Mese: <span>Ottobre 2017</span>

L’EDUCAZIONE DEI NATIVI DIGITALI

L’Associazione Eco organizza 3 incontri dedicati all’educazione dei nativi digitali da parte di genitori ed insegnanti

M. Prensky, nel 2001, coniò l’espressione nativi digitali per indicare i bambini nati a partire dagli anni ’90, che conoscevano e interagivano con le nuove tecnologie digitali da sempre. Con il termine immigrati digitali indicò noi adulti, genitori e professionisti, che abbiamo dovuto apprendere successivamente l’utilizzo di queste nuove tecnologie, inesistenti quando eravamo bambini.

Come sostiene E. Chiapasco (2015), queste tecnologie non sono solo un insieme di nuovi strumenti, ma un fenomeno culturale che sta cambiando il modo di pensare e di stare in relazione con gli altri. L’educazione impartita da genitori e insegnanti deve considerare anche le nuove tecnologie, fin dalla più tenera età. I bambini, già dalla scuola dell’infanzia e primaria, osservano gli adulti che utilizzano continuamente smartphone e computer; li usano a loro volta, acquisendone una rapidissima padronanza, per guardare su Youtube i cartoni animati che amano, per ascoltare le canzoni preferite, per fare le ricerche per la scuola, per contattare i compagni di classe. I genitori devono supervisionare il più possibile queste attività, ma non possono essere ovunque; a un bambino basta un cellulare dismesso in cui attivare la connessione wi-fi per addentrarsi nel mondo virtuale e cercare risposte alle sue mille curiosità. L’educazione deve includere anche indicazioni su come ci si muove in questo mondo, abitato e vissuto dai bambini e dai ragazzi tanto quanto quello reale.

Rispetto ai cervelli degli immigrati digitali, quelli dei nativi ricevono da sempre una grande quantità di input veloci. Sono abituati a gestire i processi di apprendimento in modo parallelo, svolgendo contemporaneamente più compiti o funzioni. Preferiscono la grafica al testo, piuttosto che il contrario; prediligono una modalità di accesso non ordinata e sequenziale alle informazioni.

Gli immigrati preoccupati da questo cambiamento, devono considerarlo in termini evolutivi; non sono costretti a modificare il contenuto degli insegnamenti da trasmettere alle generazioni successive, ma le modalità: il linguaggio, le esperienze e i supporti per l’apprendimento. Allo stesso tempo, non possono fare alla leggera la scelta di acquistare un computer, un telefono cellulare, un tablet o un videogioco. Mettere in mano ai bambini uno strumento ipersofisticato apre loro un mondo di possibilità con un potente impatto pratico e psicologico, al quale devono essere preparati. Per di più, se anche hanno la capacità materiale di usare uno strumento tecnologico, non significa che lo sappiano utilizzare responsabilmente. Gli immigrati digitali devono restare aggiornati e informarsi sui rischi e sulle potenzialità delle nuove tecnologie, per poterne parlare con figli, studenti e pazienti.

I potenziali pericoli legati all’uso massiccio di internet e delle nuove tecnologie sono:

  • sviluppare una dipendenza (passare molto tempo su internet, tanto da non riuscire a portare a termine i propri compiti di studio o lavoro, usarlo come via di fuga dai problemi reali);

  • attuare o subire comportamenti di cyberbullismo;

  • il sexting (ricevere o inviare messaggi, fotografie o video a contenuto sessuale)

  • essere adescati da pedofili, da organizzazioni terroristiche o da siti che incoraggiano comportamenti pericolosi per la salute psicofisica.

Ci sono anche pericoli specificamente legati a un utilizzo eccessivo dei social-network:

  • essi forniscono un’alta visibilità con il rischio di una sovraesposizione indesiderata di sé;

  • offrono dei feedback e un controllo sociale costante che influenzano la costruzione dell’identità e la considerazione di se stessi. Se l’autostima si basa su di essi ha fragili fondamenta, poichè dipende dall’approvazione ricevuta dagli altri, con scarse ricadute strutturali o reali;

  • le relazioni virtuali non si collocano in un luogo fisico e sensoriale condiviso, nè hanno vincoli spazio-temporali; ciò rende i ragazzi meno avvezzi alle relazioni reali. Inoltre, l’assenza di un rapporto vis-a-vis elimina la comunicazione non verbale e la corporeità degli interlocutori.

  • paradossalmente, se le relazioni virtuali sostituiscono quelle reali, può aumentare il senso di solitudine e il ritiro sociale.

Quando scriveva il suo articolo, M. Prebsky aveva già notato una diminuzione della capacità di usare il pensiero riflessivo da parte dei nativi; sono passati meno di vent’anni da allora e, in questo lasso di tempo, l’uso di internet e dei social network si è diffuso in modo massivo. Gli adulti che si occupano di bambini e ragazzi hanno osservato altri segnali di disagio nei nuovi nativi digitali e in quelli ormai cresciuti:

  • diminuisce la capacità di stare soli, di tollerare i limiti e di mettere dei confini;

  • la comunicazione non verbale sembra cadere in disuso;

  • il rapporto con il proprio corpo, in termini di sensazioni ed emozioni, è più difficoltoso.

Queste funzioni psichiche fanno parte di un repertorio di abilità che devono essere coltivate nello sviluppo di ciascun individuo. Esse non sono state compromesse tout cour dall’avvento delle nuove tecnologie, ma, sicuramente, il loro uso pervasivo ne rende più complicata l’acquisizione.

Internet e le nuove tecnologie non sono un fenomeno da demonizzare; danno spazio alla creatività e alla libertà di espressione personale, offrono opportunità informative, relazionali e professionali. Sarebbe impossibile censurarli; basta riflettere sul fatto che anche la maggior parte degli immigrati digitali è ormai connessa alla rete ventiquatt’ore su ventiquattro.

M. Prebsky definì due tipi di sfide a cui noi immigrati digitali non possiamo sottrarci: “imparare cose nuove” e “imparare nuovi modi di fare cose già fatte”, senza riuscire a determinare quale delle due fosse la più difficile.

Per questo abbiamo bisogno di una formazione specifica tenuta da esperti sia delle nuove tecnologie, che dell’età dello sviluppo. Ci sono compiti evolutivi che tutti i ragazzi devono affrontare, così come li abbiamo superati noi nella nostra adolescenza: la separazione, la costruzione dell’identità, l’autonomia. Cambiano il contesto e i mediatori delle esperienze che servono a raggiungere questi scopi. Per farlo nel migliore dei modi, i ragazzi hanno bisogno di figure di riferimento ben equipaggiate, che conoscano le nuove tecnologie e siano in grado di parlarne con loro.

Autrice Dr.ssa Valentina Congedo

Supervisione Dott Stefano Lagona e Dr.ssa Luigina Pugno

Bibliografia

Berti M., Valorzi S., Facci M., 2017, Cyberbullismo: guida completa per genitori, ragazzi, insegnanti, Reverdito Editore.

Cario M., Franco G., Arbrun R., Ferraud M., Chiapasco E., 2014, Cyberfriends. Il valore dell’amicizia i tempi di internet, www.csptech.org/articoli-e-pubblicazioni

Chiapasco E., 2015, La rivoluzione culturale di Internet. Una nuova sfida educativa, www.csptech.org/articoli-e-pubblicazioni

Kettmaier M., 2017, Il rischio internet-correlato alle scuole medie: uno strumneto di indagine per l’intervento nelle classi, www.stateofmind.it/2017/04

Prensky M., 2001, Nativi digitali e immigrati digitali, www.laricerca.loescher.it/istruzione

Prensky M., 2001, La mente nuova dei nativi digitali, www.laricerca.loescher.it/istruzione

L’uso della storia di vita nel lavoro con l’anziano: attività e creatività

https://www.youtube.com/watch?v=jjZTdaeglpA

Non ho niente da dire”: queste le parole di Giulia, un’anziana signora di 85 anni che mi accoglie dopo le presentazioni. Giulia è ricoverata in casa di riposo da circa due anni, ma non si rassegna, rifiuta la permanenza in istituto, non riesce ad accettare la fatica e talora la concreta incapacità di badare a se stessa. Si pone in maniera gentile e cordiale, ma appare chiusa e riluttante, restia a lasciarsi andare, diffidente, e a tratti sospettosa, con un’espressione rassegnata sul volto.

Questo comportamento mi pare ben si adatti all’atteggiamento rispetto alla persona anziana, diffuso nella società odierna: sembra prevalere una concezione della vecchiaia in termini prevalentemente negativi, in quanto è spesso percepita come l’ultima parte della vita, caratterizzata da un graduale e progressivo declino della maggior parte delle abilità. Certamente l’anzianità si accompagna a molteplici cambiamenti, fisici, psicologici, sociali, alcuni dei quali negativi, ma questo non deve impedire di guardare alla vecchiaia come ad un processo altamente variabile ed eterogeneo, dal punto di vista interindividuale e intraindividuale (Bragato, Busato, Bordin, 2009).

Ciò che non si deve dimenticare è l’importanza di guardare e considerare l’anziano innanzitutto come una persona, un individuo, con limiti e risorse, non necessariamente debole e bisognoso, ma impegnato ad affrontare un ulteriore tappa esistenziale: una persona, prima di tutto, degna, meritevole di ascolto, attenzione e rispetto. Ritengo che ci sia tanto da imparare dagli anziani, a maggior ragione se, istituzionalizzati, soprattutto non per libera scelta, il caso più frequente: quanta forza, coraggio, dignità si riconosce in loro! Quanto hanno da dire, raccontare, condividere ed insegnare! Adottando un atteggiamento rispettoso, partecipe, curioso, si può entrare nel loro mondo, in punta di piedi, chiedendo il permesso e aspettando pazientemente, nel rispetto dei loro tempi e modi, valorizzando parole e silenzi. Ecco allora la possibilità di co-costruire una relazione, ecco allora che si configura un possibile spazio di benessere anche per la persona anziana, un luogo, un tempo, in cui egli può esprimere e condividere liberamente pensieri, ricordi, emozioni: in altre parole, la sua storia.

Spesso, durante banali conversazioni, accade che l’anziano spontaneamente rievochi i ricordi della sua vita passata, e ciò viene talvolta valutato in maniera negativa, come riflesso del decadimento cognitivo associato all’età. In realtà, il raccontarsi riveste un grande potere terapeutico, poiché consente di rivivere gli eventi con i vissuti emotivi ad essi associati, apre lo spazio ad una nuova riflessione, in cui diventa possibile risignificare le esperienze, dando loro nuovo riconoscimento, nuovo senso e nuova comprensione. Ciò vale per tutte le persone che portano il racconto della propria vita in terapia, ma forse per l’anziano c’è un valore aggiunto, dato dalla presa di coscienza della sopravvivenza della propria capacità e possibilità di dare e ricevere ancora, di regalare e condividere storie, emozioni, esperienze, insegnamenti: risorse che si credevano sopite, e invece richiedono di essere soltanto risvegliate e accolte.

E’ stata da tempo sottolineata la naturale propensione dell’essere umano a dare un senso alla propria esistenza attraverso il racconto di storie: questo vale anche per la persona anziana, come occasione di riscoprire il proprio valore, di riconoscere e valorizzare le proprie esperienze, trasmettendo a chi ascolta, saggezza, esperienza, speranza “…mostrando così, la capacità di emozionare ed emozionarsi ancora…”(Busato, Bordin, Mantoan, 2011).

Ho ben chiare nella mente le espressioni del volto di alcuni vecchietti, da cui trasparivano orgoglio e soddisfazione dinnanzi al ricordo di eventi positivi, oppure tristezza e sofferenza in relazione a esperienze passate negative. Ricordo lo stupore e la contentezza nei loro occhi nello scoprire di essere ancora in grado di ricordare e condividere; avverto ancora la gratitudine per l’interlocutore privilegiato in quel momento dedito a loro soltanto, talora espressa verbalmente, talora con un sorriso o una semplice stretta di mano.

Ho ben in mente i cambiamenti nelle stessa relazione con l’utente anziano, prima caratterizzata da diffidenza, timore, evitamento, sentimenti che poi gradualmente lasciavano spazio ad un più positivo atteggiamento di accoglienza, attesa e soprattutto desiderio: la signora Giulia, durante uno dei nostri incontri, mi guarda, mi sorride in modo complice e mi dice “Forse mi può fare bene…”. Questo contesto diventa il luogo della possibilità, della speranza, della fiducia: spazio in cui ascoltare e raccontare una storia, accogliendola con tutte le sue sfaccettature e peculiarità: un racconto forse impreciso, confuso, da costruire e ricostruire, connotato dalla rievocazione di eventi talora a forte valenza emotiva, in cui la persona si riscopre protagonista della propria esistenza, riappropriandosi “…del significato del proprio vissuto e della propria identità”(Busato, Bordin, Mantoan, 2011). Attraverso la narrazione, diventa possibile mettere ordine negli eventi, ri-connettere esperienze passate e presenti, adottando prospettive altre, riscoprendo a volte, nuovi significati evocati dalla riflessione suscitata dal racconto. Ciò rappresenta per l’interlocutore una grande possibilità per conoscere la persona che si racconta, cogliendone tracce del suo modo di essere, del suo carattere, dei suoi valori, apprezzando la vividezza dei ricordi e la ricchezza dei dettagli. Ricordo il mio stupore dinnanzi alla rievocazione di particolari minuziosamente descritti, quasi fossero davanti ai nostri occhi, come la descrizione della signora Giulia di un mobile appartenuto ad una bisnonna e tramandato attraverso le generazioni, oppure della strada che conduceva alla propria abitazione: parole fortemente evocative, coinvolgenti, dense di significato.

A volte, quando si è instaurato un buon clima di fiducia e collaborazione, diventa possibile utilizzare strumenti specifici durante i colloqui, ad esempio l’uso delle fotografie: il loro impiego riveste una particolare utilità in questi casi, poiché sollecita ulteriormente i ricordi, e permette elle emozioni di fluire più liberamente. E’ stata proprio la signora Giulia a mostrarmi spontaneamente le fotografie della sua famiglia d’origine, arricchendo così la narrazione, dandomi la possibilità di associare un volto alle persone descritte, e consentendomi l’accesso ad un mondo altro, quello della memoria, ricordo di una vita passata, gelosamente custodito nella sua mente.

Concludo con le parole di Cesa-Bianchi che cita l’esempio di alcuni grandi artisti che hanno portato a termine importanti opere proprio durante l’anzianità: Donatello, all’età di ottanta anni e sofferente di una forma di parkinsonismo, ha realizzato il Pulpito della Chiesa di S.Lorenzo a Firenze; Michelangelo Buonarroti a ottantanove anni lavorava alla Pietà Rondanini; Tiziano, quasi cieco, completa gli ultimi dipinti a 84 anni.

In un’intervista pubblicata ne “La professione di Psicologo”, intitolata “L’ultima creatività”, il professore afferma:

Verso la conclusione della vita possono arricchirsi, mantenersi attive, produttive le capacità immaginative, non nel significato di evasione allegorica da una realtà che talvolta sembra apparire avversa o indecifrabile, ma in quello di ricerca della propria verità narrativa, della sua realizzazione, di chi si è stati, si è e si può diventare, oltre le soglie dell’età, fra le luci del pensiero, del sentimento, della conoscenza. Chiunque da anziano può essere creativo, anche chi è meno fortunato, sul piano della salute, fisica e psichica, delle condizioni familiari e sociali (…) Si può invecchiare creando, completando la propria storia, valorizzando le esperienze positive, afferrando la vita, per strapparne la chiarezza e i suoi riflessi. (Cesa-Bianchi, 2011).

Dr.ssa Katia Querin

Bibliografia

Bragato S., Busato V., Bordin A., Il gruppo di Auto Mutuo Aiuto in anziani istituzionalizzati. Padova: Cleup, 2009.

Busato V., Bordin A., Mantoan V., Reminiscienza: come ricordare la memoria. Padova: Cleup, 2011.

Cesa-Bianchi M., Giovani per sempre? L’arte di invecchiare. Editori Laterza, 1998.

Felaco R., L’ultima creatività. Intervista al Prof. Marcello Cesa-Bianchi. La Professione di Psicologo, n.3 Dicembre 2011.