Nomofobia: posso fare a meno dello smartphone?
E’ consuetudine controllare prima di uscire di casa di avere con sé le cose essenziali e così, come rituale automatico, ci accertiamo di avere preso le chiavi di casa, della macchina, il portafoglio e naturalmente il telefono, o sovente i telefoni, tablet, pc.
Per quasi tutti noi è una banale routine, ma per qualcuno è molto di più.
Immaginiamo di trovarci già per strada per andare al lavoro o per andare al ristorante e accorgerci improvvisamente di aver dimenticato a casa lo smartphone. Come reagiremmo? E’ probabile che verremmo colti da un senso di smarrimento e un impulso a ritornare immediatamente indietro per recuperare il nostro oggetto rassicurante.
Ma quando tornare indietro non è possibile, che cosa accade?
Alcune persone vengono travolte da una vera e propria sensazione di ansia molto forte, di panico, alla sola idea di non essere rintracciabili, di non poter rintracciare a propria volta chi si desidera e di non poter avere accesso ad un costante aggiornamento sulle informazioni condivise dagli altri.
O ancora, una sensazione di nervosismo molto intensa, tachicardia, sudorazione, alla sola idea di non poter accedere alle app di quotidiano utilizzo.
Si palesa in pratica un fortissimo timore di restare disconnessi, anche solo per una serata, come se restare costantemente connessi fosse una vera e propria necessità.
Questa manifestazione tipica di malesseri viene descritta in letteratura come Sindrome da Disconnessione o più comunemente detta Nomofobia.
Il termine deriva dal prefisso anglosassone “no-mobile” e dal suffisso “fobia” e descrive la transitoria sofferenza legata al non avere con sé il telefono e rimanere esclusi dal contatto della rete internet mobile.
Il termine è stato coniato nel 2008, in Gran Bretagna in occasione di uno studio commissionato ad un qualificato Ente di ricerca britannico, YouGov da Stewart Fox-Mills, responsabile del settore telefonia di Post Office Ltd.
Nella persona con nomofobia è presente la sensazione persistente di perdersi qualche cosa di importante, di significativo, se non si controlla costantemente il cellulare.
Nonostante nel nome compaia il termine “fobia” e che i sintomi siano riconducibili all’ansia, uno studio condotto da ricercatori del Panic and Respiration Laboratory, dell’Università Federale di Rio de Janeiro (2010) sembra indicare che la Nomofobia sia da considerare una dipendenza patologica piuttosto che un disturbo d’ansia.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) descrive la dipendenza patologica come:
“Quella condizione psichica e talvolta anche fisica, causata dall’ interazione tra una persona e una sostanza tossica, che comporta risposte comportamentali e da altre reazioni, e che determina un bisogno compulsivo di assumere la sostanza in modo continuativo o periodico, allo scopo di provare i suoi effetti psichici e talvolta di evitare il malessere della sua privazione”.
Le nuove dipendenze, “new addictions”, sostituiscono alla sostanza nuovi comportamenti patologici (gioco d’azzardo, shopping compulsivo, sexting, abuso di internet, ecc), che creano nella mente delle persone gli stessi meccanismi della sostanza: come in ogni dipendenza il meccanismo che si innesca porta la persona ad sentire il bisogno di aumentare il dosaggio trovandosi a mettere in atto una vasta gamma di comportamenti disfunzionali.
Nel caso della nomofobia, accade dunque, che spesso senza rendersene conto, si inizi a trascorrere sempre più tempo al telefono, aspettare con inquietudine la risposta dell’altro, aver bisogno di sollecitarlo se la risposta attesa non arriva in modo istantaneo, con in mente l’assunto implicito e la pretesa che anche le altre persone siano sempre costantemente connesse e rintracciabili in modo istantaneo.
Si ha la curiosità continua di vedere che cosa accade agli amici nei diversi social network (circa l’80% degli accessi ai social network avvengono tramite l’utilizzo dei cellulari, Kuss, Griffiths, 2017), commentare e condividere, non spegnere mai il dispositivo neanche nelle ore notturne, talvolta svegliarsi persino di notte per controllare le notifiche, portarsi lo smartphone ovunque, anche in luoghi non appropriati (es. bagno, chiesa, letto, terapia, ecc).
Sintetizzando quindi, le problematiche nell’ utilizzo eccessivo degli smartphone sono simili a quelle di qualsiasi Addiction: comportamento compulsivo, tolleranza, impatto sulla vita quotidiana, preferenza di relazioni virtuali rispetto alle relazioni reali, craving, pensiero pervasivo e ripetuti tentativi di smettere e a volte irregolarità nel ritmo circadiano (Lin, Lin, Lin, Lee, Lin Chiang, Chang, Yang & Kuo, 2017).
Si è riscontrato inoltre che i soggetti portatori di questo tipo di condizione clinica rispondono meglio ad un trattamento specifico per le dipendenze patologiche, rispetto al trattamento tipico dei disturbi d’ansia (King A.L. at all., 2010).
Recentemente, i neuroscienziati hanno teorizzato che è possibile rintracciare il desiderio da uso crescente e disregolato dello smartphone nel sistema di reward, ovvero il network corteccia-gangli della base-talamo implicato nella gratificazione e ricompensa in cui si vedono protagonisti i neurotrasmettitori dopamina e gaba, fondamentali per la componente motivazionale e di apprendimento alla base del desiderio da smartphone.
La dopamina è un neurotrasmettitore coinvolto nel circuito della ricompensa: ad ogni notifica o like ricevuto, il livello di dopamina s’innalza dandoci la sensazione che ci sia qualcosa di nuovo e interessante in serbo per noi. Questo ci spinge a ricontrollare frequentemente lo smartphone, con un meccanismo simile a quello che s’innesca ad esempio nel giocatore d’azzardo. Lo smartphone può essere assimilato ad uno strumento che produce premi e rinforzi ad intervalli, innescando una reazione-stimolo al suo utilizzo gradualmente sempre maggiore fino a poter diventare in taluni casi costante: in queste situazioni l’uso si configura in un vero e proprio abuso avendo come conseguenza uno stato permanente di disattenzione. Sono ormai numerosi i neuroscienziati che sostengono come le continue distrazioni presenti sui nostri smartphone ‘ricablano’ il nostro cervello, rendendolo a lungo termine meno efficiente.
Non solo, secondo uno studio della Rutgers University pubblicato da Journal of Behavioral Addictions, l’uso dello smartphone nelle pause – lavorative o da studio – impedirebbe al nostro cervello di ricaricarsi, portando a livelli maggiore di distrazione, rendendo così molto difficile ripristinare l’attenzione su quello che si stava facendo.
Nonostante la sua rilevanza clinica, la nomofobia non è stata ancora ufficialmente riconosciuta come una condizione psichiatrica. In “A proposal for including nomophobia in the new DSM-V” Nicola Luigi Bragazzi e Giovanni Del Puente hanno proposto un riassunto della letteratura esistente sul tema e hanno sottolineato la profonda rilevanza clinica della nomofobia, sostenendo con forza la necessità della sua introduzione all’interno del manuale menzionato. Secondo i redattori del DSM V tuttavia l’ internet addiction, o cyber dipendenza, è attualmente una condizione che necessita di ulteriori studi, perciò ufficialmente non può essere ancora inserita all’ interno del manuale. Pur non essendo possibile al momento pertanto una diagnosi ufficiale, la comunità scientifica è concorde nel sottolineare la rilevanza e la prevalenza clinica di questo disturbo, vista la sua ampia diffusione, evidenziando anche come questi comportamenti di utilizzo disregolato di smartphone siano diventati patrimonio culturale diffuso delle nuove generazioni, tanto che in queste descrizioni molte persone non trovano probabilmente nulla di anomalo, poiché ormai abitudini comuni delle nostre quotidianità.
I ricercatori italiani Bragazzi e Del Puente hanno fornito una descrizione di alcuni comportamenti che potrebbero rappresentare dei fattori di rischio per lo strutturarsi di questa dipendenza:
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possedere uno o più dispositivi connessi in rete
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usare con regolarità uno smartphone e trascorrere molto tempo della propria giornata con questo oggetto in mano (oggi alcuni telefoni ci indicano anche il feedback di quanto tempo abbiamo trascorso connessi)
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controllare frequentemente il livello di batteria del dispositivo e portare sempre con sé caricabatterie o powerbank per scongiurare il rischio di restare senza carica
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percepire uno stato di agitazione e ansia quando il proprio telefono non è disponibile fisicamente nelle vicinanze, o non prende la rete internet oppure il contesto non permette di utilizzarlo (ad es. durante una riunione di lavoro).
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evitamento dei luoghi e delle situazioni in cui è vietato l’uso del dispositivo (come cinema, teatri e aeroporti)
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guardare sovente lo schermo del telefono per verificare se sono stati ricevuti messaggi o chiamate, anche interrompendo frequentemente l’attività che si sta svolgendo
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controllare che il credito sia sempre sufficiente per mantenere attiva la rete dati e chiamate
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non spegnere mai il telefono, neppure durante le ore notturne o in occasioni palesemente non necessarie/adeguate e addormentarsi leggendo cellulare o tablet, mantenedoli vicino al letto
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perdere il senso del tempo trascorso online
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avere problemi nel portare a termine i propri compiti, a casa o al lavoro, trovandosi ad essere spesso oberati di attività arretrate trascurate
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isolamento dalla famiglia e dagli amici della vita reale, in favore di relazioni o attività virtuali (phubbing)
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sentimenti di colpa legati all’uso di internet a discapito delle relazioni e contemporaneamente sensazione di irritazione quando qualcuno fa notare la propria dipendenza dal telefono
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sentire un senso di euforia, di rilassamento e appagamento quando connessi
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Vamping: utilizzo della rete fino a notte fonda, trovandosi poi il giorno successivo molto stanchi (questo processo ciclico porta le persone ad alterare il loro ciclo sonno/veglia, con conseguenze sul rendimento lavorativo o scolastico e sulla salute)
E’ molto probabile che molti di noi, leggendo, si siano ritrovati in alcuni di questi comportamenti, ma allora siamo tutti nomofobici?
I ricercatori raccomandano di evitare di considerare tutti i comportamenti sopracitati come patologici, tuttavia è importante tenerli presenti come fattori di rischio, se ci ritroviamo in molti di questi comportamenti.
Possiamo considerare che divenga un disturbo clinico quando una persona inizia a mostrare difficoltà nell’ interagire con le persone reali, quando si trascorre più tempo sui social media, sui giochi e sugli smartphone che impegnati in attività pratiche, creando conseguenze negative sulla propria qualità della vita e su quella delle persone intorno a noi, con conseguenti difficoltà relazionali importanti nella vita reale. Secondo Suler (1999), ci si trova di fronte ad un problema significativo nel momento in cui “la propria vita reale si dissocia da quella virtuale”, l’attività in rete diventa la propria realtà e l’autoconsapevolezza e l’esame di realtà falliscono.
Importanti studi sulla nomofobia sono stati portati avanti anche da Francisca Lopez Torrecillas, docente presso il dipartimento di personalità e di valutazione psicologica e trattamento delle dipendenze dell’Università di Granada, la quale ha svolto una ricerca su campo con giovani adulti tra i 18 ei 25 anni. Lo studio mette in luce come la maggior parte delle persone colpite da questa condizione sarebbero giovani adulti con bassa autostima e problemi nelle relazioni sociali, pregressi all’utilizzo massivo dello smartphone, i quali sentono il bisogno di essere costantemente connessi e in contatto con gli altri attraverso il telefono cellulare. Sono persone che mostrano noia quando si effettuano altre attività ricreative, e questo potrebbe derivare proprio dall’ utilizzo patologico di telefoni cellulari (Lopez Torrecillas F., 2007). Questi risultati hanno fatto ipotizzare che alcune persone relazionalmente più fragili utilizzino il telefono come mezzo per colmare la propria solitudine e mitigare apparentemente la propria condizione di isolamento. Lo smartphone infatti, per chiunque lo utilizzi, è un mezzo che regola la distanza nella comunicazione e nelle relazioni, gestisce la solitudine e l’isolamento assumendo talvolta quasi il ruolo di antidepressivo multimediale e permette di vivere e dominare la realtà regalando l’idea di poter essere presenti e capaci di fermare lo scorrere del tempo con uno o più scatti (Di Gregorio, 2003).
Tuttavia il rischio di farsi fagocitare il tempo dallo strumento è piuttosto consistente: il rapporto con il cellulare è oggi potenzialmente pericoloso per qualunque persona.
Esiste infatti l’eventualità che, in un periodo della nostra vita particolarmente difficile, lo smartphone diventi un oggetto su cui canalizzare uno stato di disagio (affettivo, relazionale, lavorativo…) e acquisti più importanza della vita reale.
Pensiamo a quanto è stato fondamentale per tutti noi, durante il Lockdown appena trascorso, avere la possibilità di restare connessi con il lavoro, con la scuola, con le persone a noi care, pur restando fisicamente in isolamento: è stato fondamentale per mantenere il proprio equilibrio psico-emotivo. Tuttavia proprio questo anomalo periodo ha indotto molte persone ad un significativo aumento di utilizzo dei dispositivi e la difficoltà adesso di poterne fare a meno.
Gli adolescenti sono apparsi i soggetti più a rischio di sviluppare questa nuova forma di dipendenza patologica, ma è necessario tenere presente l’impatto che la tecnologia sta avendo anche sui più piccoli. Molti genitori mostrano preoccupazione perché i propri figli, anche in età infantile, passano sempre più tempo con computer, smartphone, tablet e giochi elettronici, tuttavia spesso l’esempio disfunzionale proviene proprio dall ’interno del nucleo familiare stesso, con comportamenti da parte degli adulti di utilizzo improprio e prolungato degli smatphone, spesso giustificati da esigenze di lavoro. E’ sufficiente guardarsi intorno quando si cammina per strada, si prende un mezzo pubblico o al ristorante per osservare come non siano soltanto gli adolescenti ad essere ipnotizzati dal telefono. Quante volte possiamo notare famiglie, coppie, gruppi di amici, fisicamente insieme, ma ognuno concentrato sul proprio telefono?
Spesso inoltre, con i bambini, smartphone o tablet vengono utilizzati come rinforzi o per un intrattenimento prolungato, allo scopo di mitigare alcuni stati alterati del piccolo (pianti, urla o lamentele aspecifiche).
I pediatri della SIPPS (Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale), riuniti in convegno a Caserta nel 2016, hanno sottolineato il bisogno di creare linee guida per limitare il più possibile l’uso dei telefonini ai bambini, evitandone totalmente l’uso prima dei 10 anni e limitandone l’utilizzo dopo tale età, un po’ come i nostri genitori facevano con la televisione.
Non vi sono tuttavia attualmente sufficienti ricerche che possano considerare questa precocità di utilizzo un fattore predittivo di una futura nomofobia in quanto la Sindrome è nuova e ancora poco studiata, ciò però non smentisce l’ipotesi che possa essere possibile o creare un fattore di fragilità.
E allora che cosa possiamo fare? Oggi l’utilizzo di uno smartphone, di un tablet o di un computer è indispensabile nella quotidianità poiché strumento di facile impiego per le attività lavorative e scolastiche e, come tutte le tecnologie, estremamente produttivo in quanto permette in tempi più brevi di raggiungere obbiettivi che nell’ ordinario richiederebbe più tempo o più risorse. Non possiamo perciò certamente immaginare di creare una quotidianità priva di tecnologia: dobbiamo creare un’educazione all’ utilizzo consapevole e funzionale della tecnologia, affinché un potenziale positivo non divenga uno strumento danneggiante.
E’ pertanto importante istruire i giovani, ed auto istruirsi da adulti, ad un rapporto più equilibrato con il nostro smartphone, imponendosi di tanto in tanto una pausa dalla sua presenza rassicurante, per poter assaporare come una vita realmente vissuta sia più gratificante di una vita virtuale.
Dr.ssa Consuelo Aringhieri