Autore: <span>Eco Associazione</span>

CHE COS’È LA COMPASSIONE?

Quando sentiamo parlare di compassione, possiamo essere indotti a considerarla come qualcosa di negativo, di vicino alla pietà o alla pena. In realtà, in queste ultime è come se ci fosse un dislivello tra chi soffre e chi vede soffrire, non c’è condivisione. Se analizziamo l’etimologia della parola compassione scopriamo come essa derivi dal greco e significhi, letteralmente “soffrire con”.

Nella compassione, quindi, c’è condivisione di sofferenza o, meglio, si prova compassione quando si empatizza con l’altro consapevoli del fatto che il dolore che lo sta affliggendo potrebbe un giorno o l’altro affliggere anche noiSi parla in questo caso di common humanity, umanità condivisa: come esseri umani siamo tutti imperfetti, fallibili, vulnerabili al dolore e desiderosi di sperimentare un po’ di pace.

Nel buddismo la compassione rappresenta una delle qualità della mente pura.

Gilbert, ideatore della Terapia Focalizzata sulla Compassione (Compassion Focused Therapy, CFT), la definisce come una particolare sensibilità alla sofferenza propria e degli altri, unita a un forte desiderio e all’impegno nell’alleviarla e prevenirla.

È importante porre l’accento sull’ultima parte, ovvero sul desiderio di alleviare e prevenire la sofferenza, per scongiurare il rischio di confondere la compassione con la giustificazione della propria o altrui condizione considerata come immutabile. Praticare la compassione ci permette di riconoscere e accogliere la sofferenza, integrandola nella storia e nel vissuto di chi la prova. Dopo averla riconosciuta, non ci si deve semplicemente arrendere ad essa, anzi, essere compassionevoli ha molto a che vedere con fermezza e autorevolezza, fornendo una spinta gentile verso un cambiamento che permetta di allineare azioni e valori e di accrescere il proprio senso di sicurezza e fiducia. La compassione è sì calore e gentilezza, ma anche assertività e coraggio!

Possiamo riconoscere tre flussi di compassione:

verso gli altri;
dagli altri verso di noi;
verso noi stessi (autocompassione).

Il primo tipo di compassione citato è forse il più semplice da provare. Gli altri due tipi, infatti, presuppongono lo “spegnimento” della tendenza all’autocritica. Riuscire a provare autocompassione o aprirsi alla compassione altrui presuppone la capacità di sospendere il giudizio verso se stessi e spesso tale abilità non ci viene naturale ma va allenata, specie se non se ne è fatta esperienza in età precoce.

La compassione di sé si impara dagli altri e dalla relazione con gli altri.

Come allenarla dunque, se non si ha avuto la possibilità di apprenderla dall’interazione con le prime figure significative? Un passo fondamentale è rappresentato dalla consapevolezza delle nostre emozioni difficili e di ciò che le scatena (i cosiddetti trigger). Sarà poi importante lasciare a tali emozioni lo spazio che meritano, senza giudicarle ma piuttosto riconoscendone la storia (da dove arrivano? perché in circostanze specifiche ci attiviamo sempre nello stesso modo?). Quindi bisognerà trovare le giuste strategie per calmare quelle emozioni, percependo come provarle non significhi necessariamente essere in pericolo e che, anche se fosse, abbiamo degli strumenti per prendercene cura. Infine, conoscere ciò che è davvero importante per noi potrà orientare le nostre azioni, attivandoci nell’ottenimento di quello che conta davvero nella nostra vita.

Dott.ssa Arianna Calabrese

Psicologa-Psicoterapeuta

 

Bibliografia

Gilbert, P. (2016). La terapia focalizzata sulla compassione: Caratteristiche distintive. (N. Petrocchi, Trad.). Milano: Franco Angeli.

Gilbert, P., & Procter, S. (2006). Compassionate Mind Training for People with High Shame and Self-Criticism: Overview and Pilot Study of a Group Therapy Approach. Clinical Psychology & Psychotherapy, 13(6), 353–379.

AMI PIU’ ME O IL TUO SMATPHONE? Il fenomeno del phubbing: l’influenza degli smartphone sulle relazioni.

E’ sufficiente andare a prendere un caffè, restare seduti al tavolino di un bar e guardarsi attorno per qualche minuto per osservare come molti dei nostri vicini di tavolo non stanno parlando con i loro commensali ma hanno gli occhi rivolti al proprio telefono: qualcuno fa una foto alla schiumetta del cappuccino, qualcuno legge le mail, qualcuno risponde ad una chat, una persona si sta facendo un selfie, un bambino guarda un cartone animato o gioca in modo avvincente.

E’ sempre più raro vedere persone che si parlano senza un telefono in mano o sul tavolo e frequentemente parliamo con persone che mentre conversano con noi (o così pare) utilizzano contemporaneamente il proprio smartphone. Il cellulare è ormai come un capo d’abbigliamento indispensabile, un oggetto costantemente presente nelle nostre vite e molti di noi hanno l’abitudine di tenerlo fra le mani e di interagirci continuamente: questo avviene non solo quando ad esempio siamo in coda alle poste o sui mezzi pubblici e, soli e annoiati, controlliamo i social o navighiamo sul web, ma anche quando siamo immersi in relazioni sociali, in famiglia, con i colleghi, tra amici e in coppia.

Abitudini come ad esempio quella di fotografare piatti che si stanno per mangiare sono un pretesto per postare su Instagram l’immagine della prima pizza napoletana assaggiata nella propria vita, del primo poke, del migliore vino assaggiato, e, dopo la condivisione, venire risucchiati dal vortice di notifiche, commenti conseguenti, che distraggono da quanto sta succedendo intorno a sé, al tavolo, tra i propri commensali. Il risultato è che la qualità del momento conviviale che si sta vivendo ne risulta danneggiata e, più in generale, si percepisce spesso anche un senso di minore soddisfazione per quanto riguarda il pasto consumato.

Sarà capitato a tutti, almeno una volta nella vita, di trovarsi ad interagire con qualcuno che invece di prestare attenzione alla conversazione che sta avendo con noi è sprofondato con occhi e mente dentro lo schermo del suo telefono: facilmente possiamo reperire la sensazione di fastidio o frustrazione del non essere ascoltati o di non ricevere la sufficiente attenzione desiderata dall’altra persona. Ci stiamo abituando a tollerare questi tipi di atteggiamenti nelle nostre situazioni sociali e spesso ci capita di ritrovarli anche nelle nostre relazioni personali più intime: che effetto fa alla famiglia vivere immersa in relazioni mediate dal telefono?

Chi ha un figlio preadolescente o adolescente conosce bene la sensazione di essere trasparente o parlare da solo mentre l’interlocutore è al telefono, spesso con auricolari inclusi nelle orecchie. Ma se a comportarsi così è il nostro partner, che cosa succede alla coppia?

Non ci sono tantissime ricerche su questo fenomeno, piuttosto recente, che prende il nome di Phubbing.

L’uso di un telefono cellulare durante una conversazione è chiamato phubbing (Ugur & Koc, 2015). Il termine phubbing (una crasi tra ‘phone’ e ‘snubbing’) si riferisce all’atto di concentrarsi sul proprio cellulare durante una conversazione invece di prestare attenzione all’interlocutore. Se questo atto si verifica all’interno delle relazioni, prende la definizione di partner-phubbing (Roberts & David, 2016). Nel partner-phubbing si può distinguere un phubber, ovvero la persona che, durante un’interazione sociale co-presente, concentra tutta o parte della sua attenzione sul suo cellulare, e un phubbee cioè la persona che non viene considerata (o “snobbata”) dal partner che usa il telefono.

La letteratura ci dimostra che il partner-phubbing è negativamente correlato alla soddisfazione delle relazioni (David & Roberts, 2021), proprio perché l’uso di un telefono durante le interazioni co-presenti crea una situazione in cui si è fisicamente presenti, ma non lo si è mentalmente. Questo fenomeno infatti provoca delle sensazioni di “assenza-presenza” o di stare “soli insieme”.

Ma cosa si intende per soddisfazione relazionale? La soddisfazione relazionale è il grado in cui il partner soddisfa i desideri e i bisogni dell’altro: in questo la qualità della comunicazione tra i partner svolge un ruolo di primo piano e sembra essere più importante del tempo che i partner trascorrono insieme (Guldner & Swensen, 1995).

Anche se negli ultimi anni sono state condotte diverse ricerche sul phubbing (Vanden Abeele, 2020), il numero di studi che si sono concentrati sul phubbing nelle relazioni intime, analizzando i meccanismi sottostanti alla correlazione tra utilizzo del telefono e scarsa soddisfazione, è limitato.

Tuttavia Beukeboom & Pollmann (2021) hanno tentato di comprendere più approfonditamente gli effetti negativi del phubbing sulle relazioni sentimentali, in particolare in relazione all’insoddisfazione relazionale e un altro studio, condotto da un’équipe di psicologi dell’Università del Kent, e pubblicato sulla rivista Journal of Applied Social Psychology, ne hanno confermato le prevedibili implicazioni negative: il phubbing andrebbe a peggiorare in maniera significativa la comunicazione e la relazione tra persone

I partecipanti allo studio, 153 studenti universitari, hanno assistito a una scena di 3 minuti che coinvolgeva l’interazione tra due persone, con la richiesta di identificarsi con uno dei due protagonisti. Ogni partecipante veniva assegnato a una fra 3 condizioni sperimentali: nessun phubbing, phubbing leggero o phubbing massiccio. I risultati? Più il livello di phubbingaumentava, più i soggetti percepivano che la qualità della relazione era peggiore e la relazione insoddisfacente. 

Gli autori dello studio hanno caratterizzato il phubbing come una vera e propria “forma di esclusione sociale”, capace, quando lo si subisce, di “minacciare alcuni bisogni umani fondamentali, come l’appartenenza, l’autostima, il senso di realizzazione e il controllo”.

Ma perché ci sentiamo così insoddisfatti se il nostro partner utilizza in modo continuativo il telefono?

Un vissuto tipico è quello di sentirsi non visti: non sentirsi prioritari ed importanti per la persona che dovrebbe essere quella che ci sceglie proprio perché si è innamorata di come siamo. Il sentimento di svalutazione personale risulta frequente e innesca crisi, soprattutto in partner con qualche fragilità sulla propria autostima.

In altre persone il vissuto maggiormente riportato è la rabbia, il fastidio e il sentirsi mancati di rispetto e di non essere percepiti come attraenti ed interessanti. Questi vissuti portano le coppie a discussioni molto accese spesso o viceversa a passivi silenzi rabbiosi che influiscono negativamente sulla complicità della coppia e sull’intimità. Le battaglie, spesso anche silenziose creano tra i partner una distanza emotiva che porta a ricadute importanti anche su un piano fisico. La qualità delle conversazioni e l’empatia percepita sono un fattore importante per la qualità della relazione (Gonzales & Wu, 2016; Misra et al., 2016).

Ci si potrebbe domandare perché soffermarsi ad analizzare così dettagliatamente un fenomeno di questo tipo: venire a conoscenza di quanto disagio possa suscitare un atteggiamento apparentemente banale nella persona che amiamo, potrebbe portarci a prestare maggiore attenzione alla nostra quotidianità, affinchè ognuno di noi possa diventare maggiormente consapevole e possa tentare il più possibile di “stare” nelle relazioni che sta vivendo, mettendo in atto, di fatto, un atto di prevenzione. E’ piuttosto evidente e condiviso che ci siano situazioni o chiamate dalle quali diventa difficile esimersi, ma tenere a mente la percezione del nostro partner e ciò che sta provando può esserci utile a mettere in atto un comportamento conciso e circostanziato relativamente ad una chiamata o a un messaggio, dedicando a tali interruzioni il più breve tempo possibile. 

Bisogna tuttavia evidenziare che dallo studio emerge come la misura in cui un partner usa il proprio telefono durante le interazioni co-presenti, correlata negativamente alla soddisfazione della relazione, sia un dato rilevato di natura correlazionale, pertanto a livello di nesso di causalità il partner-phubbing potrebbe causare una riduzione della soddisfazione relazionale, ma è altrettanto possibile l’effetto opposto, cioè che una scarsa qualità della relazione potrebbe indurre le persone ad un utilizzo maggiore del telefono. Pertanto il  phubbing potrebbe giocare un ruolo avverso generando un circolo vizioso sulla qualità della comunicazione e sulla soddisfazione della relazione.

Ma come si può contrastare questo fenomeno? Come possiamo mettere queste considerazioni emerse dalle ricerche a servizio di un miglioramento della nostra relazione?

Si è rilevato che l’utilizzo congiunto del telefono, che implica l’essere coinvolto nelle attività dell’altra persona, venire informato su ciò che sta facendo potrebbe limitare gli effetti dannosi sulla relazione e sulla comunicazione, riducendo il senso di esclusione percepito, mantenendo più reattività e intimità nella conversazione  e attenuando il senso di insoddisfazione relazionale.

Ma davvero il contenimento del comportamento o la condivisione dell’utilizzo dello strumento possono rappresentare le uniche soluzioni per arginare questo fenomeno?

Il fenomeno del phubbing potrebbe meritare un’ulteriore riflessione da parte di entrambi i membri della coppia:

forse l’insoddisfazione relazionale generata da questo fenomeno potrebbe generare in entrambi i partner lo stimolo a porsi delle domande: come mi sentirei io al posto del mio compagno? Che cosa proverei? Che cosa penserei? Che idea mi farei dell’interesse che il mio compagno prova per me al posto suo?

E viceversa è importante forse provare a chiedersi anche perché il nostro compagno sta sempre al telefono? A quale suo bisogno risponde questo strumento, come lo fa sentire, come si sentirebbe senza utilizzarlo.

Per molte persone è difficile resistere alla tentazione dei social media e di altre app che soddisfano il bisogno di attenzione ottenuto attraverso il proprio smartphone. La paura che i rapporti si allentino (Rozgonjuk et al.,  2020), l’aspettativa di una disponibilità costante da parte degli amici (Miller-Ott & Kelly, 2017), o anche la semplice presenza di un telefono (Misra et al., 2016) possono distogliere l’attenzione da un’interazione che sta avendo luogo con il proprio partner, o comunque con gli attori reali della propria vita, senza che la persona se ne renda neanche conto. Spesso mettiamo in atto comportamenti, soprattutto se socialmente considerati accettabili, senza chiederci la motivazione o la causa di quanto messo in atto. Facciamo raramente lo sforzo empatico di provare a metterci nei panni dell’altro, nelle sue sensazioni ed emozioni, spesso poiché siamo troppo presi da esigenze individualiste socialmente sostenute.

Ma il problema è davvero la sola presenza costante del telefono? Che cosa succederebbe se ci fosse un blackout generale della rete per una settimana? Le persone tornerebbero a parlarsi, a scriversi, a condividere realmente esperienze o si troverebbero perse, motivate soltanto al cercare una soluzione per ripristinare la rete?

Ci dobbiamo inevitabilmente chiedere quanta vita reale ci perdiamo con gli occhi sullo schermo.

La tecnologia non è da demonizzare, per molte relazioni è infatti stata l’incontro, l’inizio, la risorsa per mantenere vivi i rapporti quando si deve vivere distanti, ma siamo ancora capaci di utilizzare lo smartphone come uno strumento per migliorare le nostre vite e non come una zavorra in cui veicolare le nostre frustrazioni e distrazioni?

Forse analizzare il fenomento del phubbing ci fornisce l’occasione per fare alcune riflessioni: ma si può tornare indietro? Alcune persone hanno iniziato a mettere in pratica una sorta di graduale distacco dall’onnipresenza del telefono con una metafora indicata come “JOMO” (joy of missingout), ossia riscoprendo il piacere di rischiare di perdersi qualcosa che stia avvenendo online pur di godere al meglio della compagnia reale e fisica delle persone che si hanno vicino o delle situazioni sociali offline in cui si è coinvolti. Rinunciare al mito del multitasking e utilizzare in maniera più consapevole e cosciente tecnologie e servizi digitali sono, nella pratica, due importanti punti di partenza per riuscirci.

Ma come fare?

Potrebbe essere utile, ad esempio, iniziare con il concedersi del tempo per l’autoriflessione: per la propria salute mentale è fondamentale passare regolarmente del tempo da soli, preferibilmente senza smartphone, Internet e TV. Concedersi il tempo di porsi delle domande e riflettere sui problemi e le paure, dare spazio ai propri desideri e sogni.

Il tempo della riflessione aiuta anche a fare chiarezza sulle priorità cercando di diventare consapevoli di cosa è veramente importante per noi. A volte bisogna sfoltire l’agenda e anche eliminare ciò che facciamo per abitudine e non per reale interesse, questo ci aiuta a dedicare tempo alle persone e alle esperienze che realmente ci interessano, imparando a declinare inviti inutili o richieste differibili nel tempo, seppur poste con urgenza. Imparare a vivere concentrandosi sul qui e ora, con un atteggiamento “mindful.

Dott.ssa Consuelo Aringhieri

Psicologa – Psicoterapeuta

 

 

Bibliografia

Beukeboom, C. J., & Pollmann, M. (2021). Partner phubbing: why using your phone duringinteractions with yourpartner can be detrimental for your relationship. Computers in HumanBehavior, 124, 106932.
Chotpitayasunondh, V., & Douglas, K. M. (2016). Howphubbingbecomes the norm: The antecedents and consequences of snubbing via smartphone. Computers in Human Behavior, 63, 9-18.
David, M. E., & Roberts, J. A. (2021). Investigating the impact of partner phubbing on romanticjealousy and relationship satisfaction: The moderating role of attachment anxiety. Journal of Social and Personal Relationships, 38(12), 3590-3609.
Du, J., Kerkhof, P., & van Koningsbruggen, G. M. (2019). Predictors of social media self-control failure: Immediate gratifications, habitual checking, ubiquity, and notifications. Cyberpsychology, Behavior, and Social Networking, 22(7), 477-485.
Dwyer, R. J., Kushlev, K., & Dunn, E. W. (2018). Smartphone use undermines enjoyment of face-to-face social interactions. Journal of Experimental Social Psychology, 78, 233-239.
Gergen, K. J. (2002). The challenge of absent presence.
Gonzales, A. L., & Wu, Y. (2016). Public cellphone use does not activate negative responses in others… Unless theyhate cellphones. Journal of Computer-Mediated Communication, 21(5), 384-398.
Guldner, G. T., & Swensen, C. H. (1995). Time spent together and relationship quality: Long-distance relationships as a test case. Journal of social and Personal Relationships, 12(2), 313-320.
McDaniel, B. T., Galovan, A. M., & Drouin, M. (2021). Daily technoference, technology use duringcouple leisure time, and relationship quality. Media Psychology, 24(5), 637-665.
Miller-Ott, A. E., & Kelly, L. (2017). A politeness theory analysis of cell-phone usage in the presence of friends. Communication Studies, 68(2), 190-207.
Misra, S., Cheng, L., Genevie, J., & Yuan, M. (2016). The iPhone effect: The quality of in-personsocial interactions in the presence of mobile devices. Environment and Behavior, 48(2), 275-298.
Pollmann, M. M., Norman, T. J., & Crockett, E. E. (2021). A daily-diary study on the effects of face-to-facecommunication, texting, and their interplay on understanding and relationshipsatisfaction. Computers in Human BehaviorReports, 3, 100088.
Roberts, J. A., & David, M. E. (2016). My life has become a major distraction from my cell phone: Partner phubbingand relationship satisfaction among romantic partners. Computers in humanbehavior, 54, 134-141.
Turkle, S. (2011). Alone together: Why we expect more from technology and less from ourselves. New York: BasicBooks.
Ugur, N. G., & Koc, T. (2015). Time for digital detox: Misuse of mobile technology and phubbing. Procedia-Social and Behavioral Sciences, 195, 1022-1031.

 

LA SINDROME DA BURNOUT

Il burnout è una sindrome legata ad un processo stressogeno che colpisce maggiormente tutte quelle professioni che prevedono una relazione d’aiuto in una sfera psicologica e sociale.

Per burnout intendiamo quel fenomeno che in un primo momento investe dall’interno l’individuo per poi “esplodere” e manifestarsi all’esterno. I professionisti della relazione d’aiuto sono sottoposte ad una duplice fonte di stresss: lo stress personale e quello del cliente, se non trattate cominciano a sviluppare un lento processo di “logoramento” psicofisico.

Nell’ambito delle professioni socio-assistenziali la risoluzione dei problemi dell’utente non è affatto semplice e molto spesso non ottenibile, motivazioni per cui la condizione lavorativa diviene sempre più ambigua e frustrante e lo stress cronico può logorare emotivamente l’operatore.

Pian piano può divenire uno stato di malessere e di disagio che consegue una situazione lavorativa percepita come stressante e che conduce gli operatori a divenire apatici, cinici con i proprio utenti, indifferenti e distaccati dell’ambiente di lavoro. In casi estremi tale sindrome può comportare gravi danni psicopatologici (insonnia, problemi coniugali e familiari, incremento dell’uso di alcol o farmaci), cui consegue un deterioramento della qualità delle cure o del servizio prestato e spesso assenteismo e alto turnover.

Recenti studi dimostrano il legame tra burnout lavorativo e manifestazioni sintomatologiche quali l’ansia e delle sue espressioni somatiche e modificazioni del tono dell’umore, questi sono indicatori di un disagio che tende a coinvolgere gli aspetti più generali della personalità. Ciò avviene quando la persona percepisce una discrepanza tra aspirazioni e performance effettiva.

Vengono, inoltre descritte alterazioni emozionali, comportamentali, psicosomatiche e sociali, perdita dell’efficacia lavorativa ed alterazioni lievi della vita familiare. Inoltre l’alto livello di assenteismo lavorativo si giustificherebbe inoltre tanto per problemi di salute fisica quanto psicologica, a causa della frequente insorgenza di situazioni depressive.

La dimensione psico-sociale del burnout consente di individuare alcune variabili responsabili dell’insorgenza nell’esperienza lavorativa di aspetti di affaticamento e frustrazione che a lungo andare possono dare luogo a distonie e disagi comportamentali, espresse in una gamma che si snoda dall’apatia al disturbo del controllo degli impulsi, fino ad arrivare a una vera e propria compromissione psichiatrica.

La sindrome da bornout non si manifesta in modo improvviso, è un processo graduale che si sviluppa in un tempo prolungato. Molto spesso i primi segnali vengono ignorati, considerandoli “normali”.

Troviamo 3 caratteristiche principali:

1- Distacco mentale e cinismo rispetto al proprio lavoro;

2- Sensazioni di sfinimento e mancato recupero;

3- Calo dell’efficienza lavorativa.

A queste 3 caratteristiche si associano inoltre:

Mal di testa;
disturbi del sonno
disturbi gastrointestinali;
tachicardia;
tensioni;
Stanchezza;
sfiducia in sé stessi;
maggior vulnerabilità
Elevata sensibilità allo stress;
Difficoltà relazionali;
Depressione;
Agitazione, irritabilità, nervosismo;

Cosa causa la sindrome da burnout:

Le cause sono di natura diversa e variano da individuo a individuo. Solitamente è la conseguenza di uno stress cronico e presenta fattori di rischio, quali:

Sovraccarico lavorativo;
Mobbing;
mancato riconoscimento;
Ambiente di lavoro non favorevole;
Conflitti;
Obiettivi poco chiari;
Scarsa comunicazione;
Tendenza a porsi ibiettivi irrealistici;
Abnegazione al lavoro;
Aspettative elevate;
Personalità autoritaria;
Incapacità a collaborare.

Per prevenire il burnout è importante ridurre tutte le situazioni di stress, riconoscersi come persona riconoscendo e rispettando i propri bisogni fondamentali quali sonno, cibo, attività fisica. E’ opportuno fissarsi degli obiettivi ragionevoli, non pretendendo troppo da sé stessi. Inoltre è importante un automonitoraggio rispetto ai propri sintomi, rivolgendosi ad un professionista. La tempestività nel riconoscere i primi segnali favorisce l’efficacia della psicoterapia.

 

Dott. Mirco Carbonetti

Psicologo- Psicoterapeuta

 

Bibliografia:

-Corrente A. La sindrome del burnout. Una condizione soggettiva che si trasforma in malattia professionale. Pavia: Atti della Giornata di Studio Fondazione Salvatore Maugeri, 2003.

-Ferdinando Pellegrino F. La sindrome del Burn-out Nuova edizione.  Centro Scientifico Editore. Torino, 2009

-Ripamonti, C. A., & Clerici.Psicologia e salute: introduzione alla psicologia clinica in ambito sanitario. Il mulino 2008.

 

L’OMBRA INVISIBILE: LA VERGOGNA

Quando pensiamo alle emozioni, la nostra mente volge in automatico alla felicità, tristezza, paura, rabbia o disgusto. Questo accade perché esse rappresentano le cosiddette emozioni primarie (o di base). Si tratta di emozioni innate che in quanto tali, non hanno bisogno di accedere alla consapevolezza per essere provate. Forniscono importanti ed utili informazioni di ciò che accade dentro di noi e di ciò che accade agli altri e ci permettono di dirigere il nostro comportamento e le nostre azioni all’interno delle relazioni. Esistono tuttavia, una serie di altre emozioni definite come emozioni secondarie. Si tratta di apprendimenti di tipo sociale o di comportamenti e pensieri che derivano dalle emozioni primarie. Tra queste, esiste un particolare tipo di emozione che molto spesso viene trascurata e sottovalutata: la vergogna.

La vergogna è un’emozione sociale complessa che emerge principalmente in una dimensione interpersonale. È associata al timore che gli altri, solitamente ritenuti superiori (più intelligenti, più belli, più forti, più bravi…semplicemente “più”), possano giudicarci o avere un’idea negativa di noi. È inoltre, un’emozione che si attiva non solo quando si ha il timore che l’altro possa giudicarci ma anche quando, il giudizio negativo di essere imperfetti, difettosi, quindi, inferiori parte direttamente da noi stessi.

Da un punto di vista evoluzionistico, la vergogna rappresenta una strategia difensiva di sottomissione. Se pensiamo al regno animale, e per un attimo immaginiamo una scena di lotta, è possibile che ad un certo punto, la preda possa decidere di gettarsi a terra con le zampe in aria, scoprendo la parte addominale. Nell’ottica di un sistema agonistico, quale la lotta, questo tipo di atteggiamento fa sì che la preda possa inviare al suo predatore, un messaggio di non-sfida, mostrandosi vulnerabile (la parte addominale visibile ed esposta rappresenta infatti, la zona in cui sono contenuti gli organi vitali e quindi, quella più importante da proteggere), per porre fine all’attacco subito (Price e Sloman 1987; Gilbert 1992) e quindi, sopravvivere. In questo modo, avrà riconosciuto la superiorità del suo aggressore per potersi salvare, ponendosi, in automatico, in una condizione di inferiorità. Tuttavia, se per la maggior parte degli animali la minaccia è rappresentata dall’aggressione fisica, per gli uomini il timore è legato anche alla perdita di accettazione e approvazione sociale, che può innescare vissuti di vergogna fino a diventare veri e propri stati depressivi che possono indurre a forme estreme di evitamento come, il ritiro sociale, isolamento o il suicidio. Sappiamo tutti quanto sia importante il senso di appartenenza ad un gruppo sociale, proprio in ragione del fatto che, l’essere umano è esso stesso un animale sociale. Ha un bisogno innato di essere in relazione all’Altro. Tuttavia, così come è intrinseco il desiderio di affiliazione e appartenenza, al tempo stesso è difficile e complicato tessere e intrattenere relazioni stabili, durature e funzionali soprattutto se inficiate dalla percezione costante dell’altro come “essere superiore” e quindi, minaccioso al proprio senso di sé. A lungo andare, questa sensazione può incidere in modo significativo, sul benessere dell’individuo andando di conseguenza, a danneggiare il proprio senso di sé e la propria autostima in termini di impotenza e inferiorità (Doran e Lewis 2011).

Chi prova vergogna, sente sopraggiungere, in modo improvviso, sensazioni e pensieri talmente spiacevoli da diventare fonte di ulteriore disagio. A livello fisiologico si caratterizza per la presenza di rossore sul volto, tachicardia, sudorazione eccessiva, sguardo abbassato e una sensazione di caldo/freddo intensi. Queste sensazioni somatiche sono spesso, accompagnate dalla percezione di “rimpicciolire” e voler diventare “trasparenti”, “invisibili”, per sottrarsi al rischio di essere visti dentro per quello che si crede essere realmente: degli individui non degni, malevoli, difettosi. Sempre da un punto di vista fisiologico, recenti studi (Mills et al., 2008) affermano che bambini che hanno sperimentato frequenti e ripetuti vissuti di vergogna mostrano livelli di cortisolo più alti della media. L’ipotesi è che si tratti di un’emozione associata ad alti livelli di stress che vanno ad incidere di conseguenza, in modo disfunzionale, sulle strategie di coping messe in atto per fronteggiare la situazione minacciosa. Così come accade di fronte a situazioni altamente stressanti, in cuisi è sopraffatti da un’intensa emozione di paura, anche quando si prova un’intensa vergogna, il rischio è che le funzioni cognitive, come attenzione, concentrazione, linguaggio, capacità di organizzazione e pianificazione vadano in blackout. Si potrà apparire così, goffi, sconnessi, poco abili nel compiere azioni o trovare le parole per articolare un discorso. La conseguenza sarà che, un qualsiasi tipo di performance intrapresa, dalla più semplice come colloquiare con un amico alla più complessa come parlare di fisica quantistica di fronte ad una platea di luminari, ne sarà inficiata. Questo andrà così, a confermare e alimentare le proprie credenze negative di base. A livello cognitivo, infatti, le convinzioni negative più frequenti sono quelle del tipo, “sono imperfetto, sbagliato, brutto, incompetente, inadeguato, rifiutato, debole”. Infine, le risposte comportamentali che spesso si manifestano sono quelle tipiche della paura come attacco, fuga o paralisi. Non a caso, quello di cui si ha più paura ed è vissuto come minaccioso, è il possibile giudizio negativo dell’altro. Ci sono inoltre, alcuni comportamenti di compensazione che vengono messi in atto, al solo scopo di proteggersi, come essere compiacenti, biasimare e criticare l’altro per cercare di ribaltare la posizione di inferiorità in cui ci si sente o credere che solo se si è perfetti non si avrà più nulla di cui vergognarsi (Potter-Efron 1998; Rossi et al. 2011).

Nel corso degli ultimi decenni, sono stati identificati differenti sottotipi di vergogna. Nel 1997, Gilbert ha effettuato una prima distinzione tra vergogna interna ed esterna. La prima è legata alle esperienze di autovalutazione e a un senso di sé percepito come inadeguato e inferiore. Nella seconda, invece, la persona è focalizzata sul timore di essere criticata e vista come imperfetta, sbagliata (Goss e Allan 2009) e, quindi, di poter essere rifiutata (Kim et al. 2011). Secondo Greenberg e collaboratori (2000) invece, la vergogna può essere definita “primaria” quando associata al timore di ledere la propria immagine o autostima e “secondaria”, quando emerge in relazione all’esperire il proprio stato emotivo (ci si può vergognare di avere paura, di essere tristi, arrabbiati o felici). La vergogna poi, può essere intesa in termini adattivi e disadattivi. Come tutte le emozioni, ha un carattere adattivo e funzionale, se legata ad una situazione specifica e non è cronica. Diventa, invece, disadattiva quando è connessa ad un’idea profonda di sé come inaccettabile, indegna e manchevole derivata non solo da valutazioni esplicite e accessibili alla consapevolezza, ma anche da processi impliciti, automatici e inconsapevoli (Castelfranchi, 2005). Infine, vi è un tipo di vergogna definita meta-vergogna. L’oggetto che crea imbarazzo è la vergogna stessa. Si prova quindi, vergogna della propria stessa vergogna. In questi casi, si teme di essere giudicati negativamente per il fatto stesso di vergognarsi (Orazi e Mancini 2011). Con la meta-vergogna, la vergogna diventa ancora più intensa, e spesso innesca circoli viziosi in cui, vergogna e meta-vergogna si autoalimentano a vicenda e diventano difficili da disinnescare.

Ma come si sviluppa tutto questo?

Secondo Lee e collaboratori (2001), lo stile di attaccamento, l’aver vissuto eventi di vita traumatici come ripetute esperienze di umiliazione, critica o derisione e fenomeni di bullismo, possono essere considerati fattori di rischio all’origine dello sviluppo di una particolare sensibilità all’emozione della vergogna. Questo tipo di esperienze possono infatti, contribuire allo sviluppo di schemi, rappresentazioni e credenze di sé negative.

Recenti ricerche hanno dimostrato che bambini con esperienze di abbandono, trascuratezza, maltrattamenti e abusi quindi, con storie di sviluppo traumatiche (PTSDc), presentano un rischio maggiore di sviluppare schemi di sé caratterizzati da elevati vissuti di vergogna (Alessandri e Lewis 1996; Kelley et al. 2000; Mills 2003; Stuewig e McCloskey 2005). Infatti, sembrerebbe che il tipo di cure genitoriali sia un fattore predittivo nello sviluppo di emozioni come la vergogna cronica. Aver fatto esperienza continua di un genitore ipercritico, rifiutante, maltrattante, negligente o iperprotettivo può innescare vissuti di inadeguatezza,incapacità, debolezza, inferiorità, facilitando così, l’emergere dellavergogna. A tal proposito, Schore (1994, 1996, 1997) suggerisce che una mancata “connessione emotiva” del genitore nei confronti del bambino, possa essere all’origine di tali vissuti. L’assenza di riparazione di questo fallimento comunicativo fa sì che il bambino sperimenti profondi vissuti di umiliazione e non amabilitàcontribuendo ad amplificare e radicare in sé, il senso di inferiorità.

Matos e Gouveia (2010) inoltre, hanno mostrato che precoci ricordi di esperienze di vergogna possono avere lo stesso impatto degli eventi traumatici, essendo caratterizzati da intrusività, presenza di flashback, risposte di evitamento e stati di dissociazione. Inoltre, gli stessi autori sostengono che gli episodi di vergogna possono diventare parte centrale e integrante dell’identità stessa del soggetto. Questo indurrà a compiere continue e stancanti inferenze negative su se stessi e su se stessi nella mente dell’altro. Una persona che nel corso dello sviluppo ha maturato credenze di sé come inadeguato, difettoso, non degno o inferiore, tenderà a costruire schemi fondati sulla vergogna, che si consolideranno nel tempo e spingeranno ad interpretare le informazioni provenienti dall’ambiente circostante, in base a queste stesse convinzioni. Il risultato è un circolo vizioso che si autoalimenta e che va nella direzione di una maggiore predisposizione ad una vulnerabilità alla vergogna sempre crescente. La sensibilità al giudizio sociale diventa così, fonte di stress e allerta in quanto, minaccia “letale” alla propria identità. Secondo Gilbert (2004) infatti, le credenze negative hanno un ruolo cruciale nel mantenimento dell’immagine di sé come vergognosa. Esisterebbero tre differenti modalità attraverso cui la persona tende a giudicarsi e ad alimentare la propria immagine di sé negativa: inadeguate self, ovvero una forma di autocritica in cui prevale il senso di inadeguatezza che impedisce di vedere ipotesi alternative e ostacola il processo di auto-rassicurazione; hated self, dove l’autocritica è caratterizzata da un desiderio di ferirsi e un sentimento di disgusto verso se stessi; ed infine, la self reassurance, una modalità di auto-rassicurazione che permette all’individuo di mantenere un atteggiamento benevolo nei riguardi del sé.

Concludendo possiamo dire che la vergogna soprattutto quando cronica e invalidante, è un’emozione che porta con sé un mondo sommerso da acque scure e profonde che spesso, inghiottiscono totalmente e diventano un ostacolo alla possibilità di tornare a galla. L’unica possibilità per sopravvivere, quando non ci sono altre vie d’uscita, diventa rendersi invisibili o soccombere.

Dott.ssa Antonia Di Pierro

Psicologa – Psicoterapeuta

Bibliografia

Ainsworth M & Bowlby J (1991). An ethological approach to personality development. American Psychologist 46, 333-341.

Alessandri S M & Lewis M (1996). Differences in pride and shame in maltreated and non-maltreated preschoolers. Child Development 67, 1857-1869.

Basile B, La vergogna in psicopatologia Cognitivismo Clinico (2014) 11, 1, 27-61.

Castelfranchi C (2005). Che figura. Il Mulino, Bologna.

Doran J & Lewis C A (2011). Components of shame and eating disturbance among clinical and non clinical populations. European Eating Disorder Review 20, 265-70.

Gilbert P (1992). Depression: The Evolution of Powerlessness. Lawrence Erlbaum Associates, New York.

Gilbert P (1997). The evolution of social actractiveness and its role in shame, humiliation, guilt and therapy. British Journal of Medical Psychology 70, 113-147.

Gilbert P, Clarke M, Hempel S, Miles J N V, Irons C (2004). Criticising and reassuring oneself: An exploration of forms, styles and reasons in female students. The British Journal of Clinical Psychology 43, 31-50.

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Greenberg Leslie S, Paivio Sandra C (2000). Lavorare con le Emozioni in Psicoterapia Integrata. Sovera Edizioni, Roma.

Kelley S A, Brownell C A, Campbell S B (2000). Mastery motivation and self-evalutive affect in toddlers: Longitudinal relations with maternal behaviour. Child Development 71, 1061-1071.

Kim S, Thibodeau R, Jorgensen RS (2011). Shame, guilt, and depressive symptoms: a meta analytic review. Psychological Bullettin 137, 68-96.

Lee, Scragg P, Turner S (2001). The role of shame and guilt in traumatic events: A clinical model of shame based and guilt-bases PTSD. British Journal of Medical Psychology 74, 451-467.

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Mills R S L (2003). Possible antecedents and developmental implications of shame in young girls. Infant and Child Development, 12, 329-349.

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Potter-Efron R & Potter-Efron P (1998). Vincere la vergogna. Come superare timidezza, imbarazzo, rossori e senso di colpa. Franco Angeli.

Price J S & Sloman L (1987). Depression as yielding behaviour: an animal model based on Schjelderup Ebb’s pecking order. Ethology and Sociobiology 8 (suppl.) 85-98.

Rossi A, DanielsKi V, Pertile R, Bisceglie A R, Bontempi S, Lessio L, Rosini S, Russo E C, Minelli A (2011). Costituenti cognitive di invidia, vergogna e senso di colpa associate alla gravità della psicopatologia. Cognitivismo clinico 8, 95-115.

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Stuewig J & McCloskey L A (2005). The relation of child maltreatment to shame and guilt among adolescents: Psychological routes to depression and delinquency. Child Maltreatment 10, 324-336.

L’AMORE E’ CIECO? PARE PROPRIO DI NO!! LA SCELTA (IN)CONSAPEVOLE DEL PARTNER

Ho scoperto che quando ci sono delle difficoltà di coppia, la richiesta che viene fatta al partner è di riempire i bisogni a cui i propri genitori non hanno risposto”

Virginia Satir

Perchè cerchiamo un partner con cui condividere la nostra vita?

Il motivo principale che spinge ognuno di noi a ricercare una relazione affettiva con l’altr* é  determinato da due bisogni fondamentali dell’uomo: accudimento e protezione. La relazione di coppia è una relazione intima, in cui ognuno esprime un profondo bisogno di sicurezza e fiducia per l’altro. Entrare in relazione significa fare una scelta, scegliere tra più persone quella che potrà  soddisfare al meglio i nostri bisogni.  

Allora qual è il meccanismo attraverso il quale scegliamo una persona piuttosto che un’altra?

Cosa della nostra storia personale peserà maggiormente nell’effettuare la scelta?

In questo articolo esamineremo 2 aspetti che guidano la scelta del partner:

1. Attaccamento e trasmissione inergenerazionale
2. Mito e mandato familiare

Attaccamento

La teoria dell’attaccamento, sviluppata da Bowlby negli anni Sessanta, rappresenta la prima relazione che il bambino instaura con la sua figura di riferimento, ha la funzione di garantire vicinanza e protezione ed è espressa da una serie di comportamenti che lo accompagnano fin dalla nascita e che hanno le loro basi filogenetiche nell’oggettiva vulnerabilità del neonato, che è obbligato a far ricorso alla figura di accudimento per il soddisfacimento dei suoi bisogni primari e per la propria sopravvivenza (Bowlby, 1969).

Perchè si parli di attaccamento devono essere presenti tre condizioni di base (Weiss, 1982): la vicinanza, la reazione di protesta per la separazione, cioè quell’insieme di comportamenti di attaccamento che si manifestano nel momento in cui ci si sente in pericolo perchè la relazione non è più garantita e quella particolare atmosfera di sicurezza che fa percepire l’altro come la nostra “base sicura”. Bowlby (1988) ha spiegato come un bambino o  un adolescente per esplorare l’ambiente extra-familiare abbia bisogno di sentirsi sicuro di poter ritornare sapendo che la base sicura sarà lì ad aspettarlo. Negli anni Settanta, furono identificati quattro stili di attaccamento (Ainsworth et al., 1978):

attaccamento sicuro: il bambino ha una madre presente, in grado di rispondere ai bisogni di conforto, protezione e esplorazione del mondo sapendo di poter tornare alla “base sicura” in situazioni di pericolo. L’adulto all’interno di una relazione di coppia saprà muoversi in equilibrio tra richiedere protezione e dare protezione.
Attaccamento insicuro-evitante: il bambino ha una madre che in genere non è in grado di soddisfare i propri bisogno. Il bambino teme costantemente il rifiuto dell’altra persona. Sarà un adulto che imparerà ad inibire le proprie emozioni (da soli si è più forti). L’adulto all’interno di una relazione di coppia, tenderà a fuggire  dalla relazione stessa.
Attaccamento insicuro-ambivalente: il bambino ha una madre che risponde ai suoi bisogni in modo intermittente, è una madre imprevedibile. In questo modo il bambino si sente a volte amabile altre volte rifiutato. Sarà un adulto che avrà paura della separazione dalla figura di attaccamento (se stiamo uniti saremo più forti). L’adulto all’interno della relazione di coppia tenderà a inseguire la sua figura di attaccamento per paura di perderla.
attaccamento insicuro-disorganizzato: il bambino ha una madre che lo mette in pericolo, crolla il sistema di attaccamento.

E’ grazie alla teoria dell’attaccamento che possiamo spiegare come un uomo, arrivato all’età adulta, organizzi la propria vita affettiva in funzione dei passati legami di attaccamento, mettendo in luce il ruolo che le relazioni della prima infanzia possono avere nel predire il futuro successo di una relazione di coppia. Il formarsi di una coppia poggia sulle capacità di entrambi i coniugi di confermare le rappresentazioni che sono state attribuite su di sé e sugli altri fin dalla prima infanzia, al fine di garantire un’omeostasi rappresentativa (Bowlby, 1988).

Trasmissione intergenerazionale degli stili di attaccamento

Il requisito fondamentale affinché si crei una relazione intima, quale è quella di coppia,  è l’esistenza di una fiducia di base nei confronti della persona con la quale viene stabilita la relazione. Dalle ricerche sul legame di attaccamento sappiamo che la sicurezza o l’insicurezza che lo caratterizzano si trasmettono spesso di generazione in generazione attraverso le aspettative, il comportamento dei genitori e la qualità delle relazioni familiari (Benoit, Parker, 1994; Fonagy et al.,1992).  Domande come: mi sta giudicando? Mi posso fidare di lui/lei? Mi accetta? Che cosa significano quelle parole, quell’atteggiamento nei miei confronti? Rappresentano una specie di “test” che valuta la tenuta della relazione: la dimostrazione della sua esistenza è data da tutte quelle situazioni in cui la rottura della sequenza attesa di comportamenti  da parte del partner può porre degli interrogativi sul perdurare del legame stesso, soprattutto nella fase iniziale del rapporto. Per esempio: “sono 2 giorni che non mi scrive appena si sveglia”….sorge subito la domanda: “Mi pensa ancora?”..“ Mi vorrà ancora bene?”.. “Ha conosciuto qualcunaltr*?” Possiamo dire che la scelta del partner coinvolge solo apparentemente due persone: in realtà il rapporto che si instaura si “confronta”  con due dimensioni, una orizzontale in cui si collocano i legami di pari livello gerarchico (fratelli, sorelle, partner) e una verticale trigenerazionale in cui si collocano i legami tra i diversi livelli gerarchici (nonni, genitori, figli). Ecco quindi che ogni nuovo rapporto intimo presuppone e comporta una serie di confronti con altri rapporti significativi, rispetto ai quali esso deve differenziarsi. Per esempio credere che i continui fallimenti sentimentali siano da attribuire a una serie di eventi sfortunati, rappresenta una lettura parziale di quello che sta accadendo in quanto non tiene conto della dimensione verticale della relazione, di quanto il  tipo di legame di attaccamento che ha caratterizzato la relazione con i genitori o con altri membri significativi della famiglia di origine stia influenzando la vita presente. Sulla base di ciò, il potenziale partner si rivela tanto più adatto se avrà caratteristiche ripetitive e quindi per certi aspetti rassicuranti (in quanto conosciute) in linea con il nostro legame di attaccamento e allo stesso tempo avrà un elemento di novità che avrà la funzione di riparare una storia interrotta prematuramente o che non ha dato le risposte di sicurezza desiderate.  Secondo Weiss Sampson (1993), la coazione a ripetere (scegliere situazioni relazionali insoddisfacenti), rappresenta il tentativo ripetuto e strategicamente inefficiente di trovare una via d’uscita alle difficoltà incontrate.

Diventa determinante a questo scopo la qualità del legame che si è creato con chi originariamente si è preso cura di noi. Si può dire che quanto più è stata soddisfacente la relazione originaria, tanto più si potrà sviluppare un atteggiamento di fiducia nei confronti delle nuove relazioni; quanto più quella è stata insicura-ambivalente, ambigua e scarsamente soddisfacente riguardo ai bisogni personali fondamentali,  tanto più si osserveranno comportamenti ambivalenti o evitanti da parte di chi ha avuto questo tipo di esperienza (Angelo, 1999). Secondo Hazan e Shaver (1987;1992) l’innamoramento è un processo d’attaccamento che viene vissuto in maniera diversa, a causa delle loro differenti storie di attaccamento.

Mito e Mandato Familiare

Non meno importante nell’influenzare la scelta del partner è il mito familiare e il relativo mandato familiare.

Che cos’è il mito familiare? Il mito familiare è un insieme di rappresentazioni, valori e credenze condivise concernenti l’immagine che i membri di una famiglia hanno di se stessi. Il mandato familiare è l’assegnazione di un ruolo o di compiti fatta dai genitori ai figli; esso in qualche modo rappresenta l’anello di congiunzione tra il mito familiare e il modo in cui questo si esprime attraverso le aspettative dei singoli membri della famiglia e in particolare dei genitori (Stierlin,1978).  

Ogni famiglia ha il proprio mito che ha la funzione di creare un senso d’identità  e coesione della famiglia e dei suoi membri, il mito si trasmette di generazione in generazione.  La scelta del partner è quindi un strana mescolanza tra mito, mandato familiare e soddisfacimento dei bisogni personali (Angelo,1999). Il prevalere dell’uno o dell’altro dipende non solo dalla forza relativa di ciascuno di essi, ma anche dal tipo di relazione esistente con la famiglia d’origine. Nel caso in cui ci sia una relazione di dipendenza con la famiglia d’origine, il mito e il mandato prevarranno sul soddisfacimento dei bisogni personali. L’individuo sarà orientato a ricercare un partner che soddisfi le aspettative implicite o esplicite presenti nel mandato familiare, piuttosto che soddisfare i propri bisogni di accudimento e protezione. Nei casi in cui si verifica una ribellione al mandato familiare, l’individuo sceglierà un partner con caratteristiche opposte a quelle che la famiglia si aspetta. Ciò dovrebbe avere una funzione liberatoria rispetto ai vincoli imposti dal mandato familiare, in realtà anche questo tipo di scelta non si dimostra essere una scelta libera che tiene conto solo dei bisogni personali. Si può così dire che la scelta del partner sia l’espressione di un gioco estremamente sofisticato in cui la scelta sarà guidata da un’attenzione selettiva volta a cogliere tutti gli elementi del carattere e del comportamento della persona a cui siamo interessati che siano coerenti con il nostro mandato familiare, e da un’altrettanta disattenzione selettiva per tutti quelli elementi che invece potrebbero rendere problematica la relazione in quanto non coerenti con il nostro mandato. Per capire meglio come  l’individuo si orienta alla scelta seguendo le influenze  del mito e mandato familiare possiamo fare il seguente esempio: Claudia è una giovane donna che desidera intraprendere una relazione sentimentale. La sua storia familiare  parla di una famiglia prevalentemente maschilista in cui le donne sono poco considerate (questo è il mito) e di una mamma che aspira per sua figlia ad avere un uomo che abbia una buona posizione economica, per contrastare i momenti di grosse difficoltà economica vissute da quest’ultima (questo è il mandato familiare). Claudia, per essere leale con la sua storia familiare,  dovrà scegliere un uomo ricco che riscatti  le difficoltà economiche della mamma e sufficientemente maschilista. Il grado di influenza determinato dal mito è strettamente correlato con il grado di differenziazione raggiunto dalla persona interessata, dalla sua capacità di elaborare e risolvere i propri legami con le figure familiari più significative.

Nelle fasi iniziali della costruzione del legame, ciascun partner diventa il mezzo principale di trasmissione ed elaborazione del mito e dalla storia familiare. La relazione si sviluppa su un terreno  fatto di “problemi non risolti di perdita, separazioni, abbandono, individuazione, nutrimento e deprivazione”, seguendo una trama intra—intergenerazionale fatta di crediti e debiti che stabilisce ogni singolo ruolo che le persone coinvolte devono ricoprire seguendo tematiche di colpa, riparazione, ricerca di perfezione..tematiche comuni ad ogni storia familiare (Andolfi, Angelo, 1987). E’ possibile una scelta “libera”? L’esperienza quotidiana ci dimostra che una scelta “libera” è possibile quanto più le relazioni nella famiglia di origine sono prive di elementi conflittuali irrisolti, in tal caso la necessità di legarsi a un “particolare” tipo di partner sono molto meno pressanti.

Alla luce di tutto ciò è ancora lecito pensare al vecchio detto “l’amore è cieco?” Pare proprio di no!

Potremo dire che “l’amore ci vede benissimo e sceglie secondo una precisa  logica”. Esiste una linea verticale “intergenerazionale” che influenzerà le modalità con cui una persona  sceglierà  e si relazionerà con l’altr* lungo il suo percorso evolutivo.

Dott.ssa Angela Giampalmo

Psicologa – Psicoterapeuta

Bibliografia

Ainswort M.D.S., Blehar M., Waters E., Wall S. (1978): “Patterns on Attachment: A Psychological Study of the Strange Situation”. Erlbaum, Hillsdale.
Andolfi, M., Angelo, C. (1987): “Tempo e mito nella psicoterapia familiare”. Boringhieri, Torino 1987.
Angelo, C. (1999): “La scelta del partner. La crisi della coppia”. Raffaello Cortina, Milano 1999
Benoit, D., Parker, K. (1994): “Stability and transmission of attachment across three generations. Child Dev., 65
Bowlby J. (1969): “Attaccamento e perdita”, vol. 1: L’attaccamento alla madre. Tr. it. Boringhieri, Torino 1972.
Bowlby J. (1988): “Una base sicura”. Raffaello Cortina, Milano.
Stierlin, H. (1978): “La famiglia e i disturbi psicosociali”. Tr. it Boringhieri, Torino 1981.
Weiss, J. (1993): “Come funziona la psicoterapia”. Tr. it. Boringhieri, Torino 1999
Weiss R. (1982): “Attachment in adult life”. In: Parkes C.M., Stevenson Hinde J. (a cura di): The place of attachment in human behavior. Routledge, London.

IL COMPLESSO DI MEDEA: QUANDO L’ODIO VERSO IL PARTNER SI TRASFORMA IN INFANTICIDIO

Stando all’ultimo rapporto Eures, tra il 2000 e il 2014, sono stati 379 i figli uccisi da un genitore in Italia.

Da dati più recenti, ancora in fase di aggiornamento, emerge che sono quasi 500 i bambini uccisi da una mamma o un papà, ovvero dalle persone di cui si fidavano di più.

Nella fattispecie, passando in rassegna gli ultimi 20 anni, dal delitto di Cogne nel 2002 all’ultimo delitto commesso a Catania nel giugno 2022, vi sono stati, come su detto, molteplici infanticidi, spesso anche plurimi, ma tra quelli più eclatanti per la nostra indagine ricordiamo:  

Matteo e Davide di 4 anni e 21 giorni, furono uccisi a giugno del 2002 dalla loro mamma, Olga Cerise, 31 anni, che li gettò nel laghetto di Les Illes a Saint Marcel, nei pressi di Aosta. La donna ha confessato di averli uccisi. Il GIP dispose la custodia Cautelare nella sezione psichiatrica dell’ospedale Martini di Torino, in quanto non ritenne vi fosse pericolo di fuga, ma di reiterazione dell’omicidio, in quanto come scrisse nell’ordinanza, la donna apparve: “tuttora animata da concreto risentimento ed astio nei confronti del proprio marito e dei suoceri”

Nel Settembre del 2009 a Castenasto (BO), una donna uccise i figli di 6 e 5 anni accoltellandoli, poi si suicidò buttandosi dalla terrazza al secondo piano della casa dove vivevano. La donna, sarà poi accertato, soffriva di depressione per una separazione in vista dal marito.

Il 6 marzo 2013, una 43enne di Rovito, in provincia di Cosenza, Daniela Falcone, si recò a prendere il figlio di 11 anni a scuola e lo portò in montagna. Li lo uccise, sgozzandolo con le forbici, colpendolo ripetutamente. Tenterà invano, di lì a poco, di suicidarsi. La donna aveva da poco appreso della relazione extraconiugale intrapresa da suo marito.

Il 29 Novembre 2014, a Santa Croce Camerina, in provincia di Ragusa, Lorys Andrea Stival, un bambino di 8 anni, venne trovato in un canalone, a 4 chilometri dalla scuola che frequentava. La madre Veronica Panarello, 26 anni, ne aveva denunciato la scomparsa qualche ora prima. Dall’esame autoptico, pare che il bambino morì per strangolamento causato da fascette di plastica. Dopo diverse versioni riportate dalla donna, tra cui il coinvolgimento anche del suocero, che per questo la denunciò per calunnia, la Panariello, al termine di un processo anche mediatico, sta scontando ad oggi una pena a 30 anni di reclusione per la morte del figlio. Dalla perizia psichiatrica effettuata il 7 giugno 2016, emerge che la donna “dimostra una personalità non armonica, ma era ed è capace di intendere e di volere”.

A Settembre del 2020 a Rivara, in provincia di Torino, Andrea di 11 anni, viene ucciso da suo padre, Claudio Baima Poma, con un colpo di pistola. Dopo avergli sparato, lo ha abbracciato e con l’altra mano ha utilizzato la stessa pistola per suicidarsi con un colpo alla testa. Da quanto scrisse l’uomo sui social prima di tale gesto: “Potrai separare i nostri corpi, non le nostre anime…etc”, pare che l’uomo affetto da una forte depressione, non avesse ben digerito la separazione dalla moglie, e quel gesto estremo, fosse atto a volerle infliggere un dolore immenso.

A marzo 2021, a Cisliano in provincia di Milano, Edith di soli 2 anni, fu uccisa dalla mamma, Patrizia Coluzzi, 41 anni, accusata di omicidio aggravato per la morte della figlia, avvenuta per soffocamento. Quella sera non c’erano i due fratelli maggiori, avuti dalla 41enne da un primo matrimonio. Dopo aver ucciso la piccola, la donna ha tentato di togliersi la vita, infliggendosi ferite alla pancia e alle braccia con un’arma da taglio. Pare che prima di quel gesto estemo la donna avesse denunciato per aggressione e stalking l’ex compagno, padre della bambina, ma che le accuse fossero state archiviate dal pm stesso. Si ipotizza un omicidio per vendetta, data la difficile separazione che i due coniugi stavano affrontando.

A gennaio 2022, a Mozzarone in provincia di Varese, Davide Paitone, di 40 anni uccide con una coltellata alla gola il figlio, Daniele, di 7 anni. I carabinieri ritrovano il corpo del piccolo nascosto dell’armadio, insieme con un biglietto di confessione. L’uomo, dopo aver ammazzato il figlio, tenta di uccidere anche la moglie dalla quale si stava separando, accoltellandola. Il 40enne ha provato a fuggire, ma è stato rintracciato e arrestato dai carabinieri. Prima del ritrovamento del cadavedere l’uomo invia un vocale alla ex moglie dove esprime la sua rivendicazione rispetto all’agressione: voleva punirla perchè gli aveva rovinato la vita e voleva portargli via il figlio; quando gli viene chiesto dove fosse Daniele lui risponde che “il bambino è al sicuro”. Secondo il GIP “la capacità di inviare un simile messaggio dopo l’accoltellamento della donna e del bambino, denota una freddezza criminale e un’organizzazione di pensiero e d’azione del tutto sintonizzate con la premeditazione dei delitti”.

Nel pomeriggio del 13 giugno 2022, Martina Patti, 23 anni, denuncia il rapimento della figlia, Elena Del Pozzo di quasi 5 anni da parte di tre uomini incappuciati. Il giorno dopo, confessa di averla uccisa e indica ai carabinieri il luogo dove l’ha sepolta. Da quanto emerge dalla vicenda diventata fortemente mediatica, pare che la giovane donna, non accettasse l’idea che la figlia si stesse affezionando alla nuova compagna del padre. Da un primo esame del GIP pare che la donna avesse tutta l’intenzione di uccidere e che il suo fosse un gesto premeditato.

Come visto, molti di questi infanticidi terminano con un suicidio da parte del genitore-assassino; probabilmente il suicidio, sussegue il momento in cui si “realizza” di aver commesso l’omicidio, di aver ucciso il proprio figlio/a.

In altri casi, invece, non solo questa presa di coscienza piuttosto che “pentimento” non avviene, ma dalla ricostruzione del delitto e dalle menzogne atte a coprire il fatto, sembra possa esserci una sorta di premeditazione o comunque la volontà di quel momento, di uccidere il/i proprio/i figlio/i.

In quasi tutti i casi riportati, il movente è legato alla separazione e/o gelosia nei confronti del ex partner, tale tendenza viene ricondotta in psicologia alla cosiddettaSindrome o complesso di Medea“.

Nella mitologia greca, Medea, è uno dei personaggi più celebri e, nello stesso tempo controversi. Il suo nome in greco significa “astuzie, scaltrezze”, infatti la tradizione la descrive come esperta di arti magiche e dotata di poteri addirittura divini.

Figlia di Eete, re della Colchide e custode per mezzo di un feroce e terribile drago, del Vello d’oro, capace di guarire le ferite.

Quando arrivarono gli Argonauti a conquistare la Colchide, presa dall’amore per Giasone lo aiutò a conquistare il vello d’oro, uccidendo il proprio fratello Aspirto; dopo il tradimento alla patria e la perfidia dimostrata nei confronti della sua famiglia, fuggì con Giasone e visse con lui in armonia, finché il re greco Creonte non propose a Giasone di dare la propria figlia in sposa, e quest’ultimo accettò.

A questo punto Medea, oltre a Creonte e sua figlia, uccise anche tutti i suoi figli avuti con l’eroe greco per vendicarsi del suo tradimento; da qui l’immagine di Medea associata al figlicidio per vendetta contro il coniuge.

La psicoanalisi è solita interpretare questo gesto come il voler “amputare” Giasone, poiché i figli erano una parte sua e il voler imporre da parte di Medea il totale possesso su di loro: “io li ho partoriti, io ho il diritto di ucciderli”.

A tal proposito lo psichiatra Philip Resnick (1969), parlava proprio di “vendetta del coniuge”, descrivendo come l’aggressività veniva spostata dal reale oggetto di risentimento (il marito), verso il figlio, che rappresentava il frutto di tale unione.

Pertanto, capita in situazioni al limite come quelle su descritte, che il disagio, la sofferenza psichica e l’incapacità di gestire una separazione, possano essere proiettate dal coniuge al figlio, che diventa così la rappresentazione vivente di un legame che invece si sta dissolvendo, diventando pertanto vittima e mezzo attraverso il quale far soffrire il partner.  

Stando a quanto su detto, si è propensi a pensare e a cercare “qualcosa di patologico”, in una madre o in un padre che uccidono il/la proprio/a figlio/a, si tende a pensare spesso al cosiddetto raptus omicida dato da una crisi psicotica o da situazioni al limite della psicosi, ma nel complesso di Medea, la madre o il padre, sono perfettamente lucidi e consapevoli di quello che stanno facendo e non hanno dunque vizi di mente, ovvero sono in pieno possesso della capacità di intendere e di volere (art. 85c.p.).

Bisogna però considerare che, il fatto di non avere infermità mentali permanenti o temporanee, non esclude la presenza di altre patologie psichiatriche e non, correlate a tale complesso, quali disturbi dell’umore (depressione, depressione post- partum), dipendenza da sostanze, disturbi della personalità, sicuramente accompagnati da situazioni familiari e contestuali instabili e dalla mancanza di un supporto emotivo.

Questo sicuramente non è un’attenuante, e di fatto ai genitori-assassini che non scelgono di togliersi la vita a loro volta, viene spesso dato il massimo della pena dal sistema giudiziario, ma può essere d’aiuto nel comprendere che per commettere un tale gesto, spesso connotato da una disumanità indescrivibile, è sicuramente plausibile che non si sia del tutto privi di disturbi mentali.

Dott.ssa Monica Iuliano

Psicologa – Psicoterapeuta

Asma: una visione psicosomatica

La respirazione è una funzione essenziale per la vita. Pochi minuti senza ossigeno e il nostro corpo muore.

Da una ricerca su Google ho scoperto che attualmente il record mondiale di apnea statica è del croato Budimir Šobat, che con 24 minuti e 33 secondi è entrato nel Guinness World Records. Il mio pensiero si sposta dunque a noi non atleti allenati alle apnee, per cui questo tempo si riduce drasticamente!

Possiamo considerare che l’ossigeno sia la prima fonte di nutrimento essenziale per il nostro organismo, disponibile in larga abbondanza nel mondo in cui viviamo e a cui possiamo accedere con la facilità e l’immediatezza di un’inspirazione. Il nostro corpo a riposo e in condizioni di tranquillità emotiva, si stima compia circa 12 atti respiratori al minuto, perciò idealmente 17.280 in un giorno. Tutto questo accade senza nemmeno accorgerci: il nostro corpo respira autonomamente senza richiedere attenzione alcuna da parte nostra. Molto diverso è per chi soffre di disturbi a carico dell’apparato respiratorio.

Uno tra questi è l’asma, un’infiammazione in molti casi cronica delle vie polmonari. Si manifesta con   broncospasmi e ipersecrezione mucosa, che portano ad una respirazione faticosa, con conseguente tosse, respiro sibilante e senso di soffocamento. L’innesco delle crisi, nelle persone predisposte geneticamente, proviene da stimoli allergici o irritanti o forti stress psico-fisici. Nelle condizioni più gravi può portare anche alla morte.

Secondo l’OMS la diffusione di questo disturbo, nella popolazione di tutto il mondo, è in continuo aumento, e le ragioni si ipotizza possano essere ricercate nello stile di vita sempre più urbanizzato, che spinge a passare molto tempo in luoghi chiusi a contatto con aria spesso stagnante o condizionata, acari, smog e polveri sottili.

Durante la crisi asmatica, la persona sperimenta un’angosciante “fame d’aria”, con tentativi disperati di trattenerla dentro di sé, aggrappandosi alla sostanza esterna vitale, l’ossigeno, che in quel momento sembra non essere accessibile in misura sufficiente per la propria sopravvivenza. Il soffermarsi da parte della persona sulla polarità vitale della respirazione, l’inspirazione, sposta l’attenzione sul bisogno pressante di rimandare a tutti i costi il momento mortifero, abbandonico del lasciare andare l’aria-vita-nutrimento. Questo introduce al tema profondo che caratterizza il disturbo: un conflitto che si gioca sul continuum dipendenza-indipendenza in relazione al mondo nutritivo materno.

Edoardo Weiss, psicanalista, nel 1913 descrisse l’attacco asmatico come espressione di un pianto represso o inibito, che veicola  l’angoscia esistenziale di restare tagliati fuori dalla possibilità di accedere alle fonti di nutrimento e protezione. Da numerosi casi clinici è possibile osservare che chi presenta il disturbo, trovi difficile piangere, quasi come se i mezzi classici per ottenere attenzione, cura e risorse vitali, non fossero percorribili. Si può constatare che molte crisi asmatiche trovano fine con il pianto o il riso. Nell’osservazione della relazione tra madre e figlio asmatico, si rilevano spesso momenti o condizioni di indisponibilità della figura di accudimento per distanza e/o inaccessibilità fisica ed emotiva. Ciò genera nel bambino un “complesso di abbandono”.

Il tema esistenziale di chi soffre di asma è decisamente legato alla dualità vita-morte, che si gioca nella relazione con sé stessi e con l’altro fuori da sé.

I percorsi psicoterapeutici possono essere di grande aiuto in questi casi, per prendere maggiore consapevolezza di sé, familiarizzare con le proprie risorse interiori utili allo sviluppo di una maggiore indipendenza emotiva e per esplorare e fare proprie nuove modalità relazionali.

Bibliografia:

Agresta F., Il linguaggio del corpo in psicoterapia. Glossario di Psicosomatica, Roma, Alpes Italia, 2010

Caprioglio V., Fornari P., Marafante D., Morelli F., Parietti P., Dizionario di psicosomatica, Milano, Edizioni Riza, 2007.

Asma – EpiCentro – Istituto Superiore di Sanità (iss.it)

Asma situazione epidemiologica (iss.it)

Dott.ssa Erika Gerardi

Psicologa – Psicoterapeuta

ANCHE LA TRISTEZZA È INDISPENSABILE

Il sole, le vacanze, il dolce far niente… in estate ci si sente come obbligati ad essere felici. E anche il resto dell’anno, soprattutto condizionati dai mass media, dagli influencers, si vive una certa imposizione alla felicità.

E se, invece, essere infelici di tanto in tanto desse un senso alla vita? Se contribuisse a legarci agli altri, a renderci “più umani”? L’arte di vivere consiste anche nel fare spazio alla sventura e al dolore, divenuti tabù e indesiderabili nelle nostre società. Perché, subordinatamente al diktat dell’efficienza, i disturbi della felicità e le loro processioni di lacrime non fanno parte della dinamica dei vincitori.

E se, paradossalmente, le prove della vita, creando significato e connessione, potessero essere anche fonte di felicità?

FELICITA’ MATERIALE VS FELICITA’ AUTENTICA

Vacanze, feste, progetti da sogno… la società ha la tendenza a volerci far credere che tutti siano perfettamente felici. E invece, gli psicologi, gli psicoterapeuti e gli psichiatri non hanno mai avuto così tanto lavoro. Il fatto è che noi siamo preoccupati da una definizione di felicità che è piuttosto materiale, che a che fare con il successo e la perfezione, mentre la felicità autentica è più profonda, più duraturacreare una vita ricca, piena e significativa… con l’altro.

ESSERE CON L’ALTRO

Viviamo in una società individualista, intrisa dall’ossessione della ricerca della felicità. Ma la felicità è legata agli altri, all’essere insieme. E che la tristezza ha la sua importanza. Senza riferirci ai grandi traumi che possiamo attraversare, tutti i giorni della nostra vita viviamo piccole cose imperfette che ci rendono tristi. Allora se ne parla agli altri, ai familiari, agli amici. Ed è che si crea la felicità, questo legame profondo con gli altri, vero e autentico. Ci si sente ascoltati dall’altro, compresi. L’altro sente di aiutarci. E così, entrambi, ci sentiamo più felici.

IL SENSO DELLA VITA

Si corre, a volte, tutta la vita incontro all’idea che la felicità si costruisca facendo cose, raggiungendo obiettivi (lavoro, matrimonio, figli, la pensione...). Ora, il punto non è di cercare la felicità a tutti i costi, ma di trovare un senso alla vita. Prendersi cura degli altri, dividere la felicità con l’altro, solo questo genera una felicità vera, durevole e autentica. E sono proprio le cose sgradevoli o tristi che ci incitano a legarci agli altri.

LA TRISTEZZA È NORMALE

L’essere umano non ha voglia di vivere le emozioni sgradevoli, le vede subito come dei problemi, le evita, eppure sono emozioni normali, naturali e hanno una funzione biologica ed evolutiva. La tristezza ci lega agli altri. Senza questa relazione profonda e vera con l’altro, non si può essere felici. Si ha tutto materialmente ma si ha una sensazione di vuoto, di niente. Prendersi cura dell’altro dona senso, la relazione è alla base della nostra vita terrena.

PIU’ FORTI INSIEME

Si ha la tendenza a pensare che essere tristi o mostrarsi infelici di fronte agli altri renda vulnerabili. La nostra cultura, spesso, ci porta a considerare la tristezza come un qualcosa che è meglio nascondere, non mostrare. Questo perché si ha in mente un ideale di “uomo che si fa da sé” che è totalmente illusorio. Tutto quello che l’uomo ha costruito nella storia dell’umanità, l’ha fatto insieme a qualcuno. Sfortunatamente, nel corso di questi ultimi due anni, non abbiamo potuto essere insieme e con la morte che bussava alle nostre finestre con il Covid… ci si è allontanati dagli altri. Ma anche la morte partecipa a dare un senso alla nostra vita, perché ci permette di legarci agli altri, di fare dei rituali insieme, di condividere, di raccontarsi cose, di connettersi. Quindi di creare felicità. Si ha bisogno dell’altro quando si è felici, certo, ma soprattutto quando si è tristi.

Dott.ssa Giulia Giacone

Psicologa-psicoterapeuta

Per approfondire:

De Wachter, D., Cyrulnik, B., Michel, N. (2021). L’Art d’êtremalheureux. La Martinière editore.
Harris, R. (2010). La trappola della felicità. Come smettere di tormentarsi e iniziare a vivere. Erikson editore, Trento.

I TRE “ATTORI” DELLA NOSTRA PSICHE E LE LORO MANIFESTAZIONI: BAMBINO, GENITORE E ADULTO

E’ capitato a tutti di avere pensieri nella testa contrastanti, di pensare in un modo e nel giro di poco di avere l’impressione di aver cambiato idea del tutto. Alle volte ci sentiamo “strani” e temiamo di essere “pazzi”: diventa, così, difficile poter comunicare agli altri le nostre sensazioni, poichè di fatto siamo i primi a non riuscire a comprenderle.

Perché questo accade?
Ognuno di noi porta con sé diverse parti che nella vita di tutti i giorni interagiscono, comunicano, s’impongono e spesso ci fanno soffrire.
Imparare a vederle, conoscerle e ascoltarle può essere un punto di svolta sorprendente ma bisogna spesso potersi affidare ad un professionista per non perdersi in questo percorso a tratti difficile, ma illuminante.

Di quali “parti” stiamo parlando? E quante sono?
Ognuno di noi porta dentro di Sè tre stati mentali dell’Io. Il primo è stato chiamato da diversi autori in modo differente: è la parte che assume il nome di Infante, Innocente o Bambino interiore.

In terapia mi trovo molto spesso a guidare i pazienti a sintonizzarsi con questa parte: è importante sapere che il Bambino che siamo stati rivive in noi per tutta la vita, ci accompagna nella nostra quotidianità e, a volte, le sue paure o le sue insicurezze prendono il sopravvento.
Le persone che incontriamo comunicano spesso sofferenza ed il proprio Bambino interiore cerca di comunicare qualcosa proprio attraverso essa.
Si tratta di un piccolo Sè che probabilmente è stato spaventato, ferito, trascurato, deluso, abusato, bullizzato, isolato e che è alla ricerca di qualcuno che possa prendersi cura di lui.

È alla ricerca di un adulto che possa essere in grado di “prenderlo per mano” e con tono rassicurante possa sussurrargli: “Va tutto bene, ci sono qui io”.

Questa parte, in un primo momento, viene interpretata dal professionista che diventa per il Bambino interiore del paziente l’Adulto di cui avrebbe avuto bisogno da piccolo.
Ma, affinché la psicoterapia sia funzionale, è indispensabile guidare la persona a diventare l’Adulto significativo di cui il Bambino interiore ha bisogno.

Bisognerà imparare ad essere rassicuranti, amorevoli, accoglienti e aperti al mondo, proprio come un buon genitore avrebbe fatto con il proprio bambino.
Molte volte è capitato che i pazienti che si sintonizzano con il proprio Bambino interiore siano perplessi nel doverlo “sentire” per tutta la vita. Ma un bambino che viene rassicurato e protetto, non sarà un bambino che piangerà o urlerà per tutta l’esistenza. Potremmo godere della sua compagnia, quella di un bambino sorridente e sereno.

Sembrerebbe che all’interno di ciascuno di Noi la “scena” sia occupata esclusivamente dal Bambino interiore, ma sul “palcoscenico” in realtà troviamo altre due figure: il Genitore e l’Adulto. A loro modo queste due parti intervengono e si schierano con l’intento di difendere il Bambino interiore dal pericolo e dal dolore. Ma non sempre le nobili intenzioni bastano.

Il Genitore si crea mettendo insieme tutto ciò che abbiamo assorbito dai caregiver, da coloro che ci hanno accudito. Spesso in questo stato mentale ritroviamo il comportamento, le emozioni, gli schemi dei nostri genitori o di chi ci ha cresciuto.
Ed ecco che la critica, la svalutazione, la disapprovazione, la delusione spesso viene manifestata da questa figura proprio sul Bambino interiore.

L’Adulto, invece, è la parte più intellettuale, razionale e spesso risulta essere una parte “congelata” che non riesce a passare all’azione.

Mi piace pensare che questo stato dell’Io possa diventare un giusto mediatore tra il Bambino e il Genitore, ovvero quella parte che sia in grado di riflettere tenendo in considerazione i bisogni degli altri due stati mentali, per poter agire in modo proficuo.

Vedere queste tre figure (o stati mentali dell’Io) e comprendere come esse si manifestino, apre la strada verso il cambiamento.
E’ importante riuscire a “sbloccare” l’Adulto e renderlo comprensivo, benevolo, consapevole di come questi sentimenti passati condizionino, inconsciamente, la nostra vita di tutti i giorni.

“I presupposti non sono facili da attuare. Dovrai pensare, anche se non sei abituato a pensare. Ti capiterà di doverti buttare, anche se non sei abituato a buttarti. Ti capiterà di dover mettere a tacere le tue lamentele, anche se sei abituato a piagnucolare. Ti capiterà di dover sopportare un’ansia tutta nuova e delle strane sensazioni.
Diventando un genitore lucido e dinamico per il tuo bambino del passato, tenero ma severo quando è necessario, puoi fare qualcosa che nessun’altra può fare. Al posto tuo: inventare per te una vita nuova e appagante…. E un nuovo modo di vedere te stesso e chi ti vive accanto.”

(W. Hugh Missildine “Il bambino che sei stato” 1963, ed 2004).

 

Dott.ssa Sonia Allegro

Psicologa – Psicoterapeuta

NON È UN PAESE PER MAMME

Tutti ci chiedono di fare figli, dal Papa ai governi, la natalità è a i minimi storici e per incentivarla si adottano modalità discutibili quali rendere illegale l’aborto (vedere alla voce America) o elargire 4mila euro una tantum alle mamme per convincerle a non interrompere le gravidanze (Piemonte).

Ma com’è che il viaggio della maternità è diventato così disincentivante?

Partiamo dall’inizio.

In Italia le donne fanno figli sempre più tardi, in media intorno ai 31 anni. E negli 10 ultimi anni in Europa il numero di donne che partorisce il primo figlio dopo i 40 anni è raddoppiata, con l’Italia che si piazza al secondo posto dopo la Spagna su questa classifica.

Il perché è presto detto: mancanza di occupazione, fatica a raggiungere un reddito stabile, enorme difficoltà nel potersi permettere una casa. E se questa combinazione di fattori riguarda tutti i giovani, sulle donne ha un impatto maggiore. Il tasso di occupazione femminile è fermo al 50% e i datori di lavoro hanno da sempre la tendenza ad investire meno sulla formazione e la promozione delle loro dipendenti donne che potrebbero un giorno assentarsi per maternità o per far fronte al carico famigliare che, ancora, ricade in gran parte su di loro. Ma su questo torneremo più avanti.

Alla luce di quanto detto, prima che una donna arrivi anche solo a pensare di mettere su famiglia (se lo desidera), facilmente sarà over 30. E, come è noto, la biologia non è così interessata alle umane vicende. Dunque, spesso, presenta il suo conto e allora i tempi per arrivare ad una agognata maternità possono allungarsi ancora. A volte si attraversano anni di cure psicologicamente e fisicamente provanti e, purtroppo, si può incappare in cliniche della fertilità più o meno serie che lucrano sulla sofferenza altrui.

Quando finalmente si riesce a concepire, inizia un viaggio di trasformazione fisica e mentale senz’altro potente e interessante, ma non sempre così idilliaco come viene dipinto, o almeno non per tutte.

È un aspetto di cui si comincia a parlare, ma non ancora pienamente sdoganato. C’è una sorta di ritrosia nel raccontare con schiettezza anche gli aspetti meno amabili dell’essere incinte, anche tra le amiche. L’immagine mentale della donna che nel riprodursi attraversa il momento di gioia più grande della sua vita, è dura a morire.

Stessa sorte silenziosa tocca ancora all’aborto, benché sia molto comune: basti pensare che circa 1/3 delle gravidanze termina con un aborto spontaneo. Purtroppo le pratiche ospedaliere sono ancora molto carenti nel prendersi cura di una donna dopo tale evento e la società non è affatto preparata ad essere di supporto. L’aborto viene spesso sminuito, silenziato, messo da parte con frasi crudeli e sbrigative e, troppo spesso, le madri si ritrovano anche a gestire un aleggiante senso di colpa, come fossero portatrici di qualche difetto o inidoneità. Invece, sappiamo che gli aborti spontanei avvengono per la gran parte dei casi per una selezione naturale del corpo e non per un accudimento inadeguato. In questo, il nostro termine italiano aborto (ab-ortus, allontanato dalla nascita) è più corretto dellinglese miscarriage (mal tenuto, mal contenuto).

Quando la gravidanza procede e arriva al termine, le donne affrontano il temuto momento del parto. E se il dolore non fosse sufficiente come preoccupazione, si aggiunge anche il terno al lotto della gestione ospedaliera. È importante sapere, infatti, che lItalia presenta un numero eccessivo di parti cesarei. Nel 2020 veniva fatto ricorso al cesareo nel 31% dei casi, nonostante siano state create delle linee di indirizzo per la riduzione di questa tipologia di parto, proprio perché eseguito in misura troppo frequente rispetto alla reale necessità. Il problema del ricorso eccessivo al cesareo, a onor del vero, accomuna tutta Europa e il tentativo di invertire la tendenza si sta diffondendo, anche se troppo lentamente. I paesi più virtuosi in tal senso sono Finlandia e Svezia che vi ricorrono solo nel 16% dei casi.

Un’altra pratica abusata (60% dei parti) è quella dell’episiotomia, una vera e propria chirurgia vaginale che consiste nell’effettuare un taglio nella parte bassa della vagina per aumentare lo spazio e favorire l’uscita della testa e del corpo fetale al momento del parto. L’episiotomia, nonostante la sua natura chirurgica, viene ancora troppo spesso praticata senza il consenso della madre (e talvolta senza nemmeno informarla). L’idea che diminuisca il rischio di lacerazioni è stata confutata e, anzi, oggi si sa che può provocarne un peggioramento. Inoltre, se non ben effettuata, rischia di lasciare dei danni permanenti dal punto di vista funzionale, sessuale, oltreché estetico.

L’episiotomia oggi è ritenuta una pratica da utilizzare in rari casi perché il solo fine dell’aumento di spazio può essere ragionevolmente raggiunto attendendo i fisiologici tempi (a volte molto lunghi) dell’espulsione.

A tutto questo, si aggiunge la violenza ostetrica (di cui è parte l’episiotomia non concordata, così come la manovra di Kristeller) che riguarda tutta una serie di abusi verbali e fisici subiti durante l’assistenza al parto e al post-partum, che sono lesivi dei diritti alla salute riproduttiva e dell’autonomia decisionale della donna sul proprio corpo e la propria sessualità. Inutile dire che queste pratiche impattano profondamente sulla qualità della vita della donna e non solo durante e dopo il parto. Secondo un’indagine del 2017, su un campione di 5 milioni di donne, il 21% ha subito violenza ostetrica. Numeri che fanno paura ma che smuovono poca reazione, quasi a richiamare l’idea che partorire con dolore implichi anche tacere e sopportare. L’informazione tra le future mamme rispetto a queste pratiche è ancora molto bassa, motivo per cui le donne stesse spesso non le riconoscono come violenza. Non ne hanno gli strumenti, non sono mai state informate sui propri diritti anche relativi al momento del parto e, facilmente, lì per lì non hanno la forza né la lucidità di opporsi.

Se siamo giunte fin qui e tutto quanto è andato, più o meno, liscio, arriviamo al fatidico rientro a casa e all’adattamento alla vita da neo-mamme.

Come sappiamo, nel 2021 in Italia il congedo di paternità è stato portato a 10 giorni ed è stato reso obbligatorio. Prima del 2021, solo il 40% dei papà lo richiedeva e molti non erano a conoscenza di questo diritto. Nonostante il miglioramento, il congedo di paternità in Italia resta ancora tra i più bassi d’Europa (in Spagna sono 16 settimane): ciò significa che, salvo pochi giorni, al rientro a casa le donne sono spesso sole ad affrontare la fatica e l’adattamento fisico e mentale ad una nuova vita. Il principale appoggio è ancora rappresentato dai nonni, se sono in pensione.

Questo è il periodo in cui fa capolino il rischio della depressione post-partum, che colpisce circa il 15% delle neo-mamme, mentre l’85% sperimenta il “baby blues” cioè un lieve disturbo dell’umore dovuto al rapido mutamento degli ormoni nel corpo dopo il parto. La privazione del sonno, il recupero fisico e la fatica fanno il resto.

La ricerca ha ormai concordato sull’importanza del sostegno e del supporto alle neo-mamme in questo periodo delicato. Il supporto sociale ed emotivo è fondamentale per sentirsi ascoltate, rilasciare paure e sensi di inadeguatezza e ritrovare benessere e fiducia in stesse.

È chiaro che lasciare le mamme sole in questo periodo, non sia la scelta ottimale, e 10 giorni di congedo di paternità sono una goccia nel mare. Le donne si adoperano nel creare reti con amiche e compagne di corso pre-parto o rivolgendosi ai consultori, ma non tutte e non sempre è sufficiente a scongiurare la solitudine.

A questo si aggiunge che non tutte le donne possono o vogliono fermarsi dal lavoro molto tempo dopo il parto. Ad esempio, ci sono donne che non si trovano nel ruolo di accudimento primario, ci sono donne libere professioniste che non possono permettersi una maternità lunga, ci sono donne che non possono contare sul sostegno del partner o dei nonni, ecc. Il problema è che quando un bimbo è sufficientemente grande per l’asilo nido, i posti bastano in media per 3 bambini su 10!

Questo è un fatto davvero interessante: se consideriamo che una mamma dipendente ha diritto a 5 mesi di congedo di maternità obbligatorio (pagati all80% della retribuzione e distribuiti in modo flessibile tra pre e post partum), verrebbe da pensare che intorno al 5° mese del bebè la società provveda con un servizio di assistenza e di inserimento scolastico adeguato e atto a conciliare lavoro e famiglia. Ma così non è. Il posto non c’è e i bambini andrebbero iscritti quasi prima ancora di nascere. Il nido privato, di contro, è una soluzione per pochi visto che si avvicina in media al costo di un affitto.

La cura dei cuccioli d’uomo di questa società è ancora chiaramente delegata ai nuclei famigliari (leggi mamma e nonni) nel loro privato. Si conta sulla capacità dei singoli di arrangiarsi, non sulla necessità di una società evoluta di fornire servizi ai nuovi nati che ne costituiranno il futuro. Come se la procreazione non riguardasse la collettività, insomma.

Un diritto facoltativo di cui le famiglie possono comunque avvalersi è il congedo parentale. In Italia sarebbe a disposizione di entrambi i genitori nella misura di 6 mesi ciascuno, ma con un limite di 10 mesi a famiglia (allungabili a 11 se è il padre ad astenersi dal lavoro per almeno 3 mesi) e con un’indennità pari al 30% della retribuzione. Il congedo parentale va utilizzato dalla nascita del bambino fino ai 12 anni di età, ma viene retribuito al 30% dello stipendio solo fino ai 6 anni, in seguito non è prevista indennità.

Non è una sorpresa scoprire chi ne usufruisce. La pandemia ci ha ben mostrato come l’accudimento ricada ancora in massima parte sulle spalle delle donne, facendo solo emergere un dato che è sempre rimasto costante negli anni: l80% dei congedi parentali viene richiesto dalle donne. Questo significa che quando le famiglie sono costrette a scegliere tra cura della prole e avanzamento lavorativo, sono le donne a fare un passo indietro.

Come abbiamo già detto, i datori di lavoro non trovano conveniente investire su una risorsa femminile che sarà più assente e quindi anche la possibilità di crescita professionale diminuisce. Tutto ciò perpetra un meccanismo che alimenta la disuguaglianza: quando ci si ritrova a scegliere chi nella coppia debba rinunciare al lavoro o prendere permessi per farsi carico di un lavoro di cura non retribuito, chiaramente la scelta ricadrà su chi già occupa una posizione più bassa e percepisce un salario minore.

Le tabelle dell’Inps, così, ci mostrano chiaramente come la maternità costituisca la principale fonte di discriminazione sul lavoro. Dopo la nascita di un figlio, le carriere delle donne naufragano drasticamente: a 15 anni dalla nascita i salari lordi annuali delle madri sono di 5700 euro in meno rispetto a quelli delle donne senza figli.

Per chi invece riesce, coi salti mortali, a far stare in piedi sia il lavoro che la famiglia, arrivano i vissuti di colpa e inadeguatezza. Perché viviamo in una società che, al netto delle sue mancanze, non fa sconti alle madri: chiede loro di lavorare come se non avessero figli e di accudire i figli come se non lavorassero. Tutto ciò crea un’asticella di mamma perfetta e multitasking ovviamente inarrivabile, a meno di scarificare tutte se stesse e la propria salute mentale.

Il problema è che finiamo per crederci e vivere annaspando, cercando di essere presenti come madri, tenere la casa in ordine, lavorare al meglio della nostra concentrazione e puntando in alto sennò non siamo ambiziose, cucinando manicaretti e tenendo viva la passione di coppia, nel mentre che ci alleniamo per rientrare nei canoni estetici della nostra società e dedichiamo tempo a noi stesse e alle amiche perché sennò ci trascuriamo. Tutti obiettivi valevoli e degni del nostro tempo, se solo fossero condivisi in un progetto di cura con i nostri partner (che per fortuna, soprattutto dalla generazione Millenial in avanti, stanno facendo molti passi di presenza) e con una società che si faccia vero carico delle sue mamme e dei suoi piccoli cittadini, invece di relegare i servizi all’infanzia ad una questione da risolversi in privato.

Alla luce di tutto questo, più che chiedersi perché non facciamo più figli, verrebbe da chiedersi perché mai li facciamo ancora nonostante tutto!

Per il futuro, il tanto chiacchierato PNRR fa parte del progetto chiamato Next Generation UE che, sulla carta, già dal nome, dovrebbe rappresentare un’opportunità di finanziamento per i diritti dellinfanzia e il raggiungimento della parità di genere. Insieme a questo, serve una rivoluzione culturale per rimettere al centro della politica e della società il discorso della cura e della sua condivisione.

Una madre (o un padre, n.d.r.) che sta allevando suo figlio nel modo giusto, fa per il suo paese infinitamente di più di quanto fanno tutti i governanti, Werner Braum.

Se sei una futura mamma o una mamma e ti trovi a sperimentare alcune delle situazioni descritte in questo articolo, non sei sola! La maternità può metterci in contatto con esperienze reali e psicologiche difficili da gestire in solitudine. LAssociazione Eco può aiutarti, trovi tutte le informazioni utili ai seguenti link:

https://www.ecoassociazione.it/mentre-attendo-te-mi-prendo-cura-di-me/

https://www.ecoassociazione.it/servizi/psicoterapia-low-cost/

Dott.ssa Valeria Lussiana

Psicologa Psicoterapeuta