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BIOFILIA E TERAPIA FORESTALE

Il termine biofilia (letteralmente amore per la vita) è stato introdotto da Fromm nel 1964 inteso come tendenza psichica, intrinseca alla biologia umana, a rivolgersi istintivamente verso la natura e le altre forme di vita. Secondo questa teoria, l’uomo di fronte a paesaggi naturali subisce una forma di “fascinazione”, intesa come attenzione involontaria che, contrariamente all’attenzione diretta e sostenuta, non richiede sforzo. Questo permette alla nostra mente di riposare e rigenerarsi, riconoscendo nella natura incontaminata un ambiente familiare, in qualche modo già conosciuto e riconoscibile.

I suoni e le immagini che provengono dalla natura, ci rimandano ad una sorta di memoria ancestrale, sono stimoli che non abbiamo bisogno di elaborare ed interpretare cognitivamente con sforzo, perché i nostri sistemi sensoriali sono, a partire dall’inizio della vita dell’uomo sulla terra, strutturati ed ottimizzati per elaborare quello specifico tipo di sensazioni. Non si viene mai sorpresi, l’attenzione non è mai catturata in modo attivo, non è mai allerta e questo facilita il recupero energetico ed il benessere psicofisico.

La terapia forestale, prende origine a partire proprio dai costrutti della biofilia, ovvero dell’evidenza che il contatto con la natura, a diversi livelli (dal più indiretto a quello più immersivo) genera benessere. Lo sanno bene i giapponesi che per primi hanno adottato il Shinrin-yoku (letteralmente bagno con il bosco) come parte delle strategie di prevenzione delle malattie croniche e tutela della salute pubblica. Nel 2020 l’ONU ha riconosciuto la frequentazione degli ambienti forestali come pratica di medicina preventiva, in particolare nel contrastare gli effetti successivi alla pandemia e, in Italia, il Ministero per le politiche agricole ha indicato la terapia forestale come un servizio socio culturale nel nuovo piano per le politiche forestali

Nonostante alcune ricerche abbiano dimostrato che già l’esposizione virtuale ad ambienti forestali sia sufficiente a ridurre i livelli di ansia percepita, la terapia forestale normalmente propone attività più strutturate e immersive come camminate consapevoli, meditazione, yoga, mindfulness e semplici attività manuali, svolte in piccoli gruppi guidati da guide specializzate affiancate da operatori sanitari della salute mentale.

Gli effetti benefici sono “dose dipendente”, ovvero più tempo si trascorre in un contesto naturale incontaminato, maggiori e più duraturi sono i benefici per la salute fisica e psichica. In media si consiglia di trascorrere nell’arco di una settimana almeno 2 ore immersi in ambiente naturale per avere benefici in termini di benessere percepito.

Quello che viene proposto è di compiere una esperienza immersiva, ovvero che coinvolga tutti i 5 sensi:

LA VISTA: è stato dimostrato che anche la sola stimolazione visiva con immagini forestali proiettate su uno schermo portava benefici psicologici e fisiologici. La visione di un contesto naturale, meglio ancora se selvaggio e incontaminato, con presenza di corsi d’acqua e con diverse tipologie di alberi e arbusti, produce una significativa riduzione dei livelli di ansia percepita.

IL TATTO: con qualsiasi parte del corpo di un elemento naturale produce un effetto calmante e un aumento dell’attività parasimpatica. Il contatto, in particolare con il legno di alcune specie arboree, soprattutto conifere, induce rilassamento rilevabile a livello fisiologico. Interessante notare che questo avviene sia in ambienti naturali all’aperto che in ambienti indoor in cui siano presenti manufatti in legno.

IL GUSTO: connette ancor più profondamente all’ambiente naturale, si pensi non solo alla gratificazione nel gustare piccoli frutti selvatici, ma anche ai possibili benefici di alcune piante selvatiche.

L’UDITO: gioca, ancor più della vista, un ruolo importante nell’indurre rilassamento; il suono di un ruscello, del vento tra gli alberi da soli possono determinare una sensazione di benessere

L’OLFATTO: è il senso che viene più coinvolto negli effetti benefici derivanti dalla terapia forestale. Quando ci troviamo, in particolare in un bosco, respiriamo quello che le piante emettono, cioè, composti organici volatili biogenici (detti BVOC), ovvero biomolecole con importanti effetti benèfici; da soli, anche a basse concentrazioni, sono ad esempio in grado di ridurre la percezione di ansia.

Biomolecole diffuse da piante diverse possono avere effetti diversi: antiinfiammatori, antiossidanti, calmanti, ansiolitici, antidepressivi, benèfici rispetto ai disturbi del sonno (conifere) antimicrobici, antiinfiammatori, anti-emorragici (latifoglie), neuroprotettivi(faggio).

I BVOC sono facilmente solubili nel sangue per cui vengono assimilati molto facilmente e sono in grado di superare facilmente la barriera ematoencefalica e quindi di produrre un effetto diretto sul cervello. Effetti simili si possono avere anche in ambienti chiusi in presenza di manufatti in legno, suoi derivati o oli essenziali.

Come illustrato la terapia forestale ha effetti benefici, in grado di prevenire tutta una serie di disturbi, inserendosi quindi come utile strumento di prevenzione primaria. È in grado, infatti, di prevenire alcuni disturbi a livello circolatorio, diminuendo la frequenza cardiaca, la pressione sanguigna e i livelli di cortisolo, e migliorando l’efficienza del sistema immunitario, con una maggiore produzione di linfociti Natural Killer

Nuove evidenze si stanno raccogliendo anche rispetto alle possibilità terapeutiche della terapia forestale che si dimostra di ausilio nel trattamento di alcuni disturbi. Si è evidenziata ad esempio una riduzione della sintomatologia depressiva in particolare quando la terapia forestale si associa a pratiche meditative. Altre evidenze riguardano l’impatto della terapia forestale nel disturbo da dolore cronico, nel disturbo d’ansia e nel trattamento delle demenze in particolare nelle funzioni di attenzione e memoria. Negli ultimi anni sono diversi i filoni di ricerca che riguardano le applicazioni terapeutiche della terapia forestale; un elemento di criticità va rintracciato però nella difficoltà di indentificare protocolli standardizzati, ripetibili e controllati che permettano di strutturare protocolli terapeutici ufficiali.

In conclusione, ancora una volta si ha evidenza di come l’equilibrio mente corpo non possa prescindere dall’equilibrio con la natura e col ritrovare antichi rituali e paesaggi che ci rimettano in contatto con una dimensione naturale ancestrale dove la bellezza e l’armonia contribuiscono al nostro benessere.

Dott.ssa Chiara Delia

Bibliografia

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IL DOLORE COME ESPERIENZA UNICA E SOGGETTIVA. Fibromialgia e malattie psicosomatiche

Il provare una qualsiasi forma di “dolore” molto spesso è parte integrante della sofferenza psicologica, ne può effettivamente essere causa o conseguenza, oppure anche entrambe assieme.

Le persone a volte esperiscono dolori ai quali non riescono a dare delle spiegazioni e la sofferenza può risiedere anche e soprattutto nel fatto che, dopo diversi e accurati esami specialistici, neanche la medicina riesca a trovare un riscontro organico, qualcosa di “malfunzionante” all’interno dell’organismo, del corpo in generale. Di questo, ne fanno esperienza le persone che soffrono di una malattia cronica psicosomatica, appunto.

Per comprendere ciò, bisogna prima distinguere tra due tipi di dolore: quello “acuto” e quello “cronico”.

Il dolore “acuto” è occasionale, in risposta a uno stimolo inatteso e intenso, relativo allo stato attuale e reversibile, poiché ha un inizio e una fine.

Il dolore “cronico”, invece, è persistente e costante, quotidiano ed è una risposta disadattava del nostro corpo.

La International Association for the Study of Pain (IASP), nel 2020, ha definito il dolore cronico come “un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata o simile a quella associata a un danno tissutale reale o potenziale”.

La American Psychological Association, già nel 2013, sosteneva,infatti, che il punto cruciale non è il sintomo somatico in sé ma il modo in cui la persona lo presenta e lo interpreta.

Con questi interventi e queste “nuove” e aggiornate definizioni si può parlare di una effettiva rivoluzione nel considerare questo tipo di dolore derivante non solo da un malessere fisico o organico, biologico ma anche da fattori psicologici e sociali dell’individuo. Prende in considerazione la soggettività e l’unicità della persona, esattamente la sua personale esperienza.

Ne deriva, quindi, che il vissuto di  dolore dovrebbe essere sempre compreso e rispettato, dato che, inoltre, le persone apprendono il concetto di dolore attraverso le loro esperienze di vita.

Sebbene il dolore di solito abbia un ruolo adattativo, può avere effetti negativi sulla funzionalità e il benessere sociale epsicologico.

Con ciò, bisogna anche tenere in considerazione che la descrizione verbale non è l’unico modo per esprimere il dolore e che l’incapacità di comunicare non nega la possibilità che un essere umano stia provando malessere: ovvero, se non esplicito verbalmente che ho dolore, non vuol dire che sia scontato che io non ne abbia. Un po’ come “se non sto chiedendo aiuto non vuol dire per forza che non ne abbia bisogno”.

Più in generale, l’OMS, invece, definisce la malattia cronica come un “problema di salute che richiede un trattamento continuo durante un periodo di tempo che può andare da anni a decadi”.

Nonostante l’elenco sia molto lungo e si suddivida anche per categorie, prendiamo come esempi solo alcune delle malattie psicosomatiche croniche, quelle che potrebbero essere le più “conosciute”:

Gastrite
Colite spastica (sindrome del colon irritabile)
Psoriasi
Artrite reumatoide
Fibromialgia

Negli ultimi anni, l’attenzione medica e psicologica si è soffermata in particolar modo sulla fibromialgia. La fibromialgia è una sindrome dolorosa cronica caratterizzata dall’insorgere di numerosi sintomi differenti tra loro ed associata ad ulteriori disturbi come stanchezza cronica, disturbi cognitivi, problemi psichici, alterazioni del sonno e sintomi somatici.

Colpisce in Italia oltre 2 milioni di persone, corrispondenti circa al 3% dell’intera popolazione. Si tratta di una sindrome che potremmo definire «di genere» perché più dell’80% di coloro che ne sono affetti sono donne tra i 30 e i 60 anni.

Le cause della fibromialgia sono ancora da identificare. Si suppone che per comprenderle appieno bisogna centralizzare la soggettività della persona, prendendo in considerazione dunque la sua intera storia di vita: fattori psicologici, sociali, ambientali e non solo una possibile vulnerabilità biologica.

Il sintomo cardine della malattia, presente in ogni persona che ne è affetta, resta comunque il dolore cronico. Più precisamente, si parla di “dolore nociplastico”: in questa forma, non vi è un danno al sistema nervoso né al sistema tissutale ma è presente un’alterazione della nocicezione. La nocicezione è quel processo sensoriale che rileva i segnali e le sensazioni di dolore, tutto ciò tramite l’attivazione di recettori periferici (terminazioni nervose), chiamati appunto “nocicettori”. Come se fossero i “sensori del dolore” del nostro corpo: nella fibromialgia, questi sensori funzionano “male” e attivano la percezione di dolore anche laddove non è presente nessuno stimolo reale.

Tramite studi e ricerche sul tema, si è notato come esistano delle costanti negli aspetti psicologici, comuni in tutte le persone che soffrono di fibromialgia:

Uno stile di attaccamento insicuro o disorganizzato
Uno o più eventi di vita traumatici
Alessitimia (la difficoltà nel riconoscere, esprimere e distinguere le proprie emozioni e sensazioni corporee)
Bassa autostima

Per trattare la fibromialgia in maniera sufficientemente efficace e permettere alla persona di condurre una vita il più “normale” possibile, l’intervento elettivo è sicuramente quello multidisciplinare: una terapia farmacologica utile ad alleviare i sintomi della malattia e, parallelamente, la psicoterapia, utileinvece soprattutto a:

Aiutare il paziente nel differenziare sensazioni, esperienze ed emozioni;
Mantenere o rendere consapevoli dei propri vissuti e delle proprie emozioni;
Individuare nuove abitudini;
Attivare processi di consolidamento delle abitudini funzionali;
Lavorare sull’accettazione della nuova condizione;
Sostenere durante queste nuove fasi di vita.

Il paziente vive nel corpo la sua sofferenza. Il suo è un dolore soggettivo al quale si va ad aggiungere e confondere quello fisiologico della malattia; una malattia che struttura la rappresentazione di sé con la malattia stessa; una malattia che continuamente “auto-attacca” il proprio corpo.

Il dolore ha sempre un’importante accezione soggettiva e personalizzata: non tutti proviamo dolore allo stesso modo, per le stesse cose. Per questo, è sempre necessario sospendere il nostro giudizio a riguardo, comprendere il più possibile e rispettare il malessere che esso provoca nella persona che abbiamo di fronte, sia che siamo professionisti della salute oppure no. Anche questo è terapeutico.

Dott. Riccardo Falconieri

Bibliografia

“Il corpo malato. L’intervento psicologico”, a cura di Bruno G.Bara, Raffaello Cortina Editore

“Il ruolo dello psicologo nel piano nazionale cronicità”, ConsiglioNazionale Ordine Psicologi, fonte reperibile online

“Psicologia e Salute”, Antonella Delle Fave e Marta Bassi, Utet Università

LA REALTA’ IRRAZIONALE DEI SOGNI: PERCHE’ ASCOLTARLI E PRESTARVI ATTENZIONE

Perchè sogniamo? A che cosa serve il sogno nell’economia del funzionamento umano?

Sono secoli che studiosi, filosofi, psicologi e psichiatri si interrogano su questa stessa domanda cercando di attribuire un senso a queste strane “storie” che si fanno spazio dentro di noi quando perdiamo lo stato di veglia. Il loro fascino è dato dalla loro incomprensibilità e dalla difficoltà di coglierne il senso univoco, di comprenderli in tutto e per tutto.

La prima domanda che vorrei pormi parlando dei sogni è, che cosa sono? E a cosa servono?

Prima di tutto, è necessario prendere in considerazione l’esistenza di una parte di noi non consapevole, non contattabile con la coscienza e la consapevolezza, una parte psichica inconscia di cui, non ci rendiamo conto. La gran parte della nostra vita da svegli è quella che affrontiamo attraverso la consapevolezza e la coscienza, quando dormiamo invece la consapevolezza si allenta, perde potere, ed entra in scena l’inconscio. I sogni sono una modalità attraverso la quale l’inconscio si esprime, per mandarci dei messaggi o rielaborare esperienze e vissuti che abbiamo affrontato durante lo stato di veglia.

Possiamo definire il sogno come un “fenomeno soggettivo”, osservabile esclusivamente da colui che sogna, e anche come un fenomeno involontario derivante appunto dalla minore presenza della coscienza. Il sogno è inoltre carico delle emozioni del sognatore e delle sue sensazioni visive ed involontarie, costruite in buona parte da frammenti di memorie recenti e antiche che costruiscono una storia all’interno di uno spazio e un tempo non reali.

Il primo a occuparsi di sogni è stato Sigmund Freud che, nel 1899, ha scritto il testo l’”Interpretazione dei sogni” che ha risposto a molte domande centrali riguardanti questo fenomeno appartenente non solo agli esseri umani ma anche a tutti i mammiferi. In questo testo veniva messa in evidenza la funzione del sogno come un “rebus”, un qualcosa da risolvere e da scoprire attraverso l’interpretazione delle varie immagini che lo compongono. Secondo Freud, “la nostra psiche interviene nel lavoro di formazione dei sogni con specifici meccanismi di elaborazione e camuffamento” tesi a nascondere il vero significato di ciò che stiamo vedendo e rappresentando nel sogno. È come se ciò che è presente nell’inconscio andasse raggiunto, interpretato e reso consapevole prima che faccia danni. Secondo Freud il sogno era la via “regia”, cioè principale e diretta, verso l’inconscio, cioè la parte di noi maggiormente inconsapevole.

Nei secoli, molti altri autori si sono approcciati ai sogni e hanno dato il proprio punto di vista e la propria interpretazione; nello specifico Carl Gustav Jung ha apportato delle importanti modifiche alle teorie freudiane, affermando l’importanza delle immagini e delle figure presenti nei sogni, raffiguranti dei significati e dei vissuti simbolici. Ogni immagine si esprime in modo simbolico, (cioè non esplicito, attraverso immagini) ogni significato ne esprime un altro individuale e trasformativo. “Il simbolo, invece, nella sua essenza e nella sua etimologia, fa da ponte fra i contrari, nutre entrambi i poli senza preferenze e generando così tensione, li costringe comunque a coabitare, opponendosi allo sbilanciamento univoco verso una delle due polarità”.

I sogni rappresentano una delle espressioni più personali che possano esistere, “il sogno è il sognatore, è un concentrato della sua unicità”. Non esistono infatti due sogni considerabili completamente uguali tra loro effettuati da persone diverse, ma allo stesso tempo, talvolta i sogni sembrano provenire da un mondo completamente estraneo al nostro, fuori da noi stessi. Tengono insieme molti aspetti tra loro opposti e apparentemente poco comunicabili tra loro.

Quando parliamo del sogno dobbiamo tenere a mente due parti che si mettono in azione: l’Io onirico (o Io del sogno) e l’Io narrante (o l’Io della veglia). L’Io onirico è il primo soggetto all’interno del sogno, il protagonista del sogno o colui che vi partecipa attivamente. È il primo mediatore tra noi e gli altri attori del sogno e allo stesso tempo è parte del sogno stesso: non si pone domande su ciò che succede all’interno della storia che sta vivendo e ha poca o nessuna consapevolezza di sé. Questa semplicità dell’Io onirico è pero fondamentale: permette infatti di far accadere nel sogno anche cose incredibili, assurde e poco veritiere e di catapultarci all’interno di una realtà fuori dalla realtà.

L’Io narrante (o Io della veglia) è, invece, colui che assiste ai sogni senza poterli cambiare, li riporta come ricordi e li traduce in scritti o racconti. Diventa lui il proprietario del sogno e delle immagini riportate nella narrazione e può agire su di esse dandogli una interpretazione e un senso simbolico.

È proprio l’Io narrante che racconta il sogno e che cerca di attribuirvi un significato, un senso: ha il potere di reinterpretare i significati del sogno all’interno dello stato di veglia, con la giusta distanza e lucidità. L’Io narrante non si attiva subito, non è consapevole mentre stiamo sognando, lo sarà al risveglio, o durante la reminescenza del sogno. Il suo ruolo è fondamentale per dare valore, senso e significato ai contenuti del sogno: l’interpretazione e la revisione, in chiave simbolica, delle immagini e dei contenuti del sogno gli può permettere di conoscere molte parti di sé, difficilmente contattabili in altro modo.

Perché i sogni vengono spesso raccontati in psicoterapia?

Una delle caratteristiche principali che emergono quando si tratta di sogni è che questi, specie in alcuni casi, possano essere raccontati e quindi ascoltati da un interlocutore. Lasciarne traccia scritta o avere qualcuno che possa ascoltarli e accoglierli diventa fondamentale per cercarvi un senso. Nello specifico, nel contesto psicoterapico, i sogni possono essere fondamentali per “l’incontro con ciò che veramente siamo e sono un’ottima palestra per migliorare il funzionamento della mente”.

Se consideriamo i sogni come prodotto della nostra mente sul quale interrogarci con curiosità, possiamo trovarvi dei significati ed utilizzarli come “ponti” fra la consapevolezza e l’inconscio, utili a sviluppare strumenti per pensare. Ognuno di noi sogna ogni notte e ogni sogno attinge dalle esperienze della nostra vita e dalla specificità del momento che stiamo vivendo: questo, con una adeguata interpretazione delle immagini dei sogni in chiave simbolica, ci può permettere di “oggettivare” delle emozioni autentiche attive dentro di noi, espresse nel sogno in forma immaginativa. Ci permette, inoltre, di avvicinarci a delle emozioni complesse e poco descrivibili attraverso immagini oniriche alle quali, nel contesto terapeutico, può essere dato un nome ed un significato.

La figura del terapeuta assume un ruolo centrale: “Due sono i principali soggetti ai quali dobbiamo collegare i sogni: il sognatore stesso e, nel caso si stia sottoponendo ad un trattamento psicologico, la coppia analitica. Il sogno appartiene alla vita del paziente e alla coppia analitica e per questo occorre sapersi posizionare alternativamente in entrambi questi punti di osservazione”. Il sogno infatti, spesse volte, ci parla della relazione di transfert, cioè della vita interna del paziente all’interno delle sue relazioni più importanti rivissuta e riattualizzata all’interno della relazione con lo psicologo, fondamentale strumento per il lavoro psicologico. Interpretare questa relazione all’interno dei sogni e provare a comprenderla attraverso delle domande e delle risposte fa si che si possano comprendere molte cose sul funzionamento profondo del paziente e sulla sua storia. Nella storia del sogno possono essere trovate anche delle indicazioni, della alternative, delle possibilità, per il paziente di stare meglio e di ricevere sollievo dalla condizione nella quale si trova: la giusta interpretazione, proveniente dalla condivisione con lo psicologo all’interno di una relazione significativa, consente al sognatore non solo di accedere al mondo delle proprie immagini inconsce, ma anche di approdare a nuovi significati che riguardano la propria storia e il proprio vissuto emotivo, concedendo un valore nuovo e ricco di importanti risorse individuali.

Dott.ssa Federica Ariani

Psicologa-Psicoterapeuta

LA SINDROME DA BURNOUT

Il burnout è una sindrome legata ad un processo stressogeno che colpisce maggiormente tutte quelle professioni che prevedono una relazione d’aiuto in una sfera psicologica e sociale.

Per burnout intendiamo quel fenomeno che in un primo momento investe dall’interno l’individuo per poi “esplodere” e manifestarsi all’esterno. I professionisti della relazione d’aiuto sono sottoposte ad una duplice fonte di stresss: lo stress personale e quello del cliente, se non trattate cominciano a sviluppare un lento processo di “logoramento” psicofisico.

Nell’ambito delle professioni socio-assistenziali la risoluzione dei problemi dell’utente non è affatto semplice e molto spesso non ottenibile, motivazioni per cui la condizione lavorativa diviene sempre più ambigua e frustrante e lo stress cronico può logorare emotivamente l’operatore.

Pian piano può divenire uno stato di malessere e di disagio che consegue una situazione lavorativa percepita come stressante e che conduce gli operatori a divenire apatici, cinici con i proprio utenti, indifferenti e distaccati dell’ambiente di lavoro. In casi estremi tale sindrome può comportare gravi danni psicopatologici (insonnia, problemi coniugali e familiari, incremento dell’uso di alcol o farmaci), cui consegue un deterioramento della qualità delle cure o del servizio prestato e spesso assenteismo e alto turnover.

Recenti studi dimostrano il legame tra burnout lavorativo e manifestazioni sintomatologiche quali l’ansia e delle sue espressioni somatiche e modificazioni del tono dell’umore, questi sono indicatori di un disagio che tende a coinvolgere gli aspetti più generali della personalità. Ciò avviene quando la persona percepisce una discrepanza tra aspirazioni e performance effettiva.

Vengono, inoltre descritte alterazioni emozionali, comportamentali, psicosomatiche e sociali, perdita dell’efficacia lavorativa ed alterazioni lievi della vita familiare. Inoltre l’alto livello di assenteismo lavorativo si giustificherebbe inoltre tanto per problemi di salute fisica quanto psicologica, a causa della frequente insorgenza di situazioni depressive.

La dimensione psico-sociale del burnout consente di individuare alcune variabili responsabili dell’insorgenza nell’esperienza lavorativa di aspetti di affaticamento e frustrazione che a lungo andare possono dare luogo a distonie e disagi comportamentali, espresse in una gamma che si snoda dall’apatia al disturbo del controllo degli impulsi, fino ad arrivare a una vera e propria compromissione psichiatrica.

La sindrome da bornout non si manifesta in modo improvviso, è un processo graduale che si sviluppa in un tempo prolungato. Molto spesso i primi segnali vengono ignorati, considerandoli “normali”.

Troviamo 3 caratteristiche principali:

1- Distacco mentale e cinismo rispetto al proprio lavoro;

2- Sensazioni di sfinimento e mancato recupero;

3- Calo dell’efficienza lavorativa.

A queste 3 caratteristiche si associano inoltre:

Mal di testa;
disturbi del sonno
disturbi gastrointestinali;
tachicardia;
tensioni;
Stanchezza;
sfiducia in sé stessi;
maggior vulnerabilità
Elevata sensibilità allo stress;
Difficoltà relazionali;
Depressione;
Agitazione, irritabilità, nervosismo;

Cosa causa la sindrome da burnout:

Le cause sono di natura diversa e variano da individuo a individuo. Solitamente è la conseguenza di uno stress cronico e presenta fattori di rischio, quali:

Sovraccarico lavorativo;
Mobbing;
mancato riconoscimento;
Ambiente di lavoro non favorevole;
Conflitti;
Obiettivi poco chiari;
Scarsa comunicazione;
Tendenza a porsi ibiettivi irrealistici;
Abnegazione al lavoro;
Aspettative elevate;
Personalità autoritaria;
Incapacità a collaborare.

Per prevenire il burnout è importante ridurre tutte le situazioni di stress, riconoscersi come persona riconoscendo e rispettando i propri bisogni fondamentali quali sonno, cibo, attività fisica. E’ opportuno fissarsi degli obiettivi ragionevoli, non pretendendo troppo da sé stessi. Inoltre è importante un automonitoraggio rispetto ai propri sintomi, rivolgendosi ad un professionista. La tempestività nel riconoscere i primi segnali favorisce l’efficacia della psicoterapia.

 

Dott. Mirco Carbonetti

Psicologo- Psicoterapeuta

 

Bibliografia:

-Corrente A. La sindrome del burnout. Una condizione soggettiva che si trasforma in malattia professionale. Pavia: Atti della Giornata di Studio Fondazione Salvatore Maugeri, 2003.

-Ferdinando Pellegrino F. La sindrome del Burn-out Nuova edizione.  Centro Scientifico Editore. Torino, 2009

-Ripamonti, C. A., & Clerici.Psicologia e salute: introduzione alla psicologia clinica in ambito sanitario. Il mulino 2008.

 

I BENEFICI DI VIVERE CON UN ANIMALE DOMESTICO

Gli animali domestici, che siano cani, gatti, conigli o criceti, spesso e volentieri vengono considerati veri e propri membri della famiglia.

Oltre a tenerci compagnia, gli animali domestici, specie i cani e i gatti, ci regalano molti benefici psicofisici, consentendoci di avere una salute complessivamente migliore.

Ma quali sono davvero i benefici del vivere con un amico a quattro zampe?

1) Uno dei maggiori punti a favore del vivere con un animale domestico è il contrasto alla solitudine: non solo i nostri amici a quattro zampe ci fanno compagnia, ma ci costringono ad essere più attivi, riempiendo la vita anche delle persone più solitarie. Non è un caso che molti studi riportino che avere un animale domestico abbia enormi benefici su chi soffre di depressione: oltre a tenerci compagnia, i nostri animali ci costringono ad una vita più movimentata, basti solo pensare alle passeggiate quotidiane con il cane o al portare il nostro animale domestico dal veterinario, al negozio di animali, ecc. Tutte queste attività diventano spunto per una vita sociale più attiva e possono anche permetterei di stringere nuovi legami e amicizie.
2) Secondo un recente studio, la compagnia di un animale domestico è un valido alleato nellelaborazione del lutto, oltre ad essere un fattore protettivo per la depressione che spesso si sviluppa in seguito alla perdita di una persona cara. Secondo uno studio condotto da Brown nel 2011 il legame che si crea tra lumano e lanimale è assolutamente unico, tanto da poter essere paragonato ad un rapporto genitore-figlio o marito-moglie, stimolando ormoni quali lossitocina e la serotonina, responsabili del buonumore.
3) Altre evidenze scientifiche dimostrano che la vita insieme ad un animale domestico è migliore in quanto aumenta lautostima e il senso di sicurezza e diminuisce significativamente la solitudine, soprattutto tra gli adulti che vivono da soli.
4) Vivere con un animale domestico aiuta anche a ridurre ansia e stress. La sensazione di benessere data dallaccarezzare un cane o un gatto favorisce una serie di processi regolatori del sistema neurovegetativo: rallenta il battito cardiaco e regolarizza la respirazione, producendo un benessere generalizzato. Uno studio effettuato su 249 studenti universitari americani ha rilevato come i contatto quotidiano di soli 10 minuti al giorno con un animale domestico (cane o gatto) riducesse considerevolmente ansia e stress, migliorando la qualità della vita e le prestazioni accademiche.
5) Alcuni studi dimostrano che chi vive a contatto con gli animali ha un sistema immunitario più forte ed è meno soggetto a sviluppare allergie nel corso della vita.
6) Avere un animale domestico ci insegna la responsabilità di prenderci cura di qualcuno che dipende esclusivamente da noi, in tutto e per tutto. Molti studi dimostrano che questo aspetto è importante nello sviluppo dei bambini: crescere con un cane o un gatto implementa le capacità relazionali e lempatia.

Condividere la vita insieme ad un amico a quattro zampe migliora le nostre vite, ci aiuta a regolare le emozioni e ci regala anche molti benefici sulla salute, oltre a sviluppare competenze relazionali ed emotive.

E tu hai un animale domestico? Se si, in che modo ha cambiato la tua vita?

Dott.ssa Totaro Rossella

 

BIBLIOGRAFIA:

Bayram N., Bilgel N. (2008) The prevalence and socio-demographic correlations of depression, anxiety and stress among a group of  university students. Social Psychiatry and Psychiatric Epidemiology, 43 (8), 667-672.
Beetz A., Kerstin U.M., Henri J., Kotrschal K. (2012) Psychosocial and psychophysiological effects of human-animal interactions: the possible role of oxytocin, Front. Psychol., 3, 234.
Carr D.C., Taylor M.G., Gee N.R.& Sachs-Ericsson N. (2019) Psychological Health Benefits of Companion Animal Following a Social Loss. The Gerontologist. Doi:10.1093/geront/gnz1.
Pendry P., Vandagriff J.L. (2019) Animal Visitation Program (AVP) Reduces Cortisol Levels of University Students: A Randomized Controlled Trial, AERA Open, 5(2), 2332858419859.
Protopopova A. (2016) Effects of sheltering on physiology, immune function, behaviour and the welfare of dogs, Pays. Beah., 159, 95-103
Shoda T.E., Stayton L.M., Martin C.E. (2011) Friends with benefits: on the positive consequences of pet ownership, Journ. Pers. Soc. Psychol., 101(6): 1239-52
Settimo G. (2011) Gli animali che curano, Red Edizioni, Milano

L’INTESTINO “CEREBRALE” – L’importanza delle funzioni intestinali per il benessere psicofisico

È sempre più frequente sentir parlare dei cosiddetti due cervelli. Sappiamo realmente a cosa facciamo riferimento e come mai?

Quando parliamo di cervello, la nostra mente si dirige in automatico all’organo collocato nella nostra testa. Ad oggi, la teoria dei “due cervelli” sostenuta scientificamente dal neurobiologo Michael D. Gershon (1998), ci permette di porre attenzione all’importanza dell’asse intestino-cervello, individuando non uno ma ben “due cervelli”.

L’intestino è stato da sempre considerato come una struttura periferica deputata a funzioni vitali marginali come l’assorbimento di sostanze nutritive o la digestione. Le attuali ricerche scientifiche invece, sostengono e dimostrano l’importanza che tale organo avrebbe a livello del nostro sistema immunitario. A differenza di ciò che si possa pensare, l’intestino è l’unico organo, oltre il cervello, ad essere dotato di un vero e proprio sistema nervoso. Si tratta infatti, di quello che viene definito come il sistema nervoso “enterico” che agisce sia autonomamente che in connessione con il primo cervello, quello “cranico”, per intenderci.

L’importanza attribuita al nostro intestino non è legata solo al possedere un proprio sistema nervoso ma anche al fatto che, come il primo cervello, è anch’esso la sede delle nostre emozioni. Entrambi i nostri due cervelli comunicano tra di loro prevalentemente, attraverso il nervo vago, grazie a neurotrasmettitori comuni come la serotonina, nota anche come il neurotrasmettitore della felicità. Per questo motivo, i due cervelli possono influenzarsi a vicenda, sia da un punto di vista emotivo che immunologico.

Tensioni emotive, stress, abitudini di vita scorrette come sedentarietà e una cattiva alimentazione sono, non a caso, spesso associate a problemi della sfera digestiva. La letteratura scientifica internazionale evidenzia che il 20% della popolazione occidentale soffre di disturbi tra cui coliti, spasmi, gonfiore, nausea, bruciori di stomaco, sazietà precoce, distensione addominale, irregolarità della funzione intestinale. Questi sono i sintomi più frequenti associati ai disturbi intestinali che colpiscono in prevalenza la popolazione femminile rispetto a quella maschile, sia in adulti che in bambini o adolescenti e che spesso, non sono correlati a cause organiche evidenti. Tuttavia, non è da tralasciare neanche l’effetto opposto, vale a dire come un intestino in disordine possa portare a sviluppare alcune forme di ansia e di depressione. Alcuni studi recenti infatti, hanno dimostrato che il tratto gastrointestinale svolgerebbe una funzione importante nel riconoscimento di alcuni processi infiammatori. È considerato infatti, la prima barriera con il mondo esterno: il cibo che ogni giorno ingeriamo non è di certo sterile, porta con sè una carica batterica che induce una reazione da parte dei nostri globuli bianchi che sono deputati a riconoscere la presenza di infezioni all’interno del nostro organismo.

Il microbiota, detto più comunemente flora intestinale, ha proprio la funzione di intervenire in questo processo, ostacolando, ad esempio, il proliferare di agenti dannosi per la nostra salute. Inoltre, il microbiota intestinale è capace di comunicare e interagire con il primo cervello. Basti pensare che, quando mangiamo un cibo gustoso, l’intestino attiva i suoi recettori aumentando la produzione di serotonina, il neurotrasmettitore deputato alla felicità e a sensazioni di benessere. La serotonina è coinvolta infatti, in diverse funzioni biologiche fondamentali come il ciclo sonno – veglia, il desiderio sessuale, il senso di fame – sazietà e l’umore. Avere un livello basso di serotonina può infatti, comportare una serie di disturbi correlati all’umore, ansia, stati depressivi, problemi di natura sessuale, problemi del sonno e della motilità intestinale. All’interno dell’asse intestino-cervello, questo neurotrasmettitore svolge un ruolo fondamentale poiché favorisce la comunicazione e l’interazione tra questi due organi. Se pensiamo per esempio, a quando avvertiamo un calo dell’umore, cosa accade dentro ognuno di noi? È molto comune sentire un bisogno crescente di dolci, come ad esempio il cioccolato, alimento non a caso che contiene e favorisce la produzione di serotonina. Secondo lo stesso meccanismo, in presenza di un’infiammazione in sede intestinale, si attiva un enzima che è in grado di demolire la serotonina, causandone di conseguenza, un deficit a livello cerebrale e sensazioni di umore deflesso.

L’intestino inoltre, gioca un ruolo cruciale anche nelle nostre emozioni. Se per un attimo ci soffermassimo ad ascoltarle, potremmo subito notare come paura, rabbia, tristezza, felicità e disgusto abbiano una chiara risonanza nell’intestino. Basti pensare, per esempio, a quando siamo tanto arrabbiati e sentiamo lo stomaco irrigidirsi e attorcigliarsi al punto da avere la sensazione di “stomaco chiuso”, o quando la paura ci muove tutte le viscere, sconbussolandole o ancora, alla sensazione delle “farfalle nello stomaco” quando siamo innamorati. Quando si affronta un periodo di vita particolarmente stressante emotivamente, è possibile avvertire in modo chiaro, fastidi intestinali. Questo accade proprio perché i batteri intestinali possono rispondere ai segnali di stress provenienti dal primo cervello provocando sintomi somatici come bruciore di stomaco, mal di stomaco, nausea o dissenteria.

Secondo M. D. Gershon quindi, il nostro intestino proprio perché  “assimila e digerisce non solo il cibo, ma anche informazione ed emozioni che arrivano dall’esterno” necessità di maggiore ascolto, attenzione e cura.

E come prendersene cura? Uno stile di vita sano è certamente il primo passo per lenire i malesseri che ne possono derivare. Già nella medicina tradizionale, vi era l’idea che le alterazioni della flora microbica intestinale fossero strettamente legate all’insorgenza di alcune malattie e che il cibo fosse da considerare proprio come una buona medicina, come sosteneva lo stesso Ippocrate. Una sana ed equilibrata alimentazione può quindi, esserci di aiuto. È possibile inoltre, prendersi cura del proprio intestino anche praticando attività come la meditazione e lo yoga che permettono di ridurre i livelli di stress che come ormai sappiamo, incidono notevolmente sulla nostra qualità di vita ma anche sul nostro benessere psicofisico.

Dott.ssa Di Piero Antonia

Psicologa – Psicoterapeuta

 

Bibliografia


Gershon D. Michael, Il secondo cervello, titolo originale “The Second Bain: a Groundbreaking New Understanding of Nervous Disorders of the Stomach and Intestine”, UTET S.p.a., 2013

Gershon D. Michael, Serotonin and its implication for the management of irritable bowel syndrome, Rewievs in gastroenterological disorders, 2003; 3 (supp. 2): S25-S34

Giacosa, A (2018) Disturbi digestivi funzionali e stile di vita: il ruolo del sistema nervoso enterico, ovvero del “secondo cervello” in Rivista Società Italiana di Medicina Generale

COME DISFARSI DELLE REAZIONI AUTOMATICHE – Vivere il tempo anziché lasciarsi vivere dal tempo

Come mai reagiamo spesso nello stesso modo in alcune situazioni? E come mai non riusciamo a smettere di farlo, anche quando le conseguenze sono decisamente negative? Vediamo insieme come possiamo gestire le nostre reazioni emotive in maniera più consapevole e funzionale.

Vediamo qualcosa che non ci piace, una situazione ci fa rizzare i peli… e tutto d’un tratto… reagiamo! Ci infiammiamo, ci lasciamo trasportare dal turbine emotivo…

Ciascuno di noi, nel corso del tempo, ha imparato a rispondere ad alcuni stimoli con delle reazioni automatiche. Solitamente, si tratta di stimoli che attivano in noi un qualche stato emotivo spiacevole: ansia, tristezza, rabbia. La reazione che ne consegue, quindi, è un tentativo di gestire le emozioni negative che si provano in determinate situazioni.

Il fatto è che non siamo quasi mai consapevoli del perché reagiamo proprio con quella modalità, eppure, tendiamo a riproporla in maniera automatica ogni volta che ci troviamo di fronte a uno stimolo scatenante. Si tratta di automatismi appresi nel corso del tempo, soluzioni adottate in passato e che in qualche modo hanno “funzionato”. Si sono cioè rivelate efficaci nell’alleviare o nell’eliminare la sofferenza di quella situazione. Non ci importa che magari la “soluzione” comporti altre conseguenze, a volte persino peggiori della sofferenza che mirano a estinguere. I nostri meccanismi automatici di gestione non si fermano a riflettere ma, sono reazioni “istintive” che non ponderano e non distinguono conseguenze a breve e a lungo termine.

Spezzare il meccanismo della reazione automatica, non significa smettere di avere una opinione, di riflettere sulle cose, di reagire o di essere passivi, significa semplicemente disattivare un automatismo riprendendo il controllo e smettendo così di soffrire. Noi risentiamo della collera, dello stress, dei blocchi esperienziali, che fanno dapprima soffrire noi e che finiscono per intaccare il nostro ambiente.

DEFINIRE COSA CI FA REAGIRE

La prima cosa da fare per non entrare nella spirale infernale del circolo vizioso, è quella di notare quali sono le situazioni che ci fanno reagire in un certo modo. Sono delle situazioni, sovente le stesse, che ci stressano e che ci fanno partire con il pilota automatico. Per esempio, ci si arrabbia ogni volta che si fa la coda in un negozio o ci si infastidisce quando nostro figlio prende un brutto voto.

Osserviamo, poi, cosa scatena in noi quella situazione. Gola serrata, oppressione al petto, nodo allo stomaco, respiro corto… Quello che ci fa reagire, ci fa soffrire fisicamente e psicologicamente. La nostra reazione ci ricorda i nostri valori, cosa conta per noi. Facciamo un esempio: se mio figlio mi porta a casa un brutto voto, ho immediatamente dei pensieri negativi “È sempre il solito”, “Perderà l’anno” e posso provare rabbia o delusione. Ora, questa reazione mi ricorda cosa è importante per me e quindi posso decidere di connettermi a quello, prima di far partire la reazione automatica e, per esempio, invece che criticarlo, posso provare a stargli vicino, perché lo amo, e a soffermarmi sul fatto che, anche se non va bene a scuola, ha delle altre qualità.

TORNARE ALL’INTERNO

I nostri pensieri valutano. I ricordi ci portano indietro. Le emozioni confondono. In quel momento, è importante rallentare perché tutto va troppo veloce e noi non siamo realmente consapevoli di quello che sta succedendo. Se reagiamo in modo automatico, non stiamo scegliendo davvero come reagire e questo può, per esempio, degradare i nostri rapporti con gli altri. Se ci si prende il tempo per guardare sé stessi, di respirare quello che sentiamo, si può reagire alle situazioni in modo diverso. Quando si parte con la propria reazione automatica, non si vede che attraverso i propri schemi. Tornare all’interno permette di allargare il campo di quello che si vede. C’è una parte di noi che è tranquilla, calma e che può farci reagire diversamente, facendoci mettere nei panni dell’altro ed esprimendo le cose in maniera differente. Questo non significa sopprimere il malessere e non esprimerlo davanti all’altro, ma semplicemente farlo in una maniera più cosciente, più pacata, più affine a cosa conta per noi.

Facendo questo, riprendiamo il controllo; anche se automatiche, queste reazioni, non sono inevitabili e anzi, possiamo crearne di nuove. Portando un po’ di attenzione consapevole a quel momento, contattando i nostri valori, possiamo decidere di rispondere in modi diversi, che siano più utili o salutari per noi e chi ci sta attorno. E, saremo noi a decidere come rispondere.

LA PRATICA MEDITATIVA PUO’ AIUTARCI

Meditare regolarmente permette di allenarsi a rallentare, a sganciare il pilota automatico, per essere più presenti. In tal modo, non si impronta più tutto sulla reazione automatica e si fa un passo a fianco alle storie che ci si racconta ogni volta. Durante la pratica di meditazione non si fa nulla, non si cerca nulla, non ci si aspetta nulla, si smette di volere che le cose siano diverse da quelle che sono perché non ci si lotta, al contrario, si accoglie quello che si vive, l’esperienza, momento dopo momento. Questo allena a essere più consapevoli. Questo non vuol dire che dopo non si reagisca. Al contrario, chi è più cosciente, non si lascerà influenzare dai propri pensieri automatici e agirà allineandosi ai suoi valori. La meditazione è dunque al servizio della nostra azione.

CHIAVI PER REAGIRE DIVERSAMENTE

1- Prendi una situazione scomoda che ti genera sofferenza emotiva.
2- Valuta la tua sofferenza sulla tua scala da 1 a 10 dove 1 significa assenza di perturbazione emotiva e 10 massima sofferenza.
3- Nota dove trattieni questa valutazione e dove la senti nel corpo.
4- Osserva che tutta la tua energia, la tua attenzione è assorbita da questo dolore. Ci si focalizza, si gira in tondo, si resiste.
5- Sottolinea che se tu sei consapevole della sofferenza e del linguaggio nella tua testa, se ne sei cosciente, sai che è possibile cambiarla.
6- Scegli allora come vuoi reagire in piena consapevolezza.

ANDARE OLTRE

1- Osserva quello che scatena la tua reazione automatica. Esempio di situazione: la sveglia suona, il mio compagno prende subito il suo telefono e questo mi infastidisce.
2- Vai incontro alle tue sensazioni. Noto cosa sta succedendo nel mio corpo: le tensioni che sono presenti e come evolvono. Può essere, per esempio, che diminuiscano mentre le osservo.
3- Nota cosa c’è di altro in te, altre emozioni, pensieri che valutano, che giudicano e nota che c’è anche pace… puoi connetterti ad essa piuttosto che lasciarti trasportare dal tuo malessere. A partire dal momento in cui sei consapevole di cosa succede, il tuo malessere diminuisce. Ti apri ad altre cose, alla pace, allo spazio da cui osservare la tua reazione automatica.
4- Molla la presa. Non hai bisogno di combattere con i tuoi pensieri, con le tue emozioni o con la situazione presente. Sei ancorato in questo spazio di calma che hai in te e hai fiducia nel fatto che puoi modificare questa energia negativa che ti sta invadendo. Prenditi il tempo di rallentare.
5- Nota cosa si nasconde dietro questa reazione. In questa situazione, ti esasperi perché hai l’impressione di non sentirti amato e vicino all’altro, qualcosa che fa parte dei tuoi valori.
6- Agisci. Prendi il tuo compagno tra le braccia e parlagli di quello che per te è importante. Se aggiungi empatia, è ancora meglio: “Io so che è molto importante per te aggiornarti sulle ultime notizie, ma per me sarebbe prezioso poter stare con te prima che ci si separi per andare a lavoro”.

Ricordiamoci che non siamo destinati a reagire sempre allo stesso modo. Possiamo cambiare. Possiamo scegliere come rispondere. Una volta imparato questo, dopo aver sperimentato le possibilità che un nuovo modo di rispondere può regalarci, potremo scegliere e reagire secondo i nostri valori. Vivere è inevitabilmente essere costantemente sottoposti a stimoli, alcuni positivi e altri negativi. Ciò che non è inevitabile è come decidiamo di rispondere. E questo, è nelle nostre mani.

Dott.ssa Giulia Giacone

Psicologa – Psicoterapeuta

Per saperne di più…

Hayes, S.C., Strosahl, K.D., Wilson, K.G. (2013). ACT. Teoria e pratica dell’Acceptance and Commitment Therapy. Raffaello Cortina, Milano.
Kabat-Zinn, J. (2019). Dovunque tu vada ci sei già. In cammino verso la consapevolezza. Corbaccio, Milano.
Kang, J., Gruber, J., & Gray, J. R. (2013). Mindfulness and De-Automatization. Emotion Review, 5(2), 192–201.

 

I MESSAGGI NASCOSTI DIETRO LE FIABE: “IL MERAVIGLIOSO MAGO DI OZ”

Chi dice che le fiabe siano solo per bambini? Ormai siamo abituati ad amare cartoni animati o fiabe anche da adulti. Sicuramente c’è il nostro Bambino interiore che spesso ce le richiede, ma ci sono quelle fiabe che tutti noi portiamo nel cuore più di altre. 

Voglio condividere, con voi, la mia: Il meraviglioso mago di Oz

È una storia dalla quale mi sono sentita rapita e affascinata fin da piccola. Ricordo molto bene quel libro che tenevo tra le mani, sia la sensazione tattile della copertina ruvida, sia le emozioni che avevo mentre mi addentravo sempre di più nel fantastico viaggio di Dorothy.

Ancora oggi ricordo alcune immagini di quell’edizione e sebbene non sia più in mio possesso e non sia più riuscita a trovarla, per il mio 34esimo compleanno mi sono fatta un regalo: ho riacquistato questo favoloso racconto.

Non è stata una scelta casuale: ho cercato attentamente un’edizione di cui le immagini mi coinvolgessero, perchè potessi attraverso i disegni immaginarmi e addentrarmi ancora di più nella storia.

Cosa di questa fiaba mi attirasse da bambina è difficile dirlo. Forse il lungo viaggio in un mondo incantato di una bimba coraggiosa, forse il senso di protezione che le riservano i suoi nuovi amici, o forse (come tutte le fiabe) il lieto fine. E sì, perchè la piccola Dorothy dopo un lungo e meraviglioso viaggio riesce a tornare a casa.

“Non importa quanto triste e grigia sia la nostra casa, noi gente di carne e ossa preferiamo vivere lì, piuttosto che in un altro Paese, per quanto bello possa essere. Non esiste al mondo posto migliore della propria casa”, scriveva l’autore L. F. Baum …. E quanta verità in queste sue parole!

Ma rileggere questo libro ora che sono adulta, e ora che ho una capacità d’analisi e di interpretazione più affinata, mi ha permesso di cogliere delle sfumature che ovviamente avevo tralasciato. E farlo nel ruolo di psicoterapeuta è come se tutto fosse più accentuato.

Non riesco a vedere il meraviglioso viaggio che intraprende la piccola Dorothy se non come la metafora di un viaggio di consapevolezza.

Di fatto chi ha intrapreso un percorso di psicoterapia può sentire sensazioni molto simili e per chi non ha mai avuto questa esperienza proverò a spiegarlo meglio. La psicoterapia è un percorso fatto di alti e bassi: ci saranno momenti in cui ci si sentirà bene e altri in cui ci si sentirà peggio. Ma continuando a camminare, ci si renderà conto sempre di più del proprio potenziale, delle proprie risorse. Ci si metterà in gioco più di quanto si creda, e per quanto sia faticoso il viaggio, “la strada di casa” prima o poi la si trova.

Condivido con voi una frase che mi ha detto recentemente una mia paziente e la quale ringrazio per la commozione che mi ha trasmesso nel sentire queste parole proprio da lei: “Ho iniziato un percorso di terapia pensando di dover cambiare delle cose di me stessa e invece ho imparato ad abbracciarle e ad accettarmi per come sono”.

Ma ritorniamo a Dorothy e al suo viaggio.

Un viaggio che ha inizio nel momento in cui un tornado solleva la casa della bambina e la trasporta in volo, facendola atterrare nel Paese dei Ghiottoni. Per quanto magari non sia un’esperienza così comune trovarci da tutt’altra parte a causa di un tornado, credo che la sensazione di “venir travolti da un ciclone” sia comune più di quanto si creda. 

Tutti noi, almeno una volta nella vita, abbiamo provato tale sensazione di smarrimento, di disorientamento e di paura. I nostri punti di riferimento svaniscono, le basi solide che credevamo di aver costruito si rivelano non così salde, e dopo un volo e una caduta, ci troviamo proprio con lo stesso stato d’animo di Dorothy: spaventati, smarriti e inermi.

Ma nella sfortuna, la disgrazia della bambina comporta la salvezza di un popolo fino ad allora ridotto in schiavitù: eh sì, perchè la casa di Dorothy schiaccia la Malvagia strega dell’Est.

Come ringraziamento di quello che involontariamente si era determinato, alla bambina vengono donate le scarpette d’argento della strega defunta, che accetta volentieri poichè le attende un lungo viaggio: Dorothy dovrà camminare a lungo per potersi recare dal grande Mago di Oz, il mago più potente di tutto il paese per chiedergli di poter tornare a casa sua, nel Kansas.

E così quando ci troviamo senza quei punti di riferimento, disorientati e impauriti non ci rimane altro che tirarci su e darci un nuovo obiettivo, una nuova direzione. E lungo il viaggio chissà quante cose ci possono accadere.

Dorothy, infatti, non sarà mai sola: lungo il cammino alla bambina e al suo cagnolino Totò si aggiungeranno tre compagni di viaggio. Lo spaventapasseri, il taglialegna di latta e il leone codardo si uniscono a lei, nella speranza di poter fare anche loro delle richieste al Mago di Oz.

Le storie di questi tre compagni di viaggio, per quanto siano molto differenti tra di loro, non possono passare inosservate e le loro richieste appaiono molto sensate se riusciamo a metterci nei loro panni.

Lo spaventapasseri desidera un cervello poichè, per quanto le sue sembianze lo rendano molto simile ad un uomo, la mancanza del cervello non lo fa sentire tale. 

Il taglialegna di latta, prima di ridursi in quello stato era un uomo in carne e ossa. In seguito ad una maledizione lanciata per ostacolare la storia d’amore tra lui e una ragazza, si trova a condurre una vita in tali condizioni, ma soprattutto senza cuore. Questa sarà la sua richiesta al grande Mago di Oz.

Infine, il leone codardo condurrà il viaggio con l’intento di ricevere dal Mago il coraggio. La mancanza di questa virtù, infatti, non gli ha permesso di diventare il Re della foresta e ne ha comportato una vita in isolamento, emarginato da tutti gli altri animali.

Nel lungo viaggio di questa strana compagnia (e si trattò davvero di un lungo viaggio!) tutti questi tre personaggi avranno modo di mostrare le loro doti. 

Lo spaventapasseri, con il suo essere perspicace e razionale, riuscirà più volte a salvare i compagni dai pericoli che si trovano sulla strada; così come il buon animo dell’uomo di latta e il coraggio del leone contribuiranno a condurre sani e salvi Dorothy nel paese del Mago di Oz, nella città di Smeraldo (chiamata così perchè lì era tutto verde, o almeno così gli abitanti credevano che fosse).

Il Mago di Oz li riceve individualmente, ma si mostra disponibile ad esaudire le loro richieste solo dopo che avranno ucciso la Strega Cattiva dell’Ovest. Ed ecco che inizia un altro lungo viaggio che li porta al cospetto della malvagia strega, che li riduce in schiavitù. 

Davanti all’ennesima ingiustizia che Dorothy si trova a subire dalla parte della Strega, molto arrabbiata le versa un secchio d’acqua addosso, liquefacendola e mostrando a tutti il punto debole di questa creatura cattiva, così tanto temuta.

Raggiunto anche questo obiettivo, decidono di ritornare dal mago di Oz, convinti che questa volta le loro richieste potranno avere ascolto, ma si trovano ad affrontare una grande delusione: il mago di Oz non è altro che un comune uomo, giunto in quella terra con una mongolfiera e per tanto considerato un Mago dal popolo che lo ha accolto.

Sebbene i tre personaggi avessero dato prova delle loro abilità, mostrando intelligenza, cuore e coraggio, avevano bisogno di qualcuno che donasse a loro tali virtù (o in altre parole avevano bisogno di qualcuno che credesse in queste capacità per loro), e il mago di Oz cercò di esaudire tali desideri. Allo spaventapasseri infilò un imbottitura di crusca e spilli nella testa come cervello:

“Il cervello è l’unica cosa che valga la pena possedere a questo mondo, che si sia cornacchie o uomini” (Mago di Oz, L.F. Baum);

all’uomo di latta gli inserì nel petto un cuore di seta pieno di sabbia:

“Uno sciocco non saprebbe che farsene del cuore, anche se ne avesse uno” (Mago di Oz, L.F. Baum);

e al Leone gli diede un cucchiaino di miele convincendolo che fosse un elisir di coraggio.

“Non esiste creatura vivente che non abbia paura quando si trova davanti al pericolo. Il vero coraggio consiste nell’affrontare il pericolo quando si ha paura” (Mago di Oz, L.F. Baum).

Ma purtroppo per Dorothy non aveva una soluzione reale per riportarla a casa e l’unica possibilità che le rimaneva era quella di rivolgersi alla Strega Buona del Sud.

Quando un altro lungo viaggio la conduce da lei, scopre che di fatto aveva da sempre avuto gli strumenti per ritornare a casa: quelle scarpette d’argento acquisite dalla Strega Malvagia dell’Est, infatti, potevano portarla ovunque lei avesse voluto. E così fu… in un baleno si ritrovo a casa, nel Kansas a riabbracciare la zia Emma e lo zio Henry.

Ma cosa ci insegna questa storia? 

Probabilmente a ognuno di noi lascia un messaggio diverso, un significato personale. Ma è inevitabile vedere come questo viaggio abbia cambiato emotivamente tutti i personaggi.

Dorothy con il suo viaggio aiuta i suoi amici a credere in se stessi, a conoscersi e a guardare le loro qualità. 

Non avviene una trasformazione magica in qualcosa di diverso da ciò che erano già, ma prendono coscienza di se stessi e delle proprie potenzialità, imparando a sfruttarle meglio.

Proprio quello che avviene attraverso una Psicoterapia!

Dott.ssa Sonia Allegro

Psicologa-Psicoterapeuta

Ansia Sociale 2020: un altro possibile “disturbo post-Covid-19”?

A seguito dell’isolamento dettato dalla pandemia da Covid-19 (e non solo) si sente spesso, nell’ultimo periodo parlare, propriamente o impropriamente di “Fobia o Ansia sociale”, come una sorta di “reazione” a seguito degli ultimi eventi stressanti a cui gli individui sono stati sottoposti.

Ciò che viene perlopiù riportato, nella pratica clinica, è che sembra quasi che nei momenti in cui è consentito dalle attuali condizioni sanitarie e quindi politico-sociali (vedi zona gialla, zona bianca), non si riesca più a ritornare ad una vita sociale “normale”, in quanto comunque bloccati dallo stare con gli altri, in quanto ci si sente, alle volte infastiditi dalla loro semplice presenza, alle altre ci sente osservati o giudicati da questi ultimi.

Viene dunque lecito chiedersi: Che cos’è realmente l’Ansia Sociale? Che possibile correlazione ha con gli ultimi eventi storici?

 Per rispondere a questi quesiti e provare a fare un po’ di chiarezza, risulta necessario approfondire in primis, con quanto si conosce in letteratura, circa l’epidemiologia, i criteri diagnostici, la comorbilità e l’eventuale trattamento dell’Ansia Sociale.

I primi a descrivere l’Ansia o Fobia sociale furono Marks e Gelder, nel 1966 riferendosi a essa come a “una paura di mangiare, bere, parlare, scrivere… in presenza di altre persone” che aveva come caratteristica principale “la paura di apparire ridicolo agli occhi degli altri”[1].

Venne attribuita all’Ansia sociale, un’autonomia nei sistemi diagnostici internazionali solo alcuni più tardi, con la sua introduzione come entità a sé stante nel DSM III. Nel DSM III- R furono introdotti come sottotipi l’ansia sociale generalizzata e la fobia sociale specifica. Successivamente con il DSM IV per attenuare le discordanze con l’ICD-10 è stata mantenuta la sotto classificazione che prevedeva la forma “generalizzata”. (Pietrini et al., 2009).

Infine, stando al DSM V, il Disturbo d’ansia sociale (DAS) anche nota come Fobia Sociale, è una condizione caratterizzata da una marcata, o intensa, paura o ansia relative a situazioni sociali in cui l’individuo può essere esaminato dagli altri. Nei bambini, la paura o l’ansia devono però manifestarsi in contesti in cui vi sono coetanei e non solamente durante le interazioni con gli adulti.[2]

Alla base del disturbo sembra esserci quindi la paura di un giudizio negativo diventata così pervasiva, da non consentire all’individuo una normale integrazione nel suo ambiente relazionale e sociale.

Secondo uno studio condotto da Pietrini et al (2009), l’esordio della Fobia Sociale tende ad essere generalmente graduale o può avvenire in seguito a un’esperienza stressante o umiliante (es essere vittima di bullismo, vomitare durante un discorso in pubblico) con un età media di insorgenza nel 75% degli individui tra gli 8 e i 15anni. (DSM V), a cui fa seguito un decorso tipicamente cronico e invalidante.

Per quanto riguarda invece, la remissione spontanea del disturbo, quest’ultima tende ad essere bassa e anzi vi si possono aggiungere importanti complicazioni, quali la depressione secondaria, l’abuso di sostanze (a scopo auto-terapeutico) e le condotte suicidarie.

Risulta, inoltre, nonostante diversi studi, difficile ottenere dati epidemiologici precisi sulla fobia sociale, in quanto la diagnosi viene spesso applicata a schemi interpersonali di timidezza e di evitamento del sesso opposto per paura di un rifiuto.

Ma in realtà vi è un continuum che va da un estremo, costituito dalla fobia sociale, a uno stile caratteriale generalizzato di mettersi in rapporto con gli altri, meglio identificato come disturbo evitante di personalità, posto all’altro estremo (Gabbard, 2015).

Potrebbe essere utile in tal senso, riportare alcuni tra i criteri diagnostici riportati nel DSM 5, quali:

  • La presenza di una paura o ansia marcate relative a una o più situazioni sociali nelle quali l’individuo è esposto al possibile esame degli altri;
  • Il timore da parte dell’individuo che agirà in modo tale o manifesterà sintomi di ansia che saranno valutati negativamente;
  • Le situazioni sociali temute provocano quasi invariabilmente paura e ansia.
  • La paura o l’ansia sono sproporzionate rispetto alla reale minaccia posta dalla situazione sociale e al contesto socioculturale.
  • La paura, l’ansia o l’evitamento sono persistenti e durano tipicamente 6 mesi o più.
  • Le situazioni sociali temute sono evitate oppure sopportate con paura o ansia intense.
  • La paura, l’ansia o l’evitamento causano disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti (Etc). [3]

Tali criteri sono fondamentali anche nel differenziare il disturbo da altri disturbi d’ansia quali la timidezza non patologica, l’agorafobia, il disturbo da panico, l’ansia generalizzata, le fobie specifiche, il mutismo selettivo, isolamento sociale e/o sindrome di hikikomori,  etc..

Per quanto riguarda invece la comorbilità, purtroppo, la fobia sociale è una condizione con un alto tasso di comorbilità: secondo uno studio condotto da Schneier et al (1992), una comorbilità con disturbi cronici importanti era presente nel 69% dei soggetti affetti da fobia sociale. Tali autori hanno anche segnalato come in assenza di comorbilità raramente la fobia sociale viene trattata dai professionisti della salute mentale, infatti, in uno studio condotto negli Stati Uniti da Grant et al, (2005) nonostante l’alta incidenza del disturbo, più dell’80% degli individui non aveva ricevuto un trattamento per questa condizione (Gabbard, 2015).

Stando al DSM V, l’Ansia sociale è spesso in comorbilità con altri disturbi d’ansia, il disturbo depressivo maggiore e disturbi da uso di sostanze, e tendenzialmente l’esordio di tale disturbo precede gli altri, tranne che per la fobia specifica e il disturbo d’ansia da separazione.

Sulla base di quanto fin qui riportato, viene dunque lecito chiedersi, anche in funzione di un’eventuale correlazione con quello che verrà, da qui in poi, riportato come evento stressante “covid-19”, quali siano i possibili fattori di rischio che portano allo sviluppo dell’Ansia Sociale.

Secondo diversi studi, pare che le fobie si inseriscano in un modello di diatesi genetico-costituzionale che interagisce con stressor ambientali (Gabbard 2015), tra cui:

  • Disposizione ereditaria alla fobia che richiede specifici fattori eziologici ambientali per produrre una sindrome fobica conclamata;
  • Esposizione a stress materno durante la prima e seconda infanzia;
  • Specifici stili parentali: genitori particolarmente ansiosi, iperprotettivi o con una o più psicopatologie;
  • Esposizione a eventi stressanti come umiliazioni e critiche da parte di un fratello maggiore, liti tra i genitori, morte di un familiare o separazione da una figura importante.

In un’ottica psicodinamica dunque i pazienti socialmente fobici sembrano aver interiorizzato rappresentazioni di genitori, caregiver o fratelli che inducono vergogna o imbarazzo, criticano, ridicolizzano, umiliano e abbandonano. Questi introietti, uniti a una predisposizione genetica a percepire gli altri come minacciosi, si stabiliscono precocemente nella vita e vengono poi ripetutamente proiettati in persone dell’ambiente esterno che vengono quindi evitate. Ciò non toglie che, tali effetti possano essere mitigati se invece, nonostante la predisposizione genetica, le relazioni significative siano sufficientemente buone.

Per quanto riguarda il trattamento, alcuni pazienti sono particolarmente resistenti, in quanto temono ogni situazione in cui possano sentirsi giudicati o criticati. L’imbarazzo e la vergogna sono però gli stati affettivi predominanti e il terapeuta che si sintonizza con questi affetti può avere una migliore possibilità di formare un’alleanza terapeutica nelle sedute iniziali con il paziente (Gabbard, 2015).

In conclusione e ritornando al motivo del nostra indagine, da quanto fin qui esposto si evince come in realtà, tale disturbo, anche se forse (proprio per quanto su detto) meno trattato, rispetto ad altri, sia presente da molto tempo e possegga un’alta incidenza tra la popolazione mondiale, quindi preesistente all’evento stressante covid-19. Ciò non toglie che un evento così stressante, unito a tutti i fattori di rischio su elencati, tra cui la maggior incidenza dei casi nei giovani di età compresa tra gli 8 e i 15anni,  e a una buona predisposizione genetica, non abbia contribuito a “slatentizzare”, ovvero a gettar luce,  in molti su un disturbo che forse era giunto il momento di trattare!

Val comunque la pena ricordare, per quel che concerne tutti i disturbi sorti in seguito alla pandemia, che l’Ansia sociale seppur a volte in comorbilità, si differenza nettamente dall’isolamento sociale!.

Dott.Ssa Monica Iuliano

 

[1] Pietrini F. et al (2009)”, Epidemiologia della fobia sociale”, rivista di psichiatria, 44,4 p.205

[2] Diagnostical and Statistical Manual of Mental Disorder (DSM), 5th  – pag.234

[3] Diagnostical and Statistical Manual of Mental Disorder (DSM), 5th  – pag.233

 

Bibliografia e Sitografia:

 

Famiglie omogenitoriali ne parliamo con Daniela Vassallo (Famiglie Arcobaleno)

Ho letto la storia tua e di tua moglie, che avete in qualche modo precorso i tempi. Hai voglia di raccontarcela?

Un pochino, ma c’è stato chi prima di noi l’ha fatto. Rispetto alla step child adoption, noi ci eravamo ispirate a quello che stava avvenendo a Roma dove c’erano stati una serie di casi di adozioni in casi particolari, abbiamo quindi tentato di fare anche noi a Torino la stessa cosa. La mancanza di definizioni certe, come succede spesso in giurisprudenza, ci permetteva di avere quello spiraglio attraverso cui provare a passare anche se a noi non è andata bene subito. In prima istanza abbiamo avuto un diniego e poi in appello siamo riuscite ad ottenere l’adozione incrociata perché noi abbiamo partorito, ciascuna di noi, una bimba e abbiamo chiesto di poterle adottare in maniera incrociata.

Tutto l’iter quanto è durato?

Un paio di anni e parecchi soldi. Nonostante le richieste di adozioni in casi particolari possano essere fatte di per sé compilando dei moduli, noi abbiamo dovuto, toccando un ambito così particolare, affidarci a dei legali preparati in materia ed è costato abbastanza, considerando i due gradi di giudizio. Diventa davvero elitaria come procedura.

Da un punto di vista relazionale e simbolico è cambiato qualcosa all’interno del vostro nucleo familiare?

Rispetto alle nostre dinamiche, no. Perché noi per come abbiamo impostato, vissuto e progettato le nostre maternità, eravamo già entrambe madri da subito, da prima ancora che nascessero le bimbe. Certamente però ci ha rasserenato, nel senso che ricordo precisamente il giorno in cui ci diedero l’annuncio; poco dopo vidi mia moglie e la piccola andare via, mano nella mano, le guardai dalle finestra e pensai, finalmente qualsiasi cosa accada da adesso in avanti sono tutelate, adesso forse posso stare un po’ più tranquilla.

A scuola ad esempio noi non abbiamo mai avuto problemi, però il fatto di presentare documenti in cui erano già presenti entrambi i cognomi e non dover pregare per partecipare ai consigli, insomma…un po’ di fatica te la toglie.

 In Italia la legge 40 non riconosce ancora alle coppie omosessuali la possibilità di accedere allo PMA. Qual è l’iter che devono compiere?

Tutte le coppie cercano una clinica all’estero che sia consona all’immaginario o al tipo di percorso che vogliono fare. Che sia più o meno medicalizzata o che risponda ad esigenze di lingua o affinità culturali particolari, ci si rivolge quindi ad un paese piuttosto che ad un altro. Però ti devi comunque mettere nell’ordine di idee di dover andare all’estero, di doverti spostare, di dover calcolare il viaggio in relazione ad i tuoi tempi di fertilità e non ad altre esigenze e che non potrai programmarlo con largo anticipo.

E quali sono le fatiche emotive che le coppie devono affrontare?

Per noi, personalmente è stato poco faticoso, siamo sempre state molto unite, facendo tutto assieme. Dai ritorni che ho da altre coppie la grande fatica è quella ad esempio di voler accompagnare laa tua compagna durante i trattamenti, ma non riuscire a prendere ad esempio le ferie all’ultimo momento. In generale però le fatiche sono tantissime… è vero che quasi tutte le cliniche, sicuramente in Danimarca e Spagna, sono organizzate con ostetriche e dottori che parlano italiano, per cui quando tu vai lì e affronti un percorso così particolare ti puoi affidare a qualcuno che se non altro parla la tua lingua. Però sei comunque in un contesto estraneo, non sei a casa, ti devi sottoporre ad un intervento, e non sei a casa tua, sei un po’ sradicata, non puoi avere vicino la famiglia.

Sono davvero tantissime le fatiche, anche emotive che si sommano a quelle fisiche e all’impatto dei trattamenti sul corpo.

Rispetto al percorso decisionale di avere un figlio quali sono secondo te le difficoltà principali? Penso ad esempio ad aspetti omofobici interiorizzati

Ovviamente ogni coppia e ogni persona è un mondo a sé, per le donne in generale si gioca un aspetto, che è quello del materno che entra in maniera potente in un immaginario di realizzazione esistenziale che devi cercare di combinare con la tua condizione di coppia omosessuale. Questo non sempre è semplice, anche per una omofobia interiorizzata. Rispetto al materno poi lo scontro culturale è, specie in Italia, che si considera che “di mamma ce n’è una sola” per cui spesso al termine del percorso le “madri sociali” fanno fatica a farsi spazio, perché la “madre biologica” fa fatica a lasciare spazio o perché spesso anche le famiglie si inseriscono in queste dinamiche. La famiglia della madre che partorisce riconosce il bambino come il “loro” bambino, mentre l’altra famiglia fa sempre un po’ più fatica, spesso lo definisce “il figlio della tua compagna”. Per raggiungere una situazione di bilanciamento di potere e per sentirsi ugualmente genitore, ci va un grosso lavoro su di sé ed una grossa consapevolezza. Da questo sbilanciamento di potere nascono poi spesso le crisi di coppia che portano a separazioni dolorosissime, spesso violente e per giunta, per le questioni legali di cui parlavamo, con la possibilità di escludere legalmente un genitore oppure di sottrarsi alle proprie responsabilità per l’altro.

In questo si evidenzia il vuoto legislativo che permette il riconoscimento alla nascita di un bambino nato da coppia omosessuale, solo con un atto amministrativo e solo in alcuni Comuni. A Torino, con l’attuale giunta, questo è possibile e nel resto del Piemonte?

Ci sono altri piccoli e grandi Comuni dove questo è possibile, dipende sempre dalla volontà del Sindaco di esporsi sia politicamente che a livello di responsabilità giuridica, perché ci sono state delle sentenze che ad un certo punto hanno un po’ frenato in tutta Italia i Sindaci più intenzionati ad aprire a questa possibilità. Ciononostante alcuni continuano.

 In Piemonte quante sono le famiglie omogenitoriali?

Quelle iscritte a Famiglie Arcobaleno in Piemonte, ma è un dato parziale, sono al momento 150, per la maggior parte donne. Meno di un terzo di questo numero sono di uomini. In realtà, la rappresentatività di questo dato è parziale, la stragrande maggioranza delle famiglie omogenitoriali sono fuori da Famiglie Arcobaleno.

Davvero?

Si, assolutamente. A me capita continuamente di incontrare gente al parco o nei contesti più diversi e scoprire che ho davanti due mamme con figli. Questo mi restituisce, in maniera molto empirica, la dimensione che è un fenomeno ben più ampio.

Una volta nato il bambino, anche in relazione, alla difficoltà di un effettivo riconoscimento del neonato, quali sono le difficoltà che le famiglie riportano?

Dove ci sono Sindaci come la Appendino, quasi nessuno. La difficoltà maggiore l’ha incontrata la prima coppia quando hanno chiesto che venisse riconosciuto il consenso informato firmato nella clinica in Danimarca. Come per le coppie eterosessuali volevano venisse validato il documento dove si assumevano la responsabilità genitoriale nell’affrontare eventuali eventi avversi. Loro volevano far valere questo diritto e sono arrivate, trascorsi 10 giorni, al limite per la riconoscibilità, rischiavano di trasformare loro figlio in apolide, finchè l’ultimo giorno possibile la Appendino è riuscita a trovare il modo amministrativo per far valere questo diritto. Sono stati giorni per Micaela e Chiara di estrema stanchezza e paura, ma anche di profonda determinazione a portare fino in fondo questa battaglia. La più grossa fatica per le coppie è non sapere se il tuo Sindaco ti riconoscerà questa opportunità,

Dalla tua esperienza vengono riportate, se ci sono, delle difficoltà per i bambini?

Per l’esperienza che ho io sia a livello piemontese che nazionale, molto poche, quasi non ne ho sentore. La scuola, che è uno dei contesti che fa più paura a noi grandi, spesso è un contesto in cui le insegnanti stesse si attivano per conoscere, per avere formazione e strumenti per compiere quello che è il loro mandato. Negli ultimi anni questo aspetto positivo della scuola pubblica è stato un po’ inficiato da battaglie politiche che si fanno sulla scuola, per cui è più difficile portare contenuti su cui far lavorare il corpo insegnante e le classi, nel caso di studenti più grandi. Questo però almeno al momento non arriva, non ha ripercussioni sui bambini, anche se è chiaro che se la rappresentazione rimarrà statica e univoca questo avrò delle ripercussioni. Al momento comunque non ho sentore di insegnanti che rifiutano il fatto di trovarsi di fronte ad una famiglia omogenitoriale o di parlare con entrambe le madri o i padri.

Talvolta una delle paure riportate dagli adulti è nel confronto tra pari, che i figli passano essere discriminati dagli altri bambini.

Io penso sia più la cattiveria degli adulti che parla attraverso i bambini. Nella nostra esperienza gli amici e le amiche delle mie figlie al massimo sono stati curiosi. In prima elementare un bambino disse e mia figlia, “ma non è possibile che tu abbia due mamme!”, lei un po’ stupita disse “quando vedi mia mamma prova a chiederglielo”. Lui alla prima festa di compleanno venne a chiedermelo ed io ho spiegato, come potevo ad un bambino di 6 anni, sperando di non urtare la sensibilità dei genitori, come era stata possibile la cosa.

Il problema è anche che per gli adulti ci sono dei temi che sono tabù. Anche se non sono così contrari alle famiglie omogenitoriali, parlare di questo argomento significa anche parlare della riproduzione, della sessualità o di come sono fatti gli esseri umani ed in questo vedo gli adulti tanto spaventati.

Prima parlavi di consapevolezza, dal tuo punto di vista se e in che modo può essere utile alle coppie uno spazio di elaborazione e sostegno emotivo?

Durante il percorso, tantissimo anche per gli sbilanciamenti di cui parlavamo prima. Non c’è solo un modo per essere genitori o di esserlo insieme. Guadagnare consapevolezza attraverso un percorso psicologico farebbe solo bene e poi forse anche dopo il parto, proprio come sostegno familiare. Le famiglie omogenitoriali, purtroppo raramente si sentono sicure nell’andare a chiedere aiuto, anche nelle strutture pubbliche, per paura di trovarsi di fronte a persone con pregiudizi o non preparate alla loro realtà. Per cui alla fine proprio che avrebbe bisogno di un aiuto di qualsiasi tipo spesso non si rivolge ad uno specialista si trova a dover fare tutto da solo.

Credo che anche in questo ambito si inserisca l’attività di Famiglie Arcobaleno, nel non lasciare sole le famiglie.

Famiglie Arcobaleno cerca di dare un sostegno nel fare comunità, anche se non siamo strutturati per fornire servizi di supporto psicologico. Il fare comunità si crea in relazione spesso all’età dei figli; è chiaro che figli di età diverse hanno esigenze diverse e i genitori di conseguenza, anche. Mi ricordo soprattutto quando le bimbe erano piccole c’era bisogno di un rispecchiamento, sia per far vedere alle bambine che non erano le uniche ad avere due madri, ma per sentirci noi meno sole, meno marziane. Vedo che anche adesso le richieste che arrivano in associazione sono di fare comunità, di confrontarsi sulle difficoltà che si incontrano, di condividere le esperienze.

Ti chiedo infine il tuo parere sul DDL Zan e sull’ostracismo che incontra. Che idea ti sei fatta?

Beh, da alcune forze politiche me lo aspetto, per motivazioni più politiche che ideologiche. Ci sono equilibri politici, interessi e questi sono argomenti che servono a smuovere quegli interessi. Per pochissimi penso sia una questione ideologica, come in fondo è successo con la legge sulle unioni civili.

Questo può voler dire che le persone, cosiddette comuni, sono più pronte a parlare di omogenitorialità rispetto alla politica?

Io le persone comuni in generale le trovo molto più pronte, anche soltanto a confrontarsi. È vero che ci sono persone che hanno da un punto di vista valoriale delle resistenze, però si può trovare uno spazio di confronto. È trovarsi di fronte alla complessità della vita reale e imparare a gestirla insieme anche attraverso la relazione e la conoscenza reciproca.

D. Vassallo – Vice Presidente Famiglie Arcobaleno

Dott.ssa Chiara Delia – Psicologa Psicoterapeuta