Mese: <span>Luglio 2021</span>

Fobia dei clown? Non c’è niente da ridere!

Il termine coulrofobia deriva dal greco e fa riferimento alla paura per coloro che camminano su trampoli, anche se oggi è utilizzata tipicamente per descrivere la paura dei pagliacci. Nonostante il pagliaccio sia un personaggio che dovrebbe risultare simpatico, soprattutto ai più piccoli, per taluni invece rappresenta un’entità indefinita e ambigua e, pertanto, in grado di creare turbamento.

Pensare che ci siano persone fobiche rispetto ai clown potrebbe far sorridere qualcuno, tuttavia questa fobia pare avere una certa diffusione tra la popolazione, soprattutto americana e canadese. La maggior parte dei casi registrati riguarda la popolazione in età evolutiva, anche se si registrano casi anche tra adolescenti e giovani adulti.

Del resto, il nostro immaginario letterario e cinematografico è ricco di pagliacci terrificanti e malvagi, che hanno occupato i nostri incubi e si sono nutriti delle nostre inquietudini. Ma da qui si potrebbe aprire una riflessione sull’arte e su come essa inneschi le nostre paure o, al contrario, su come invece le nostre paure siano ispirate dalla realtà e trovino nel racconto artistico una propria rappresentazione.

A tal proposito cito la storia di Jean-Gaspard Deburau (1796-1846), attore teatrale e mimo francese che impersonò Pierrot a partire dal 1826 al Théâtre des Funambules di Parigi. Nel 1836 Deburau uccise con il suo bastone da passeggio un ragazzo che lo aveva insultato per strada: nel processo venne dichiarato innocente, ma l’idea di omicidio iniziò a legarsi alla figura del clown.

Ancora più inquietante è la storia di John Wayne Gacy, pagliaccio intrattenitore in feste per bambini conosciuto come Pogo il clown, che tra il 1972 ed il 1978 uccise 33 ragazzi e fu condannato alla pena di morte.

Le persone che soffrono di coulrofobia fanno fatica a relazionarsi con i clown e talvolta anche soltanto a guardarli, avvertendo una sensazione di angoscia che può sfociare nel panico e che fa da innesco a comportamenti difensivi di fuga da una minaccia percepita. Solitamente tali comportamenti vengono vissuti con vergogna dalla persona, che teme che la sua paura possa venire ridicolizzata dagli altri.

In riferimento al perché la figura del clown sia vissuta in termini così negativi da alcuni soggetti, pare che la coulrofobia derivi dal fatto che non è possibile sapere esattamente cosa c’è sotto il trucco colorato, elemento quindi che produrrebbe incertezza e apprensione nei courlofobici.

Si è inoltre ipotizzato che alla base della fobia ci sia il fenomeno dell’uncanny valley (“valle perturbante”), ossia una condizione emotiva negativa che si presenta quando ci imbattiamo in un soggetto che è quasi, ma non del tutto, umano. Tale fenomeno, descritto inizialmente in riferimento ai robot con sembianze umane, pare essere applicabile anche alle bambole e, appunto, ai clown.

Inoltre, i pagliacci sono nascosti dietro maschere, trucco e costumi e hanno un sorriso perenne che nasconde un’emotività distorta (si può sorridere sempre, anche quando si commettono azioni negative?); di conseguenza, l’origine della fobia può essere trovata nel rifiuto di un personaggio che potrebbe nascondere le sue reali intenzioni.

La courlofobia, al pari delle altre fobie, può essere trattata al fine di ridurre o eliminare l’ansia che il soggetto prova ed impedire che i meccanismi difensivi di fuga vengano agiti. Prima di intervenire sarà necessaria una valutazione psicologica che tenga in conto la presenza di un eventuale trauma che ha interessato il soggetto. Sarà poi lo specialista a proporre il trattamento psicoterapeutico che ritiene più appropriato.

 

Dott. Stefano Lagona – Psicologo Psicoterapeuta

LA RIBELLIONE DEL COSTUME

Le proteste delle atlete olimpioniche norvegesi che si sono opposte ad indossare divise succinte durante la competizione di Handball e la scelta di una tuta lunga da parte delle ginnaste tedesche mi hanno permesso di approfondire alcuni temi, come ad esempio: la storia delle donne alle Olimpiadi; la storia dell’abbigliamento sportivo attraverso i secoli; i regolamenti circa le divise sportive; il body shaming nello sport; il drop-out sportivo in adolescenza.

Com’è noto, le Olimpiadi antiche (svolte dal 776 a.C. al 393 d.C.) così come quelle moderne (dal 1896 ad oggi) sono state e sono la cartina al tornasole del costume della società del tempo. Con il termine costume ci si riferisce al modo consueto di agire, di pensare, di comportarsi di una persona; pertanto i giochi olimpici hanno risentito della cultura del secolo in cui si sono disputati, sono stati teatro di avvenimenti simbolici che hanno fornito occasione di riflessione, confronto e cambiamento.

In origine le donne non potevano partecipare alle Olimpiadi, nemmeno come spettatrici, pena la morte. Si deve allo scrittore Pausania il Periegeta la prima documentazione di una gara femminile, infatti nel VI secolo a.C. si era tenuta la prima edizione dei Giochi Ereidi, ovvero gare di atletica femminile. Generalmente gli uomini gareggiavano nudi, le donne indossavano il chitone, cioè una tunica lunga fino al ginocchio che lasciava scoperti la spalla ed il seno destro. Questo era un abito maschile usato o durante l’estate o per svolgere lavori di fatica. Solo le donne spartane erano incoraggiate ad essere atlete, poichè si riteneva che donne forti avrebbero generato uomini forti, si trattava di ragazze nubili che gareggiavano nude e agli uomini era consentito assistere.

Il barone Pierre de Coubertin è riconosciuto come il padre delle Olimpiadi moderne, ma si deve al lavoro e alla tenacia di Alice Milliat l’apertura delle Olimpiadi alle donne. Sebbene già nel 1900 alcune donne avessero partecipato alle Olimpiadi in maniera non ufficiale per tennis, croquet e vela, e nel 1912 in gare di tiro con l’arco, pattinaggio, vela, tennis e competizioni con imbarcazioni a motore, fu necessario attendere il 1920 affinché potessero gareggiare in maniera ufficiale. Nel 1922 Milliat inaugurò l’Olimpiade delle donne, ella fu la prima a dire a gran voce che lo sport aveva benefici psico-fisici, aiutava a prendere coraggio e coscienza del proprio corpo: pensiero assai innovativo per l’epoca in cui le donne erano escluse dalla vita politica, erano ritenute incapaci di agire secondo ragione, erano sottoposte alla potestà del marito e non godevano degli stessi diritti degli uomini né in famiglia nè all’interno della società. A inizio ‘900, le donne che praticavano sport erano considerate delle fanatiche e delle selvagge, a volte “malate di mente”; e lo stesso barone sbeffeggiava la presenza femminile e ridicolizzava il lavoro di Milliat, le Coubertin dichiarava: “La partecipazione femminile sarebbe poco pratica, priva di interesse, scorretta e antiestetica”. Il vero cambiamento avvenne tra il 1926 e il 1936 quando finalmente si aggiunsero gare femminili per le principali discipline olimpiche.

All’epoca non esisteva un adeguato abbigliamento sportivo femminile e per non dar adito a maldicenze e per non suscitare “scandali”, le donne erano costrette ad indossare vestiti lunghi, con maniche lunghe e collo alto, e gonne ingombranti: erano tenute a mantenere il decoro, era impensabile vedere i loro capelli spettinati, il viso arrossato ed era ritenuto scandaloso il corpo che compiva gesti atletici. Gli uomini, invece, indossavano maglie in cotone e shorts.

A cavallo tra gli anni ’20 e ’30 iniziò il connubio tra moda e sport, nomi come Elsa Schiaparelli e Coco Chanel, che introdusse la moda à la garçonne, contribuirono a rendere l’abbigliamento sportivo femminile più adatto alla pratica; e la tennista Suzanne Lenglen, per prima, si presentò in campo con una gonna leggera sopra il polpaccio, destando scalpore. Le Olimpiadi del 1936 introdussero un abbigliamento sportivo più casual: si iniziano a utilizzare tessuti traspiranti e jersey, tute, top e canotte diventano i capi più utilizzati.

Leggendo il IX Regolamento di Gioco redatto dalla International Handball Federation del 2014 nella sezione dedicata alle divise si legge: “Le uniformi e gli accessori contribuiscono ad aiutare gli atleti a migliorare le proprie prestazioni e a rimanere coerenti con l’immagine accattivante dello sportivo e dello sport”; e poi: “[…]La Canotta degli uomini deve essere senza maniche, attillata e rispettare lo spazio per le stampature richieste. Il Top delle donne (un costume da bagno modello 2 pezzi) deve essere molto aderente, con profonda apertura giromanica sul retro, sempre però rispettando lo spazio per le stampature richieste. Non sono consentite T-shirt da indossare sotto La Canotta o Top ufficiale della squadra”.

Facendo riferimento al dizionario della Treccani ecco il significato di alcune parole:

Accattivante: Attraente, che suscita interesse e simpatia

Attraente: Seducente

Sport: Attività intesa a sviluppare le capacità fisiche e insieme psichiche, e il complesso degli esercizi e delle manifestazioni, soprattutto agonistiche, in cui tale attività si realizza, praticati nel rispetto di regole codificate da appositi enti, sia per spirito competitivo (accompagnandosi o differenziandosi, così, dal gioco in senso proprio), sia, fin dalle origini, per divertimento, senza quindi il carattere di necessità, di obbligo, proprio di ogni attività lavorativa

L’azione delle atlete norvegesi quindi va a muovere un tassello importante che pone l’accento sullo sport e non sulla sessualizzazione del corpo, la loro scelta infatti non ha penalizzato la praticità, ma forse l’ha promossa permettendo alle atlete di sentirsi a proprio agio.

Anche il ritiro della nuotatrice M. Groves, per denunciare gli atteggiamenti e le azioni indiscrete e abusanti di cui è stata vittima, è stato un altro passo importante che ha messo in luce quanto possa essere complessa, anche sotto questo punto di vista, la vita delle atlete.

Le condizioni sopra descritte possono contribuire all’oggettivizzazione sessuale della donna. Con questo termine, coniato da I. Kant, ci si riferisce al considerare una persona solo come mezzo di soddisfacimento del piacere sessuale di un altro soggetto. Fredrikson e Roberts nel 1977 introdussero la “Teoria dell’oggettivazione sessuale” in ambito psicologico e ne discussero le conseguenze.

Una recente ricerca ha evidenziato che il 24% dei commenti sui social riferito ad un’atleta donna è inerente al suo aspetto fisico piuttosto che alla performance, mentre per gli uomini il 9%.

Il body shaming, cioè la derisione per l’aspetto fisico, è oggi un tema scottante soprattutto tra gli adolescenti. Da una recente ricerca, condotta da Nutrimente Onlus, è emerso che il 94% delle ragazze, riferisce di essere stata vittima di tale fenomeno, ed il 65% dei ragazzi di essere stato umiliato pubblicamente per la stessa ragione.

Questo è un tassello importante che porta al tema del drop-out sportivo, soprattutto femminile, in adolescenza. Infatti il 40% degli adolescenti di età compresa tra i 13 e 14 anni non pratica nessuna attività sportiva ed il 57% sono ragazze.

L’adolescenza è un periodo di trasformazione fisica e mentale, spesso ci si trova a contatto con un corpo nuovo, che cambia e si trasforma, talvolta in modo imprevedibile. Può succedere che gli adolescenti sentano la necessità di mascherare questi cambiamenti, anche solo temporaneamente come per prenderne confidenza, talvolta però il disagio può trasformarsi in una sofferenza importante che può richiedere un percorso psicoterapeutico. Quindi, a volte, fare sport e indossare indumenti troppo aderenti o con i quali non ci si sente a proprio agio può essere uno dei fattori che fa allontanare dall’attività.

Inoltre, i potenti stereotipi culturali in merito alla bellezza promossi dai media, e non solo, penalizzano i fisici delle agoniste promuovendo invece un’estetica vittoriana.

Le ginnaste olimpioniche tedesche, decidendo di indossare divise dai pantaloni lunghi (detti accademici), hanno ribadito un importante messaggio, già lanciato in precedenza da altre ginnaste, per ribellarsi alla sessualizzazione dei corpi delle atlete; oltretutto questa scelta le tutela da eventuali spiacevoli incidenti che potrebbero causare loro imbarazzo, dal momento aggiustare il body durante la gara comporta delle penalità. La promozione di un abbigliamento che faccia sentire a proprio agio ha anche l’obiettivo di avvicinare le giovani alla pratica sportiva contrastando anche il fenomeno del drop-out.

Cambiare costume si può ed è responsabilità di ciascuno di noi.

Dr.ssa Debora Tonello

Bibliografia e sitografia

  • Paola Carbone (2010): L’adolescente prende corpo. Il pensiero scientifico editore.
  • Elena Riva (2009) Adolescenza e anoressia. Corpo, genere, soggetto. Raffaello Cortina Editore
  • Giuseppe Vercelli (2016). Vincere con la mente. Come si diventa campioni: lo stato della massima prestazione. Ponte alle Grazie
  • Eva Cantarella, Ettore Miraglia (2021). Le protagoniste. L’emancipazione femminile attraverso lo sport. Feltrinelli
  • Piano Nazionale per la Promozione dell’Attività Sportiva, Tangos (Tavolo Nazionale per la Promozione nello Sport) settembre 2012
  • Indagine annuale “Aspetti dela Vita Quotidiana”, Istat anni 2012 e 2011
  • Educazione Fisica e sport a scuola in Europa, Eurydice (Commissione Europea) 2013
  • nutrimente.org
  • treccani.it

 

 

 

 

 

I disturbi del desiderio sessuale

Oggigiorno, la nostra società è bombardata da un modello basato essenzialmente sull’apparenza, la bellezza, il denaro, modelli che risultano sempre più difficili da raggiungere. In ambito sessuale, l’attenzione ormai viene data principalmente alla prestazione dimenticandosi dell’origine dell’atto sessuale; il toccare, l’entrare in sintonia con l’altro, il focalizzarsi sul vissuto soggettivo del piacere. Le disfunzioni sessuali, soprattutto nelle relazioni di coppia, diventano sempre più sintomo di incomunicabilità tra i partner.

Nella vita sessuale dell’uomo, a differenza di quella degli animali, troviamo implicata tutta la sfera affettiva dell’individuo, ed è proprio questo che permette di cogliere tutta la complessità delle funzioni che vi sono alla base, cioè quelle funzioni di riproduzione e di piacere.

Si può osservare come nell’animale questi sistemi interagiscono sinergicamente tra di loro in un comportamento stereotipato e istintivo, mentre nell’uomo intervengono anche componenti psicologiche, norme sociali e culturali che andranno a influire in maniere diversa sul vissuto che l’individuo avrà della propria esperienza sessuale. La complessità dell’uomo porta inevitabilmente a un’indubbia risonanza nella dimensione patologica.

Il desiderio sessuale è l’espressione di una funzione associativa complessa; questa fase è attivata da stimoli che possono essere sia endogeni che esogeni, che non faranno altro che indurre l’individuo al comportamento sessuale. Degli stimoli endogeni, fanno parte l’immaginario erotico, le fantasie sessuali spontanee e volontarie e le emozioni. Mentre, gli stimoli esogeni sono segnali veicolati attraverso gli organi di senso che possono essere percepiti dall’individuo come attraenti.

La fase del desiderio è un processo multidimensionale, infatti sono importanti i fattori motivazionali, affettivi, cognitivi e stimoli biologici e istintuali che fanno parte del bagaglio evolutivo dell’uomo.

Quindi si può definire il desiderio sessuale come la risultante di fattori biologici, psicologici e relazionali. Rappresenta importanti significati affettivi e relazionali, come espressione di amore e passione, è un vero e proprio termometro della qualità della relazione. Il desiderio è un processo che varia lungo un continuum che parte dalla passione, all’interesse, al bisogno.

Sia negli uomini che nelle donne declina con l’età con una valenza maggiore nelle donne che va a coincidere con la menopausa. Nell’uomo continua in maniera relativamente costante dall’adolescenza alla tarda maturità per poi trovare un graduale declino.

La mancanza di interesse verso il sesso è uno dei più frequenti problemi sessuali presenti sia nel sesso maschile che in quello femminile. Recenti studi affermano come il disturbo da desiderio sessuale coinvolga maggiormente il sesso femminile. Mancanza di desiderio sessuale può essere associato anche ad altri problemi sessuali, infatti può rappresentare il sintomo principale, ma anche

 

come conseguenza del disagio emotivo derivante da altri disturbi sessuali. Individui che presentano questo disagio, possono avere problemi nella costruzione di relazioni sessuali stabili, in quanto il partner interpreta, molto spesso, la mancanza di desiderio come un disinteresse nei suoi confronti.

Tra i disturbi del desiderio troviamo:

  • Disturbo del desiderio sessuale ipoattivo;
  • Disturbo da avversione

 

Il disturbo del desiderio sessuale ipoattivo è definito come una persistente e ricorrente carenza di fantasie sessuali o recettività per l’attività sessuale, che provoca stress personale. Uno scarso desiderio sessuale può essere globale e includere tutte le forme di espressione sessuale o può essere situazionale e limitato a un partner o a un’attività sessuale specifica. Nell’individuo, si assiste a una mancanza di motivazione a cercare gli stimoli, la frustrazione diminuisce quando manca la possibilità di avvicinarsi all’esperienza sessuale. E’ importante nel lavoro clinico, prendere in considerazione la coppia infatti, lo scarso desiderio sessuale in un partner può riflettere un eccessivo bisogno di espressione sessuale da parte dell’altro partner.

Il disturbo da avversione sessuale è caratterizzato prevalentemente da avversione, evitamento attivo del contatto sessuale con un partner. I soggetti riportano ansia, timore o disgusto quando si trovano a vivere l’esperienza sessuale.

L’avversione, però, può anche essere circoscritta a un particolare aspetto dell’esperienza sessuale come ad esempio le secrezioni genitali, la penetrazione e così via. Altri riportano una repulsione generalizzata verso lo un qualsiasi stimolo sessuale come i baci, le carezze, l’intimità. In risposta a questi stimoli, l’individuo può provare un’ansia moderata con mancanza di piacere fino ad arrivare ad un’estrema sofferenza psicologica.

L’individuo che non è a suo agio con un livello più o meno elevato di desiderio, può porsi delle domande, di come ciò accada. A volte è possibile che nasca in associazione a fattori contestuali (figli, lavoro, assenza di privacy), lavorando su questi aspetti è possibile che la problematica sessuale sparisca. Se il disagio persiste è possibile che il problema abbia un’origine più profonda data dalla propria storia di vita. In alcuni casi, infine, il disagio vissuto è collegato solo apparentemente al disturbo del desiderio e che in realtà è la conseguenza della presenza di un altro disturbo sessuale, portando la persona ad evitare la sessualità per evitare le difficoltà associate.

 

Dott. Mirco Carbonetti

Psicologo Psicoterapeuta e Sessuologo clinico

 

Bibliografia:

 

APA. (American Psychiatric Association) (2014). DSM-V, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Cortina, Milano.

Boncinelli, Rossetto, Veglia (2018), Sessuologia Clinica, modelli di intervento, diagnosi e terapie integrate, Erickson.

Giddens,(1994) La trasformazione dell’intimità,Il Mulino, Milano.

Giusti, Mariani, Salerno, (2012) Terapia del desiderio. Maschile e femminile, Sovera edizioni.

Leiblum S.R., Rosen R.,(2004b). Principi e pratica di terapia sessuale. CIC Edizioni Internazionali, Roma. Master W.H., Johnson V.E.,(1987). Il sesso e i rapporti amorosi, Cortina, Milano.

Pridal C.G., LoPiccolo J.,(2004). Trattamento multimodale dei disturbi del desiderio: Integrazione della terapia cognitiva, comportamentale e sistemica. In e a cura di Graziottin A., Principi e pratica di terapia sessuale, CIC Edizioni internazionali, Roma.

Veglia F.,(2006). I disturbi sessuali, in B.Bara, Manuale di psicoterapia cognitiva, Bollati Boringhieri.

ZONA BIANCA E LIBERA USCITA: CHE APPROCCIO CON I NOSTRI RAGAZZI? Disregolazione Emotiva in adolescenza e post lock down. Facciamo il punto.

Finalmente in zona bianca, più tempo per condividere e fare, le tanto agognate vacanze si avvicinano, via alle mascherine all’aperto e…non c’è più il coprifuoco! Tutto meraviglioso, fino a quando non ti ritrovi nuovamente a discutere con tuo figlio adolescente sugli orari, sui limiti, sui comportamenti a rischio fuori casa, sul “Che palle ma’”. E ti chiedi: “Forse era meglio quando potevo controllarlo a casa, certo, stava sempre in camera e al cellulare ma almeno sapevo dov’era?”

È opinione comune, dimostrata dalle molte ricerche in merito, che la lunga chiusura forzata, dovuta alle restrizioni del lock down, abbia causato effetti devastanti su un periodo già di per sé complesso come quello adolescenziale, ma, restituire con gli interessi libertà e concessioni mai avute, sarà troppo? Esiste un labile confine tra la cura della socialità dei nostri figli ed un eccesso di permissivismo? Per non parlare dei rischi che un genitore può o meno assumersi nel corso di una crisi sanitaria tutt’altro che vicina ad un epilogo.

Quindi occorre fare un passo indietro, perché quello della gestione adolescenziale, è sempre stato un aspetto complesso, ben prima del Covid – che come sappiamo, ha acutizzato queste ed altre problematiche.

Analizziamo un attimo la situazione: l’adolescenza è una fase di vita straordinaria ma allo stesso tempo disorientante, sia per quanto riguarda il vissuto degli adolescenti, sia per il vissuto di coloro che degli adolescenti devono prendersi cura. In questa fase di costruzione identitaria (corporea, sessuale, sociale), è fondamentale per l’adolescente la possibilità di esplorare il mondo esterno e di mettersi alla prova, confrontandosi con il gruppo dei pari. L’adolescente tende a ricercare maggiore indipendenza, mettendo in discussione l’autorità genitoriale e testandone e trasgredendone, frequentemente, limiti e confini.

Sappiamo che i cambiamenti che avvengono a livello cerebrale nei primi anni dell’adolescenza predispongono alla comparsa di caratteristiche mentali specifiche come ricerca di novità, coinvolgimento sociale, maggiore intensità emotiva ed esplorazione creativa e come tutto questo possa portare a disregolazione emotiva. Di cosa si tratta?

La regolazione delle emozioni è quel processo di generazione, monitoraggio, valutazione e modifica delle reazioni emotive al fine del raggiungimento di un obiettivo (Thompson, 1994). Una regolazione delle emozioni pienamente funzionale richiede la capacità di riconoscere il significato emotivo degli stimoli percepiti, di attivare un processo regolativo e di scegliere e attuare una strategia appropriata, processo che richiede il coordinamento di processi cerebrali multipli ad alto livello, e le competenze cognitive sociali, come la capacità di comprendere e considerare il punto di vista dell’altro e dove anche il ruolo genitoriale gioca un ruolo fondamentale (Sheppes et al., 2015).

Su quest’ultimo fondamentale punto, si teorizza, come lo sviluppo di un attaccamento sicuro nei confronti di persone significative nella prima infanzia sia essenziale per lo sviluppo di una regolazione emotiva. Un danneggiamento nella formazione di una rappresentazione interiore sicura può compromettere sostanzialmente l’acquisizione delle capacità di regolazione emotiva nell’infanzia e portare a uno scarso adattamento sociale più avanti. Già Bowlby, il padre della teoria dell’attaccamento, sottolineava come la caratteristica più importante nell’essere genitore sia il fornire una base sicura da cui partire per affacciarsi nel mondo esterno e a cui tornare sapendo che si sarà il benvenuto, nutrito sul piano fisico ed emotivo, confortato se triste, rassicurato se spaventato (Bowlby, 1989).

Capiamo, quindi, come in questo processo di maturazione sia possibile incontrare stati di disregolazione emotiva nell’adolescente, in cui il comportamento espresso traduce l’incapacità di regolare i propri stati emotivi interni, organizzare l’esperienza e le risposte comportamentali in modo funzionale; le emozioni possono essere vissute in modo eccessivo, con livelli di attivazione al di sopra dei limiti della finestra di tolleranza – “iperattivazione” oppure al di sotto dei limiti della finestra di tolleranza – “ipoattivazione” (con finestra di tolleranza si intende il range di intensità emotiva che ognuno di noi è in grado di tollerare senza interrompere la funzionalità del nostro sistema, per un approfondimento, Siegel, 2013).

In tutto questo già complesso quadro, l’attuale emergenza sanitaria ha implicato un contesto fisico, sociale e culturale che ha reso ancor più difficile fronteggiare questo delicato momento evolutivo. Lo stravolgimento delle abitudini di vita, il distanziamento sociale, il senso di incertezza e precarietà, il maggior tempo trascorso davanti agli schermi, la ridotta attività fisica, sono alcuni degli elementi che hanno ostacolato la possibilità e la necessità di sperimentare ed esplorare tipica di questa fase evolutiva. Vari studi recenti hanno messo in luce come vi sia stata una correlazione tra l’isolamento protratto e il rischio di incorrere in disturbi depressivi, soprattutto nel genere femminile (Loaded at al, 2020), e come la percezione di solitudine sia correlata a maggiore stress attivando una cascata neurobiologica con effetti nefasti sul piano fisico e psicologico (Park, et al., 2020).

Quindi, se tuo figlio adolescente, soprattutto dopo il lock down e le varie restrizioni che ha comportato, non vede l’ora di uscire, protesta rispetto alle regole e all’autorità genitoriale, è impulsivo, ha frequenti sbalzi d’umore e non ha interesse nel confrontarsi con te… benissimo, segnale positivo che ci troviamo nel regolare processo! Ed è anche assolutamente normale che tu genitore abbia questa ambivalenza nel dare limiti, dopo un periodo così complicato, trovandoti di fatto ad oscillare tra uno stile genitoriale molto rigoroso, e una modalità indulgente, che tende a minimizzare regole, aspettative e richieste. Quindi, come muoversi in tutto questo?

L’obiettivo da porsi è quello di trovare un equilibrio “tra clemenza e rigore”. In che modo? Bilanciando il supporto e la guida, quando è necessario o i ragazzi lo richiedono, concedendo al tempo stesso spazi di libertà per aiutare il ragazzo a diventare indipendente; ponendo dei limiti ma offrendo possibilità di scelta, in un mix di fermezza e gentilezza, per cui scegliere le priorità non negoziabili nel rapporto genitori-figli; fornendo le radici dell’appartenenza e le ali per esplorare e conoscere la vita da sé (Harvey & Rathbone, 2021).

Possiamo, inoltre, sforzarci di non giudicare direttamente i comportamenti dei nostri ragazzi come buoni o cattivi in sé, ma come espressione di bisogni che si esprimono nella relazione di attaccamento. Provando a mettere da parte temporaneamente i nostri pensieri e emozioni, possiamo ascoltare empaticamente quelli dei nostri ragazzi, comprendendo come il conflitto faccia parte dell’attaccamento e sia costruttivo. Nel conflitto, infatti, gli adolescenti cercano di bilanciare i loro bisogni di indipendenza con quelli di connessione.

Nel far questo, occorre che il genitore non dimentichi che l’unico modo per avere energie e risorse sufficienti a prendersi cura del proprio figlio adolescente sia prendersi cura di sé stessi. Come già sosteneva la Lihenan nel 1993, insegnare a sé stessi come calmarsi, distrarsi e consolarsi in circostanze difficili e dolorose è fondamentale per ridurre l’intensità delle emozioni e superare il momento di crisi senza peggiorare le cose.

In sostanza: prova a fare un passo indietro prima di reagire al comportamento, respira, ascolta, mettiti nei panni e confrontati empaticamente con tuo figlio, senza dimenticarti il tuo ruolo di autorità genitoriale in grado di imporre regole e limiti anche non concordi al desiderio di tuo figlio ma agite al fine ultimo del suo benessere e tutela. Una crescita sana passa anche attraverso la rottura di equilibri in un costante tiro alla fune con il genitore, chiamato a lasciar liberi i figli, dar loro fiducia, accettarne le scelte – contenendo le proprie naturali ansie, come gli inevitabili disaccordi – ma anche a porre limiti, regole e confini, e a fare da “base sicura” a cui poter fare ritorno nei momenti di bisogno.

 

Dott.ssa Giacone Giulia

 

Riferimenti bibliografici:

Bowlby, J. (1989). Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento. Raffaello Cortina Editore, Milano.

Harvey, P., & Rathbone, B. H. (2021). Adolescenti con emozioni intense: Come gestire con la DBT le sfide emotive e comportamentali di tuo figlio. FrancoAngeli Editore, Milano.

Linehan, M. (1993). Skills training manual for treating borderline personality disorder (Vol. 29). New York: Guilford press. Trad.it. DBT Skills Training. Manuale-schede e fogli di lavoro. Con USB card. (2015). Raffaello Cortina Editore, Milano.

Loades, M. E., Chatburn, E., Higson-Sweeney, N., Reynolds, S., Shafran, R., et al., (2020). Rapid Systematic Review: The Impact of Social Isolation and Loneliness on the Mental Health of Children and Adolescents in the Context of COVID-19. J Am Acad Child Adolesc Psychiatry, 59(11):1218–1239.

Park, C., Majeed, A., Gill, H., Tamura, J., Ho, R.C., Mansur, R.B., Nasri, F., Lee, et al. (2020). The Effect of Loneliness on Distinct Health Outcomes: A Comprehensive Review and Meta-Analysis. Psychiatry Research, 294:113514.

Sheppes, G., Suri, G., Gross, J.J. (2015). Emotion regulation and psychopathology. Annu. Review of Clinical Psychology. 11, 379–405.

Siegel, D. J. (2013). La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale. Raffaello Cortina Editore, Milano.

Thompson, R.A. (1994). Emotion regulation: a theme in search of definition. Monographs of the Society for Research in Child Development Society for Research in Child Development. 59, 25–52.