Mese: <span>Gennaio 2021</span>

LA PANDEMIA HA RESO I NOSTRI RAGAZZI HIKIKOMORI?

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Questo termine, derivante dalla lingua giapponese, si sta diffondendo negli ultimi mesi in modo spesso improprio e sommario per descrivere l’atteggiamento di ritiro sociale e attaccamento alla rete che i nostri adolescenti stanno manifestando a seguito dei forzati lockdown e della didattica a distanza, resasi indispensabile per contenere la pandemia.

Ma l’accostamento del termine “hikikomori” a questa descrizione situazionale crea confusione sul reale significato di questa parola e sul fenomeno che descrive.

Qual è dunque il reale significato di questo termine?

"Hikikomori" è un termine giapponese che significa letteralmente "stare in disparte" e viene utilizzato clinicamente per descrivere il comportamento di chi decide di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi (da alcuni mesi fino a diversi anni), rinchiudendosi nella propria abitazione, senza aver nessun tipo di contatto diretto con il mondo esterno, talvolta nemmeno con i propri genitori.

Inizialmente, quando negli anni ‘90 lo psichiatra Tamaki Saito (1998) iniziò ad indagare in modo più approfondito il fenomeno, sembrava essere una sindrome culturale esclusivamente giapponese, tuttavia con il passare del tempo ci si è resi conto che il fenomeno sembra più vicino ad un disagio adattivo sociale che riguarda tutti i paesi economicamente sviluppati del mondo.

Si è infatti rapidamente diffuso anche in Corea e Cina ed è approdato negli Stati Uniti intorno all’inizio del nuovo millennio (Block, 2008).

E’ un comportamento che insorge frequentemente nella fascia di età tra i 14 e i 25 anni, anche se, negli ultimi anni, sta coinvolgendo un crescente numero anche di giovani adulti. In Giappone il fenomeno ha contato nel 2018 circa 1 milione di casi.

Il termine Hikikomori è stato tradotto in modo più internazionale, sempre da Saito, in “Social withdrawal”, una condizione sociale più ad ampio spettro, caratterizzata prevalentemente da sentimenti di solitudine, isolamento, ritiro dalla società e dalle relazioni interpersonali. Un mettersi in disparte sostituendo il tempo della relazione con un tempo trascorso in isolamento totale, concedendosi soltanto l’utilizzo di internet, di fumetti o video giochi: è un ritiro dalla società, è un rifugiarsi nella solitudine. Tuttavia, paradossalmente, questi giovani interagiscono virtualmente in modo molto attivo con l’esterno: attraverso un apparente rifiuto della vita reale essi compiono il loro atto di difesa dal mondo che sta fuori, facendo diventare la propria stanza l’unico spazio di realtà vivibile, inaccessibile a chiunque, come rappresentazione di un riparo da difendere a tutti i costi.

Spesso tendono ad invertire il ritmo giorno-notte, ad addormentarsi al mattino dopo ore trascorse a guardare la tv, a leggere, a giocare ai videogames o a chattare on line durante la notte.

Ma perché a un certo punto del loro percorso di sviluppo alcuni ragazzi decidono di ritirarsi dalla vita sociale e scelgono una modalità di silenziosa sopravvivenza virtuale?

Diversi psicoterapeuti descrivono alcune emozioni riscontrate in modo ricorrente durante i colloqui con i giovani Hikikomori: paura, ansiarabbia e vergogna.

Questi ragazzi riportano vissuti di continua inadeguatezza, che li spinge a ritirarsi dal confronto con gli altri, per evitare di sperimentare costantemente un senso di frustrazione e di sconfitta.

Il Giappone è sicuramente, attualmente, il paese più colpito in assoluto e la ragione principale va ricercata nell’alta competizione che pervade tutti i suoi contesti sociali, da quelli scolastici a quelli lavorativi, e nella tolleranza di fenomeni come il bullismo, dove essere esclusi dal gruppo non viene letto come una vittimizzazione, bensì con il significato di aver fallito socialmente poiché  la cooperazione e l’adesione a norme condivise rimangono un valore aggiunto in una società collettivistica come quella giapponese. Al bullismo infatti, non viene attribuito affatto il significato di un’ingiustizia subita dalla persona, anzi, viene interpretato piuttosto come un mostrarsi outsider rispetto al gruppo dei pari, per via della propria non conformità, accrescendo il proprio senso di inadeguatezza.

Ed è proprio nel senso di fallimento sociale che sono da rintracciare le cause profonde di questo fenomeno: dove si crea un gap tra il proprio sé ideale e la realtà si insinuano le paure di fallire, di deludere gli altri, di perdere tempo e, come conseguenza, un forte senso di vergogna di sé.

Molti adolescenti, nella società moderna occidentale si  trovano oggi a fare i conti con idee grandiose rispetto al proprio sé, con aspettative enormi ed ideali di perfezione, che in parte la società propone come modelli a cui aspirare, in parte le famiglie d’origine sostengono come ambizioni da perseguire, proprio per questa ragione il fenomeno hikikomori ha varcato i confini dell’Arcipelago.

Inoltre, entrando più nello specifico, dai numerosi studi che sono stati condotti in Giappone per comprendere se esistesse una multifattorialità di cause all’origine del manifestarsi di questo protratto rifiuto sociale, oltre ad una cultura sociale di ipercompetitività, sono emersi diversi aspetti significativi. Da un punto di vista psicologico, si sono studiate innanzitutto le variabili familiari legate a relazioni disfunzionali di tipo invischiato e la copresenza nelle figure di attaccamento di disturbi psicopatologici associati, come ad esempio la depressione o disturbi d’ansia. Questi ragazzi sono in genere figli unici di sistemi familiari in cui risulta carente la presenza emotiva del padre e un attaccamento molto invischiato con la figura materna. Hanno genitori che, in modo differente, faticano a relazionarsi con il figlio, il quale spesso rifiuta qualsiasi tipo di aiuto.

Sono ragazzi con una particolare sensibilità: questa caratteristica, spesso non identificata come una risorsa, e di conseguenza non declinata come una competenza,  rappresenta per loro una fragilità, in quanto crea difficoltà nell'instaurare relazioni soddisfacenti e durature, li rende impreparati ad affrontare con efficacia le inevitabili difficoltà e delusioni che la vita riserva. Per questa ragione diventano inibiti socialmente, seppur dotati di una estrema intelligenza.

Da un punto di vista sociologico, invece, si sono indagati soprattutto i fattori legati al particolare sistema culturale giapponese, basato sul confucianesimo, e all’avere un atteggiamento di anomia sociale e di rifiuto verso le severe regole morali e sociali su cui si basa la tradizione giapponese. L’ipotesi che ne è scaturita ha confermato quindi che questi giovani, pressati dai valori sociali basati sull’estremo perfezionismo e sulla tendenza a voler sempre primeggiare sia a scuola che al lavoro, non si sentano all’altezza degli standard loro richiesti e preferiscano privarsi della libertà pur di evitare di affrontare una realtà quotidiana che avvertono come opprimente.

La compresenza di più fattori di rischio aumenta in genere il numero di ambiti in cui il ragazzo riscontra difficoltà, portandolo ad una  crescente demotivazione nel confrontarsi con la vita sociale, fino a un vero e proprio rifiuto della stessa. Viene messo in atto un meccanismo di evitamento, un rifiuto ad affrontare le problematiche e un conseguente ritiro in un luogo che trasmette protezione: la casa, nello specifico la propria stanza: questi ragazzi nei casi più gravi non si recano neanche più in cucina per consumare i pasti ed escono dalla propria stanza da letto giusto per recarsi in bagno e mantenere una minima igiene personale.
La reclusione appare l’unica soluzione, l’unico strumento per manifestare il proprio dissenso o il proprio disagio rispetto ad un gruppo e alle sue norme. 

Tale interpretazione sembrerebbe confermata anche dalle testimonianze di tanti giovani ex Hikikomori che, in genere, dichiarano di essere nauseati da tutto, soprattutto dal fatto che il loro modo di vedere le cose e la società non corrisponde alle attese, tanto da sentire di non avere altra scelta oltre al “rinchiudersi” (Secher, 2002).

La letteratura ci insegna come l’identità dell’adolescente si struttura grazie a diversi elementi, tra cui fondamentale importanza assumono l’adesione o la critica di norme sociali e regole dettate dalla famiglia e dalla società e il rispecchiamento e l’identificazione nel gruppo dei pari. Gli adolescenti Hikikomori, interrompendo questo legame con la società e con il gruppo, è come se si chiamassero fuori dal percorso adolescenziale, indispensabile però per il passaggio alla vita adulta. E’ molto complicato pertanto per questi ragazzi riuscire a strutturare una propria identità e spesso preferiscono adeguarsi ad identificarsi con l’”etichetta” che la società gli fornisce, descrivendo il loro fenomeno esistenziale, seppur in termini negativi.

Sovente viene anche erroneamente attribuita loro una dipendenza da internet, indicata come una delle principali cause scatenanti del fenomeno, essa invece rappresenta più una possibile conseguenza dell'isolamento che una causa: utilizzare la rete è l’unico mezzo con cui questi ragazzi possono restare in contatto con il mondo esterno ed è anche una delle poche attività praticabili nel tempo libero chiusi nelle quattro mura della propria cameretta. Il fenomeno è infatti scoppiato in Giappone ben prima della diffusione del personal computer e della rete. Questo significa che prima che esistesse internet l'isolamento degli hikikomori era totale. Da questo punto di vista, l'utilizzo del web può essere interpretato come un fattore positivo, in quanto consente ai ragazzi di continuare a coltivare delle relazioni sociali e interessi che altrimenti sarebbero loro preclusi.
Il fenomeno va pertanto distinto dall’abuso tecnologico o da altre forme patologiche, anche se, dobbiamo evidenziarne un elemento comune: si sceglie una vita virtuale che sostituisce in pieno il reale ( L.T. Pedata, M. Interlandi, 2012). Il senso di vergogna sperimentato nel contatto con l’altro, in rete viene placato, anche se non completamente. La dimensione del gruppo sulla piattaforma virtuale crea un senso di appartenenza e di accettazione immediata che non sembra essere caratterizzato dai tempi e dalle regole più severe a cui sottostanno i gruppi nella realtà quotidiana  (Lavenia 2012).

Quello che la letteratura ci suggerisce pertanto è che i ragazzi hikikomori, seppur in una situazione di fragilità emotiva, scelgono di evitare il mondo e di ritirarsi, motivo per cui siamo portati a propendere per il fatto che sia errato assimilare la situazione dei nostri adolescenti durante la pandemia a questo fenomeno. Gli adolescenti in questi mesi, in tutto il mondo, si sono trovati costretti ad adeguare la loro relazionalità all’impossibilità di uscire di casa e di frequentare la scuola. E’ possibile che alcuni ragazzi, già precedentemente all’insorgere della pandemia, avessero delle fragilità relazionali e che la costrizione a restare a casa sia stata vissuta come un sollievo anziché un obbligo da rispettare, ma per la maggior parte dei ragazzi la rete è stata vissuta come la risorsa indispensabile per mantenere un minimo di socialità e normalità. Possiamo concludere che sarà opportuno occuparsi di queste fragilità se in qualche ragazzo l’isolamento perdurerà anche con il terminare dell’emergenza sanitaria, quando la nostra socialità e la nostra relazionalità potranno tornare ad essere fatte di realtà non virtuale.

Dottoressa Consuelo Aringhieri

Quando il passato ritorna prepotente nel nostro presente: la solitudine come patto di lealtà

“Non esiste nessuno a cui piaccia la solitudine. E’ solo che odio le delusioni” 

Haruki Murakami

Le ricerche sull’attaccamento e sulla relazione madre-bambino, dimostrano quanto, per ciascuno di noi, sia importante creare relazioni con gli altri. Fondamentalmente è la relazione con l’altro a determinare la nostra identità (Bowlby, 1989; Bartels & Zeki, 2004).

Il processo di individualizzazione si fonda sul bisogno di appartenenza e di differenziazione.

L’appartenenza è il bisogno del bambino di appartenere e riconoscersi nella sua famiglia d’origine.  Con la crescita, il ragazzo prima e l’adulto poi, sentirà la necessità di appartenere non solo al suo nucleo d’origine, ma anche di appartenere al contesto sociale in cui vive (Bateson,1977). L’uomo, costruendo la propria rete di relazioni interpersonali, riuscirà a definire così, il proprio sé e l’altro da sé.

Per Hawkly e Cacioppo (2010), il bisogno di appartenenza è coinvolto nello sviluppo dell’intersoggettività: “il senso di connessione sociale funziona come un’impalcatura per il sé; se si  danneggia l’impalcatura, il sé inizierà crollare”.

Il bisogno di differenziazione permette il raggiungimento della propria individualità.  La ricerca di relazioni interpersonali appaganti e durature all’interno di un contesto sociale più ampio, porterà  ciascuno di noi a sentirci parte integrante di un tutto e contemporaneamente a mantenere la nostra indipendenza e individualità.

Appartenenza e differenziazione pur assolvendo a funzioni differenti sono la spinta motivazionale a creare relazioni, orientando così il nostro comportamento, le nostre emozioni e i nostri pensieri (Liotti & Farina, 2011). 

Perché ci sentiamo soli? Innanzitutto, è importante distinguere tra solitudine e isolamento.

La solitudine è infelicità, può rappresentare un tratto distintivo della persona o essere  una risposta transitoria a circostanze esterne come lutti, rotture o cambiamenti. Non richiede un necessario isolamento fisico ma piuttosto un’assenza di vicinanza, di contatto, un grado di intimità desiderata che non sempre si è in grado di raggiungere nonostante il contesto sia favorevole.

Non tutti sono stati accompagnati in modo stabile dalla solitudine, ma più o meno tutti da posizioni e prospettive diverse hanno dimostrato una particolare sensibilità nel percepire “muri e ostacoli” tra le persone, sensazioni di isolamento e invisibilità.

La solitudine è l’esperienza di sentirsi separato dagli altri, di non appartenenza e  non condivisione, è sinonimo di insicurezza e auto-svalutazione. Fin da piccoli, quando sperimentiamo un disagio, sia esso emotivo (tristezza, paura, ansia) o fisico (dolore, stanchezza..), sentiamo il bisogno di ricevere affetto dalla nostra figura di accudimento, generalmente la mamma. Il bambino cercherà la vicinanza e protezione dell’altro gridando e piangendo. Quando otterrà una risposta amorevole e accogliente, riuscirà a calmare la sua attivazione fisiologica, disinnescando la risposta alla minaccia. 

Cancrini ha evidenziato come questa relazione di tipo filiale/genitoriale vada oltre il legame di sangue diretto, sostituendo il suddetto termine con legame degli affetti. Tutti quei legami che assumono grande importanza per lo sviluppo degli individui ma che possono non essere naturali: “ figlio o figlia ti è, penso, colui o colei a cui hai dato e da cui hai preso, in una posizione di cura, nello scambio continuo da cui si concreta la vita di relazione, elementi costitutivi della sua identità” (Cancrini, 2020).

I legami, dunque, ci aiutano a sviluppare le nostre capacità di regolazione emotiva. In età adulta, le relazioni, pur orientandosi verso una maggiore reciprocità continueranno ad avere un ruolo fondamentale per il mantenimento del nostro benessere. Anche da grandi avvertiremo il bisogno di sentirci visti, compresi e di poter contare sul supporto di persone per noi importanti. Il bambino che avrà fatto esperienza di un attaccamento sicuro, sarà un adulto capace di tollerare la solitudine e la conseguente sensazione di disorientamento, mantenendo la propria identità integra anche in assenza di una figura di riferimento benevola e protettrice. Seguendo le acquisizioni più recenti della neurobiologia, “la mente si forma nell’ambito delle interazioni fra processi  neurofisiologici interni ed esperienze interpersonali e i collegamenti umani plasmano lo sviluppo delle connessioni nervose che sono alla base del nostro cervello” (Mucci, 2014). Se la felicità degli esseri umani è legata al vivere con gli altri, per cui i fattori decisivi del successo riproduttivo dell’uomo si fondano sull’empatia, sulla cooperazione e sui legami sociali (Cacioppo 2009),  allora la solitudine è una condizione patologizzante, che trasforma il bisogno insoddisfatto dell’altro in sensazioni, pensieri e comportamenti ostili.

Il sentirsi soli non è necessariamente sinonimo di essere soli e isolati. Ciascuno di noi si è sentito solo, per tempi più o meno prolungati, per propria scelta o a causa di condizioni esterne. Il senso di solitudine bussa alla nostra porta quando vorremmo ricevere amore, contenimento, compagnia, ma sembra difficile riuscirci. Si torna così al tempo iniziale della vita e dello sviluppo emotivo, quando il bambino ha fatto esperienza di sentirsi solo in una situazione di bisogno, vivendo una condizione familiare di forte precarietà affettiva ed emotiva. Oppure si torna al tempo adolescenziale o adulto, quando un evento o un problema, porteranno la persona a confrontarsi con le proprie fragilità, per cui il sentirsi soli si trasformerà nel sentimento della solitudine. L’impatto emotivo che le interazioni dell’infanzia hanno sullo sviluppo della personalità di ciascuno di noi, evidenzia il complesso rapporto tra essere soli, sentirsi soli, e la solitudine nel processo del divenire se stessi (Benjamin). In questi  casi, l’altro diventa per noi imprevedibile, la paura di essere ignorati e abbandonati in qualsiasi momento pietrifica anche la nascita dell’amore, in alcuni casi la sensazione di disconnessione-vuoto dagli altri  è così forte che qualsiasi azione dell’altro non riesce a colmare il nostro bisogno di attenzione e amore. Boon, Steel e Van der Hart (2013) parlano di fobia della perdita dell’attaccamento.

In questi casi si instaurano relazioni complesse caratterizzate da:

  • comportamenti altamente richiestivi verso l’altro, si pretende sempre maggiore vicinanza, attenzioni e risposte sempre più rapide (“perché non mi hai risposto subito?..mi vuoi lasciare?…). Diventa difficile tollerare la frustrazione dell’assenza dell’altro perché magari impegnato nel suo quotidiano. Tutto diventa una misura di quanto l’altro tiene a noi, sembra quasi impossibile regolare le emozioni senza l’aiuto degli altri e, per di più, questo aiuto non sembra mai sufficiente.
  • oppure al contrario, mostrare comportamenti passivi, anticipando sempre i bisogni dell’altro e mettendo in secondo piano i propri (“Vengo subito da te anche se avrei dovuto finire delle cose di lavoro”..). Queste modalità finiscono per esaurire le energie mentali e fisiche, accumulando rabbia e risentimento. 

Qualsiasi sia la strategia, quello che si avverte è un profondo bisogno di contatto e protezione che fatica ad essere colmato. Nascono relazioni non equilibrate che inevitabilmente andranno a confermare l’idea che gli altri siano portati prima o poi a deluderci. A valle della solitudine ci sono molti schemi comportamentali disfunzionali che si ripetono, senza neanche esserne consapevoli.  L’agire per ripetizioni spesso ha a che fare con  la trasmissione intergenerazionale, viene passata da una generazione all’altra, da padre a figlio, da madre a figlia, e la relazione con l’altro riattiva vecchie ferite dell’infanzia (Benjamin 2004).

Spesso accade che le persone desiderano una relazione ma contemporaneamente la temono; questo comporta un’ipervigilanza rispetto alle minacce sociali, l’individuo tende a percepire il mondo in termini sempre più negativi isolandosi sempre di più. Chi si sente isolato e fuori dal giro delle relazioni sociali, inizia a sviluppare una serie di comportamenti negativi  che hanno lo scopo di non incontrare gli altri, per  evitare di essere rifiutati. Una sorta di atto di difesa che non fa altro che aggravare il malessere di partenza. 

Ecco alcune credenze in grado di perpetuare l’isolamento sociale:

  • nel corso della propria esistenza, alcune persone a seguito di ripetute critiche e svalutazioni potrebbero faticare a fidarsi degli altri, attribuendo a quest’ultimi intenzioni malevole. L’isolamento diventa così una strategia per prevenire ulteriori sofferenze o delusioni.
  • le relazioni sono pericolose. E’ meglio essere totalmente autosufficienti. In questi casi è possibile sperimentare un senso di minaccia, paura o pericolo all’interno delle relazioni. Sulla base di ciò ritirarsi dalle relazioni è una risposta comprensibile. 
  • “se vedessero i miei difetti, non potrebbero amarmi”. Quando ci si sente così, profondamente sbagliati, l’isolamento è quindi un modo per non incorrere nel rischio che gli altri scoprano chi si è realmente.

Queste sono alcune delle credenze che rinforzano la sensazione di non poter essere in sintonia con gli altri, di poter creare legami interpersonali basati sulla vicinanza empatica e sull’ascolto. In questo modo diventa difficoltoso accedere ad esperienze relazionali positive, fondamentali per modificare le credenze rigide e inflessibili che condizionano i nostri rapporti presenti. In questo modo il passato ritorna prepotente nel nostro presente, per sentirci al sicuro facciamo e ripetiamo quello che abbiamo visto fare dalle nostre figure di riferimento. Come dice la Benjamin il patto di lealtà con le figure di riferimento è un “dono d’amore”, è la ricerca di un’intimità  tanto desiderata e sognata e contemporaneamente è la perdita della propria differenziazione, del riconoscimento delle proprie idee, pensieri e atteggiamenti.

Alla luce delle considerazioni fatte, la solitudine ha origini lontane ed è espressione di un problema di differenziazione, di individuazione e d’amore: la sofferenza che genera il sentirsi soli, racconta sempre di un percorso di individuazione che è stato messo a repentaglio dal senso di mancanza, di assenza, di vuoto, che la distanza dall’altro suscita. L’atto di rinuncia alla propria identità si manifesta nelle diverse relazioni di dipendenza, sconfinando in un isolamento/solitudine che, seppur con differenti posizioni, asseconda il bisogno di protezione di non esposizione, accrescendo il proprio sentirsi insicuri ed inadeguati , incapaci per sé e per gli altri.

Dott.ssa. Angela Pia Giampalmo

Psicologa – Psicoterapeuta

 

Bibliografia

  1. Barles, A.; Zeki, S.(2004). The neural correlates of maternal and romantic love. Neuroimage, 21, 1155-1166.
  2. Bateson, G. (1977). Verso un’ecologia della mente. Adelphi, Milano.
  3. Benjamin, L.S.(2004). Terapia ricostruttiva interpersonale. Promuovere il cambiamento in coloro che non reagiscono.LAS, Roma.
  4. Boon, S.; Steele, K.; Van Der Hart, O. (2013). La dissociazione traumatica comprenderla e affrontarla. Mimesis Edizioni, Milano
  5. Bowlby, J. (1989). Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento. Milano: Raffaello Cortina Editore.
  6. Cacioppo, J. T.; William, P. (2009). Solitudine: l’essere umano e il bisogno dell’altro. Il Saggiatore, Milano.
  7. Cancrini, L., (2020). La sfida all’adozione. Cronaca di una terapia riuscita. Raffaello Cortina Editore Milano.
  8. Liotti G., (2010) Lo studio della motivazione in una prospettiva evoluzionistica: cenni storici e concetti di base. Raffaello Cortina Milano
  9. Liotti, G., Farina, B. (2011). Sviluppi Traumatici. Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione  dissociativa. Milano: Raffaello Cortina Editore.
  10. Mucci, C., (2014). Trauma e perdono. Una prospettiva psicoanalitica intergenerazionale. Raffaello Cortina Editore, Milano.