All’origine del linguaggio: il pettegolezzo
Un bambino impara in media 10 parole ogni giorno, l’equivalente di una nuova parola ogni 90 minuti della sua vita considerando le sole ore di veglia, raggiungendo a 18 anni un vocabolario di circa 60.000 parole.
Questa è un’impresa straordinaria che nessun altro animale sa compiere. Neppure le scimmie, benché siano i nostri parenti più stretti e quelli con cui condividiamo gran parte del nostro Dna. Come è dunque possibile che noi, discendenti dalle scimmie, abbiamo questo straordinario potere che esse non hanno?
Secondo alcune teorie, la soluzione di questo enigma sta nel modo in cui usiamo la nostra capacità di comunicare: sembra che la domanda più giusta per scoprire come si sia sviluppato il linguaggio sia chiedersi per cosa lo usiamo. Per rispondere dobbiamo considerare che siamo esseri sociali e il nostro mondo, non meno di quello delle scimmie, è tutto racchiuso nella vita sociale quotidiana.
La prossima volta che andate in un bar, se ascoltate per un istante le persone che vi sono vicine, scoprirete che la loro conversazione riguarda per 2/3 argomenti come chi fa cosa, con chi la fa, se sia opportuno o meno, ecc. Ma quand’anche si ascoltassero conversazioni nelle sale di ritrovo dell’università o di società multinazionali, ossia al centro stesso della nostra vita intellettuale e commerciale, la situazione non sarebbe affatto diversa.
Consideriamo anche il mondo della carta stampata: fra tutti i tipi di libri che si pubblicano ogni anno è la narrativa a prevalere come volume di vendita e ai primi posti delle vendite non ci sono i romanzi degli scrittori migliori bensì i romanzi Rosa.
Infine, anche nei quotidiani, la maggior parte delle colonne di testo (più del 70%) è dedicato ad articoli di interesse umano, articoli il cui unico scopo sembra essere quello di permettere al lettore di diventare una sorta di voyeur della vita intima di altri individui.
La nostra capacità linguistica tanto celebrata pare, quindi, che venga usata principalmente per scambiarci informazioni su questioni sociali; pare che siamo interessati soprattutto a parlare gli uni degli altri.
Persino la struttura della nostra mente sembra rafforzare questa impressione.
Il linguaggio è stato spesso considerato un epifenomeno, cioè qualcosa che è apparso come prodotto secondario di altri processi biologici, in particolare come conseguenza delle dimensioni eccezionalmente grandi del nostro cervello che hanno consentito l’insorgenza di questa abilità, e non si è cercata altra spiegazione.
L’ipotesi che Dunbar propone nel suo libro “Dalla nascita del linguaggio alla Babele delle lingue” deriva, invece, dall’idea che vi sia un’origine più complessa e, per capirla, dobbiamo tornare a quando eravamo ancora scimmie piuttosto comuni.
Scimmie
Osservando i primati salta subito all’occhio che essi vivono in gruppi e lo fanno perché il gruppo è una forma di difesa contro i predatori. La socialità è in effetti al cuore stesso dell’esistenza dei primati ed è la loro principale strategia evoluzionistica perché gli permette di coalizzarsi contro il pericolo.
Dunbar, osservò che, curiosamente, al centro della vita dei primati c’è la pulizia sociale della pelle, comunemente detta “spulciarsi a vicenda”. Nella maggior parte delle scimmie più sociali, questo impegno porta via il 20% della giornata. Un tempo enorme se si pensa che l’animale deve anche pensare a procacciarsi il cibo. Quindi perché sprecare così tanto tempo?
Pare che la pulizia della pelle sia intimamente connessa alla disponibilità di un animale ad agire in seguito come alleato di un altro individuo. Fra le scimmie antropomorfe il tempo dedicato a questa operazione nel corso della giornata è grosso modo correlato con le dimensioni del gruppo. Questo fatto ha un senso ben preciso: se la pulizia sociale della pelle è il collante che assicura la salvezza delle alleanze, quanto più tempo si dedica alla cura del proprio alleato tanto più efficace sarà l’alleanza. E quanto più grande diventa il gruppo, tanto più ha senso investire più tempo a coltivare i propri alleati.
Ma c’è un secondo aspetto. I biologi sottolineano che qualsiasi specie altamente sociale è soggetta a un rischio considerevole di sfruttamento da parte di imbroglioni: individui che riescono a ottenere un beneficio a tue spese promettendo di ricambiare in futuro, cosa che però non faranno mai. E’ stato dimostrato matematicamente che lo “scrocco” diventa una strategia tanto più efficace quanto più crescono le dimensioni dei gruppi: in gruppi grandi e dispersi l’imbroglione può sempre anticipare di un passo la scoperta delle sue malefatte e il problema è che le scimmie non possono avvertire i compagni dell’inganno.
La loro comunicazione, infatti, sembra esser limitata alla capacità di associare dei suoni a dei predatori per dare l’allarme.
Alla luce di tutto ciò, si può dire che le scimmie abbiano al massimo posato un piede sulla scala del linguaggio. Com’è possibile quindi che i nostri antenati abbiano invece compiuto un balzo in avanti? Per capirlo, dobbiamo dare un’occhiata alla struttura del nostro cervello.
Umani
Il cervello dei mammiferi risulta composto da tre sezioni principali: il cervello primitivo o rettiliano, il cervello medio e altre aree subcorticali e infine la corteccia, lo strato esterno, che è praticamente esclusivo dei mammiferi. All’interno di questa architettura generale, però, il cervello dei primati ha un carattere insolito: la neocorteccia, che potremmo definire la parte pensante del cervello, la regione in cui ha luogo il pensiero cosciente.
Alla fine degli anni ’90, Dunbar, incontrò una correlazione, e anche notevolmente buona, fra la grandezza della neocorteccia e quella dei gruppi sociali. Cioè, egli scoprì che la neocorteccia cresce all’aumentare della complessità sociale perché aumenta all’aumentare della quantità di informazione che un animale sociale deve elaborare.
Sembra quindi che l’evoluzione avesse necessità di assicurare la coesione di grandi gruppi e spinse quindi per la selezione di un encefalo più grande.
Se questo è vero, dovremmo trovare una relazione tra la grandezza della neocorteccia e quella dei gruppi sociali. Cioè, se le scimmie con la loro neocorteccia sono in grado di tenere a bada un gruppo di 55 individui circa (la grandezza media dei gruppi di primati), la misura della neocorteccia negli umani dovrebbe, mantenendo il rapporto, indicarci qual è il numero massimo di persone che possiamo gestire in un gruppo.
Con i dovuti calcoli troviamo che per gli esseri umani si potrebbe prevedere una grandezza massima dei gruppi di circa 150 individui.
Cercando tra i vari tipi di gruppi umani, i clan risultano essere i maggiori fra i raggruppamenti in cui ognuno conosce non solo l’identità di tutti gli altri ma anche in che modo ognuno è imparentato con gli altri. E risulta, in effetti, che i clan si attestino sulle 150 persone.
Questo e altri risultati della ricerca di Dunbar, considerati globalmente, suggeriscono che le società umane contengono, sepolto in sé, un raggruppamento naturale di circa 150 persone. Questi gruppi non hanno una funzione specifica ma sono conseguenza del fatto che il cervello umano non può sostenere in ogni tempo dato più di un certo numero di relazioni di una data intensità.
A questo punto però i nostri antenati hanno dovuto affrontare un problema.
Se gli esseri umani usassero la pulizia vicendevole della pelle come unico mezzo per rinforzare i loro legami sociali, come fanno altri primati, secondo l’equazione che si usa per le scimmie, dovrebbero dedicare a questa attività il 40% circa del loro tempo. Ma nessuna specie che debba procurarsi il cibo nel mondo reale potrebbe sostenere tale attività per per più del 30% del tempo o sarebbe condannata alla morte per fame.
Pertanto, quando la grandezza dei gruppi cominciò a superare i livelli critici per assicurare la coesione sociale con la sola pulizia della pelle, cioè con la comparsa dei Sapiens 250.000 anni fa, si ebbe la spinta necessaria al passaggio definitivo al linguaggio.
A questo punto è possibile che il linguaggio si sia evoluto per permettere di tenere insieme gruppi maggiori di quelli sostenibili nei primati con la sola pulizia della pelle.
Il linguaggio ha, infatti, due caratteri chiave che gli permetterebbero di funzionare in questo modo.
Uno è la possibilità di parlare nello stesso tempo a varie persone. Se la conversazione assolve la stessa funzione della pulizia sociale, gli esseri umani moderni vengono ad avere la possibilità di praticarla con varie persone simultaneamente risparmiando tempo.
Un secondo carattere è che esso ci permette di scambiarci informazioni su altre persone, rendendo quindi molto più veloce il riconoscimento di come si comportano.
Per le scimmie il conseguimento di tutte queste informazioni dipende dall’osservazione diretta: io potrei non sapere mai che tu sei inattendibile fino a quando non ti vedo in azione con un alleato, un’opportunità che potrebbe presentarsi molto di rado. Come umani, però, un conoscente comune potrebbe riferirmi quanto ha appreso per esperienza diretta sui tuoi comportamenti e mettermi quindi in guardia contro di te.
Il linguaggio, quindi, come dispositivo per assicurare la stabilità di grandi gruppi, ci aiuta a mantenere la coesione in vari modi diversi. Ci permette di essere al corrente di ciò che fanno i nostri amici e alleati, ci consente di scambiarci informazioni sugli imbroglioni. Una terza qualità è che il linguaggio ci fornisce uno strumento per influire su ciò che la gente pensa di noi, cioè gestire la reputazione e farci pubblicità.
Il linguaggio sembra quindi idealmente adatto sotto vari aspetti a svolgere in modo economico e molto efficiente il ruolo svolto in precedenza dalla pulizia sociale della pelle.
Secondo la concezione convenzionale, il linguaggio si sarebbe evoluto per indicarci le risorse sul territorio e permettere ai maschi di compiere con maggiore efficienza attività coordinate come la caccia. Questa è la concezione del linguaggio che si potrebbe condensare in una frase come: “Guarda i bisonti, là vicino al lago, andiamo a cacciare!”. L’ipotesi che Dunbar formulò alla soglia del 2000, invece, è che linguaggio si sia evoluto per permetterci di chiacchierare e, nel corso delle sue ricerche, egli trovò numerose osservazioni a sostegno dell’ipotesi che il linguaggio facilita la coesione dei gruppi sociali soprattutto permettendo lo scambio di informazioni socialmente rilevanti: i pettegolezzi.
Oggi
Quali implicazioni hanno queste scoperte sul modo in cui viviamo nelle società moderne?
Sarebbe esagerato dire che noi siamo menti dell’era spaziale racchiuse in corpi del Pleistocene, ma nel nostro comportamento persistono senza dubbio elementi che riflettono il nostro passato evoluzionistico. Possiamo trovarne delle tracce nella nostra passione per le serie tv, nell’invenzione di Tinder o di sistemi di recensione come TripAdvisor.
Se volete scoprire cosa ha a che fare tutto questo con lo sviluppo del linguaggio o approfondire i passaggi della sua evoluzione, trovate l’intervento completo della Dott.ssa Valeria Lussiana su questo argomento qui
https://www.facebook.com/associazioneeco/videos/vl.1981767201907652/1404313963080519/?type=1
Bibliografia
Dunbar R., (1998), Dalla nascita del linguaggio alla babele delle lingue, Longanesi, Milano
Harari Y.H, (2018), Sapens. Da animali a dei, Giunti, Firenze
Sigman M, (2017), La vita segreta della mente, Utet, Torino
de Waal F., La scimmia che siamo. Il passato e il futuro della natura umana, Riverhead Books, NY