Mese: <span>Gennaio 2024</span>

PERCHE’ SERVE LO PSICOLOGO A SCUOLA?

Lo psicologo scolastico è sempre più richiesto nelle scuole di ogni ordine e grado, a partire dalle scuole primarie fino ad arrivare alle scuole cosiddette Superiori (Secondarie di secondo grado). Tale figura professionale viene identificata come utile e facilitante verso la creazione di un ambiente maggiormente positivo nell’ambito scolastico. Obiettivo primario dello psicologo scolastico è quello infatti di creare un ambiente sereno e cooperativo al fine di supportare le relazioni tra tutte le persone che afferiscono all’istituzione scolastica (studenti, famiglie, insegnanti, personale scolastico) per favorire un clima di serenità che supporti l’apprendimento, la gestione dello stress dell’insegnamento e rafforzi le relazioni tra famiglie-scuola e comunità territoriale.

Lo  psicologo scolastico è dunque focalizzato ad accogliere e a rispondere ai bisogni della scuola intesa come un sistema complesso costituito da individui, gruppi ed istituzioni in interazione tra loro.

Gli ambiti di intervento dello Psicologo all’interno delle scuole sono diversi in base all’ordine e grado della Scuola e delle esigenze territoriali, tuttavia possiamo individuare alcuni settori in cui tendenzialmente il professionista è chiamato ad operare.

L’ambito primario d’intervento è il supporto ai minori con situazioni di disagio (difficoltà emotive, relazionali o svantaggio sociale/culturale) e ai ragazzi con esigenze educative speciali (BES, DSA, difficoltà legate al comportamento e all’impulsività).

Spesso le manifestazioni di rabbia, aggressività, condotta indisciplinata e svogliatezza nascondano un malessere che va al di là del conflitto con i compagni o i docenti. Talvolta sono presenti sintomi ansiosi, fatica a sentirsi parte integrante della classe, percezione di non valere quanto si vorrebbe e inefficacia da un punto di vista del profitto nonostante gli sforzi messi in atto. Lo psicologo aiuta lo studente a fare luce su ciò che sta vivendo e a costruisce con lui un percorso per stare meglio, affrontando il problema in modo personalizzato.

La prevenzione e l’individuazione precoce di segnali di disagio che potrebbero in futuro esitare in patologie conclamate (disturbi d’ansia, disturbi alimentari, consumo di alcol e droghe, autolesionismo, comportamento dirompente, bullismo, …) sono l’ambito d’intervento privilegiato dello sportello d’ascolto per attuare la propria mission di prevenzione: un ascolto precoce, un’accoglienza non giudicante, un sostegno nel costruire un cambiamento sono un bene prezioso per i ragazzi.

In alcuni casi, quando la situazione richiede un intervento prettamente clinico, il professionista effettua un invio ai servizi del territorio per una presa in carico più approfondita e a lungo termine.

Lo psicologo a scuola lavora inoltre con insegnanti e ragazzi sull’inclusione di allievi e famiglie straniere che accedono ai servizi educativi e alle scuole del territorio, con attenzione a fornire anche un supporto alla genitorialità.

Un altro ambito in cui lo psicologo scolastico opera è la progettazione, realizzazione e/o supervisione di interventi in aula su tematiche legate alla formazione e alla prevenzione. Molto spesso allo psicologo è richiesto di lavorare con i gruppi classe, strutturando dei veri e propri percorsi sui temi rilevanti in base alla fascia d’età: la gestione delle emozioni, la prevenzione del bullismo, l’educazione all’affettività e alla sessualità, la conoscenza e prevenzione delle dipendenze (fumo, sostanze, gaming, affettive, smartphone e social).

I nostri ragazzi vivono contemporaneamente nel mondo reale e nel mondo del web e dei Social Network: il confronto con i modelli proposti, le prese in giro, la perdita di senso e di direzione nel loro percorso di crescita può diventare molto pericolosa, se non intercettata. Inoltre spesso le modalità disfunzionali di gestione dei conflitti in classe, tra pari, (ma anche tra docente-studente, genitori-insegnanti) possono essere migliorate con training psico-educativi sulla gestione delle proprie emozioni e sulla consapevolezza delle proprie modalità comunicative, riportando in aula, e fuori, un clima maggiormente costruttivo.

Lo psicologo può sostenere  anche i docenti nella comprensione delle classi difficili e nel contenimento dei rischi di burn out. I casi di cronaca riportati dalle testate giornalistiche dimostrano quanto frequentemente la scuola e le relazioni che gravitano intorno ad essa possono diventare teatro di conflitti violenti, con escalation di atti violenti e aggressioni fisiche e verbali.

Le attività in classe rappresentano una risorsa importante perché permettono allo psicologo di avvicinare tutti i ragazzi e farsi conoscere, costruendo un clima di fiducia e una prima relazione, permettendo anche a chi è più timido, scettico o riluttante al confronto di considerare l’idea di aprirsi con un estraneo. Gli incontri sul tema dell’ educazione sessuale, ad esempio, sono un’ottima occasione per entrare in contatto e in relazione con i ragazzi. Ci tengo inoltre a sottolineare che l’educazione sessuale  e affettiva è una materia di insegnamento obbligatoria nella maggior parte dei paesi dell’Unione Europea: in questo momento  fanno eccezione soltanto alcuni Stati membri, tra cui l’Italia. Quando è presente nell’Istituzione scolastica lo psicologo è spesso chiamato a effettuare questa tipologia di attività veicolando le  conoscenze specifiche e le abilità relazionali promosse in base alle fasce d’età, come indicato dalle linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

L’educazione sessuale e affettiva precoce è concepita come una forma di prevenzione primaria delle gravidanze indesiderate e delle malattie sessualmente trasmissibili oltre ad aiutare a prevenire forme di sfruttamento, coercizione e abuso sessuale, forme dipregiudizio e stereotipi legati all’identità di genere, discriminazioni basate sull’orientamento sessuale.

Un altro dei focus su cui si concentra lo psicologo scolastico è la prevenzione e la riduzione del fenomeno della dispersione scolastica. Rispetto al resto dell’Europa, l’Italia infatti presenta tassi di abbandono molto alti (al pari di Bulgaria e Malta): circa un 1% degli studenti abbandona la scuola Secondaria di primo grado e circa il 4% la scuola Secondaria di secondo grado.  

Tuttavia tutti gli sforzi messi in atto dallo Psicologo all’interno dell’Istituzione scolastica si scontrano spesso con la scarsità di risorse a disposizione della Scuola per garantire una presenza stabile e continuativa tale da permettere l’instaurarsi di relazioni significative e di fiducia. Spesso il professionista si trova ad avere così tante richieste di consulenza da dover effettuare delle scelte in base alle urgenze e differire nel tempo gli incontri con ragazzi che ugualmente portano un reale disagio ma in quel momento meno sintomatico, non riuscendo così a trovane un’immediata accoglienza o la continuità nel tempo che sarebbe loro sufficiente in molti casi ad alleviare le loro preoccupazioni. La scuola e lo sportello d’ascolto non si configurano come un luoghi di diagnosi o di psicoterapia, ma come spazi circoscritti di confronto, di de-compressione in cui lo studente, il docente, il genitore possono mettere a fuoco il disagio e ritrovare le fila del percorso d’intervento (qualora necessario).

Come viene sottolineato dalla legge e dai professionisti che vi operano, la scuola non è e non deve diventare un luogo di cura, ma spesso finisce per essere un “Triage” che necessita di invii ai Servizi specialistici sul Territorio, che sempre per la stessa ragione, ovvero l’esiguità di risorse investite per la salute mentale, in termini di prevenzione e cura, non riescono a fare fronte e prendere in carico le necessità richieste.

In Italia, restando fanalino di coda rispetto alla maggior parte dei Paesi Europei, non è ancora stata definita una legge che istituisca la figura dello psicologo scolasticocome professionista competente e presente stabilmente in tale contesto. Attualmente, esistono soltanto alcune norme che regolano molti aspetti dell’attività professionale dello psicologo che opera nella scuola. Allo stato attuale le scuole, in virtù dell’autonomia didattica ed organizzativa delle singole istituzioni (Legge 15 marzo 1997, n. 59) e della cosiddetta “Buona Scuola” (Legge 13 luglio 2015, n. 107), possono avvalersi di uno psicologo attraverso accordi con i singoli professionisti, con le aziende sanitarie locali, con gli uffici scolastici regionali, con gli studenti e le loro famiglie e su delibera degli organi collegiali, ricorrendo al contributo di enti, istituti bancari, associazioni, genitori o al Fondo d’Istituto.

La mancanza di uniformità a livello normativo fa emergere una situazione critica poiché le attività psicologiche a scuola talvolta non risultano realizzate esclusivamente dallo psicologo, come sarebbe previsto dalla legge nazionale, ma molteplici altre figure vengono inserite all’interno del contesto scolastico, previa presentazioni di progetti con tematiche legate alla promozione del benessere e della salute, provenienti da differenti formazioni. Ciò talvolta determina sovrapposizione e confusione soprattutto per i ragazzi e  le famiglie.

Attualmente, secondo il Disegno di Legge S. 2613 proposto, lo psicologo scolastico deve essere iscritto all’Ordine degli Psicologi, in possesso di laurea magistrale in psicologia, con specializzazione quadriennale nello specifico settore dell’età evolutiva e operare in uno spazio identificato, previo appuntamento, senza entrare in classe se non con il consenso informato dei soggetti coinvolti e delle famiglie in caso di minori. Secondo la Cassazione, infatti, gli psicologi possono stare in classe solo se i genitori degli alunni sono stati informati della loro presenza e hanno prestato il consenso. Il tema del consenso informato dei genitori di allievi minori, solleva non poche problematiche per lo psicologo che opera a scuola. Non è semplice reperire i consensi di entrambi i genitori, spesso non presenti entrambi nella vita del minore o in forte conflittualità tra loro, questo spesso impedisce o scoraggia i ragazzi a partecipare alle attività di Sportello, per evitare di reperire un genitore, magari focus del loro disagio o che sanno non essere d’accordo con la partecipazione al tipo di attività, per timori e pregiudizio circa il lavoro dello Psicologo e dei Servizi sociali e territoriali. Questo genera un grande sommerso in termini di intercettazione dei ragazzi più sofferenti o coinvolti in situazioni familiari più complesse, proprio i ragazzi talvolta che avrebbero più necessità di avere un momento di ascolto.

La pandemia di Covid-19 viene considerata un vero e proprio “evento cerniera”all’interno del contesto scolastico, capace di segnare un “prima” e un “dopo” sulla presenza dello psicologo nelle scuole. La diffusione di difficoltà psicologiche, in particolar modo di ragazzi e adolescenti, ha spinto a riconsiderare la presenza dello psicologo all’interno del contesto scolastico e per la prima volta c’è stata una promozione importante da parte dello Stato per l’inserimento di questa figura professionale. Con il protocollo siglato nel 2020 tra Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi e il Ministero dell’Istruzione, sono state definite le Linee di indirizzo per la promozione del benessere psicologico a scuola. Questo documento ha riportato in primo piano la figura dello psicologo, fondamentale per la promozione del benessere nel contesto scolastico scosso dal susseguirsi di lockdown, restrizioni e nuove forme di didattica online o mista. La realtà delle cose, come diretta conseguenza dell’emergenza, è stata l’istituzione, negli Istituti scolastici che ne erano ancora sprovvisti, di uno Sportello d’ascolto a cui gli studenti, gli insegnanti e i genitori, su prenotazione volontaria, potessero accedere e ricevere ascolto rispetto alla problematica emergente (ansia, difficoltà di apprendimento, comportamento alimentare). Lo specialista ha avuto la funzione di accogliere e riconfigurare il problema emergente per mezzo di un intervento di consulenza e orientamento.L’inserimento più diffuso dello Psicologo nell’istituzione scolastica durante la Pandemia ha aperto le porte a ragionare non più solo in un’ottica di riparazione, ma ha permesso di iniziare a pensare in termini di prevenzione attraverso l’ascolto, il confronto, l’informazione.

La speranza è che con il termine dell’emergenza e dei fondi stanziati in tale contesto, sia possibile per le Scuole continuare a sostenere queste attività e promuoverle come un bene primario, al pari dell’insegnamento della conoscenza.

Dott.ssa Consuelo Aringhieri

Psicologo – Psicoterapeuta

Dormiamo sonni tranquilli?

Una parte della popolazione sempre più consistente è affetta negli ultimi decenni da disturbi del sonno: alcune persone non riescono ad addormentarsi, altre hanno risvegli troppo precoci, altre credono di dormire bene, ma si risvegliano con una stanchezza cronica e molte altre varianti, poco considerate o spiegate con generiche cause anagrafiche o legate allo stress quotidiano.

La classificazione dei disturbi del sonno è in realtà molto ampia e complessa, comprendendo forme patologiche leggere e transitorie, fino ad arrivare a forme severe e talvolta gravi.

La prima distinzione va fatta tra forme primarie, legate alla disregolazione dei meccanismi alla base delle funzioni di sonno e veglia (metaboliche, cardiocircolatorie con interessamento del sistema respiratorio, ormonali) e forme secondarie legate a malattie organiche (es. Parkinson, Alzheimer, malattie della tiroide, diabete).

Durante il sonno aumenta la produzione di alcuni ormoni denominati anabolici, come ad esempio l’ormone della crescita e il testosterone e contemporaneamente, diminuiscono ormoni catabolici come il cortisolo. Durante il periodo di sonno vengono messi in atto processi di recupero e riparazione di tessuti dell’organismo: è stato ad esempio dimostrato come venga aumentata la sintesi proteica a livello muscolare e a livello del sistema nervoso centrale, pertanto il sonno svolge un importante funzione anti invecchiamento.

Studi condotti sugli effetti della deprivazione di sonno mettono in evidenza quanto impattante sia ad esempio il danno sulla memoria: ciò consente di ipotizzare che durante il sonno avvenga la sintesi di proteine cerebrali implicate con la fissazione dei ricordi.

Il sonno incide anche sui processi di termoregolazione che, infatti, risultano alterati nei casi di grave deprivazione.

La letteratura ci dimostra quanto la durata e la qualità del sonno influenzi lo stato di veglia e vigilanza diurna e abbia un impatto su funzioni come l’attenzione, la concentrazione e la gestione emotiva. Non dormire a sufficienza può favorire una riduzione delle prestazioni cognitive durante la veglia, umore instabile e labilità emotiva, inficiando sensibilmente la qualità della vita (Morin et al., 2015).

Il sonno, per essere riposante, deve avere una sua architettura precisa, divisa in quattro fasi, con caratteristiche differenti e individuabili all’EEG (elettroencefalogramma): il rispetto della sequenza e della durata di queste fasi assicura un sonno valido e ristoratore.
Per semplificare, il sonno p
uò essere suddiviso sostanzialmente in due fasi: sonno non-REM (fase 1,2,3) in cui non vi è memoria dell’attività onirica e vi è una progressiva diminuzione dell’attività muscolare, e  sonno REM, associato ad attività onirica, ad una riduzione quasi totale dell’attività muscolare e in cui sono presenti movimenti rapidi oculari, in cui avviene l’effettivo riposo cerebrale.

Dovremmo ipoteticamente dedurre allora che chi dorme più a lungo abbia adottato uno stile di vita più sano, ma non è sempre così: non tutti sanno infatti che un eccesso di ore di sonno può essere correlato talvolta ad una maggiore probabilità di patologie cardiovascolari e quadri patologici di tipo depressivo.

Bisogna pertanto dormire il giusto, né troppo nè troppo poco…ma chi lo stabilisce quante ore di sonno sarebbero giuste per noi?

La risposta sta nella nostra soggettiva percezione di benessere, funzionalità e sensazione di riposo ed efficienza durante la vita attiva. Per tutte le persone che non sentono soddisfatti questi requisiti o che nutrano dei dubbi sulla qualità del proprio sonno ci si può rivolgere ai reparti di Medicina e Terapia del Sonno, presenti nella maggioranza degli ospedali cittadini oppure a centri privati o convenzionati che forniscono consulenze ed esami specifici per verificare la qualità del sonno.

Il principale disturbo del sonno è l’insonnia: condizione caratterizzata da un peggioramento soggettivo nella qualità del sonno, da difficoltà di addormentamento, da risvegli mattutini precoci o da risvegli nel mezzo della notte che determinano uno stato di stanchezza cronica durante il giorno, per una durata di almeno tre mesi e con una frequenza di 3 o 4 notti a settimana.

In genere chi soffre di insonnia, durante il giorno, manifesta una serie di problematiche collegate alla carenza di sonno tra cui fatica, difficoltà a concentrarsi, umore irritabile e disturbi di memoria con conseguenti problematiche sul lavoro o nello studio, legate allo scarso riposo notturno. Nonostante l’insonnia sia un disturbo molto comune e diffuso, spesso rimane sotto-diagnosticata e non trattata efficacemente.

In generale se i disturbi del sonno si verificano per periodi brevi (da qualche giorno a qualche settimana) si parla di disturbo acuto del sonno. Quando invece il disturbo si manifesta per almeno tre mesi si parla di insonnia conclamata.  

L’insonnia può associarsi ad altri disturbi medici (ad es. ipertensione e disturbi cardiaci) o psichiatrici (ad es. disturbi d’ansia e disturbi dell’umore). Quali siano causa e quali conseguenza è un aspetto che deve essere ancora chiarito e su cui si stanno eseguendo numerosi studi, ma sicuramente è dimostrata la correlazione tra disturbi del sonno e lo sviluppo di patologie al sistema cardio-respiratorio, metabolico, neurologico, oltre che associate a sviluppo di disturbi psichiatrici.

Sono numerosi gli studi scientifici sull’argomento finora pubblicati ed è ormai noto che l’insonnia rappresenta un fattore di rischio per l’insorgenza di disturbi d’ansia, dell’umore e disturbi da uso di sostanze (Yoo et al., 2007).

Il disturbo da insonnia può presentarsi anche in conseguenza alla patologia psichiatrica stessa e, una volta insorto, alimenta lo sviluppo e il mantenimento di un circolo vizioso che peggiora i sintomi del paziente, compromettendone la qualità di vita (Sateja MJ, 2009).

Risulta, quindi, necessario un trattamento specifico sui sintomi d’insonnia da affiancare al trattamento rivolto al disturbo psichiatrico presentato.

Un fattore interessante è che gli studi più recenti stanno evidenziando lo spostamentodell’insonnia da effetto di alcune malattie mentali a causa – o almeno con-causa – di tali disturbi. Un cambiamento prospettico da non sottovalutare, sia per le diagnosi sia per le terapie, che emerge in particolare da uno studio dell’Università di Oxford pubblicato da The Lancet Psychiatry (2016). I ricercatori dello Sleep and Circadian Neuroscience Institute hanno svolto un importante studio coinvolgendo un ampio campione di studenti (3755) con una diagnosi di insonnia, dislocati in 26 università del Regno Unito, divisi in modo casuale in due gruppi.

Per affrontare le difficoltà del sonno degli studenti, i ricercatori hanno scelto per un gruppo un trattamento di terapia cognitivo-comportamentale focalizzato sul disturbo, che è stato “somministrato” online,  mentre il secondo gruppo era libero di ricorrere a trattamenti standard (gruppo di controllo). Nel primo gruppo dopo alcune settimane è stato riscontrato un notevole miglioramento dell’insonnia, insieme a piccole riduzioni nella paranoia e nelle allucinazioni (tali sintomi psicotici erano il primo obiettivo di indagine degli psicologi inglesi) e si sono registrati miglioramenti anche nella sintomatologia della depressione, dell’ansia, riduzione degli incubi, più in generale, un miglioramento soggettivamente percepito di benessere psicologico. Il gruppo di controllo ha raggiunto risultati meno significativi e univocamente interpretabili.  E’ stato dunque ipotizzato che aiutare le persone a dormire meglio potrebbe essere un primo passo importante per affrontare problemi psicologici ed emotivi.

Come affermato da Lino Nobili, Responsabile del Centro della Medicina del Sonno dell’Ospedale Niguarda di Milano, chi ha un sonno migliore, ha “sintomi migliori” anche all’interno del proprio disturbo mentale, meno severi ed invalidanti. La deprivazione del sonno altera le funzioni del cervello principalmente nella zona frontale che, insieme con il lobo parietale, coordina il nostro pensiero e regola le funzioni del Sé. Studi longitudinali sui decorsi clinici di pazienti con Disturbi del sonno dimostrano che nel soggetto con insonnia aumenta sensibilmente il rischio di sviluppare sintomatologia depressiva. E quando la depressione è già diagnosticata al momento della rilevazione della sintomatologia di disturbi del sonno, l’insonnia può agire da aggravante: la connessione sonno-depressione è nota da tempo.

Nel 90% dei casi di Depressione Maggiore vi sono alterazioni della struttura e della durata del sonno: da un punto di vista clinico possiamo avere difficoltà di addormentamento, con latenze eccessive o insonnia iniziale, risveglio precoce o insonnia terminale oppure un sonno interrotto da un eccessivo numero di risvegli non seguiti da rapido ri-addormentamento. Anche l’ipersonnia, cioè un aumentato bisogno di sonno e numero di ore totali di addormentamento, può essere parte del suddetto quadro clinico: ciò avviene circa nel 10% dei casi e soprattutto in alcune forme specifiche che vengono definite Depressioni Atipiche, proprio per la peculiarità di alcune manifestazioni sintomatologiche o nelle forme di Disturbo Affettivo Stagionale chiamate anche SAD o Winter-blues. Spesso in questi casi è anche presente l’iperfagia cioè un aumento dell’appetito, sintomo raro nelle altre forme di Disturbo Depressivo.

Anche i pazienti con Disturbi d’Ansia tendono ad avere difficoltà di addormentamento (insonnia iniziale) e presentano risvegli notturni: il 70% dei pazienti affetti da Attacchi di Panico ha insonnia con risvegli multipli. In questo caso è essenziale trattare il disturbo del sonno perché esso favorisce la comparsa dell’attacco di panico, sia diurno che notturno.

Nel Disturbo Ossessivo Compulsivo sono presenti disturbi del sonno caratterizzati da una riduzione del numero complessivo di ore di sonno, con un aumento dei risvegli notturni.
Il Disturbo Post Traumatico da Stress è caratterizzato da ritardo dell’addormentamento e soprattutto dalla presenza di sogni terrifici in cui il paziente rivive le esperienze traumatiche vissute o sogni che generano stati emotivi che il paziente ha vissuto durante il trauma.
Nella fase euforica del Disturbo Bipolare i pazienti mostrano una notevole riduzione delle ore di sonno senza influenza sulla qualità della veglia, riescono cioè a mantenere la vigilanza diurna valida nonostante la mancanza di sonno e non riferiscono stanchezza né sonnolenza diurna.
In questo contesto è sempre indispensabile trattare i disturbi del sonno poiché la mancanza di sonno rallenta la risoluzione dell’episodio stesso.

In sintesi, come possiamo notare, sono molteplici le connessioni tra disturbi emotivi e disregolazioni del sonno, tuttavia dobbiamo essere attenti e informati sull’igiene del sonno anche in assenza di un disturbo clinico conclamato poiché la letteratura scientifica e la clinica della Medicina del Sonno ci indicano che alcune persone riescono a cogliere le proprie difficoltà legate al sonno,poichè sono chiaramente avvertite dal paziente stesso (per esempio un ritardo nell’addormentamento o risveglio precoce, oppure numerosi risvegli notturni), in taluni altri casi invece viene avvertita solo l’eccessiva stanchezza diurna, la difficoltà mattutina al risveglio o lo stato di nervosismo durante la giornata, poiché la fase di sonno non presenta veri e propri risvegli, ma un non approfondimento del sonno verso la fase NREM 3 e REM, che permettono il riposoreale del paziente e lo sviluppo di tutte le funzioni metaboliche e rigenerative necessarie al nostro organismo durante la notte. In questi casi, senza un’accurata anamnesi, aumenta il rischio di non attribuire la giusta causa al proprio stato fisico ed emotivo.

Come abbiamo già sottolineato, in alcuni casi l’insonnia è uno dei primi segnali dello sviluppo di un disturbo psichiatrico e va identificato e trattato per tempo. In altri casi invece l’insonnia si mantiene a causa di cattive abitudini comportamentali (ad es. l’abuso di caffeina, l’utilizzo eccessivo di smatphone, tv, pc, tablet o il passare troppo tempo a letto) o cognitive (ad es. sforzarsi o preoccuparsi di non riuscire ad addormentarsi). In altri casi ancora l’insonnia stessa può essere la causa scatenante di un aumentato rischio di sviluppo di malattia neurodegenerativa in età avanzata.

Alcune stime suggeriscono che circa il 30-35% della popolazione mondiale manifesti qualche difficoltà nel sonno ma solamente il 10-15% lamenti difficoltà quotidiane correlate al disturbo del sonno. Nei più giovani il sintomo più frequente è la difficoltà nell’addormentamento, mentre i risvegli frequenti durante la notte sono più tipici della mezz’età e dei soggetti più anziani.

L’insonnia è più frequente nelle donne rispetto agli uomini, poiché il ritmo sonno-veglia è determinato anche dalla presenza di alcuni ormoni, quali la melatonina e la serotonina, che, in particolare nel genere femminile, risultano aumentati dopo l’insorgenza della menopausa in quanto subiscono una forte alterazione nelle quantità e nel rilascio durante la giornata.

L’insonnia può manifestarsi a qualsiasi età, anche se il primo episodio avviene in genere nella tarda adolescenza, prima età adulta.

Le cause che determinano lo sviluppo di un disturbo del sonno sono molteplici e in molti casi legati alla tipologia di insonnia che il paziente presenta.

Nonostante l’alta prevalenza dell’insonnia nella popolazione generale, le cause che determinano il disturbo del sonno non sono ancora completamente comprese (Morin, 2015). Si ritiene comunque che a favorire l’esordio e il mantenimento del disturbo sia un insieme di fattori  genetici, clinici, comportamentali, emotivi e cognitivi.

Fattori genetici: studi hanno dimostrato che circa il 30% dei soggetti affetti da insonnia ha un familiare che soffre dello stesso disturbo. C’è quindi una predisposizione genetica che rende alcuni individui più sensibili di altri a sviluppare l’insonnia.
Fattori clinici: presenza di comorbilità con ipertensione, aritmie cardiache, BPCO, apnee ostruttive del sonno, demenze, diabete, tutte cause che possono essere aggravate da un disturbo cronico e non curato del sonno.
Fattori comportamentali: ci sono alcune abitudini comportamentali che favoriscono l’insorgenza o il mantenimento dell’insonnia. Tra questi troviamo: passare molto tempo a letto, avere orari e ritmi di sonno/veglia irregolari, fare riposini durante il giorno, utilizzare videoterminali prima di addormentarsi (ad es. computer o smartphone).
Fattori emotivi: eventi di vita avversi e preoccupazioni possono causare e mantenere l’insonnia. In molti casi il disturbo esordisce durante un periodo di stress acuto e tende poi a cronicizzarsi.
Fattori cognitivi: alcune caratteristiche cognitive possono favorire l’insonnia, ad esempio la tendenza alla rimuginazione. La tendenza ad indugiare sulle preoccupazioni genera spesso infatti difficoltà nell’addormentamento. Tali difficoltà possono inoltre generare ulteriori preoccupazioni (ad es. essere preoccupati di non riuscire ad addormentarsi) che instaurano così un circolo vizioso cognitivo che peggiora il quadro dell’insonnia.

Lo studio delle cause di insonnia deve essere il primo passo verso la terapia.

Appurate le cause, escluse tutte le possibili causalità biologiche, il ripristino di una corretta igiene del sonno, cioè l’insieme delle abitudini e dei comportamenti quotidiani che favoriscono un buon sonno e quindi un adeguato rendimento diurno, è il primo passo terapeutico.
I soggetti che soffrono d’insonnia devono imparare a rispettare alcune regole fondamentali
, evitare alcuni cibi e bevande che hanno un forte potere eccitante, soprattutto nelle ore serali.

Dormire durante il giorno è sconsigliato, benchè aiuti a mantenere una vigilanza efficiente, influenza negativamente la capacità di addormentarsi e mantenere il sonno. L’abitudine a un breve pisolino, con orario di sveglia prefissato, non è necessariamente dannosa in chi non presenta disturbi del sonno. L’attività fisica disturba il sonno ed è quindi sconsigliata nelle ore serali, contraddicendo la diffusa idea che stancarsi fisicamente favorisca il sonno. È invece utile a questo scopo lo svolgimento di un’attività aerobica moderata nelle ore diurne. Non esagerare con i liquidi nei pasti serali poiché molti soggetti insonni se risvegliati dalla necessità di urinare faticheranno a riprendere il sonno. E’ importante creare condizioni esterne di calma, comodità e buio, in un ambiente silenzioso e con una temperatura non eccessiva. Importante anche mantenere una certa regolarità negli orari in cui ci si corica.

In conclusione sarà lo psicoterapeuta, che ha con il paziente il rapporto più continuativo e duraturo, con una maggiore disponibilità temporale durante le sedute, a dover fare una indagine su possibili disturbi del sonno, che potrebbero esser causa di altre patologie collegate, facendo un po’ da connettore anche tra la rete degli specialisti interpellati.

Il Terapeuta, dopo aver ravvisato un possibile disturbo del sonno, nel caso in cui abbia anche riscontrato all’anamnesi un aumentato rischio di fattori fisiognomici (sovrappeso, grandezza eccessiva del collo, difficoltà fisica evidente, presenza di dispnea, anamnesi patologica che coinvolge ipertensione, diabete, malattie dell’apparato cardio-respiratorio) sarebbe opportuno che facesse un invio del paziente ad uno specialista (neurologo, pneumologo, otorino, endocrinologo) per gli approfondimenti necessari: primo tra tutti l’esecuzione di polisonnografia notturna cardiorespiratoria, al fine di escludere o confermare la causa primaria del disturbo del sonno, che nella maggior parte dei casi sono le Apnee notturne. La verifica di tale diagnosi, dell’eventuale tipologia di apnea e l’impostazione terapeutica è fondamentale per curare il disturbo del sonno e anche per prevenire importanti conseguenze cardio-circolatorie, ed è fondamentale che venga eseguita da un medico specialista.

Consuelo Aringhieri

Psicoterapeuta

Ludovico Recupero

Tecnico di Neurofisiopatologia