretati dallo stesso personaggio ma da diversi, così da mettere in risalto caratteristiche tipiche dell’essere umano in modo assolutistico; tale polarità e riduttività del comportamento umano rende maggiormente intuitiva la comprensione delle differenze tra dueatteggiamenti. Per cogliere l’ambiguità del comportamento infatti bisogna prima capire che esistono differenze individuali tra le persone e che non ogni comportamento è coerente con un altro; in seguito è poi forse possibile decidere in che modo sia, per noi, meglio comportarsi.

La polarizzazione dei personaggi della fiaba favorisce questa distinzione ed ha, in questo senso, un ruolo educativo nei confronti del giovane, perché è tesa a spiegare la complessità della psiche umana.

L’identificazione dipende, inoltre, dalla sensazione di simpatia o antipatia che quel personaggio è in grado di suscitare: Bettelheim scrive “Più un personaggio buono è semplice e schietto, più è facile per il bambino identificarsi con lui e respingere quello cattivo”.

Possiamo dunque dire che il personaggio nei confronti del quale avviene una proiezione è connotato di caratteristiche che appartengono anche al soggetto che proietta, ma che dentro di lui non sono ancora chiare: è come se l’osservazione della “messa in scena” (nella fiaba o nel cartone animato) di quello stesso vissuto emotivo o comportamentale permettesse al soggetto di comprenderne gli effetti, le conseguenze e le caratteristiche principali su sé stesso e sugli altri.

I personaggi principali diventato i rappresentati di un modo generico di essere (quindi “il buono”, il “cattivo”, il “coraggioso”…) che non prevede integrazioni di parti differenti o ambivalenze; csuccede perchè il loro intento è quello di rappresentare, in modo generico, tematiche tipiche di alcuni periodi dello sviluppo dell’essere umano. Bettelheim scrive: “Dove si parla di Hansel e Gretel, per esempio, i tentativi del bambino di continuare ad aggrapparsi ai suoi genitori benchè sia venuto il momento di affrontare il mondo da solo vengono posti in evidenza, insieme alla necessità di trascendere una primitiva oralità, simboleggiata dall’infatuazione dei bambini per la casa di marzapane. Parrebbe così che questa fiaba abbia molto da offrire al bambino pronto a muovere i primi passi nel mondo.” In questo senso, la funzione educativa della fiaba propone delle soluzioni collettive, una possibilità di svincolo e di direzione, attraversando fasi più o meno complicate che presuppongono la sconfitta di un antagonista attraverso l’utilizzo di strumenti, il più delle volte magici. La funzione e il senso simbolico che queste direzioni e strumenti possiedono possono essere utilizzati e interpretati nello spazio terapeutico, attualizzandoli all’esperienza del paziente e ricercandone il significato individuale.

LA FIABA IN TERAPIA

Per poter lavorare con la fiaba, in terapia,  è necessario stare sul significato simbolico della trama e del singolo avvenimento. È importante infatti riconoscere il tema centrale della fiaba e che questa tocchi il paziente da un punto di vista emotivo perché le immagini che le rappresentano e le compongano possano agire in modo terapeutico.

La fiaba, anche attraverso l’articolazione di ruoli e personaggi, riesce infatti ad offrire una lettura integrata degli eventi, contrapponendosi alla frammentarietà dell’esperienza. Secondo Hillman la narrazione in chiave fiabesca corrisponde all’obiettivo di costruire processi di crescita che favoriscano l’adattamento dell’individuo alla realtà esterna. Ecco perché l’identificazione con un certo personaggio, che abbia caratteristiche che ci rappresentano, permette al bambino di sperimentare una certa esperienza di vita, e di favorire il proprio personale processo di adattamento. È proprio per questo motivo che la fiaba “non si occupa tanto delle intenzioni dei singoli personaggi, o delle loro emozioni, e degli eventi reali, quanto della definizione delle loro sfere d’azione”.

Uno degli strumenti centrali della fiaba, che rende contemporaneamente il significato comprensibile o sconosciuto, è l’utilizzo della simbolizzazione. Il linguaggio in chiave simbolica ci permette di affrontare alcune tematiche che concrete e contemporaneamente affrontarne altre più profonde in chiave psicologica ed emotiva. È come se avvenisse un intreccio tra elementi figurativi e l’esperienza emotiva del soggetto. Verena Kast scrive: “i simboli che incontriamo nella fiaba rappresentano i processi evolutivi più vicini all’uomo. Ma anch’essi occupano il medesimo spazio intermedio: parlano della nostra esistenza in quanto singoli e al tempo stesso ci fanno capire che il nostro problema individuale è anche un problema collettivo […]. Questo spazio intermedio è il regno della fantasia, della creatività, dell’arte, della vita simbolica e pertanto anche della fiaba. Nel simbolo sono condensati esperienze e contenuti psichici (soprattutto emozioni) che non sono esprimibili per altra via”.

In questo senso, una delle funzioni principali della fiaba, è la “funzione schermo”, inteso come specchio sul quale si proietta la parte inquietante e poco comprensibile anche di noi stessi, contemporaneamente decentrandola da sé. Soprattutto nel periodo della pre adolescenza e della adolescenza tutto ciò che riguarda la sfera dell’eros viene allontanato dalla coscienza e riproiettato su elementi esterni, come quello della fiaba o della serie tv.

Un’altra funzione fondamentale, nelle prime fasi del racconto della fiaba, è quella del “patto narrativo” ovvero la qualità e la tipologia di contatto che vi è tra chi ascolta e chi racconta la fiaba; di solito i bambini pendono dalle labbra del narratore e, proprio per questo motivo, è importante osservare come reagiscono alla comparsa dei vari personaggi e quali sono le loro reazioni. Ciò ci permette di poter individuare le tematiche su cui poter lavorare e di intervenire in modo mirato.

Il lavoro con le fiabe nel contesto terapeutico può favorire una intensificazione del processo o una sua riattivazione in caso di stallo, ma è necessario che essa venga presentata al momento giusto e che sia adeguata alla situazione presente del paziente. In ogni caso, quando la fiaba viene introdotta in seduta, modifica sempre la situazione terapeutica perché muta il ruolo e il punto di vista dei due attori. All’interno della terapia, infatti, la fiaba assume la funzione di uno spazio di transizione (Winnicott) tra la realtà personale dell’individuo e quella del racconto popolare. Gli elementi simbolici presenti nella fiaba possono rimanere nella mente del paziente anche all’infuori della seduta e far si che egli prosegua il lavoro di ricerca di significato autonomamente, anche in assenza del terapeuta. Inseriti all’interno del contesto della fiaba, la storia individuale e la sofferenza personale del paziente acquisiscono nuovi significati perché vengono letti a partire da un patrimonio di esperienze collettive, appartenenti a tutta l’umanità.

Inoltre l’identificazione con il personaggio favorisce l’autonomia psichica del paziente il quale, attraverso il processo identificativo, può sviluppare idee creative e prendere decisioni importanti che riguardano la sua situazione personale.

In conclusione, la fiaba utilizzata in terapia ha la funzione di rappresentare uno spazio su cui proiettare dei vissuti interni ed emotivi al fine di favorire identificazioni utili ad attivare un processo di autonomia psicologica; “quest’attività è favorita dal fatto che la fiaba offre un canovaccio su cui basare le proprie fantasie, uno spazio sicuro e non prescrittivo. Ritengo che l’esperienza dell’elaborazione creativa di questo spazio intermedio e dei processi simbolici rappresentati nella fiaba, e l’autonomia, l’ampliamento della sfera di significati e l’energia emozionale che ne derivano, siano essenziali per la psicoterapia”.

Dott.ssa Federica Ariani

Psicologa- Psicoterapeuta

L’AUTOLESIONISMO E AUTODISTRUTTIVITÀ IN ADOLESCENZA

Uccido il mio corpo

poiché esso

mi uccide”

Platone

Il termine autolesionismo deriva dal greco αὐτός e dal latino laedo (danneggiare) e significa letteralmente “danneggiare sé stessi”.

Esso indica la tendenza a provocare il danneggiamento del proprio corpo attraverso lesioni autoinflitte dirette e intenzionali senza necessariamente intenzioni suicidarie, tipica di alcuni adolescenti e giovani adulti.

Le condotte autolesionistiche non hanno un senso univoco, non può esserci una causa precisa in ogni circostanza, possiamo intenderla certamente come una strategia per gestire la sofferenza psicologica talvolta inserita appunto nel quadro di una psicopatologia più complessa.

Si tratta di modalità comportamentali riscontrabili in varie categorie diagnostiche come ad esempio disturbi d’ansia, disturbi dell’umore, disturbi di personalità, abuso di sostanze, disturbi del comportamento alimentare.

Sono forme di sofferenza definite appuntoDeliberate self-harm” ovvero “Auto-danneggiamento intenzionale” che comprende un repertorio vario di comportamenti patologici, riconducibili a tre principali tipi di condotte di:

1. Auto-danno come l’abuso di sostanze psicoattive, la sex promiscua e il gioco d’azzardo;

2. Auto-avvelenamento come l’ingestione di sostanze tossiche e l’overdose di droghe;

3. Autolesive come tagli, scarnificazioni, graffi, escoriazioni, lividi (cutting); bruciature e ustioni (burning) e ancora morsi, tricotillomania, eccessiva onicofagia etc.

Parlare di autolesionismo in adolescenza è faticoso poiché è difficile accettare l’intenzionalità autodistruttiva di un adolescente nel pieno della propria vita e farsi carico della drammaticità di tutto ciò.

Per poter comprendere meglio la tematica, occorre fare un cenno all’oggetto destinatario delle dinamiche autolesionistiche ovvero il corpo e come questo viene vissuto nel periodo adolescenziale.

Il corpo in adolescenza diviene il luogo dove avviene la ridefinizione di Sé rispetto al mondo esterno, esso si pone come il ricettacolo di pensieri, attenzioni e preoccupazioni dell’adolescente nonché portavoce della sua sofferenza.

Il corpo che vive gli inaspettati, inevitabili e dirompenti cambiamenti puberali e fisiologici può essere sentito come inautentico o non rappresentativo, fuori luogo, non corrispondente a come viene esperito e di conseguenza diventare causa di vergogna e imbarazzo sociale, nonché bersaglio del malessere e aggressività.

Le condotte autolesive esprimono una ricerca disperata di modi per lenire la propria sofferenza, più nello specifico possiamo osservare i seguenti significati:

1. COMUNICAZIONE ovvero l’espressione di ciò che è impossibile mettere in parole
2. AUTOREGOLAZIONE EMOTIVA di intense emozioni sentite come eccessive (es. ansia, tristezza, impotenza, perdita, rabbia, colpa, vergogna, abbandono, rifiuto etc.).

Quando la mente è sopraffatta, la ferita reca sollievo rispetto ad un disregolato stato di arousal psicofisiologico, ingaggiando una lotta distruttiva tra sé e il proprio corpo e cercando di ripristinare uno stato mentale più tollerabile. Ciò avviene anche a livello di pensieri perché per un po’ ci si occupa solo del dolore fisico e ciò che ne consegue (es. vista del sangue, disinfettare, apporre cerotti etc.) distogliendosi dal dolore interiore.

La disregolazione emotiva è il fallimento della regolazione flessibile dell’esperienza e/o espressione emotiva, comune a molti quadri psicopatologici.

3. STRATEGIA DISADATTIVA DI COPING come modalità di fronteggiare le avversità
4. FORMA PATOLOGICA DI AUTOAIUTO E AUTOMEDICAZIONE
5. RICHIESTA DI AIUTO dalla forte potenza comunicativa ed espressiva del dolore per attivare delle risposte di accudimento

6. MODALITÀ PER CONCRETIZZARE la sofferenza in vissuti corporei, visibili, più controllabili anche perché autoprodotti. Il dolore somatico esterno simboleggia il vuoto interno.

7. MODALITÀ CATARTICA di sbarazzarsi parti non gradite di Sé (ricordi dolorosi, aspetti traumatici, cambiamenti puberali indesiderati etc.)
8. PUNIZIONE AUTOINFLITTA, specie per chi presenta elevato autocriticismo
9. COSTRUZIONE DI UNA MEMORIA DI SÉ poiché la cicatrice diviene l’autobiografia emotiva, evolutiva e identitaria dell’adolescente. Una ferita, inoltre, offerta come testimonianza, sfida, provocazione, richiesta di essere visti.
10. FUNZIONE DI UN’APPROPRIAZIONE ATTIVA del processo di vita, allontanare vissuti di passività e di dipendenza (molto temuti in adolescenza) e ridurre il senso d’impotenza oppure svolgere una FUNZIONE ANESTETIZZANTE, calmante cioè mettere ordine alle tensioni e alla confusione mentale. Ricordiamo infatti che i tagli provocano una distensione dopaminergica e di oppioidi endogeni, diventano una forma di esistenza e strumento di controllo su di sé.

L’autolesività rappresenta i modi di esternalizzare gli affetti negativi proiettati sul corpo, necessari “per sentirsi vivi” contro parti morte di sé o non attrezzate a rappresentare uno o più dolori indicibili.

Il dolore psichico è così intenso e insopportabile e il corpo è utilizzato come veicolo di sofferenza e lo stesso viene attaccato, a volte, con modalità autolesive e autodistruttive (dca, autolesionismo e tentato suicidio).

Il trattamento necessario per le condotte autolesive richiede trattamenti psicoterapeutici che si focalizzino sulla regolazione delle emozioni per affrontare la sofferenza, sulla capacità di coping funzionali e adattive nonché sull’incremento della capacità di mentalizzazione ovvero la capacità di comprendere il proprio e altrui comportamenti in termini di stati mentali.

Come professionisti della salute mentale, sconsigliamo un atteggiamento giudicante o di condanna del comportamento autolesivo ma è bene favorire una richiesta di aiuto per rivolgersi a specialisti per un’adeguata valutazione e psicoterapia.

BIBLIOGRAFIA

R. Ostuzzi, M. Pozzato, Autolesionismo e disturbi di personalità (M.D. Medicinae Doctor – Anno XVI numero 5 – 18 febbraio 2009);

– M. Lancini, L. Cirillo, T. Scodeggio, T. Zanella, L’Adolescente Psicopatologia e psicoterapia evolutiva Raffaello Cortina Editore 2020;

– M. R. Monti, A. D’agostino, L’Autolesionismo, Carocci Editore 2009;

– C. D’agostino, M. Fabi, M. Sneider, Autolesionismo. Quando la pelle è colpevole, L’asino d’oro 2016.

Dr. Ssa Maria Grazia Esposito

Psicologa Clinica Psicoterapeuta

QUANDO SI MEDITA E’ MEGLIO RESPIRARE ATTRAVERSO IL NASO O LA BOCCA?

La prima caratteristica che si evidenzia  in tutte le tecniche di respirazione, sia occidentali sia orientali, è che preferiscono il coinvolgimento della via respiratoria nasale piuttosto che quella della bocca.

Nella letteratura  indiana è riportato che “solo quando i canali nasali sono liberi è possibile controllare il Prana (l’energia vitale)” indicando che i nadi (canali energetici) delle narici sono di grande importanza per il controllo del Prana.

Anche la  letteratura scientifica occidentale ha rilevato la presenza di un meccanismo neurofisiologico presente nelle narici capace di indurre il rilassamento.

E’ stato dimostrato che sull’epitelio delle narici ci sono dei recettori in grado di rispondere alla pressione esercitata dall’aria durante il suo passaggio e che questi recettori stimolano la corteccia piriforme e orbi frontale. Ciò significa che l’inspirazione nasale migliora le prestazioni cognitive, il riconoscimento emotivo e la memoria episodica (Zelano et all). Gli studi di Herrero et all hanno dimostrato che prestare attenzione al respiro incrementa la coerenza tra respiro e attività elettrica intracranica. Queste ultime scoperte sono interessanti, perché dimostrano che le tecniche di respirazione nasale sono in grado di influenzare aree cerebrali differenti dall’elaborazione olfattiva, e che sono legate allo stato di coscienza.

Due studi svolti presso l’università di Pisa hanno dimostrato che le informazioni provenienti dall’epitelio nasale arrivavano alla corteccia orbito frontale (principale proiezione del bulbo olfattivo) e da qui si spostavano verso la corteccia cingolata posteriore (coinvolta negli stati di coscienza legati al sonno) (Piarulli et all). Ciò prova che la respirazione lenta e ritmica è in grado di modificare lo stato di coscienza.

Un secondo studio ha indagato l’effetto della tecnica di Respirazione quadrata, caratterizzata da fasi respiratorie di eguale durata, sia svolta attraverso il naso, sia attraverso la bocca. Anche questo studio ha verificato che la respirazione nasale ha effetti sulla coscienza, riducendo l’arousal, implementando l’attività immaginativa. Al contrario la respirazione attraverso la bocca non aveva effetti sulle funzioni cerebrali.

Respirare con il naso ha degli immediati effetti sulla respirazione stessa, che si fa più lenta e sull’attivazione del Sistema Parasimpatico, quello legato agli stati di calma e quiete. Inoltre portare volontariamente l’attenzione sul respiro, lasciando andare i distrattori (pensieri, immagini, sensazioni emotive e fisiche) e riorientando continuamente la propria attenzione al respiro riduce l’attività del Default mode network: un insieme di aree coinvolte nell’elaborazione autoreferenziale (Sé narrativo) e che si ritiene che sia coinvolta nelle esperienze simil mistiche.

Fonte: Meditazione, mindfulness e neurosceinze,a cura di M. Ghilardi e A. Palmieri ed Mimesis

 

Dott.ssa Luigina Pugno

Psicologa – Psicoterapeuta

LOVE BOMBING: I 5 SEGNALI PER RICONOSCERE SE SEI MANIPOLAT*

Negli ultimi anni si è diffuso sempre di più il termine love bombing.

Cos’è?

Il love bombing è un termine inglese per indicare una specifica modalità che viene messa in atto da una persona narcisista nei confronti della sua vittima: il bombardamento amoroso.

Questo “bombardamento” non ha nulla di pacifico e/o romantico perché risulta essere a tutti gli effetti una strategia di adescamento.

Di solito, il love bombing viene utilizzato all’inizio di una relazione sentimentale e questo rende più complesso identificarlo come tecnica manipolativa e quindi tossica.

Ma come inizia tutto ciò?

Chi utilizza il love bombing farà sentire unica la persona prescelta, creerà momenti indimenticabili, mai vissuti prima e conditi con emozioni che travolgono e lasciano senza respiro.

Insomma, si viene manipolati attraverso dimostrazioni di affetto, presenza e amore esagerati. Inizialmente il love bombing non viene subito percepito così dalla vittima. Questo perché il periodo in cui vengono poste queste “attenzioni speciali” è l’inizio della relazione, ovvero durante la luna di miele dove tutto è FANTASTICO.

Un altro aspetto poco riconosciuto è che inizialmente il narcisista riserva alla sua vittima delle attenzioni fuori dal comune, gioca in altre parole con le sue debolezze.

Queste modalità sono delle vere e proprie trappole emotive in cui il partner narcisista si mostra come il “principe azzurro”.

Come distinguere, però, il normale periodo iniziale di una relazione, tutto cuori e stelline, dalla manipolazione del love bombing?

Ecco cinque segnali per identificare se sei vittima di love bombing:

1) Fretta eccessiva

Il narcisista deve bruciare le tappe, entrare nel cuore del/la partner in modo subitaneo. Fa spesso promesse e proposte esagerate, si proietta e fa proiettare l’altra persona in un futuro roseo, unico e mai vissuto prima. Grazie a questa fretta e a questo bombardamento il rischio che corre la vittima è quella di sentirsi messa sotto scacco e non riuscire a scegliere quale direzione vuole dare alla relazione, sentendosi impotente e intrappolata.

Questo è il primo campanello di allarme: la relazione, così come il sentimento amoroso, ha necessità di tempo per svilupparsi. Se avviene tutto in un tempo breve è poco realistico come lo è il fatto di fare progetti futuri grandiosi senza averlo condiviso e progettato con l’altra persona (soprattutto se la vittima non ne ha mai parlato).

2) Esagerazione ed ostentazione

Regali, complimenti, manifestazioni di affetto, gesti di attenzione etc. fanno piacere a tutti e sono in una certa misura naturali all’interno di una relazione sentimentale, soprattutto nelle sue fasi iniziali. In questo quadro, però, l’aggettivo da tenere a mente è ECCESSIVO. Doni esagerati, complimenti e gesti di affetto sopra le righe sono i campanelli d’allarme che devono solleciatare attenzione.

La motivazione di questi comportamenti è quella di comprare l’amore dell’altro in modo strumentale per far cadere nella propria trappola la vittima e conquistarne più agevolmente la fiducia.

3) Anime gemelle, destino di amore eterno e amore a prima vista

Sono tutte trappole narrative per ottenere sempre e soltanto una cosa sola: confondere la vittima per ottenere fuducia, apprezzamento e controllo. Anche in questo caso la variabile da tenere a mente è la velocità con cui avviene tutto quanto.

4) Montagne russe emotive

Dalle stelle alle stalle in poco tempo. Stabilità e serenità di coppia sono soltanto apparenti e sono solamente create in modo strumentale per far sentire l’altra persone speciale e meravigliosa, ma nel giro di poco tempo verrà svalutata e umiliata.

5) Senso di colpa

La chiusura del cerchio avviene proprio facendo sentire in colpa il/la partner perché non si sente abbastanza considerat*. Vengono, così, riversati addosso al/la partner in modo smisurato e irruento rabbia, svalutazione e controllo dell’altro/a. Tutto questo per far leva sulla colpa che la vittima sente e prova per far si che non si allontani/pensi a sé ma colpi il vuoto che il/la narcisista sente.

Perché stare attenti a questi indizi?

Il/la narcisista incomincia la relazione mostrandosi come attent*, comprensiv* e affettuos* operandosi per accelerare i tempi della relazione. Riconoscere questi segnali può essere faticoso poiché la prima fase di una relazione con un/a narcisista è molto simile a quella “totalizzante” vissuta da tutti. Il segreto, come abbiamo visto, però, è riconoscere che è tutto troppo veloce e troppo bello (per essere vero).

Se ti ritrovi in questi indizi converebbe tenere gli occhi bene aperti: corri il rischio di finire in una relazione tossica. Una volta iniziata è molto più complesso tirarsene fuori.

Dott. Gilberto Kalman

Psicologo – Psicoterapeuta

IL SOTTILE CONFINE TRA IL MANGIARE SANO E L’ORTORESSIA

Nel corso degli ultimi anni l’attenzione rispetto al tema dell’alimentazione è progressivamente aumentata, portando una parte più ampia della popolazione ad interrogarsi frequentemente sulla qualità della propria dieta, anche su suggerimento medico.
Nella società del benessere, l’abbondanza e di cibo e la sua facile accessibilità hanno portato molta attenzione su come ognuno di noi si rapporta al mangiare, facendo emergere una grande sfaccettatura di approcci diversi alla nutrizione, alcuni sani, altri patologici, altri talvolta patologici mascherati da sani: cosa si intende?
Il cibo è uno strumento di sostentamento per la sopravvivenza, ma è anche indubbiamente un rituale sociale, a volte uno strumento di consolazione per la gestione delle proprie emozioni, altre una prova di volontà per mantenere il controllo su di se’.
L’ iperfocalizzazione sul mantenere una sana alimentazione viene alimentata, soprattutto negli ultimi anni, dal proliferare di protocolli alimentari forniti gratuitamente o a pagamento attraverso la Rete e i Social Network, creando una maggiore attenzione sull’argomento, ma anche la diffusione di informazioni spesso non scientificamente verificate e false credenze. Questo meccanismo ha avuto l’effetto di accrescere un’ossessione per gli alimenti giusti e sbagliati e per la diffusione di stili alimentari restrittivi, sotto forma di varie tipologie di diete, più o meno ipocaloriche, fino ad approdare anche a veri e propri digiuni.
Perdersi all’interno di questo labirinto è davvero facile, soprattutto se non si è degli specialisti del settore e, all’interno di questo contesto, la linea di confine tra regimi alimentari sani e patologici, diventa sempre più sfumata: è pertanto davvero sottile la demarcazione tra alimentazione salutare e patologia, come nel caso dell’ortoressia.
L’ortoressia nervosa, termine che deriva dal greco Orthos (giusto) e Orexis (appetito), viene descritta per la prima volta nel 1997 dal medico Steven Bratman e si configura nella condizione caratterizzata da un’ossessione patologica rispetto all’assunzione esclusiva di cibo sano.
Il desiderio di mangiare sano non è di per sé un disturbo dell’alimentazione: chi soffre di questa patologia però è controllato da un vero e proprio fanatismo alimentare, si verifica quando l’attenzione per la qualità del cibo assume le caratteristiche tipiche di un’ossessione, risultando pervasiva e costante, con significative ripercussioni negative e durature sulla qualità di vita dell’individuo.
La persona affetta da ortoressia arriva ad investire molto tempo della propria giornata a pensare al cibo, a quali alimenti evitare, a selezionarli e a prepararli, al fine di mantenere una buona condizione di salute, tanto da arrivare talvolta a sviluppare un complesso di superiorità basato sul cibo, che lo porta a disprezzare chi non mangia sano e allontanarlo dalla propria rete relazionale.
I pensieri intrusivi e ricorrenti sono esplicitamente relativi al cibo e alla salute, alla preoccupazione profonda per il rischio di contaminazione e impurità e al forte bisogno di organizzare e consumare i pasti secondo modalità ritualistiche. In modo analogo a quanto si verifica nei casi di DOC infatti, l’Ortoressia Nervosa influisce negativamente sulla qualità di vita degli individui, determinando un progressivo isolamento dall’ambiente sociale e una costante difficoltà nel portare a termine i compiti della vita quotidiana. Ciò che distingue l’Ortoressia dal Disturbo Ossessivo-Compulsivo è la natura egosintonica dei pensieri ossessivi: gli ortoressici percepiscono infatti i contenuti delle proprie ossessioni, relativi alla qualità del cibo, come coerenti e in linea con i propri bisogni, credenze e valori.
In genere la patologia si sviluppa all’interno in un contesto che rinforza l’idea che alimentarsi in modo sano, concetto culturalmente accettato e condivisibile, persegua un’idea di salute e di bellezza: pertanto all’inizio è facile scambiare l’insorgenza dell’ortoressia con un semplice e benefico prendersi cura della propria salute correggendo comportamenti alimentari errati.

Alla base dell’insorgere della deriva patologica si riscontra spesso la paura di ingrassare o di non essere in perfetta salute (ipocondria), talvolta connesse ad una percezione distorta della propria immagine corporea: è la paura ad assumere le caratteristiche di una vera ossessione per il cibo, il quale perde la sua funzione di appagamento e diventa un veicolo per esercitare controllo e alleviare la tensione.
Le maggiori cause dell’ortoressia riguardano principalmente il bombardamento mediatico a cui siamo sottoposti. Da una parte i modelli estetici dei mass media, spingono sempre di più le persone verso fisici innaturali (troppo magri e/o muscolosi), portando al sentirsi inadeguati ed esteticamente poco gradevoli.
Inoltre televisione, internet, canali on line, insistono sempre di più sulla possibile pericolosità del cibo (antibiotici, pesticidi, ormoni, conservanti, ecc.) creando ansie e preoccupazioni per la propria salute. Tuttavia, anche se bisognerà tenere alta l’attenzione per una miglior qualità degli alimenti, dobbiamo ricordarci che i cibi non sono mai stati controllati e sicuri come ai giorni nostri. Anche se il consumatore si sente sempre di più minacciato dagli interessi delle multinazionali del cibo, a livello normativo le regole, soprattutto in Europa, sono sempre più stringenti e severe. Questa falsa percezione di pericolo, porta molte persone a preoccuparsi eccessivamente della qualità del cibo, escludendo a priori e senza ragione, alcune categorie di alimenti. L’ipocondria e la paura di ammalarsi sono inoltre spesso ulteriori cause dell’ortoressia. Se il cibo ha una relazione diretta con la nostra salute, questo dipende sia dalla qualità, ma soprattutto dalla quantità. Non sono gli zuccheri o i grassi ad essere pericolosi di per sé, ma un loro consumo in eccesso: non servirebbe eliminarli completamente ma moderarli, senza ricorrere a restrizioni inutili.
Oggi sono largamente diffusi regimi alimentari diversi dal più diffuso onnivorismo, come il vegetarianismo e il veganismo, i quali quando seguiti e studiati in modo scientifico, gestiti da professionisti della nutrizione, sono in grado di conferire all’individuo un piano alimentare completo in cui sono presenti tutte le sostanze nutritive di cui l’essere umano ha bisogno per mantenere equilibrati e corretti i propri parametri di salute. Tuttavia è stato rilevato come queste scelte alimentari, più di altre, rischino, quando non vi sia conoscenza approfondita o siano presenti preconcetti ideologici di negazione di alcuni cibi, di diventare un fattore di rischio per lo sviluppo dell’ortoressia.
Il vegetarianismo è una scelta alimentare caratterizzata dall’esclusione delle carni di qualsiasi animale, che può avere alla base motivazioni etiche, principi religiosi, attenzione all’ambiente e alla salute. All’interno di questa pratica alcune persone scelgono regimi alimentari ancora più restrittivi tra i quali si distinguono poi delle sottocategorie, come il veganismo, il crudismo vegano e il fruttarismo. Hanno in comune l’esclusione di alcuni alimenti dalla dieta, differenziandosi però nella scelta di quali includere e quali no: il veganismo rifiuta qualsiasi forma di sfruttamento animale, dunque non comprende nella dieta alimentare né la carne, né i prodotti di origine animale; il crudismo vegano aggiunge al veganismo la limitazione ai soli cibi crudi, o cotti al di sotto dei 42°, perché più ecologici, più sani e più facilmente digeribili; il fruttarismo, invece, prevede un’alimentazione di sola frutta e ortaggi .
Quest’ultimo stile alimentare è associato, ancora più frequentemente dei precedenti, ad una vera e propria filosofia di vita connessa con un ritorno alle origini, secondo la quale è necessaria una maggiore attenzione alle richieste del corpo e la valorizzazione dell’istintualità. Quelle citate sono pratiche del tutto riconosciute e socialmente accettate, sempre più supportate da studi che ne dimostrano la sostenibilità e non rappresentano patologia.
Ciò su cui ci si intende soffermare però è la possibilità che dietro a stili alimentari legittimati dal contesto socio-culturale si possano nascondere situazioni che esulano da uno stile di vita consapevole e che piuttosto riguardino un rapporto problematico con il cibo. E’ necessario mantenere l’attenzione sulla linea sottile esistente tra una scelta sana e un utilizzo “strumentale” del cibo al fine di sostenere, più o meno consapevolmente, problematiche emotive: è infatti più frequente, all’interno della popolazione che intraprende queste tipologie di stili alimentari, che emergano a lungo termine disturbi legati all’alimentazione e alla salute fisica.

Ma, allora, come è possibile distinguere una scelta alimentare sana da una patologica? Quando uno stile alimentare può essere considerato “normale”?
E’ impossibile discriminare in modo dicotomico tra sanità e patologia. È però possibile cogliere la problematicità e la disfunzionalità di alcune situazioni in base al grado di flessibilità che propongono: un comportamento alimentare può essere considerato patologico quanto più assume caratteristiche di rigidità, pertanto la differenza starà nella modalità con cui viene messo in atto, nel significato che gli si attribuisce, nei simboli che il cibo veicola. È importante quindi interrogarsi sulla funzione specifica che il cibo ricopre e porre attenzione a quei comportamenti che, seppure comuni o condivisi, possono essere importanti segnali, se colti in tempo.
Lo scivolamento verso l’isolamento sociale è spesso un vero campanello d’allarme, in quanto esito di una scelta di vita rigida, che non può essere condivisa da chi non ha le stesse abitudini, che limita la compartecipazione al momento del consumo del cibo e fa emergere un atteggiamento di intolleranza verso chi non condivide le proprie scelte ideologiche, arrivando ad eliminare anche un semplice aperitivo o una pausa caffè.
Le persone che si affacciano alla patologia ortoressica, iniziano a mettere in atto moltissimi comportamenti di evitamento, inventando scuse di circostanza fino al rendere impossibile andare al ristorante o accettare un invito a cena: l’attenzione maniacale alla qualità del cibo diventa un valore morale, compromettendo le relazioni sociali, lavorative e affettive e minando il funzionamento globale e il benessere dell’individuo, oltre che il proprio benessere fisico.
Nelle persone ortoressiche il cibo si associa spesso a pratiche sportive frequenti, pianificate rigorosamente e talvolta estenuanti. Allenamenti e cibo diventano strumento per definire il proprio senso di identità, ma allo stesso tempo, per via del rigido controllo che richiedono, tendono a condurre la persona verso l’isolamento sociale e alla compromissione della vita relazionale e talvolta lavorativa. Il mantenimento della forma fisica e del regime alimentare restrittivo, inducono a sperimentare un senso di superiorità rispetto agli altri, viceversa in caso di sgarro o di discontrollo l’acuirsi di sentimenti di colpa e fallimento, spesso mascherati da una ricerca del limite come sfida con se stessi in termini di ambizione agonistica.
Il grande paradosso è che partendo dall’idea di voler tutelare la propria salute attraverso cibo sano e attività fisica, queste persone arrivano a depauperare il proprio stato di salute, procurandosi squilibri nutrizionali e complicazione mediche.
Quando diagnosticata, la cura dell’ortoressia non è affatto semplice: alla luce della ferma convinzione di agire in modo corretto, le persone che soffrono di questa patologia sono estremamente sicure delle loro convinzioni, che diventano veri e propri ideali di purezza interiore. Il loro senso di superiorità nei confronti di chi non esercita un simile autocontrollo, il rifiuto nel riconoscere il loro problema porta a non investire e impegnarsi attivamente nel trattamento.
Un trattamento efficace pertanto deve essere graduale e procedere, da un lato, attraverso un lavoro sulle emozioni (in particolare, sulle paure di contaminazione e di malattia che mantengono l’ossessione) e, dall’altro, una reintroduzione dei componenti alimentari eliminati, puntando anche su eventuali malesseri fisici che possono essere causati dalla dieta squilibrata. E’ indispensabile che chi soffre di ortoressia si riappropri di una corretta percezione del proprio corpo, affinché questo non venga più privato di nessun principio nutrizionale, soprattutto quelli contenuti in dolci e grassi (può essere utile sottolineare l’importanza della tradizionale piramide degli alimenti per l’equilibrio alimentare).

Riguardo la tipologia di trattamento, esistono evidenze scientifiche di esiti positivi con l’utilizzo di trattamenti combinati di psicoterapia cognitivo-comportamentale e farmaci inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) (Bryteck-Matera, 2012), tuttavia il rischio di drop out è elevato. Il trattamento dell’ortoressia dovrebbe avvalersi di un’équipe multidisciplinare composta da psicoterapeuti, medici e dietisti, attraverso un’azione integrata tra il paziente e la famiglia.

Dott.ssa Consuelo Aringhieri

Psicologa – Psicoterapeuta

IL MASSAGGIO SHANTALA

Tra il giorno e la notte non indugia forse l’alba 

e la lenta, maestosa gloria dell’aurora?

Lasciate alla nascita la sua lentezza e la sua gravità

(F. Leboyer)

È noto oramai da tempo l’importanza del tocco e dell’abbraccio nei confronti dei bambini e, per la verità dei “cuccioli” in genere: si pensi al leccamento che gli animali riservano ai loro cuccioli, cos’è se non una forma di carezza?!

Nell’ambito degli studi psicanalitici Donald Winnicott è stato il primo a definire tra i ruoli della funzione materna la cura del bambino proprio attraverso il tocco e le mani. Secondo Winnicott, infatti, la formazione e crescita del Sé oltre ché l’adeguata coesione psiche-soma passa attraverso l’esperienza tattile. Sono le capacità materne di tenere in braccio il bambino (holding) e la capacità di toccarlo e manipolarlo (handling) che consentono l’acquisizione e l’elaborazione delle esperienze sensoriali e motorie che andranno a costituire la base del vero Sé.

L’holding comprende quelle attività quali tenere in braccio il bambino mentre lo si allatta, cullarlo mentre lo si addormenta, insomma il contenimento fisico che diventerà poi conseguentemente anche contenimento emotivo. L’handling è per l’autore inglese un toccare meno stretto e coinvolgente che ritroviamo in tutti quei gesti con le mani che la madre compie quando si prende cura del suo bambino, quando lo veste, lo accarezza, lo lava. 

Per comprendere ancor meglio l’importanza di toccare e contenere i neonati con gesti delicati, ma avvolgenti basta provare ad immaginare le sensazioni che il bambino sperimenta per 9 mesi e che poi si interrompono bruscamente per catapultarlo in un mondo totalmente nuovo e a tratti spaventoso. 

Il tepore uterino, le luci e i suoni offuscati, il lento cullare dei movimenti materni, lasciano improvvisamente spazio a sensazioni mai sperimentate e a tratti violente. Nell’utero il neonato è protetto, avvolto, coccolato, al di fuori la perdita del confine conosciuto, determina un forte stress che, per esempio, i neonati pretermine conoscono molto bene. Numerose ricerche hanno evidenziato come il contatto pelle a pelle, il contenimento e la vicinanza fisica migliorano nei neonati ospedalizzati le principali funzioni vitali (attività cardiocircolatoria, respiratoria, neuromotoria e sensoriale, digestiva, dell’organizzazione del sonno).

Frederick Leboyer è il ginecologo francese che ha introdotto in sala parto pratiche dolci per agevolare il più possibile il contatto mamma bambino ed ha per primo sottolineato in occidente l’importanza del contatto fisico e del massaggio infantile sin dai primi momenti dopo il parto. 

I piccoli hanno bisogno di latte – diceva – ma più ancora di essere amati e di ricevere carezze come modo per ristabilire l’equilibrio che c’era prima nella nascita, per fare ri-sentire al bambino quel calore, quel contatto, quel senso di appartenenza sperimentati nel grembo materno. 

Nel libro “Shantala. L’arte del massaggio indiano per far crescere i bambini felici”, Leboyer parla della donna che vide praticare il massaggio Balabhyangam, tratto dalla tradizione indiana e dalla medicina ayurvedica.

Il massaggio che oggi viene solitamente chiamato proprio col nome di quella donna – Shantala – è una forma di massaggio molto delicato, in cui si compiono una serie di movimenti lenti e rilassati proprio per ricreare quelle dolci sensazioni e quel legame presente nella vita intrauterina. 

Gli effetti benèfici riscontrati riguardano la diade caregiver/bambino facilitando la creazione del legame e di momenti rilassanti e positivi per entrambi. Il massaggio, infatti, sia per chi lo riceve che per chi lo pratica aumenta la produzione di ormoni quali endorfine e ossitocina che favoriscono sensazioni positive e abbassano il livello di stress percepito. 

Tutto questo favorisce nel bambino il rilassamento profondo, la regolazione del ritmo sonno veglia, la prevenzione delle coliche gassose, il rafforzamento del sistema cardiocircolatorio e immunitario oltre che lo sviluppo della percezione di sé e il senso di sicurezza interno. 

Può essere praticato sin dai primi giorni dopo la nascita, anche se può essere più indicato aspettare almeno dopo il primo mese, anche per permettere la completa cicatrizzazione del cordone ombelicale. Non richiede una durata determinata, anzi sarà proprio il bimbo a darci indicazioni su questo, manifestando qualche volta una maggiore attitudine altre volte un netto rifiuto. Come dicevamo non richiede nemmeno uno studio preciso di movimenti da praticare, ma piuttosto un assetto mentale in cui porsi. 

L’Associazione Eco all’interno del suo Progetto “Mentre aspetto te, mi prendo cura di me”, proporrà alle neomamme incontri in piccoli gruppi dove poter non solo apprendere il massaggio Shantala, ma anche ritrovare uno spazio dove sentirsi accolte e ascoltate. 

Dott.ssa Chiara Delia

Psicologa – Psicoterapeuta

DALLA SEPARAZIONE ALLA FAMIGLIA ALLARGATA

“Cari genitori separati, Non usate i figli come ostaggio”

Papa Francesco

 

Le separazioni legali rappresentano ancora oggi in Italia il fenomeno più rappresentativo dell’instabilità coniugale. Nei primi nove mesi del 2021 l’aumento rispetto allo stesso periodo del 2020 (+36,4% per le separazioni e +32,8% per i divorzi) riporta a livelli simili a quelli del 2019 annullando gli effetti della pandemia che avevano visto una riduzione.

Secondo Robert Neuburger (2004), se qualche decennio fa promettersi fedeltà “finché morte non ci separi” implicava un impegno limitato nel tempo a causa dell’alto tasso di mortalità, oggi, invece la promessa di una relazione stabile, si proietta in un futuro a lungo termine, sulla base delle aumentate aspettative di vita. Pertanto è plausibile che molte coppie entrino in crisi: può succedere subito (un picco delle separazioni si registrano già nel primo anno), in corrispondenza del fatidico settimo anno oppure più tardi, quando l’emancipazione dei figli porta la coppia a fare i conti con il cosiddetto “nido vuoto” quel passaggio  in cui vede esaurirsi la funzione di coppia genitoriale per fare spazio nuovamente a quel “tu e io”della coppia conuigale (Cirillo, 2018).

In funzione delle situazioni in cui la coppia viene a trovarsi è auspicabile e doveroso che i genitori si interroghino sulle conseguenze che la separazione potrà avere sui propri figli, soprattutto se ancora piccoli. La separazione se da una parte può essere vissuta con un profondo senso di fallimento per il progetto in cui ciascuno aveva creduto e investito, dall’altra può essere vista anche come una risoluzione magica offrendo a sé stessi e ai propri figli un nuovo legame, privo delle caratteristiche negative di quello attuale.

Una prospettiva del genere può rivelarsi estremante dannosa, non si può delegare al “nuovo” partner la risoluzione dei propri problemi esistenziali, al contrario si corre il rischio trascinare i figli in una situazione altrettanto dolorosa. E’ logico e umano coltivare la speranza di un futuro migliore, ma ciò si potrà raggiungere solo se si ha la consapevolezza della propria parte di responsabilità nella fine della relazione.

Ogni separazione ha in se una componente più o meno intensa di aggressività, che come un carburante alimenta il difficile processo separativo, se così non fosse non ci si separerebbe. Tuttavia, sopratutto in presenza di figli, è bene allargare l’orizzonte ricordando anche i momenti positivi che hanno caratterizzato la relazione (Cirillo, 1989). Riguardate con i bambini le fotografie dei momenti felici che avete vissuto tutti insieme per ricordare a loro che sono frutto di questi momenti e soprattutto non abbiate paura che i bambini piangano, siano tristi e arrabbiati: è una tappa che devono attraversare. Devono elaborare il lutto della famiglia unita per poterla lasciare andare.

Quando dirlo?

L’annuncio della separazione deve essere accuratamente ponderato dai genitori. Infatti, non si può agire pensando di poter tornare sui propri passi o farlo per valutare la reazione dei propri figli. Dopo aver dato la comunicazione, occorre comportarsi di conseguenza evitando oscillazioni destabilizzanti. Pertanto se la coppia sta ancora tentando di gestire la crisi è bene mantenere la discrezione per non coinvolgere i figli nel conflitto.   

Molti genitori tendono a procrastinare la comunicazione in vista delle condizioni adatte e pensando che i figli non si accorgano della situazione in atto. Al contrario, i bambini vivono la quotidianità familiare e, dunque, si rendono conto se qualcosa sta cambiando. Sono abili osservatori e percepiscono i mutamenti nel clima familiare e nei comportamenti non verbali.

Prima di comunicare la separazione, è fondamentale che i genitori si accordino su come farlo, mettendo da parte il rancore e la tristezza individuali per concentrarsi sul bene dei propri figli (Cirillo, 2018).

Quando i genitori sono sicuri di volersi separare, è importante parlarne con i propri bambini, con lo scopo di chiarire la situazione prendendosi tutto il tempo necessario. I figli avranno bisogno di tempo per elaborare la notizia.

Come dirlo?

Una delle prime preoccupazioni delle coppie che hanno deciso di separarsi è in che modo comunicarlo ai figli. I genitori si sentono inevitabilmente in colpa nell’infliggere una sofferenza al proprio figlio e cercano in tutti i modi di trovare le giuste parole per cercare di attutire l’impatto di questo tipo di comunicazione. Purtroppo ciò è impossibile, ricorrere a bugie o mezze verità renderebbe ancor più dolorosa la situazione, la verità per quanto dolorosa, va detta. La separazione dovrebbe essere comunicata con chiarezza e coerenza, in termini comprensibili per l’età dei bambini e possibilmente con i genitori insieme. Questa scelta di parlare insieme rassicura implicitamente i figli che potranno contare su entrambi i genitori, i quali appaiono ai loro occhi come una squadra unita da un compito comune. Allo stesso modo anche i genitori si rafforzeranno in un’immagine positiva della loro capacità di collaborare. Non sempre però è possibile comunicare insieme la decisione di separarsi, spesso accade che la separazione è subita da uno dei due partner a seguito di comportamenti inaccettabili dell’altro, in tal caso è impensabile che il discorso ai figli venga fatto di comune accordo: è meglio che ciascuno per conto proprio comunichi la decisione presa con la consapevolezza che i figli hanno bisogno di conservare un’immagine sufficientemente positiva di entrambi i genitori, evitando così di creare possibili schieramenti.  Se analizziamo un certo numero di famiglie separate, è possibile rintracciare con una certa regolarità la seguente dinamica:

  • il genitore che è andato via, aveva un rapporto più debole con il figlio già prima della separazione;
  • il genitore che resta ha vissuto la separazione come un vero e proprio torto;
  • il bambino si assume il compito di riparare le ingiustizie proteggendo il genitore abbandonato o castigando l’altro.

Massimo Recalcati (2013) nel suo libro Il complesso di Telemaco, dice: “Non è l’assenza del padre a essere traumatica in sé stessa , dipende da come essa viene trasmessa simbolicamente dalla madre”, in generale il genitore ferito potrebbe  trasmettere tutto il suo dolore al figlio creando così un’alleanza, ma con la conseguenza ultima di avere accanto a sua volta un figlio amareggiato e irrimediabilmente ferito dalla convinzione di avere un padre irresponsabile e disinteressato. I figli non solo devono essere tenuti fuori, ma desiderano rimanere fuori dalla sfera privata dei genitori e il confine tra le generazioni va attentamente presidiato.

Accettare le emozioni negative

Precipitarsi a rassicurare il figlio che per lui non cambierà niente e che i genitori continueranno a volergli bene significa omettere che invece il cambiamento ci sarà. 

E’ importante riconoscere e accettare le emozioni negative rabbia, tristezza e paura del bambino e allo stesso tempo rassicurarlo spiegandogli chiaramente che i genitori gli resteranno accanto per aiutarlo prima a sopportare e poi, piano piano, a superare le emozioni e le difficoltà che incontrerà, senza mai minimizzare il dispiacere che sta provando in quel momento poiché la sua visione di sé inserito in una famiglia unita viene sconvolta (Cirillo,2018).

Alcuni bambini possono attribuirsi la colpa delle liti tra i genitori e della separazione. E’ quindi importante che la spiegazione sia concreta e chiara, per evitare che elaborino autonomamente un racconto. Altri possono manifestare la paura dell’abbandono per cui diventano più insicuri quando sono soli, faticano nei distacchi dai genitori e chiedono continue rassicurazioni, altri ancora possono mostrarsi indifferenti alla separazione, è bene in questi casi interrogarsi sull’autenticità dei sentimenti apparenti. Può capitare che alcuni figli mostrino disturbi nell’alimentazione, nel sonno e comportamentali, a volte compiendo delle regressioni come chiedere di dormire nel lettone.

Questi comportamenti possono essere comprensibili in funzione del periodo che stanno vivendo, ma non devono essere sottovalutati se si protraggono a lungo.

Spesso gli adulti sono convinti che le informazioni comunicate una volta vengano subito comprese e interiorizzate, ma non è così, poiché ciascuno di noi rielabora a modo proprio le informazioni che riceve. Sulla base di ciò possiamo quindi immaginarci quanto faticano i bambini a fare propria un’informazione inattesa come quella della separazione dei propri genitori.

Dove parlarne?

Spesso capita che i genitori decidano di comunicare la loro decisione in un ambiente neutro e gratificante come può essere per esempio andare a mangiare una pizza un gelato o fare una passeggiata al parco, con l’obiettivo di trasmettere serenità e quasi sminuendo quel momento specifico. Invece, il luogo migliore per questa comunicazione è casa propria, in quanto è un posto sicuro in cui i figli possono reagire spontaneamente e  non sono inibiti dalla presenza di estranei e situazioni nuove.

Sarebbe meglio non dare l’annuncio in cameretta per evitare che un luogo sicuro e personale sia invaso e conservi in sé il ricordo di quella comunicazione. Inoltre, è utile anche dare loro la possibilità di allontanarsi e chiudersi in camera propria se ne sentiranno il bisogno.

L’ago della bilancia 

I genitori spesso si illudono che il bambino non senta (“Di solito discutiamo dopo cena, quando lui è a letto”) o comunque non capisca (“è troppo piccolo per capire”), in realtà i bambini, sono attentissimi a cogliere  i segnali di malessere di mamma e papà e non per altruismo, ma per la propria sopravvivenza: è di vitale importanza che i genitori stiano bene per potersi occupare  efficacemente di loro (Cirillo, 1989).

Quando i figli si muovono su un terreno minato, la prima precauzione che imparano a prendere è quella di non raccontare mai a un genitore quello che fanno a casa dell’altro. Inoltre fino ad una certa età, i bambini si correggono se i grandi non sono contenti della loro risposta, poiché per loro non c’è  una risposta vera e una falsa, ma una giusta e una sbagliata, se una non va bene provano con l’altra (CAM, 2006). 

A scuola

Il sentimento negativo a cui sono maggiormente esposte le nuove generazioni è la vergogna, poiché una delle cose cui i bambini aspirano maggiormente a essere come gli altri, uniformarsi ai coetanei. Il genitore può fornire al proprio figlio una risposta semplice e chiara che possa soddisfare la curiosità dei suoi compagni, evitando il sentimento di vergogna (Omer, 2016). La condizione di figlio di genitori separati non è che una delle numerose varianti della famiglia umana e non una differenza che implica un giudizio di valore. Un’altra questione importante è “se” e “come” parlarne con gli insegnanti. Se la separazione avviene durante un ciclo o nell’anno scolastico è importante parlarne con gli insegnanti per evitare di esporre il bambino a commenti fuori luogo, ma allo stesso tempo è necessaria una comunicazione  di tipo neutro che si limiti ad esporre il fatto senza caricarlo di una nota drammatica che  accentuerà il senso di vergogna. In ultimo, evitate di offrire una spiegazione stereotipata per qualunque difficoltà di vostro figlio: “è distratto perché ci siamo separati,… è aggressivo con i compagni perché ci siamo separati”.

Dalla famiglia nucleare a quella allargata

Negli ultimi tempi a seguito di un separazione o divorzio, si assiste sempre di più al fenomeno sociale della famiglia allargata in cui sono presenti anche i nuovi partner dei genitori, con le loro relative famiglie, e gli eventuali figli della nuove coppie.

In altre parole, al nucleo familiare precedente si aggiungono altri membri, e questo porta alla formazione di relazione interpersonali inedite che non riguardano più solo genitori e figli, ma anche altre figure, come genitori e fratelli acquisiti. Vivere in una famiglia allargata dunque, pone molte criticità e questioni da affrontare. Costruire una famiglia allargata è un processo delicato, fondato su momenti importanti e che richiede tempo. Cercare di venire incontro ai bisogni di ciascuno, e avere predisposizione all’ascolto e alla pazienza sono i primi passi per creare un nuovo equilibrio. È di fondamentale importanza, quindi, che i genitori:

  • Abbiano un rapporto sereno e di fiducia tra di loro e con i bambini
  • Continuino a essere un punto di riferimento per i propri figli
  • Rispettino i tempi di adattamento dei propri figli.

Inoltre, per gestire una famiglia allargata è importante che nessuno dei componenti si senta escluso. Il rispetto reciproco, e il rispetto del proprio ruolo all’interno della nuova formazione familiare permettono di costruire rapporti sani e sereni e costruttivi (Van Cutsem, 1999).

Accordini, utilizza con il termine “dissincronia” per spiegare come nelle famiglie allargate, i cicli di vita familiari, coniugali e individuali siano spesso in conflitto tra di loro (Accordini, 2017).

In una “prima” famiglia, i partner arrivano insieme alla convivenza, insieme diventano genitori e insieme affrontano le sfide dell’educazione dei figli, al contrario in una famiglia allargata, i figli sono già presenti quando la coppia si forma e la neo coppia senza aver avuto la possibilità di consolidare il loro rapporto, si trova subito a dover fare delle scelte educative. Un’altra caratteristica è che spesso i due partner abbiano età differenti e che si trovino dunque in una tappa differente della propria evoluzione personale, per esempio l’aver avuto figli riguarda quasi sempre uno solo dei due per cui la genitorialità non solo precede la formazione della coppia ma spesso non è neanche un’esperienza condivisa. In presenza di figli provenienti da legami precedenti, le nuove unioni si muovono su equilibrio delicatissimo, tra la capacità del nuovo arrivato di saper stare al proprio posto, rispettando il ruolo del genitore “vero” e il desiderio di stabilire una relazione affettiva con il figlio del partner, trovando la giusta misura di coinvolgimento, né troppo né troppo poco.

L’esperienza mostra come le donne si lascino coinvolgere di più nella relazione con il figlio del partner, quasi volendosi sostituire alla mamma in una specie di competizione tra donne, gli uomini invece, sono più inclini a mantenere una certa distanza e indifferenza. In questi casi, è possibile assistere a crisi di gelosia dell’uomo nei confronti del legame che la compagna mantiene con il figlio. Per questo è fondamentale in presenza di figli, scegliere un compagno che abbia il desiderio di svolgere un ruolo genitoriale. 

Una famiglia allargata necessita di confini flessibili che tengano conto di tutti i membri e della nuova costituzione ma che allo stesso tempo quando è necessario sappia riconoscere e rispettare l’identità dei due nuclei originari, solo questa flessibilità potrà legittimare l’esistenza della famiglia allargata che si è andata a formare.

 

Dott.ssa Angela Pia Giampalmo

Psicologa- Psicoterapeuta

BIBLIOGRAFIA

  • Accordini, M., La specificità della famiglia ricomposta, in Vetere, M., La sfida delle famiglie ricomposte. Un modello di intervento clinico, Roma, Alpes Italia, 2017.
  • CAM-Centro ausiliario per problemi minorili. I figli dei genitori separati. Ricerca e contributi sull’affidamento e la conflittualità. Milano, Franco Angeli, 2006.
  • Cirillo, S., Le famiglie allargate. Separazioni, divorzi e nuove unioni. Le letture di Gedi, Roma 2018.
  • Cirillo, S., e Di Blasio, P., La famiglia maltrattante. Diagnosi e terapia. Milano, Raffaello Cortina, 1989.
  • Neuburger, R., Nouveaux couples, Parigi, Editions OdileJacob, 2004.
  • Omer, H., La nuova autorità. Famiglia, scuola e comunità, Milano ed. Ermes, 2016.
  • Recalcati, M., Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre. Milano, Feltrinelli, 2013.
  • Van Cutsem, C., Le famiglie ricomposte. Un modello di intervento clinico, Roma, AlpesItalia, 2017.

LA PIGRIZIA ESISTE?

La pigrizia andò al mercato

ed un cavolo comprò.

Mezzogiorno era suonato

quando a casa ritornò.

Mise lacqua, accese il fuoco,

si sedette e riposò.

Mentre il sole a poco a poco

dietro i monti tramontò.

Così, persa ormai la lena,

sola al buio ella restò

ed a letto senza cena

la meschina se ne andò.

E. Berni

Nel mio lavoro di psicoterapeuta, mi capita spessissimo di imbattermi nel concetto di pigrizia. Molti miei pazienti hanno la convinzione di essere pigri e che per questo loro “difetto” non riescono a stare al passo con le richieste del lavoro, della casa, della società. Si sentono perdenti nel confronto con gli altri che invece sembrano più “performanti”.

Ho sempre trovato interessante il concetto di pigrizia e il fatto che, comunemente, venga associato ad una sorta di difetto di nascita.

Lo possiamo vedere anche nelle definizioni della Treccani:

pigrìzia s. f. [dal lat. pigritia, der. di piger «pigro»]. – Il fatto d’esser pigro; la qualità, e quindi anche l’atteggiamento, il comportamento di chi è naturalmente pigro nell’agire, nell’operare, o anche soltanto nel muoversi

pigro agg. [dal lat. piger -gra -grum]. – 1. a. Di persona che, per natura, rifugge dalla fatica, dallo sforzo, dall’impegno fisico o intellettuale, e dall’azione in genere, o che agisce e opera con lentezza e senza entusiasmo

Pigri lo si è per “natura”, dunque, ma al contempo si viene biasimati per questo, come se ci si dovesse sforzare di invertire questa stortura. 

Questa visione mi ha sempre convinta poco, perché mi dava l’impressione che cozzasse con l’evoluzione della specie. Dubito che in natura ci sia spazio per un’indole pigra: l’agire umano, di solito, è teso alla sopravvivenza e la pigrizia non è funzionale. Inoltre, fin da piccolo il cucciolo d’uomo è caratterizzato dalla curiosità: il suo modo di crescere e maturare è sostanzialmente legato al fare esperienza del mondo e delle sue leggi e, se osserviamo i neonati, possiamo vedere chiaramente questa tensione verso il comprendere, il collegare, l’esperire. Così come si coglie chiaramente la soddisfazione che traggono dal saper fare e dal mostrarlo agli altri.

Dopodiché l’uomo tende anche a riposarsi, è vero, ma anche questo è funzionale alla sopravvivenza. Col riposo, assolviamo ad una serie di compiti fondamentali al nostro organismo e alla nostra mente. Non ultimo, il fatto che mentre dormiamo riorganizziamo le informazioni e le esperienze appena raccolte e le immagazziniamo, aggiungendo conoscenza ai nostri modelli del mondo. Pertanto dormire, rientra in parte nel processo di apprendimento! 

Tuttavia, quando parliamo di persona pigra, di solito non intendiamo una persona che dorme molto, piuttosto una che, come dice la Treccani, rifugge dalla fatica e dallo sforzo. 

Da psicologa tendo a interrogarmi su ciò che guida o non guida l’agire umano e dunque questo aspetto del voler fuggire da un’esperienza di frustrazione mi ha attivata e ho cominciato a chiedermi quand’è che le persone, invece, affrontano la fatica e lo sforzo con buona lena. Di solito, avviene quando sono molto motivate. Quando la motivazione è sufficientemente alta, le persone manifestano una tenacia e una resistenza notevoli, anche di fronte ad ostacoli importanti. 

È possibile dunque che la pigrizia sia più semplicemente mancanza di motivazione? E che la mancanza di motivazione porti a tralasciare o rimandare un compito percepito come frustrante? E in tal caso non potremmo allora forse, più propriamente, chiamare la pigrizia procrastinazione?

Ho fatto un po’ di ricerche per verificare questa ipotesi e ho avuto, innanzitutto, conferma del fatto che l’essere umano ha una naturale tendenza ad agire, produrre e scoprire, perché questo è funzionale alla sua crescita e alla sua sopravvivenza. A ciò si aggiunge, anche, il naturale bisogno di gratificazione e di approvazione per i risultati raggiunti. Questa spinta fa parte della Piramide dei bisogni di base di Maslow e ci ricorda che la tendenza a produrre non riguarda solo noi come individui, ma anche la nostra rete sociale perché il progresso di uno è il progresso di tutti. Forse è proprio per questo che, storicamente, la pigrizia si accompagna al biasimo sociale. 

Se ci pensiamo, il cattolicesimo l’ha inserita col termine accidia nei 7 peccati capitali, in quanto le persone accidiose rifiutano la vita, si lasciano andare alla noia, all’inerzia, al non far nulla, non mettono a frutto i propri doni. E questo era considerato un torto verso Dio e verso gli altri.

L’operosità, invece, è sempre stata ritenuta una virtù da lodare. La fatica, il lavoro, avvicinavano l’uomo a Dio e lo facevano entrare nelle sue grazie. Ci portiamo uno strascico di questa visione quando nelle società occidentali giudichiamo negativamente la moralità delle persone povere, bollandole appunto come pigre, indolenti, con poca voglia di lavorare e di elevarsi dalla loro condizione. In questo c’è molto del capitalismo, ovviamente, ma il capitalismo ha a sua volta in sé molto della morale calvinista che porta il ragionamento all’estremo: chi lavora e ha successo è stato baciato dalla benevolenza di Dio; chi è povero è fuori dalla grazia divina per i suoi peccati ed è dunque macchiato da un difetto morale, causa della sua condizione. 

Tralasciando gli aspetti religiosi, è innegabile che esser bollati come pigri risulti ancora oggi una condanna. I bambini che faticano nel fare i compiti e vengono tacciati di pigrizia, finiscono per perdere ancora più la motivazione. Se le difficoltà che sperimentano sono già frustranti, veder misconosciuto il problema o l’impegno aggrava la perdita di motivazione e così la nomea di indolente diventa una profezia che si autoavvera.

La stessa cosa succede quando siamo noi stessi a chiamarci pigri, magari perché condizionati dalla facilità con cui affibbiamo questo aggettivo anche agli altri. “Se non riesco, se faccio fatica, se non sento la spinta è perché ho un difetto di nascita: sono pigro. E dovrei sforzarmi di lottare contro questa mia natura, ma poiché sono pigro rifuggo dalla fatica e allora non posso cambiare”. Questa è una visione paralizzante per chiunque, toglie spazio a qualsiasi tensione verso un miglioramento; è una condanna alla quale non si può sfuggire. 

Quanto cambia se invece escludiamo la pigrizia dal quadro e ipotizziamo che se non riusciamo, facciamo fatica, non sentiamo la spinta forse è perché manca qualcosa? Se c’è una mancanza, c’è un bisogno. Questa è una visione che apre a delle domande: “cosa mi manca? di cosa ho bisogno? come posso colmare questo bisogno? posso colmarlo da solo o mi serve che il contesto mi venga in aiuto?” 

Ecco che si fa spazio la ricerca di risposte, che porta in sé azione, problem solving, curiosità e un ventaglio di possibilità. 

Ovviamente, talvolta la risposta è molto intuitiva e ciò che manca non è altro che l’energia per fare e progettare. In tal caso, se non si è in presenza di una condizione fisica o mentale, il bisogno da soddisfare è semplicemente quello del riposo. 

Tralasciando questo scenario, alla domanda “Cosa manca?” la psicologia ha più spesso dato la mia stessa risposta: motivazione.

Dunque, gli esseri umani da cosa traggono motivazione? Di solito, dall’avere un obiettivo, un progetto da raggiungere che vada nella direzione di soddisfare un loro bisogno. 

Sembra facile, ma non lo è! 

Capire quali sono i nostri obiettivi non è scontato e capita spesso che le persone ne scelgano alcuni che sono in realtà distanti dal loro essere o magari indotti o guidati da aspettative esterne. Soffermarsi a chiederci quale bisogno ci guida, quale bisogno stiamo cercando di soddisfare e perché, può essere una buona bussola per sfrondare gli obiettivi ingannevoli. 

Nel mondo moderno, gli obiettivi più motivanti sono solitamente legati ai bisogni di autonomia (essere indipendenti, poter dirigere la nostra vita), di padronanza (crescere e migliorarsi) e di scopo (la pulsione a servire qualcosa di più grande di noi). 

Una volta compreso quale potrebbe essere un obiettivo valido, esso va scomposto in piccoli passi. Non c’è nulla che ci faccia perdere la motivazione come trovarci di fronte ad una montagna che sembra insormontabile. Gli obiettivi devono infatti essere raggiungibili per motivarci, rientrare in quella che Vigotskij chiamava “zona di sviluppo prossimale”. Un obiettivo ci spinge all’azione se si trova appena al di fuori delle nostre competenze, della nostra zona di comfort, perché mette in moto il desiderio di migliorarci quel tanto che basta per agguantarlo. Al contrario, un fine che si trovi troppo al di là della nostra capacità di sviluppo, finirà per somministrarci dosi massicce di frustrazione quotidiana che minano il nostro senso di autoefficacia e bloccano l’iniziativa. 

Per esemplificare, possiamo dire che è utile non concentrarsi sull’intera scala, non guardare alla sua sommità, ma interessarsi solo al singolo gradino. Una vota che il progetto è tracciato, il compito va, come dicevo, scomposto nelle sue singole parti che lo rendono maneggevole, avvicinabile. Ogni parte, ogni gradino sfida ovviamente una nostra capacità, ma quel tanto che basta per permetterci di raggiungere il gradino successivo e sfruttare la spinta della gratificazione ottenuta dal piccolo successo raggiunto. Alla fine della scala avremo pian piano sviluppato tutte le competenze necessarie, che a guardar troppo in lungo ci sembravano soverchianti. 

Detto questo, per gli esseri umani non è sufficiente che l’obiettivo corrisponda ad un mero calcolo di costi-benefici/sforzi-risultati. Le ricerche hanno ben presto messo in luce che, in quanto esseri irrazionali, la gratificazione derivante dal solo raggiungimento dell’obiettivo spesso non è abbastanza per tenerci motivati, specie sul lungo periodo. Ci serve anche sentirci coinvolti nell’esperienza creativa, entrare in uno stato di flusso, perfettamente presi e immersi nell’attività che stiamo facendo, alimentati dal puro piacere di farla. Quando si raggiunge questo stato di motivazione intrinseca, lo scopo viene raggiunto senza quasi percepirne lo sforzo. Ovviamente, non tutti gli obiettivi che ci diamo possono condurci allo stato di flusso, ma sarebbe bene tenere presente che un buon obiettivo dovrebbe stimolare anche un lato di gioco e di divertimento. 

Se usiamo queste lenti per accostarci alla questione, possiamo vedere che una persona che procrastina non è una persona pigra: è una persona con dei bisogni inevasi che deve capire come colmare e spesso è anche alle prese con emozioni negative. 

Di solito, infatti, se si chiede alle persone “pigre” come si sentono all’idea di fare quel che stanno rimandando si otterranno risposte tipo:

  • Ho l’ansia 
  • Ho paura di sbagliare o di fallire 
  • Temo che gli altri possano giudicare il mio operato 
  • Non penso di farcela o di averne le capacità
  • Non so da che parte cominciare 
  • Temo che gli altri scoprano che non sono bravo come pensano 
  • Temo di scoprire che io non sono capace come penso 

Non è difficile notare che, allora, una persona che procrastina è spesso una persona che si sta autosabotando. Evitare un compito che ci spaventa o ci mette ansia è un modo di proteggerci, di evitare di mettersi in gioco pensando così di preservare la nostra autostima da una eventuale caduta. 

In realtà però, ogni volta che ci tiriamo indietro la nostra autostima si abbassa, perché essa non è alimentata solo dal successo, ma più spesso dal sapere di aver tentato. Il tentativo, inoltre, anche se imperfetto, ci regala il feedback necessario a correggere il tiro e a riprovare, alimentando la spinta a migliorare. 

È da tener presente, infine, che l’autosabotaggio può essere anche controintuitivo. Alle volte, cioè, evitiamo di metterci alla prova non perché temiamo di fallire, ma perché temiamo di scoprire che siamo capaci. A quel punto, dovremmo poi prenderci la responsabilità di mettere a frutto i nostri doni e passare all’azione, rinunciando al doloroso ma al contempo consolatorio pensiero del “SE avessi/facessi/potessi….la mia vita cambierebbe”. 

Ovviamente l’autosabotaggio non è consapevole: le persone non scelgono coscientemente di mettersi i bastoni tra le ruote! A volte, chiedersi se l’azione che si sta evitando possa essere migliorativa per la propria vita, può già essere sufficiente per approfondire cosa ci manca per metterci in moto. Altre volte, è il contesto a doversi interrogare su ciò che manca di fornire a chi non agisce. Altre volte ancora, può darsi che si abbia bisogno di un aiuto esterno per comprendere meglio quali meccanismi ci bloccano e provare a smuoverli. 

In ogni caso, la prossima volta che pensate di esser pigri provate a guardarvi con maggior benevolenza e a chiedervi, invece, di che cosa avreste bisogno per sentirvi stimolati ad agire!

 

 

Dott.ssa Valeria Lussiana 

Psicologa Psicoterapeuta

 

CEFALEA: UNA VISIONE PSICOSOMATICA

La cefalea è un dolore al capo che almeno una volta nella vita la gran parte di noi ha provato.

A seconda della forma che assume può coinvolgere la regione cranica, il cuoio capelluto, il viso o il collo. Può essere passeggera e di lieve intensità o profondamente debilitante nella sua permanenza e gravità. Può presentarsi con sintomi sgradevoli come nausea, vomito, dolori pulsanti o continui alla testa, al viso, al collo o fastidio nell’entrare in contatto con stimoli esterni (suoni, rumori e luci).

Se ha origini vascolari, osteomuscolari, ormonali, alimentari o psicoemotive viene classificata come primaria e si manifesta nelle tre forme più diffuse tra la popolazione, quali emicrania, cefalea muscolo tensiva e cefalea a grappolo. Se si presenta come sintomo di una malattia sottostante, o a seguito di un trauma fisico, viene cassificata come secondaria.

Irrompe nelle nostre vite e impedisce il normale svolgimento delle attività quotidiane. Così il lavoro, lo studio e il piacere subiscono delle violente battute d’arresto.

 

La cefalea è un disturbo talmente diffuso che anche la mitologia greca ne descrive un caso.

Zeus, prima di prendere in sposa Era, concepì alcuni dei suoi figli unendosi a  diverse figure femminili. Meti, figlia dei titani Oceano e Teti, divinità del raziocinio e del discernimento, fu una di queste.

Il re dell’Olimpo, dopo essere venuto a conoscenza della profezia secondo la quale il figlio nel grembo di Meti l’avrebbe superato in potenza sottraendogli il trono, decise di porre rimedio. Si avvicinò a Meti fingendo di baciarla, ma con l’intento di inghiottirla. Ella, capace di prevedere l’andamento delle cose, si trasformò in una goccia d’acqua e scivolò dentro a Zeus continuando ad esistere nel suo ventre, infondendo ad esso saggezza.

Zeus, ovviamente, inghiottì anche la creatura di cui Meti era gravida, che trovò come sede ideale per continuare la sua crescita la testa del padre: il luogo del pensiero.

La testa di Zeus cominciò a dolere fortemente fino alla fine della gestazione, momento in cui desiderò ardentemente che gli venisse fatto a pezzi il cranio. Chiese quindi aiuto ad Efesto, il dio che forgia i metalli, che con una scure gli aprì con maestria la testa. Emerse così una figura femminile coperta da un’armatura lucente e munita di lancia e scudo: Atena, la dea della sapienza, elevata nello spirito ed eternamente vergine. Inflessibile e determinata, sempre pronta a combattere con mente lucida, chiarezza e prudenza, disinteressata ed immune all’amore e ai sentimenti.

 

Il mito introduce sapientemente il tema simbolico che caratterizza la cefalea: uno squilibrio psicofisico innescato dal ruolo centrale ed eccessivo assunto dal pensiero, dall’analisi e dal controllo vigile a scapito di sentimenti ed istintualità. Potremmo giocare dicendo che in chi soffre con frequenza di cefalea alberghi un eccesso di Atena.

 

Nell’emicrania le arterie che portano il sangue al cervello si contraggono, impedendo alla vitalità del sangue di fluire liberamente, come a voler contenere e inibire un regno pulsionale troppo intenso e imprevedibile. Successivamente le arterie si dilatano, come se le pulsioni a seguito del tentativo di controllo prendessero il sopravvento rompendo le difese. Le emicranie possono essere innescate da situazioni fortemente emozionali, soprattutto in chi fatica ad accogliere alcune parti di sé rifiutate.

 

Nella cefalea muscolo-tensiva i muscoli del collo e delle spalle si tendono e restano contratti al di là della propria volontà, provocando dolore e senso di costrizione alla testa e agli occhi. Come se la testa ad un tratto cominciasse a pesare oltremisura, richiedendo un grande sforzo per essere sorretta.

Una testa piena di pensieri, preoccupazioni e responsabilità a cui non si riesce, non si può e non si vuole dire no. Un’eccessiva apertura e disponibilità alle richieste e compiti provenienti dall’esterno che pesano come un macigno. Studi clinici hanno osservato una forte componente ansiosa e depressiva nelle persone che soffrono di cefalea.

 

La cefalea può quindi porre le sue radici in un uso smisurato di razionalità, come strategia per prendere le distanze dalla mutevolezza sorpendente che caratterizza le emozioni. Potrebbe portare all’attenzione di chi la soffre il bisogno di difendersi da contenuti inconsci che risulterebbero destabilizzanti.

 

Come affrontare dunque la complessità di questo disturbo?

 

Attraverso pratiche di consapevolezza e tecniche di rilassamento come:

la mindfulness
lo yoga
il rilassamento progressivo di Jacobson

 

Dedicandosi ad attività espressive come:

la danza
il teatro
il canto
la pittura
qualsiasi forma d’arte in generale

 

Può essere di centrale importanza intraprendere percorsi di psicoterapia individuale o di gruppoper comprendere il proprio mondo emotivo-relazionale e accogliere con maggiore facilità i contenuti e le parti di sé che non trovano spazio espressivo nella quotidianità.  Un approccio psiche-soma integrato può sollevare il corpo dall’oneroso compito di manifestare un sintomo portatore di un messaggio che la coscienza non può sopportare.

 

 

Dott.ssa Erika Gerardi

Psicologa-Psicoterapeuta

 

Bibliografia:

Joyce McDougall (1990), Teatri del corpo. Un approccio psicoanalitico ai disturbi psicosomatici, Milano, Raffaello Cortina Editore

Agresta F. (2010), Il linguaggio del corpo in psicoterapia. Glossario di Psicosomatica, Roma, Alpes Italia

Caprioglio V., Fornari P., Marafante D., Morelli F., Parietti P. (2007), Dizionario di psicosomatica, Milano, Edizioni Riza

Fulcheri M., Barzega G. (1995), Stress, depressione e ansia in pazienti cefalalgici. Considerazioni sulla letteratura e dati sperimentali, Minerva Psichiatrica, vol.36, n.1, pagg. 179-185, 2001