Mese: <span>Febbraio 2024</span>

SCUSA una parola tanto semplice quanto difficile da pronunciare

 

Elton John citava “Sorry seems to be the hardest world / Scusa sembra la parola più dificile del mondo”. Ebbene sì, scusa è davvero una parola così tanto difficile da pronunciare. Ma come mai è così difficile chiedere scusa?

Come essere umani ed esseri imperfetti, capita sovente di inciampare, di sbagliare sia con chi ci sta più a cuore che con chi non si conosce. Chiedere scusa, per quanto possa essere una parola così corta e semplice da pronunciare, è in realtà, per alcune persone, la più difficile e temuta. La difficoltà spesso risiede nell’ammettere di aver commesso un errore. Questo comporta in alcuni casi, ammettere di non essere infallibili e questa dura verità può suscitare un profondo senso di vergogna che si cerca con tutte le proprie forze di nascondere. In altri casi invece, comporta ammettere che il proprio comportamento può aver ferito l’altro; entrare in contatto con il dolore dell’altro e sentirsene responsabili può diventare spaventoso da gestire dentro di sé. 

Chiedere scusa tuttavia, ha un profondo effetto riparativo. Quando le scuse sono sincere e autentiche, chi le riceve si sente compreso e confortato. La rabbia lascia il posto ad una sensazione di sollievo che permetterà di non radicarsi dentro di sé trasformandosi poi, in risentimento e rancore. Anche chi le porge sente nascere dentro di sé una sensazione di benessere e sollievo. È il potere della riconciliazione, della riparazione che segue ad una possibile frattura relazionale che si può inevitabilmente creare tra due o più persone.

Ci sono casi in cui è semplice porgere le scuse e altre in cui, è più difficile. Nel primo caso, ci troviamo di fronte a tutte quelle situazioni in cui nessuno è responsabile di qualcosa come per esempio, quando ci si scusa per essere arrivati in ritardo ad un appuntamento a causa di un incidente che ha bloccato il traffico. Ci sono situazioni invece, in cui è davvero difficile. Si tratta di tutte quelle volte che a pagare le conseguenze di una negligenza è una relazione significativamente importante; il non porgere le scuse può diventare il deterrente per lo sfilacciarsi di quel legame così speciale. Ci sono poi, situazioni in cui si procrastina quel fatidico momento perché non si ha il coraggio, non si vuole essere intrusivi o ancora, perché si teme quella che possa essere la reazione dell’altro perché, chiedere scusa significa anche far vedere all’altro la propria vulnerabilità. Così come, diventa difficile farlo, quando si è quasi “obbligati”, quando l’altro le pretende perché vuole che ci si assuma la responsabilità della sua sofferenza. Certo, chiedere scusa richiede anche il compito gravoso non solo di gestire la propria vulnerabilità ma di dover gestire quello che la rabbia e dolore dell’altro possono suscitare dentro di sé.

Ad ogni modo, sta di fatto che il bisogno di scuse e di riparazione resta una prerogativa tipicamente umana. Cerchiamo giustizia e riparazione per i torti subiti. A volte questi torti siamo noi a riceverli, altre volte siamo noi a causarli. Di sicuro, è rassicurante sapere che nella maggior parte dei casi, abbiamo la possibilità di rimediare o perlomeno di provarci perché non è mai troppo tardi.

Vediamo ora cinque aspetti da tener a mente quando dobbiamo chiedere scusa.

 

  1. La consapevolezza del “ma” e del “se”

I “ma” e i “se” sono degli intrusi che spesso susseguono rapidamente le scuse. Introdurre questi piccoli avverbi può minare l’autenticità e la sincerità dell’offerta di pace che si sta porgendo in quanto, rappresentano un tentativo di giustificare le proprie azioni o di mostrarsi accondiscendenti verso la persona che si è sentita ferita. 

Non serve aggiungere molto ad una parola così semplice quanto complessa come “Scusa”. È il primo passo per la riparazione, successivamente si possono creare ulteriori situazioni in cui spiegare le ragioni del proprio comportamento all’interno di un clima più disteso.

 

  1. “Mi dispiace che tu l’abbia presa così”

“Mi dispiace che tu l’abbia presa così” è una frase molto comune che appartiene alla categoria delle pseudo-scuse. In questo caso, quello che avviene è che ci si focalizza non tanto sulle proprie azioni quanto sulla risposta dell’altro, rischiando così di non assumersi la propria responsabilità in merito all’accaduto.

 

3.Le scuse mistificanti

A volte capita che ci si possa ritrovare in situazioni in cui venga chiesto di assumersi la responsabilità per le reazioni dell’altro. “Chiedi scusa a tuo fratello per avergli fatto venire mal di testa con la tua musica assordante”.; si tratta di un chiaro esempio di scuse mistificanti. Maggiore saranno ansia e sensi di colpa, maggiore sarà la tendenza ad assecondare questo tipo di scuse.

 

  1. “Perdonami – e subito!”

Alcune persone sono convinte che ricevere delle scuse sia l’unica e solo strada percorribile per il perdono. Ritenere di dover essere subito perdonati per aver leso l’altro corrisponde in realtà, ad un bisogno personale di rassicurazione per alleviare il proprio dolore e senso di colpa.

Quando le scuse sono considerate una merce di scambio, per esempio con il perdono, il loro reale scopo riparatore rischia di far sentire l’altro nuovamente ferito e non rispettato in quelli che possono essere i suoi tempi per gestire eventuali emozioni come rabbia e tristezza.

Le scuse spesso hanno bisogno di tempo e spazio per arrivare a destinazione.

 

  1. Le scuse intrusive

A volte, può capitare che le scuse che arrivano frettolosamente fanno sentire nuovamente non rispettati e feriti. Seguire l’impulso di entrare in contatto il prima possibile con chi è stato ferito, per cercare di rimediare ai propri errori e attenuare i propri sensi di colpa, può essere percepito come intrusivo e poco attento allo stato emotivo dell’altro.

Ricordiamoci che lo scopo delle scuse è alleviare la sofferenza che le nostre azioni o parole hanno suscitato nell’altro e non alimentare il disagio.

 

Dott.ssa Antonia Di Pierro

Psicologa – Psicoterapeuta

 

Bibliografia e sitografia

Harriet Lerner (2018) “Scusa. Il magico potere di ammettere i propri sbagli”. Feltrinelli

Winch Guy (2021) “We all know people who just can’t apologize – here’s why” ed.ted.com

 

SINDROME DEL NIDO VUOTO. Riscoprirsi come individui e coppia

 


L’uscita dei figli da casa, spesso nel ciclo di vita di una famiglia rappresenta un momento di paure e difficoltà, è una fase evolutiva in cui il nucleo originario diventa un trampolino di lancio per i figli e allo stesso tempo dà alla coppia la possibilità di reinvestire nel loro progetto di vita insieme.
E se è vero che in Italia oggi l’uscita da casa è sempre più spesso rimandata dai giovani adulti a causa di condizioni di lavoro precarie che non portano immediatamente a rivendicare l’indipendenza, allora è anche vero che quando finalmente arriverà questa indipendenza, potrà risultare un momento di crisi per gli stessi genitori: sembra che dopo averli spronati, non siano così
disposti a lasciarli andare.
Ogni famiglia si sviluppa e si evolve continuamente. Per le famiglie con bambini, questo inizia con la formazione di una coppia, in seguito con la nascita e la crescita del bambino, continua con l’uscita di quest’ultimo dalla casa di origine e in un’età più matura termina con il ritorno della coppia. Pertanto,la necessità d’indipendenza, che incoraggia i giovani adulti a lasciare gradualmente
la famiglia d’origine, rappresenta uno stadio fisiologico familiare.
La famiglia è, infatti, un trampolino naturale per il ragazzo verso il mondo esterno. Ma anche se questa è una fase perfettamente normale nel ciclo di vita di ogni unità familiare, alcuni genitori lottano più di altri per separarsi dai loro figli, e il “nido vuoto” non è un problema.
Quella che viene comunemente chiamata sindrome del nido vuoto può riguardare sia le mamma e che i papà, ma sembra che siano più predisposte le donne a trovarsi in questa spiacevole situazione presentando sentimenti di tristezza e solitudine, accompagnati da una sensazione di vuoto e perdita di significato. A volte possono verificarsi difficoltà di concentrazione, stanchezza, fatica e una sensazione di preoccupazione eccessiva e diffusa.
Per meglio prevenire e affrontare questo momento di transizione, è importante guardarlo da una diversa prospettiva, comprese le dimensioni individuali, le relazioni coniugali e la genitorialità. Le persone più vulnerabili rispetto alla sindrome del nido vuoto, sono persone che si sono identificate
principalmente nel loro ruolo di genitori nel corso degli anni e vivendo per la maggior parte secondo i bisogni della loro prole e non riconoscendo il proprio bisogno di uno spazio individuale.
Questo non significa certamente interruzione dei rapporti familiari, ma la loro riorganizzazione con un ruolo più paritario mantendo i genitori sempre come punto di riferimento con la possibilità di
sperimentarsi e responsabilizzaresi. L’allontanamento da casa produce un vuoto che, nei casi più gravi, può portare a una perdita di significato nella vita e assumere il significato di lutto reale.

Questa condizione è caratterizzata da reazioni disadattive che si estendono nel tempo e si traducono in alcune costellazioni sintomatiche che affliggono i genitori.
I sintomi più frequenti associati alla sindrome del nido vuoto sono tristezza, ansia, senso di colpa, rabbia,irritabilità,solitudine,che possono causare gravi psicopatologie in termini di depressione maggiore, disturbi d’ansia e,in rari casi, scompenso psicotico.
È importante chiarire che non tutte le coppie sviluppano sintomi negativi della sindrome del nido vuoto. Alcuni studi hanno anche rilevato la presenza di emozioni positive associate ad un aumento dei livelli di intimità, soddisfazione coniugale e libertà. Il fattore protettivo per lo sviluppo della sindrome del nido vuoto è la capacità di svolgere un ruolo diverso.Alcuni studi hanno evidenziato
che le donne che,infatti,costruiscono la propria identità principalmente nel ruolo della madre e dedicano tuttala loro esistenza alla cura del figlio tendono a sviluppare la sindrome perché a seguito del distacco sperimentano una crisi d’identità causata da una mancanza di capacità di adattarsi al nuovo ruolo.
Oltre a questo, è utile anche rinvigorire il rapporto con il proprio partner, che è un punto di riferimento immutabile, individuando nuovi momenti di intimità e condivisione. Inoltre, è necessario cambiareil rapporto con il figlio, riconoscendolo come adulto, costruendo legami più maturi, cos’ come concordare dei confini che renderanno la relazione stabile e funzionale.
Questo potrebbe essere il momento per riprendere possesso della propria dimensione, prendendosi più cura di se stesso e dare voce ai propri desideri. Rivolgere l’attenzione a sé stessi che in precedenza era dedicata maggiormente ai propri figli, magari sentendo vecchi amici o riscomprendo e scoprendo nuovi hobby e passioni.
I partner, che da tempo si sono riconosciuti quasi esclusivamente come genitori, notano che in questa fase è importante ristabilire la dimensione della coppia.
Dopo la prima destabilizzazione, sarà bello riuscire a reinvestire energie emotive e fisiche nella relazione stessa: creare nuovi interessi, dedicarsi ad attività spesso riservate ai figli, poter viaggiare, magari iscriversi a corsi di danza, sviluppare relazioni amichevoli, dedicarsi all’intimità. Pensare di nuovo insieme, in modo che possa riscoprire la coppia, fare progetti, pensarsi ancora insieme e
divertirsi come quando non c’era la responsabilità dei figli. E’ importante saper ridefinire il rapporto tra genitori e figli,”rinnovandolo”ad una nuova fase della vita, pur potendo riconoscere ed accettare l’autonomia dei propri figli e le loro scelte, magari non sempre pienamente condivise ma percepirsi con legati ma con la possibilità di entrare e uscire con la propria individualità.
Dott. Mirco Carbonetti
Psicologo – Psicoterapeuta

SINDROME DELL’IMPOSTORE Quando accettare il proprio valore personale diventa impossibile

La sindrome dell’impostore è stata teorizzata per la prima volta negli anni ’70 dalle psicologhe Pauline Clance e Suzanne Imes. Alcuni studi rilevano che il 70% della popolazione, sia maschile sia femminile, almeno una volta nella vita ha sperimentato questa condizione e si pensa che addirittura Albert Einstein ne soffrisse.

E’ importante rilevare che, anche se le psicologhe hanno attribuito il nome “sindrome” a questo fenomeno, non si tratta di una malattia e, di conseguenza, non lo troviamo tra le patologie inserite nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM).

Ma se non è una malattia, cos’è la sindrome dell’impostore? Si tratta di un fenomeno psicologico a causa del quale il soggetto non riesce ad attribuirsi il merito dei propri successi. Potrebbe dunque pensare di aver ottenuto un determinato traguardo, come per esempio il superamento di un esame universitario o una promozione sul lavoro, grazie alla fortuna (“le domande che mi hanno fatto erano facili!”) o all’aver ingannato gli altri (“il mio capo crede che sia competente, ma presto scoprirà che non è così!”).

La condizione di chi soffre della sindrome dell’impostore non necessariamente è legata alla psicopatologia, dunque non è detto che chi ne è vittima sia affetto, ad esempio, da ansia o depressione. Piuttosto tale fenomeno è legato ad una combinazione di condizioni ambientali e caratteristiche personali.

Tra le cause possiamo trovare:

Essere cresciuto in un contesto familiare con una o più persone che hanno ottenuto successo o che si sono sempre distinte;
Essere particolarmente sensibili;
Aver ricevuto in famiglia sempre e solo complimenti, anche quando i risultati ottenuti non erano eccellenti;
Avere (o aver avuto) poche possibilità di esprimere liberamente le proprie emozioni;
Appartenere ad una minoranza oggetto di discriminazione sociale;
Affrontare nuove sfide (es. nuovo ambiente di lavoro).

La sindrome dell’impostore è strettamente legata all’autostima, al valore personale e all’idea che abbiamo di noi stessi e dei traguardi che immaginiamo di dover raggiungere per essere “accettabili” al livello sociale. Non a caso, è una condizione che spesso colpisce persone che ricoprono cariche importanti. Un aspetto che spesso non viene considerato è quello delle relazioni sociali. Infatti la sindrome dell’impostore non riguarda solo le capacità lavorative o accademiche, ma spesso colpisce anche l’ambito relazionale. Una persona potrebbe pensare di risultare simpatica o interessante solo perché gli altri non la conoscono abbastanza, e non si sono ancora accorti di quanto riesca a fingere di essere ciò che non è.

Essere colpiti dalla sindrome dell’impostore genera sofferenza e insicurezza e spesso dà origine ad una serie di pensieri negativi su di sé. Eccone alcuni esempi:

Sentirsi inadeguati rispetto al proprio ruolo professionale o sociale;
Convinzione di ingannare le persone rispetto al proprio valore;
Sentirsi in colpa per i traguardi raggiunti e pensare di non meritarli;
Paura di esporsi e di essere giudicati;
Paura di essere smascherati e di essere considerati degli impostori;
Accettare con difficoltà elogi e complimenti;
Essere convinti che i propri successi derivino unicamente dalla fortuna.

Ma quali sono i fattori che contribuiscono al mantenimento della sindrome dell’impostore? Ne sono stati rilevati principalmente due: il perfezionismo e la bassa autostima.

Il perfezionismo consiste nella consuetudine di pretendere da se stessi dei risultati di livello superiore a quelli richiesti dalla situazione. Questo porta il soggetto a diventare ipercritico rispetto alle proprie prestazioni (sociali, lavorative, accademiche, ecc.), portandolo a porre a se stesso standard sempre più elevati e spesso irraggiungibili. Qualunque risultato ottenuto ritenuto inferiore all’obiettivo preposto viene percepito come insoddisfacente e come diretta conseguenza dello scarso valore della persona. Il perfezionismo dà dunque origine ad un circolo vizioso, da cui diventa spesso difficile uscire. Ogni risultato “non perfetto” sarà considerato dal soggetto come la conferma di essere incompetente e, nel caso della sindrome dell’impostore, confermerà a convinzione di aver raggiunto traguardi e riconoscimenti di cui in realtà non è meritevole.

La bassa autostima è strettamente correlata al perfezionismo. Chi ne soffre ha la costante sensazione di essere inadeguato e di non valere abbastanza. Riconosce a se stesso uno scarso valore personale ed è afflitto dalla paura di sbagliare in qualunque situazione. Spesso chi ha bassa autostima è convinto di non poter essere amato e apprezzato per ciò che è. Il perfezionismo e l’impossibilità di raggiungere risultati impensabili vanno a riconfermare la scarsa percezione che la persona ha di sé.

Come superare la sindrome dell’impostore? Questo implica certamente un lavoro su se stessi, in particolare se questa è una condizione frequente o addirittura cronica. Per far fronte alla sindrome dell’impostore è importante imparare ad avere uno sguardo più oggettivo su se stessi, ad apprezzare i traguardi raggiunti e a fare i conti con i propri limiti: in poche parole bisogna imparare ad apprezzarsi e ad amarsi per ciò che si è. Porsi degli obiettivi raggiungibili e apprezzare i risultati ottenuti, imparare ad accettare i complimenti, accogliere con gioia i riconoscimenti, lasciando da parte l’ipercritica, è ciò che può aiutare a vivere al meglio la vita lavorativa e sociale.

A volte però sapere cosa dovremmo fare per stare meglio non è sufficiente a cambiare le cose. Fare ricorso alla psicoterapia potrebbe aiutare a uscire dalla dolorosa sensazione di essere degli impostori e imparare ad accettarsi per ciò che si è.

Dott.ssa Rossella Totaro

Psicologa e Psicoterapeuta

STRESS, ANSIA E CONCENTRAZIONE: SAI CHE I GIOCHI SENSORIALI POSSONO AIUTARTI?

Hai mai avuto bisogno di calmarti manipolando un oggetto, come una pallina antistress o un pop it? Gli stimming toys, ormai diffusi tra adulti e bambini, non sono semplicemente giochi, ma veri alleati per il benessere emotivo e sensoriale. Questi strumenti si stanno facendo strada anche nella psicoterapia, dimostrandosi utili in situazioni di stress, ansia e difficoltà di concentrazione. Ma cosa sono esattamente e perché funzionano così bene?

Cosa sono gli Stimming Toys?

Gli stimming toys sono dispositivi progettati per stimolare i sensi attraverso il movimento, il tatto o il suono. Tra i più noti troviamo:

fidget spinner, pop it e cubi antistress,
palline sensoriali, slime o pasta modellabile,
oggetti con texture particolari, come tappetini tattili o tessuti.

Il termine “stimming” deriva da “self-stimulatory behavior” (comportamento auto-stimolatorio) ed è stato originariamente associato all’autismo. Oggi, il loro utilizzo si è esteso anche a persone neurotipiche per affrontare momenti di stress, ansia o difficoltà di concentrazione.

Perché funzionano?

Gli stimming toys aiutano a:

1. Ridurre stress e ansia, offrendo uno sfogo fisico per l’energia nervosa.
2. Migliorare la concentrazione, mantenendo l’attenzione su uno stimolo leggero e costante.
3. Favorire il grounding (ancoraggio al presente), aiutando a rimanere nel “qui e ora” attraverso stimoli concreti e sensoriali.

Ma cosa rende questi strumenti così efficaci? La loro azione si basa su meccanismi neurologici profondi che influenzano il nostro stato emotivo.

I Meccanismi Neurologici
1. Attivazione del Sistema Somatosensoriale:
La manipolazione di oggetti tattili stimola il sistema somatosensoriale, che aiuta il cervello a rilasciare serotonina e dopamina, neurotrasmettitori legati al benessere. Questo tipo di stimolazione riduce l’attivazione del sistema nervoso simpatico (responsabile della risposta “attacco o fuga”) e promuove il rilassamento.
2. Grounding sensoriale:
Stimoli concreti e prevedibili, come la sensazione di pressione o movimento, ancorano la mente al presente. Questo processo coinvolge il talamo, che filtra le informazioni sensoriali, distogliendo l’attenzione da pensieri intrusivi o stati dissociativi.
3. Regolazione del Sistema Limbico:
Gli stimoli ripetitivi degli stimming toys riducono l’attività dell’amigdala, il centro delle emozioni, spesso iperattiva in stati di stress, ansia o emozioni intense come rabbia e frustrazione. Questo effetto calmante può aiutare a modulare anche impulsi legati a comportamenti disfunzionali, come la fame emotiva. L’ancoraggio al presente, inoltre, stimola l’ippocampo, favorendo un migliore equilibrio cognitivo ed emotivo, contribuendo a gestire sensazioni di tristezza o sopraffazione.
4. Stimolazione del Cervelletto e del Sistema Vestibolare:
Movimenti ritmici o compressivi attivano il cervelletto e il sistema vestibolare, migliorando il senso di equilibrio interno ed esterno e favorendo una sensazione di calma e stabilità.
5. Attivazione dei Circuiti Dopaminergici:
Gli stimming toys attivano i circuiti della dopamina, offrendo una gratificazione immediata che migliora l’umore e aumenta il senso di controllo.
6. Modulazione del Nervo Vago:
Attraverso la stimolazione tattile, gli stimming toys agiscono sul nervo vago, promuovendo rilassamento, sicurezza e un ritmo respiratorio regolare.
Utilizzo in Psicoterapia

Gli stimming toys possono essere integrati in diversi modi nel setting terapeutico, ad esempio come:

Strumento di autoregolazione: durante una seduta, un paziente in preda ad una forte emozione come ansia, agitazione, rabbia, tristezza ecc. può manipolare un oggetto per calmarsi e sentirsi più a proprio agio.
Promozione del grounding: in momenti di intensa attivazione emotiva, toccare o manipolare un oggetto può aiutare il paziente a rientrare in contatto con il presente.
Facilitazione del dialogo: spesso, il semplice gesto di manipolare un oggetto durante una conversazione può abbassare le difese e favorire un dialogo più aperto e spontaneo.
Per chi sono indicati?
Adulti e bambini con difficoltà di regolazione emotiva: persone con ansia, ADHD, o difficoltà di gestione dello stress possono trovare grande beneficio.
Persone in terapia per trauma: gli stimming toys possono aiutare a gestire flashback o stati di dissociazione.
Chiunque cerchi uno strumento pratico per rilassarsi: gli stimming toys non hanno controindicazioni e sono facilmente accessibili!

In conclusione, gli stimming toys non sono solo giochi: sono strumenti semplici ma potenti per migliorare la qualità della vita, aiutandoci a gestire momenti di difficoltà e a riconnetterci con il presente. Esplorarli significa scoprire un nuovo modo di prendersi cura di sé, trovando il proprio equilibrio con un gesto tanto piccolo quanto efficace.

Dott.ssa Valeria Lussiana

Psicologa Psicoterapeuta

Bibliografia
1. Brand, B. L., Schielke, H. J., & Lanius, R. A. (2022). Finding Solid Ground: Overcoming Obstacles in Trauma Treatment. Oxford University Press.
2. Schaaf, R. C., & Davies, P. L. (2010). Evolution of the Sensory Integration Frame of Reference. American Journal of Occupational Therapy, 64(3), 363-367.
3. Porges, S. W. (2011). The Polyvagal Theory: Neurophysiological Foundations of Emotions, Attachment, Communication, and Self-regulation. W.W. Norton & Company.
4. Cozolino, L. (2014). The Neuroscience of Human Relationships: Attachment and the Developing Social Brain. W.W. Norton & Company.
5. Siegel, D. J. (2012). The Developing Mind: How Relationships and the Brain Interact to Shape Who We Are. Guilford Press.