Mese: <span>Aprile 2023</span>

LA PIGRIZIA ESISTE?

La pigrizia andò al mercato

ed un cavolo comprò.

Mezzogiorno era suonato

quando a casa ritornò.

Mise lacqua, accese il fuoco,

si sedette e riposò.

Mentre il sole a poco a poco

dietro i monti tramontò.

Così, persa ormai la lena,

sola al buio ella restò

ed a letto senza cena

la meschina se ne andò.

E. Berni

Nel mio lavoro di psicoterapeuta, mi capita spessissimo di imbattermi nel concetto di pigrizia. Molti miei pazienti hanno la convinzione di essere pigri e che per questo loro “difetto” non riescono a stare al passo con le richieste del lavoro, della casa, della società. Si sentono perdenti nel confronto con gli altri che invece sembrano più “performanti”.

Ho sempre trovato interessante il concetto di pigrizia e il fatto che, comunemente, venga associato ad una sorta di difetto di nascita.

Lo possiamo vedere anche nelle definizioni della Treccani:

pigrìzia s. f. [dal lat. pigritia, der. di piger «pigro»]. – Il fatto d’esser pigro; la qualità, e quindi anche l’atteggiamento, il comportamento di chi è naturalmente pigro nell’agire, nell’operare, o anche soltanto nel muoversi

pigro agg. [dal lat. piger -gra -grum]. – 1. a. Di persona che, per natura, rifugge dalla fatica, dallo sforzo, dall’impegno fisico o intellettuale, e dall’azione in genere, o che agisce e opera con lentezza e senza entusiasmo

Pigri lo si è per “natura”, dunque, ma al contempo si viene biasimati per questo, come se ci si dovesse sforzare di invertire questa stortura. 

Questa visione mi ha sempre convinta poco, perché mi dava l’impressione che cozzasse con l’evoluzione della specie. Dubito che in natura ci sia spazio per un’indole pigra: l’agire umano, di solito, è teso alla sopravvivenza e la pigrizia non è funzionale. Inoltre, fin da piccolo il cucciolo d’uomo è caratterizzato dalla curiosità: il suo modo di crescere e maturare è sostanzialmente legato al fare esperienza del mondo e delle sue leggi e, se osserviamo i neonati, possiamo vedere chiaramente questa tensione verso il comprendere, il collegare, l’esperire. Così come si coglie chiaramente la soddisfazione che traggono dal saper fare e dal mostrarlo agli altri.

Dopodiché l’uomo tende anche a riposarsi, è vero, ma anche questo è funzionale alla sopravvivenza. Col riposo, assolviamo ad una serie di compiti fondamentali al nostro organismo e alla nostra mente. Non ultimo, il fatto che mentre dormiamo riorganizziamo le informazioni e le esperienze appena raccolte e le immagazziniamo, aggiungendo conoscenza ai nostri modelli del mondo. Pertanto dormire, rientra in parte nel processo di apprendimento! 

Tuttavia, quando parliamo di persona pigra, di solito non intendiamo una persona che dorme molto, piuttosto una che, come dice la Treccani, rifugge dalla fatica e dallo sforzo. 

Da psicologa tendo a interrogarmi su ciò che guida o non guida l’agire umano e dunque questo aspetto del voler fuggire da un’esperienza di frustrazione mi ha attivata e ho cominciato a chiedermi quand’è che le persone, invece, affrontano la fatica e lo sforzo con buona lena. Di solito, avviene quando sono molto motivate. Quando la motivazione è sufficientemente alta, le persone manifestano una tenacia e una resistenza notevoli, anche di fronte ad ostacoli importanti. 

È possibile dunque che la pigrizia sia più semplicemente mancanza di motivazione? E che la mancanza di motivazione porti a tralasciare o rimandare un compito percepito come frustrante? E in tal caso non potremmo allora forse, più propriamente, chiamare la pigrizia procrastinazione?

Ho fatto un po’ di ricerche per verificare questa ipotesi e ho avuto, innanzitutto, conferma del fatto che l’essere umano ha una naturale tendenza ad agire, produrre e scoprire, perché questo è funzionale alla sua crescita e alla sua sopravvivenza. A ciò si aggiunge, anche, il naturale bisogno di gratificazione e di approvazione per i risultati raggiunti. Questa spinta fa parte della Piramide dei bisogni di base di Maslow e ci ricorda che la tendenza a produrre non riguarda solo noi come individui, ma anche la nostra rete sociale perché il progresso di uno è il progresso di tutti. Forse è proprio per questo che, storicamente, la pigrizia si accompagna al biasimo sociale. 

Se ci pensiamo, il cattolicesimo l’ha inserita col termine accidia nei 7 peccati capitali, in quanto le persone accidiose rifiutano la vita, si lasciano andare alla noia, all’inerzia, al non far nulla, non mettono a frutto i propri doni. E questo era considerato un torto verso Dio e verso gli altri.

L’operosità, invece, è sempre stata ritenuta una virtù da lodare. La fatica, il lavoro, avvicinavano l’uomo a Dio e lo facevano entrare nelle sue grazie. Ci portiamo uno strascico di questa visione quando nelle società occidentali giudichiamo negativamente la moralità delle persone povere, bollandole appunto come pigre, indolenti, con poca voglia di lavorare e di elevarsi dalla loro condizione. In questo c’è molto del capitalismo, ovviamente, ma il capitalismo ha a sua volta in sé molto della morale calvinista che porta il ragionamento all’estremo: chi lavora e ha successo è stato baciato dalla benevolenza di Dio; chi è povero è fuori dalla grazia divina per i suoi peccati ed è dunque macchiato da un difetto morale, causa della sua condizione. 

Tralasciando gli aspetti religiosi, è innegabile che esser bollati come pigri risulti ancora oggi una condanna. I bambini che faticano nel fare i compiti e vengono tacciati di pigrizia, finiscono per perdere ancora più la motivazione. Se le difficoltà che sperimentano sono già frustranti, veder misconosciuto il problema o l’impegno aggrava la perdita di motivazione e così la nomea di indolente diventa una profezia che si autoavvera.

La stessa cosa succede quando siamo noi stessi a chiamarci pigri, magari perché condizionati dalla facilità con cui affibbiamo questo aggettivo anche agli altri. “Se non riesco, se faccio fatica, se non sento la spinta è perché ho un difetto di nascita: sono pigro. E dovrei sforzarmi di lottare contro questa mia natura, ma poiché sono pigro rifuggo dalla fatica e allora non posso cambiare”. Questa è una visione paralizzante per chiunque, toglie spazio a qualsiasi tensione verso un miglioramento; è una condanna alla quale non si può sfuggire. 

Quanto cambia se invece escludiamo la pigrizia dal quadro e ipotizziamo che se non riusciamo, facciamo fatica, non sentiamo la spinta forse è perché manca qualcosa? Se c’è una mancanza, c’è un bisogno. Questa è una visione che apre a delle domande: “cosa mi manca? di cosa ho bisogno? come posso colmare questo bisogno? posso colmarlo da solo o mi serve che il contesto mi venga in aiuto?” 

Ecco che si fa spazio la ricerca di risposte, che porta in sé azione, problem solving, curiosità e un ventaglio di possibilità. 

Ovviamente, talvolta la risposta è molto intuitiva e ciò che manca non è altro che l’energia per fare e progettare. In tal caso, se non si è in presenza di una condizione fisica o mentale, il bisogno da soddisfare è semplicemente quello del riposo. 

Tralasciando questo scenario, alla domanda “Cosa manca?” la psicologia ha più spesso dato la mia stessa risposta: motivazione.

Dunque, gli esseri umani da cosa traggono motivazione? Di solito, dall’avere un obiettivo, un progetto da raggiungere che vada nella direzione di soddisfare un loro bisogno. 

Sembra facile, ma non lo è! 

Capire quali sono i nostri obiettivi non è scontato e capita spesso che le persone ne scelgano alcuni che sono in realtà distanti dal loro essere o magari indotti o guidati da aspettative esterne. Soffermarsi a chiederci quale bisogno ci guida, quale bisogno stiamo cercando di soddisfare e perché, può essere una buona bussola per sfrondare gli obiettivi ingannevoli. 

Nel mondo moderno, gli obiettivi più motivanti sono solitamente legati ai bisogni di autonomia (essere indipendenti, poter dirigere la nostra vita), di padronanza (crescere e migliorarsi) e di scopo (la pulsione a servire qualcosa di più grande di noi). 

Una volta compreso quale potrebbe essere un obiettivo valido, esso va scomposto in piccoli passi. Non c’è nulla che ci faccia perdere la motivazione come trovarci di fronte ad una montagna che sembra insormontabile. Gli obiettivi devono infatti essere raggiungibili per motivarci, rientrare in quella che Vigotskij chiamava “zona di sviluppo prossimale”. Un obiettivo ci spinge all’azione se si trova appena al di fuori delle nostre competenze, della nostra zona di comfort, perché mette in moto il desiderio di migliorarci quel tanto che basta per agguantarlo. Al contrario, un fine che si trovi troppo al di là della nostra capacità di sviluppo, finirà per somministrarci dosi massicce di frustrazione quotidiana che minano il nostro senso di autoefficacia e bloccano l’iniziativa. 

Per esemplificare, possiamo dire che è utile non concentrarsi sull’intera scala, non guardare alla sua sommità, ma interessarsi solo al singolo gradino. Una vota che il progetto è tracciato, il compito va, come dicevo, scomposto nelle sue singole parti che lo rendono maneggevole, avvicinabile. Ogni parte, ogni gradino sfida ovviamente una nostra capacità, ma quel tanto che basta per permetterci di raggiungere il gradino successivo e sfruttare la spinta della gratificazione ottenuta dal piccolo successo raggiunto. Alla fine della scala avremo pian piano sviluppato tutte le competenze necessarie, che a guardar troppo in lungo ci sembravano soverchianti. 

Detto questo, per gli esseri umani non è sufficiente che l’obiettivo corrisponda ad un mero calcolo di costi-benefici/sforzi-risultati. Le ricerche hanno ben presto messo in luce che, in quanto esseri irrazionali, la gratificazione derivante dal solo raggiungimento dell’obiettivo spesso non è abbastanza per tenerci motivati, specie sul lungo periodo. Ci serve anche sentirci coinvolti nell’esperienza creativa, entrare in uno stato di flusso, perfettamente presi e immersi nell’attività che stiamo facendo, alimentati dal puro piacere di farla. Quando si raggiunge questo stato di motivazione intrinseca, lo scopo viene raggiunto senza quasi percepirne lo sforzo. Ovviamente, non tutti gli obiettivi che ci diamo possono condurci allo stato di flusso, ma sarebbe bene tenere presente che un buon obiettivo dovrebbe stimolare anche un lato di gioco e di divertimento. 

Se usiamo queste lenti per accostarci alla questione, possiamo vedere che una persona che procrastina non è una persona pigra: è una persona con dei bisogni inevasi che deve capire come colmare e spesso è anche alle prese con emozioni negative. 

Di solito, infatti, se si chiede alle persone “pigre” come si sentono all’idea di fare quel che stanno rimandando si otterranno risposte tipo:

  • Ho l’ansia 
  • Ho paura di sbagliare o di fallire 
  • Temo che gli altri possano giudicare il mio operato 
  • Non penso di farcela o di averne le capacità
  • Non so da che parte cominciare 
  • Temo che gli altri scoprano che non sono bravo come pensano 
  • Temo di scoprire che io non sono capace come penso 

Non è difficile notare che, allora, una persona che procrastina è spesso una persona che si sta autosabotando. Evitare un compito che ci spaventa o ci mette ansia è un modo di proteggerci, di evitare di mettersi in gioco pensando così di preservare la nostra autostima da una eventuale caduta. 

In realtà però, ogni volta che ci tiriamo indietro la nostra autostima si abbassa, perché essa non è alimentata solo dal successo, ma più spesso dal sapere di aver tentato. Il tentativo, inoltre, anche se imperfetto, ci regala il feedback necessario a correggere il tiro e a riprovare, alimentando la spinta a migliorare. 

È da tener presente, infine, che l’autosabotaggio può essere anche controintuitivo. Alle volte, cioè, evitiamo di metterci alla prova non perché temiamo di fallire, ma perché temiamo di scoprire che siamo capaci. A quel punto, dovremmo poi prenderci la responsabilità di mettere a frutto i nostri doni e passare all’azione, rinunciando al doloroso ma al contempo consolatorio pensiero del “SE avessi/facessi/potessi….la mia vita cambierebbe”. 

Ovviamente l’autosabotaggio non è consapevole: le persone non scelgono coscientemente di mettersi i bastoni tra le ruote! A volte, chiedersi se l’azione che si sta evitando possa essere migliorativa per la propria vita, può già essere sufficiente per approfondire cosa ci manca per metterci in moto. Altre volte, è il contesto a doversi interrogare su ciò che manca di fornire a chi non agisce. Altre volte ancora, può darsi che si abbia bisogno di un aiuto esterno per comprendere meglio quali meccanismi ci bloccano e provare a smuoverli. 

In ogni caso, la prossima volta che pensate di esser pigri provate a guardarvi con maggior benevolenza e a chiedervi, invece, di che cosa avreste bisogno per sentirvi stimolati ad agire!

 

 

Dott.ssa Valeria Lussiana 

Psicologa Psicoterapeuta

 

CEFALEA: UNA VISIONE PSICOSOMATICA

La cefalea è un dolore al capo che almeno una volta nella vita la gran parte di noi ha provato.

A seconda della forma che assume può coinvolgere la regione cranica, il cuoio capelluto, il viso o il collo. Può essere passeggera e di lieve intensità o profondamente debilitante nella sua permanenza e gravità. Può presentarsi con sintomi sgradevoli come nausea, vomito, dolori pulsanti o continui alla testa, al viso, al collo o fastidio nell’entrare in contatto con stimoli esterni (suoni, rumori e luci).

Se ha origini vascolari, osteomuscolari, ormonali, alimentari o psicoemotive viene classificata come primaria e si manifesta nelle tre forme più diffuse tra la popolazione, quali emicrania, cefalea muscolo tensiva e cefalea a grappolo. Se si presenta come sintomo di una malattia sottostante, o a seguito di un trauma fisico, viene cassificata come secondaria.

Irrompe nelle nostre vite e impedisce il normale svolgimento delle attività quotidiane. Così il lavoro, lo studio e il piacere subiscono delle violente battute d’arresto.

 

La cefalea è un disturbo talmente diffuso che anche la mitologia greca ne descrive un caso.

Zeus, prima di prendere in sposa Era, concepì alcuni dei suoi figli unendosi a  diverse figure femminili. Meti, figlia dei titani Oceano e Teti, divinità del raziocinio e del discernimento, fu una di queste.

Il re dell’Olimpo, dopo essere venuto a conoscenza della profezia secondo la quale il figlio nel grembo di Meti l’avrebbe superato in potenza sottraendogli il trono, decise di porre rimedio. Si avvicinò a Meti fingendo di baciarla, ma con l’intento di inghiottirla. Ella, capace di prevedere l’andamento delle cose, si trasformò in una goccia d’acqua e scivolò dentro a Zeus continuando ad esistere nel suo ventre, infondendo ad esso saggezza.

Zeus, ovviamente, inghiottì anche la creatura di cui Meti era gravida, che trovò come sede ideale per continuare la sua crescita la testa del padre: il luogo del pensiero.

La testa di Zeus cominciò a dolere fortemente fino alla fine della gestazione, momento in cui desiderò ardentemente che gli venisse fatto a pezzi il cranio. Chiese quindi aiuto ad Efesto, il dio che forgia i metalli, che con una scure gli aprì con maestria la testa. Emerse così una figura femminile coperta da un’armatura lucente e munita di lancia e scudo: Atena, la dea della sapienza, elevata nello spirito ed eternamente vergine. Inflessibile e determinata, sempre pronta a combattere con mente lucida, chiarezza e prudenza, disinteressata ed immune all’amore e ai sentimenti.

 

Il mito introduce sapientemente il tema simbolico che caratterizza la cefalea: uno squilibrio psicofisico innescato dal ruolo centrale ed eccessivo assunto dal pensiero, dall’analisi e dal controllo vigile a scapito di sentimenti ed istintualità. Potremmo giocare dicendo che in chi soffre con frequenza di cefalea alberghi un eccesso di Atena.

 

Nell’emicrania le arterie che portano il sangue al cervello si contraggono, impedendo alla vitalità del sangue di fluire liberamente, come a voler contenere e inibire un regno pulsionale troppo intenso e imprevedibile. Successivamente le arterie si dilatano, come se le pulsioni a seguito del tentativo di controllo prendessero il sopravvento rompendo le difese. Le emicranie possono essere innescate da situazioni fortemente emozionali, soprattutto in chi fatica ad accogliere alcune parti di sé rifiutate.

 

Nella cefalea muscolo-tensiva i muscoli del collo e delle spalle si tendono e restano contratti al di là della propria volontà, provocando dolore e senso di costrizione alla testa e agli occhi. Come se la testa ad un tratto cominciasse a pesare oltremisura, richiedendo un grande sforzo per essere sorretta.

Una testa piena di pensieri, preoccupazioni e responsabilità a cui non si riesce, non si può e non si vuole dire no. Un’eccessiva apertura e disponibilità alle richieste e compiti provenienti dall’esterno che pesano come un macigno. Studi clinici hanno osservato una forte componente ansiosa e depressiva nelle persone che soffrono di cefalea.

 

La cefalea può quindi porre le sue radici in un uso smisurato di razionalità, come strategia per prendere le distanze dalla mutevolezza sorpendente che caratterizza le emozioni. Potrebbe portare all’attenzione di chi la soffre il bisogno di difendersi da contenuti inconsci che risulterebbero destabilizzanti.

 

Come affrontare dunque la complessità di questo disturbo?

 

Attraverso pratiche di consapevolezza e tecniche di rilassamento come:

la mindfulness
lo yoga
il rilassamento progressivo di Jacobson

 

Dedicandosi ad attività espressive come:

la danza
il teatro
il canto
la pittura
qualsiasi forma d’arte in generale

 

Può essere di centrale importanza intraprendere percorsi di psicoterapia individuale o di gruppoper comprendere il proprio mondo emotivo-relazionale e accogliere con maggiore facilità i contenuti e le parti di sé che non trovano spazio espressivo nella quotidianità.  Un approccio psiche-soma integrato può sollevare il corpo dall’oneroso compito di manifestare un sintomo portatore di un messaggio che la coscienza non può sopportare.

 

 

Dott.ssa Erika Gerardi

Psicologa-Psicoterapeuta

 

Bibliografia:

Joyce McDougall (1990), Teatri del corpo. Un approccio psicoanalitico ai disturbi psicosomatici, Milano, Raffaello Cortina Editore

Agresta F. (2010), Il linguaggio del corpo in psicoterapia. Glossario di Psicosomatica, Roma, Alpes Italia

Caprioglio V., Fornari P., Marafante D., Morelli F., Parietti P. (2007), Dizionario di psicosomatica, Milano, Edizioni Riza

Fulcheri M., Barzega G. (1995), Stress, depressione e ansia in pazienti cefalalgici. Considerazioni sulla letteratura e dati sperimentali, Minerva Psichiatrica, vol.36, n.1, pagg. 179-185, 2001