Mese: <span>Novembre 2022</span>

RIFLESSIONI SULLA CONSAPEVOLEZZA DELLA VITA E DELLA MORTE

«La morte,

il più atroce di tutti i mali,

non esiste per noi.

Quando noi viviamo,

la morte non c’è,

quando c’è lei,

non ci siamo noi». 

EPICURO

Come mai facciamo così fatica a confrontarci con l’unica certezza che abbiamo nella vita ovvero la morte?

Sigmund Freud affermava che in fondo nessuno crede alla propria morte perché nel suo inconscio ognuno è convinto della propria immortalità:

«La propria morte è irrappresentabile, e ogni volta che cerchiamo di farlo, possiamo costatare che in realtà continuiamo a essere presenti come spettatori» (“L’interpretazione dei sogni”, S. Freud, 1900).

La nostra mente in realtà sa che la morte arriverà anche per noi un giorno ma la nostra parte emotiva non riesce a concretizzare quell’idea così il meccanismo difensivo della negazione spesso viene in aiuto per tenere questo pensiero ben lontano dalla nostra attività cosciente.

Siamo informati e siamo in grado di menzionare la morte altrui ma questo non siamo attrezzati a vivere meglio o concepire la nostra idea di morte.

L’idea della propria morte è, appunto, un concetto non concepibile: essa evoca l’annientamento e la perdita dell’Io, un’esperienza che ci sovrasta.

Sembrerebbe infatti molto difficile pensare fino in fondo alla fine della struttura interiore che ci rende pensanti e consapevoli, l’Io appunto.

La propria morte porta dietro qualcosa di talmente incommensurabile che tendiamo a rimuoverne il pensiero e a delegarlo negli anfratti della mente, nonostante la vita e la morte siano profondamente intrecciate fin dalla nostra nascita.

In realtà, il pensiero della morte e l’idea della finitudine, quando riusciamo ad accoglierlaha in realtà un potere salvifico e vitale poiché è un potente regolatore di priorità e permette di comprendere il reale valore del nostro tempo.

La presenza della morte aiuta a non assolutizzare nulla e a ridimensionare le cose in vista della caducità e del fatto che “ogni cosa passa”.

Per il filosofo Michel Montaigne riflettere sul morire significa riflettere sul senso di vivere; parimenti per un altro noto filosofo, Heidegger, anticipare quotidianamente la morte aiuta a guardare all’esistenza in modo profondo e radicale, discriminando gli aspetti contingenti superficiali trascurabili da ciò che è invece essenziale e portatore di senso.

Di conseguenza vivere tenendo presente la nostra finitudine significa valorizzare e realizzare appieno la nostra vita, essere davvero presenti sapendo della futura assenza.

La consapevolezza della morte apre poi al mistero e all’interrogazione sull’assoluto, sulla possibilità che esista qualcosa che vada oltre l’immanente, ricordandoci la finitudine non solo del nostro essere ma anche del nostro controllo degli eventi.

La paura della morte può divenire quindi un sano regolatore di scelte di vita, di modalità di percepire e stare al mondo ma soprattutto grande possibilità di forte attribuzione di significato alla Vita.

Dr.ssa Maria Grazia Esposito

Psicologa Clinica – Psicoterapeuta

 

BINGE-WATCHING: UNA NUOVA DIPENDENZA?

Da qualche anno il mondo delle serie tv è diventato sempre più accattivante. Se fino a qualche tempo fa i cosiddetti telefilm ci facevano distrattamente compagnia tra il rientro da scuola e linizio dei compiti, come un piacevole sottofondo, oggi le serie tv sono diventate dei veri e propri capolavori, con tanto di cast stellari e budget di realizzazione paragonabili a quelli spesi per un colossal. Questo ha contribuito a far entrare le serie nella nostra quotidianità, a farle diventare argomento di conversazione e un passatempo prediletto per molti.

La pandemia e i vari lockdown a cui siamo stati costretti hanno convinto anche i più scettici a soffermarsi a guardare qualche puntata per passare il tempo, tanto che gli abbonamenti ai canali streaming ,negli ultimi 2 anni, hanno avuto una netta impennata.

Fin qui sembrerebbe che non ci sia niente di male o di dannoso per la salute, ma cosa succede quando le serie tv diventano una dipendenza?

Il fenomeno del binge-watching (dallinglese binge: abbuffata e watching: guardare) consiste nel guardare una puntata dopo laltra, facendone letteralmente una scorpacciata.

Jenner (2014) ha ipotizzato che si possa parlare di binge-watching quando si guardino 3 ore o più di una serie tv in una singola sessione. Quando le sessioni diventano ripetute nel tempo si parla invece di vera e propria dipendenza, con tutte le implicazioni negative che ne possono conseguire.

Alcune ricerche hanno rilevato che il binge-watching diventa una dipendenza quando allappagamento dellaver visto una puntata si sostituisce la necessità impellente di guardarne unaltra e unaltra ancora, spesso arrivando a dare priorità alla serie tv rispetto ad altri aspetti del quotidiano.

Altro fattore rilevante risulta essere lisolamento: alcuni studi hanno dimostrato che la maggior parte delle persone preferisce abbuffarsidi serie tv in solitudine. Questo, nei casi peggiori, può comportare un indebolimento della rete sociale e il diradamento dei rapporti familiari. Inoltre chi è dipendente dalle serie tv in alcuni casi arriva a mettere da parte attività importanti come il lavoro o lo studio, non riuscendo a staccarsi dallo schermo.

Ma cosa si prova quando guardare la tv diventa una dipendenza? Alcuni studi hanno preso in considerazione lumore dei soggetti mentre guardavano una puntata e al termine di essa, rilevando un netta differenza tra i due momenti presi in considerazione: se durante la puntata i soggetti apparivano appagati e soddisfatti, al temine della puntata stessa riferivano di sentirsi emotivamente appiattiti e passivi.

Eimportante sottolineare come gli studi sulle dipendenze in generale abbiano riscontrato una correlazione tra questi fenomeni e la depressione. La dipendenza da serie tv non fa eccezione, tanto che è stato rilevato un particolare stato psicofisico che prende il nome di Post binge-watching blues., ovvero la depressione da fine serie. Tale particolare condizione si presenta quando i soggetti, al termine di una serie tv, sperimentano un senso di vuoto e di abbandono, come se tutto ciò che li rendeva felici fino a quel momento non ci fosse più.

Un recente studio delluniversità del Texas, condotto su un campione di 316 soggetti tra i 18 e i 29 anni, ha evidenziato una correlazione tra solitudine e depressione e binge-watching, utilizzato come strumento per regolare emozioni negative. Nella stessa ricerca viene ipotizzata una correlazione tra dipendenza dalle serie tv e condotte nocive per la salute, quali alimentazione poco sana e assenza di attività fisica. Per quanto il binge-watching in apparenza sembri un comportamento del tutto innocuo, se ripetuto nel tempo può portare a gravi conseguenze sulla salute fisica e psicologica.

Il confine tra il piacere di guardare la nostra serie tv preferita e il diventarne dipendenti talvolta è molto sottile, per questo motivo è importante fare attenzione ad alcuni segnali che potrebbero rivelarsi dei veri e propri campanelli dallarme.

E tu quanto tempo passi davanti alle serie tv?

 

Dott.ssa Rossella Totaro

Psicologa – Psicoterapeuta

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

  • Ahmed, A. (2017). New era of TV-watching behaviour: Binge watching and its psychological      effects. Media Watch, volume 8, numero 2, pp. 192-207.
  • Cousins, J.M., Betz, H. (2019). Association between binge-watching TV and Physical activity in college students”. Medicine & Science in Sports & Exercise, volume 51, numero 6, p. 725.
  • Jenner, M. (2014). Is this TVIV? On Netflix, TV III and Binge_Watching. New media and Society, OnlineFirst, 1-18.
  • Riddle, K. et al. (2019). The addictive potential of television binge-watching: Comparing intentional and unintentional binges. Psychology of popular media culture, volume 7, numero 4, pp. 589-604.
  • Rubenking, B. et al. (2018). Defining new viewing behaviours: what makes and motivates TV binge-watching? International Journal of Digital Television, volume 9, numero 1, pp. 69-85.
  • Sung, Y.H., Kang, E.Y and Lee, N. (2015). A bad habit for your health? An exploration of psychological factors for binge-watching behaviour. Proceedings of the 65th International Communication Association Annual Meeting.
  • Tukachinssky, R., Eyal, K. (2018). The psychology of marathon television viewing. Antecedents and viewer involvement. Mass Communication and Society, volume 21, numero 3, pp. 275-295.

AMI PIU’ ME O IL TUO SMARTPHONE?: LA TECNOFERENZA E IL RUOLO DEGLI SMARTPHONE NELLA RELAZIONE GENITORI E FIGLI

Da alcuni anni i genitori, specie di ragazzi adolescenti, si trovano ad affrontare una nuova sfida: la regolamentazione dell’uso dello smartphone. Molto si discute sull’uso sempre più precoce e pervasivo di smartphone e tablet tra bambini e adolescenti e sull’impatto che questi hanno sulle capacità relazionali e attentive dei giovani. Meno si parla di come, un uso non consapevole della tecnologia mobile da parte degli adulti può avere effetto sui bambini. Questo non solo nei termini di essere un cattivo esempio o impartire abitudini errate, ma dell’effetto che un uso pervasivo degli smartphone può avere sul proprio ruolo genitoriale e sulla relazione con i propri figli.

Non si vuole qui certo demonizzare la tecnologia mobile, strumento riconosciuto come utile ed a tratti indispensabile, ma porre l’attenzione su quanto possa essere un richiamo costante, che induce a rimanere “sempre connessi” con il mondo, assorbiti dall’online, che può fungere da fuga e allontanamento dal presente fisico e più prossimo.

Da decenni si sa quanto la qualità delle relazioni precoci del bambino contribuiscano allo sviluppo di un attaccamento sicuro e di un buon sviluppo emotivo e quanto la qualità delle relazioni passi attraverso la capacità di sintonizzarsi col bambino prevalentemente grazie alla reciprocità dello sguardo. Gli esseri umani infatti sono gli unici in grado di sintonizzarsi, collaborare e condividere obiettivi attraverso il coordinamento dello sguardo. Sin dai primi mesi si pensi al momento dell’allattamento lo sguardo del bambino e quello della madre “si parlano”, comunicano bisogni ed emozioni. Attraverso lo sguardo i genitori riescono a percepire i segnali che arrivano dal bambino, interpretarli correttamente e rispondere alle sue esigenze e questo contribuisce nel bambino allo sviluppo di un sistema di attaccamento sicuro. Sempre attraverso lo sguardo il bambino si rispecchia emozionalmente nel genitore, imparando a conoscere se stesso.

L’utilizzo ripetuto e continuativo dello smartphone da parte degli adulti in presenza di un bambino, anche piccolo, può determinare una diminuzione della capacità di sintonizzarsi con i suoi bisogni,proprio interrompendo il contatto visivo, la coordinazione dello sguardo e l’attenzione condivisa. Come spesso notiamo lo strumento tecnologico stesso, il suo richiamo sonoro di mail e messaggi, la prossimità continua induce facilmente una sorta di assorbimento che Gergen (2002) ha definito come “presenza assente”. McDaniel (2015) ha coniato il termine “tecnoferenza” per indicare proprio quanto le ripetute interruzioni nelle interazioni interpersonali, a causa di dispositivi tecnologici digitali, determini una interferenza relazionale e comunicativa tra caregiver e bambino, correlando ad alcuni esiti negativi sullo sviluppo precoce.

Alcuni studi osservazionali che rimandano al paradigma dello still face registrano le reazioni dei bambini nel momento in cui il caregiver cessa di interagire con loro, rivolgendo lo sguardo allo smartphone. Le reazioni sono simili a quelle che sono state registrate nelle interazioni con mamme depresse, che manifestano una mimica facciale fissa ed inespressiva, con un aumento, anche in bambini di 5/6 mesi, di reazioni negative, di stress e frustrazione anche intensi, di ritiro dell’attenzione e dell’attività di esplorazione. Da notare che, anche dopo la ripresa dell’interazione la qualità e quantità di segnali di benessere del bambino non tornavano in linea con i valori precedenti all’interruzione ed anzi i bambini sembravano acquisire una minor capacità di essere calmati e rassicurati anche dopo che l’attenzione tornava su di loro.

Le ricerche segnalano che anche bambini di età maggiore manifestano od esprimono sentimenti negativi di fronte a momenti di tecnoferenza, in particolare durante di momenti di convivialità o durante il gioco, evidenziando stress e irrequietezza e innescando talvolta veri e propri meccanismi di competizione con lo strumento tecnologico….almeno fino a quando non ne avranno uno proprio da cui lasciarsi ugualmente assorbire.

La reazione dell’adulto in risposta a comportamenti di richiamo, specie se questi sono particolarmente evidenti, è spesso di rabbia e fastidio cosa che determina nel bambino ancora più confusione e frustrazione ed un senso di fallimento di fronte ad un “avversario” contro cui teme di non poter competere.

È comprensibile e per certi aspetti doveroso che gli adulti possano ritagliarsi spazi di svago e socializzazione – perché no – anche attraverso device mobili, ma è importante che questo vada fatto in modo consapevole, coscienti che “i bambini ci guardano”, anche quando non ce ne accorgiamo, anche quando ci sembrano distratti o dediti ad altro. Altrettanto importante è preservare alcunimomenti che possono essere particolarmente significativi, come quello del gioco, dell’addormentamento, dell’allattamento ed in generale dei pasti. Tutto questo non soltanto permetterà lo sviluppo di una miglior relazione genitori/figli e di un stile di attaccamento sicuro, ma insegnerà ai futuri ragazzi un uso più attento e consapevole di smartphone e tablet, limitando – si spera – successivi conflitti in adolescenza.

Dott.ssa  Chiara Delia

Psicologa – Psicoterapeuta

Bibliografia

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Gergen, K. (2002). The challenge of absent presence. In Katz J. E. & Aakhus M. A. (Eds.), Perpetual contact: Mobile communication, private talk, public performance (pp. 227–241). Cambridge, UK: Cambridge University Press