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Qui di seguito trovate gli articoli che i nostri soci hanno pubblicato su diverse testate. Buona lettura.

NARRAZIONE DEL DISTURBO DELL’ATTENZIONE E DELL’IPERATTIVITA’: recensione di “UNA MENTE IN FRAMMENTI – Origini e cura del disturbo da deficit di attenzione” di Gabon Matè – Casa Editrice Astrolabio

Come pensa, sente, agisce una persona con disturbo da Deficit di attenzione e iperattività (ADHD)?
Gabol Maté delinea in “Una mente in frammenti” cosa accade nella mente di un ADHD prendendo a modello la sua esperienza e le citazioni dei suoi pazienti. L’autore offre al lettore una riflessione profonda su come si muove nel mondo e quali sono i vissuti di chi affronta questa diagnosi, quali i
correlati genetici e ambientali che portano all’esordio e sviluppo di questa neurodivergenza e infine come è essere uomini, donne, genitori, partner, amici, bambini o professionisti con ADHD.
Lo fa attraverso la voce di psichiatra ma anche di padre e di uomo con questa diagnosi mettendo in luce il substrato sociale che origina, sostiene e cronicizza il disturbo: come è soffrire di ADHD nella nostra società e in questo mondo accelerato e orientato alla performance?
Gabor Maté in “Una mente a frammenti” ci offre una visione chiara dei limiti e delle risorse di piccoli e adulti con ADHD oltre che proporre strategie di sostegno a genitori con figli ADHD coniugando la sua storia personale ad informazioni di carattere scientifico in un linguaggio semplice
e a tratti commovente.

Cos’è l’ADHD?

L’ADHD o Disturbo da Deficit di attenzione e iperattività (ADHD) è classificabile come un disturbo del neurosviluppo ed è generalmente diagnosticata durante l’infanzia. Ad oggi però, con la
maggiore diffusione di ricerche e informazioni sul tema emerge sempre più spesso nella popolazione adulta il bisogno di trovare uno sfondo a sintomi e ad una sofferenza spiegabile e comprensibile sotto il cappello di questa diagnosi.
L’ADHD è caratterizzata da una fatica in queste specifiche aree: attenzione, iperattività e impulsività.
– Attenzione: la mente di un ADHD saltella e svolazza come un uccello impazzito. Spesso la sensazione è quella di uno scollamento tra mente e corpo dove la mente è immersa in un mondo diverso, di fantasie e pensieri. Matè riporta la descrizione di un suo paziente che si identifica in una giraffa con la testa che si affaccia su un altro paesaggio, molto più alto e ricco di sfumature rispetto a quello vissuto dal corpo nel momento presente: questa metafora ben dettaglia la sua fatica nello stare nel mondo. La distraibilità e la mancanza di concentrazione si rivela in modo discontinuo. Non è raro osservare infatti nelle persone con ADHD un movimento di massima concentrazione connesso ad un alta motivazione o interesse tanto da escludere tutti gli stimoli circostanti e da
immergersi completamente nel compito (es. svolgere un attività con la tv accesa) e viceversa quando il compito non è attraente l’esperienza di un ADHD è quella di vagare e perdersi tra tutti gli stimoli interni ed esterni presenti. Ecco che questo spiega un rendimento discontinuo nei bambini ADHD e la difficoltà degli stessi ad essere compresi e accettati nella loro mancanza di
concentrazione come se fosse riferibile solo alla scarsa volontà e intenzionalità. Più che di distrazione nelle persone ADHD potremmo allora parlare di in-attenzione ovvero la difficoltà a concentrarsi su stimoli non ritenuti interessanti. Nella mente di un ADHD domina il caos, la distraibilità porta infatti a essere facilmente agganciati ad uno stimolo che a sua volta si affianca ad un altro e ad un altro ancora, rischiando di far perdere il focus iniziale. Quasi ogni ADHD racconta di entrare spesso nella stanza per prendere una cosa e una volta lì non sapere cosa lo ha spinto ad arrivarci, dimenticandosi quindi il motivo per cui era entrato. Le persone ADHD si propongono dei
piani o delle attività anche quotidiane e semplici (es. riordinare una camera) che in breve tempo sembrano fallire poiché si viene catturati continuamente da diversi riferimenti lasciando tutto incompiuto e perdendo l’imput iniziale. Un esempio potrebbe configurarsi così: mentre riordino la stanza, mi ricordo di fare la lavatrice e mi muovo in quella direzione, arrivo davanti alla lavatrice
scordandomi ciò che dovevo fare, vengo attratto da un’altra attività e così via con l’esito di non aver assolto al compito originario.
La confusione interna riflette quella esterna: sembra infatti mancare il “chip dell’ordine” scrive Maté, poiché l’individuo sembra sprovvisto di uno schema mentale necessario a comprendere il processo attraverso il quale si riordina. É come se fosse chiara la meta ma mancasse la mappa. Il soggetto ADHD riesce quindi ad immaginare l’obbiettivo ma non sa come arrivarci. Inoltre alla
distraibilità si coniuga, generando maggiore sofferenza, il bisogno delle persone ADHD di ricercare sempre esperienze di novità e stimolazione sensoriale nel tentativo di scappare dalla dolorosa sensazione di noia ricorrente. Questa caratteristica è accentuata da un ruolo importante giocato dalla dopamina, un neurotrasmettitore utile anche nella regolazione dell’umore, nella memoria e nella
gratificazione. Nei soggetti ADHD le ricerche scientifiche si muovono proprio nella direzione di esplorare carenti livelli di dopamina o difficoltà nella sua ricaptazione. Il meccanismo della disattenzione e dell’essere attratti da numerosi stimoli non si manifesta solo in attività pratiche ma
anche nella comunicazione. Il pensiero sembra andare sempre un po’ più in là rispetto al linguaggio con il rischio di saltare delle parole e rendere l’eloquio sconclusionato e illogico.
– Iperattività: può mostrarsi in un irrequietezza del corpo (es. alzarsi spesso), del linguaggio (es. incontinenza verbale ed eccessiva loquacità) o dei pensieri. Una persona con ADHD vive un disagio nel restare ferma fisicamente con il bisogno continuo di muoversi e giocherellare con oggetti. Nelle
conversazioni sono frequenti movimenti oculari di esplorazione dell’ambiente che possono essere percepiti dall’interlocutore come mancanza di interesse o infastidire nell’interazione. Mentre nei bambini è più facile notare iperattività corporea, negli adulti sono comuni sintomi di overthinking.
Questa sensazione è descritta come un rumore bianco o un brusio persistente dei pensieri che faticano ad essere colti o intercettati dalla persona stessa. La costante vivacità unita alla fatica a concentrarsi porta le persone con ADHD a non godere appieno del presente o avvertire la spiacevole impressione di non avere attimi di riposo e rilassatezza. C’è sempre qualcosa di importante che sembra sfuggire alla mente, la perpetua preoccupazione di star perdendo qualcosa che sembra inafferrabile a livello cognitivo. I pazienti con ADHD riferiscono di non riuscire a “prendersi neanche una pausa da se stessi”, di “essere stanchi”. Gabor Matè si descrive come un giocoliere in equilibrio precario impossibilitato ad interrompere la propria esibizione. L’agitazione perenne porta a conseguenti sensazioni di letargia, sconforto e sintomi
depressivi in risposta alla fatica data da un iperattività cognitiva o fisica e dal mettere continuamente in atto strategie compensative.
– Impulsività: può rivelarsi non solo nell’agire (es. acquisti impulsivi, alimentazione) ma anche nelle situazioni sociali (es. fatica a rispettare il proprio turno di parola, sovrapporsi della voce dell’altro). Le persone con ADHD il più delle volte agiscono mossi da una sensazione di urgenza con il bisogno di immediata soddisfazione dei propri desideri. Senza questa lotta contro il tempo o l’ottenimento di una ricompensa veloce è facile scivolare per una persona ADHD nell’inerzia e nella procrastinazione. Non è raro che questi pazienti si riducano all’ultimo momento nella consegna di un compito o di un attività programmata. A tal proposito le persone con ADHD sentono di avere moltissimi potenziali inespressi o competenze e qualità che faticano a valorizzare e a sviluppare nel tempo; questo si traduce in numerosi progetti mai realizzati o abbandonanti dopo un primo intenso entusiasmo per la novità che sottrae alla noia, la quale si configura come un’esperienza estremamente spiacevole e spaventosa per una persona con questa diagnosi. Nei bambini o adulti con ADHD è facile quindi notare una dispercezione dello scorrere del tempo. Il senso del tempo sembra essere quello di un infante: o è qualcosa che si riferisce all’istante e al momento immediatamente presente, o al contrario sembra infinito. Il futuro nella mente di un ADHD è come se non riuscisse ad essere tenuto in considerazione e ricordato. Le implicazioni e le conseguenze sembrano infatti non essere visibili e tutto è agito sull’impulso del momento presente.
I progetti a lungo termine vengono procrastinati fino a che non diventano a breve termine e quindi portati a compiutezza nell’affanno e nell’urgenza. Questo si correla emotivamente a sensazioni di ansia, sentirsi sopraffatti, ritardo cronico e sofferenza. Da una parte allora la persona ADHD non
riesce a vivere nel presente e a godersi il qui e ora, dall’altra tutto sembra sopraggiungere nell’immediatezza e anche se può sembrare paradossale è molto coerente con l’inafferrabilità del concetto di tempo, temporalità e di spazio che caratterizzano le persone con questa diagnosi.
Un esempio personale che riporta l’autore è proprio quello di ridursi all’ultimo nell’uscire di casa ogni mattina non prendendo in considerazione l’ipotesi che possano sopraggiungere imprevisti (es. sbrinare il vetro della macchina dal ghiaccio, che vi sia traffico lungo il tragitto, dimenticanza di
alcuni oggetti in casa) con la conseguenza di essere puntualmente in ritardo.

Come si sviluppa l’ADHD?

L’ADHD ha un eziopatogenesi multifattoriale: esiste una predisposizione genetica ed ereditaria ma è essenziale considerare anche il valore dell’ambiente e delle relazioni di attaccamento. In accordo con l’autore è bene tenere presente la vicendevole influenza di geni e ambiente escludendo così un
approccio riduzionistico allo sviluppo della patologia.
Per ciò che concerne basi biologiche ed ereditarie, si evidenzia un deficit della corteccia prefrontale destra che nell’organismo funziona da vigile per dirigere il traffico di pensieri, azioni e impulsi. Nel caso nelle persone con ADHD quest’ultima lavora in modo semi-dormiente causando soprattutto difficoltà nell’inibizione degli impulsi. Anche un incompleto sviluppo della corteccia orbitofrontale (OFC) sembra giocare un ruolo decisivo per alcune importanti funzioni che risultano deficitarie nelle persone con ADHD. Alterazioni dell’OFC possono avere effetti sulla regolazione degli stimoli interni ed esterni, sull’inibizione degli impulsi fisici ed emotivi, con conseguente difficoltà a
differenziarsi nel processo di indipendenza e maturità. Nello specifico, i centri inferiori del cervello sembrano essere implicati nel controllo degli impulsi e nel generare senso di urgenza tipico degli ADHD. L’OFC ha connessioni anche con il controllo dell’attenzione e con la capacità di localizzazione nello spazio o con regioni deposte all’orientamento e all’acquisizione di competenze
-spaziali. Nelle persone con ADHD non è raro notare una difficoltà in tali abilità: sono spesso disorientati e non riescono a riconoscere o seguire le indicazioni stradali. Le ricerche mostrano inoltre che l’ADHD si correla positivamente ad alcuni squilibri ormonali, rilascio di sostante chimiche o deficit nella crescita di circuiti neuronali che giocano un ruolo importante e possono influire ed essere influenzati da esperienze emotive. Tra le interazioni emotive che maggiormente hanno impatto sull’emergere della patologia è possibile riferirsi ai legami di attaccamento. A tal proposito la competenza di sintonizzazione della figura di attaccamento, il soddisfacimento per il
bambino rispetto ad un buon contatto emotivo genitoriale, il movimento materno ad offrirsi come base sicura al piccolo e la competenza a saper cogliere i suoi segnali e condividere l’esperienza emotiva si configura come un fattore protettivo anche rispetto all’insorgere del disturbo ADHD. Dal
punto di vista ambientale stress ed eventi familiari conflittuali o traumatici possono rivelarsi fattori di rischio per lo sviluppo di questo disturbo. Maté citando i suoi pazienti racconta storie di divorzio, abuso, depressione delle figure significative, violenza o alcolismo. Alle volte questi vissuti sono
rimossi proprio perché fonte di troppa sofferenza e rimangono inconsapevoli ai pazienti che arrivano per una diagnosi. Altre volte vengono minimizzati, ridimensionati e sdrammatizzati e anzi si nota nei pazienti il movimento opposto: quello di prendersi la colpa per i castighi e le punizioni ricevute o per le scelte di altri significativi.

 

ADHD, vissuti ed esperienze relazionali

La fragilità nelle tre aree (attenzione, iperattività e impulsività) porta con se difficoltà su un piano individuale ma soprattutto interpersonale. A livello sociale le persone con ADHD spesso si sentono aliene rispetto ai pari: le interazioni possono essere esperienze sgradevoli quando si avverte la
sensazione di essere annoiati quando non si è centrali nella conversazione e/o disinteressati al racconto dell’altro. È arduo per le persone con ADHD riuscire a tenere il filo della conversazione, saltellano da un argomento all’altro e spesso vengono etichettati come maleducati, arroganti e distanti proprio per aspetti logorroici e di esuberanza verbale o per il ritiro dalla conversazione al
fine di controllarsi e adeguarsi. Non è raro subire fin dalla prima infanzia esperienze di umiliazione o di rimprovero proprio per la fatica a contenersi e a regolare le proprie emozioni.
Bassa autostima e falso se sono rinforzati fin dall’infanzia: persone con ADHD assumono atteggiamenti autodenigratori e sperimentano sensi di colpa, vergogna e autocritica. Molti ADHD riferiscono che nessuno potrebbe essere più feroce e severo di se stesso con se stesso.
Comunemente c’è una tendenza al perfezionismo e reticenza a sperimentare impotenza e a mostrare fragilità. Per difesa viene ostentata un’immagine grandiosa di sé che stona da quella realmente percepita internamente o al contrario ci si presenta continuamente come mediocri, inetti e dipendenti. Pazienti con ADHD hanno bisogno di essere apprezzati e validati e basano la stima sul fare più che sull’essere, traendo soddisfazione solo da successi esterni e dal giudizio altrui. I bambini con ADHD spesso fanno i “pagliacci della classe” o sono considerati come inautentici ed eccessivi nelle loro manifestazioni sociali ed emotive e talvolta imprevedibili e altalenanti
nell’umore. Adulti e bambini con ADHD sperimentano spesso disregolazione emotiva e anche le reazioni possono apparire fuori controllo con conseguente rifiuto nelle esperienze relazionali e gruppali. I soggetti con ADHD sono inoltre percepiti come più immaturi rispetto ai coetanei per atteggiamenti e manifestazioni emozionali infantili (es. adulti con crisi di rabbia come fossero
bambini). Le crisi emotive e le modalità infantili sono definite da un fallimento dell’autoregolazione e dell’inibizione degli impulsi e si correlano comunque ad sviluppo incompleto di alcune vie neuronali che collegano le regioni della corteccia celebrale ad aree inferiori del cervello e ad un aspetto deficitario della corteccia prefrontale destra. Pensiamo alla competenza di
come un termostato che mantiene la temperatura interna costante a prescindere dalle variazioni esterne. Nelle persone ADHD deficit in quest’area determina una facile suscettibilità alle variazioni esterne anche minime che conducono a reagire in maniera automatica seppur senza intenzionalità.
Proprio per lo scarso controllo degli impulsi pazienti con ADHD risultano allo sguardo altrui puerili, incapaci di differenziarsi e di rendersi autonomi. Questo elemento diventa fonte di stress e di angosce profonde sperimentate dalle persone con ADHD e agisce sul senso di autostima e autoefficacia. A tal proposito le persone ADHD patiscono il timore dell’intimità: emerge un bisogno di vicinanza e al tempo stesso il terrore di essere allontanati. Da una parte c’è un disperato bisogno di accudimento e di legame, dall’altra si vive la paura di perdere se stessi nella relazione e il rischio di esserne fagocitati e sopraffatti o abbandonati. I “no” diventano nella mente ADHD un rigetto alla
propria persona più che a quella specifica richiesta o comportamento. Un ADHD fatica a cogliere la differenza tra un normale diniego e un atteggiamento repulsivo, proprio per la tendenza ad esagerare gli stimoli e di conseguenza anche le reazioni agli stessi. Nel processo di cura diventa
fondamentale ricercare, sotto gli impulsi superficiali e le scenate infantili, i bisogni autentici connessi all’autodeterminazione. L’accettazione di sé stessi è un passo determinante: diventa essenziale poter sperimentare di valere non per ciò che si fa, ma di valere a prescindere da quello che si sa fare. Sentire di essere amabili al di là delle aspettative e dell’assoluta disponibilità ad esaudire i bisogni altrui tanto da sopprimere i propri sentimenti. Infatti un ulteriore elemento di fatica relazionale si rivela nella difficoltà a percepire i confini interpersonali: i bambini con ADHD assumono spesso un atteggiamento di benevolenza e apertura eccessivi senza però l’abilità ad interpretare correttamente i segnali sociali e tendono a considerare le relazioni più intime di quello che sono. Le persone con ADHD proprio per una difficoltà a tenere il confine sono incapaci di dire no, rendendosi disponibili e servizievoli a discapito dei propri bisogni. L’individuo con ADHD è guidato da un fortissimo senso del dovere e da responsabilità auto-imposte, che fatica però a
sostenere e portare avanti, con conseguente sovraccarico emotivo. Questo continuo dire di sì a tutto emerge dal bisogno di sentirsi potenti e indispensabili e dalla richiesta inconscia di guadagnarsi merito, accettazione e riconoscimento. Il costo è una profonda sofferenza emotiva che viene
anestetizzata pur di fronteggiare lo stress ambientale. Inoltre così come per la distraibilità anche il senso di responsabilità e disponibilità è molto situazionale: l’autore si descrive come un professionista estremamente dedito al suo lavoro ma come un marito talvolta poco presente che non assolve con così tanto impegno a tutti i suoi doveri interni alle mura domestiche, lì dove si sente più al sicuro e non è mosso dall’urgenza di piacere o dalla paura del giudizio.

Bambini ADHD possono mostrarsi al mondo esterno come profondamente assennati con uno sforzo cognitivo enorme e a casa rivelarsi completamente diversi. Questa fatica a tenere il confine con l’altro emerge anche dal
punto di vista emotivo: lo psichiatra distingue la competenza empatica dall’immedesimazione emotiva propria dei soggetti con ADHD. Essere empatici infatti significa sentire ciò che accade all’altro emotivamente riuscendo a prenderne le distante e a mantenere il confine tra sé e la persona
che sta manifestando la propria emozione. Nel caso dei soggetti ADHD quello che accade è proprio un contagio emotivo e un’appropriazione dell’emozione annullando i confini interpersonali.
Così come per altre neurodivergenze anche nell’ADHD il fenomeno del masking ovvero mascheramento dei sintomi con l’obbiettivo di conformarsi è ricorrente e richiede un grande sforzo cognitivo ed emotivo “Ho trascorso tutta la mia vita facendo finta di essere normale” scrive Matè, citando un paziente. Vengono messe in atto massicce strategie di compensazione, nel tentativo di
assottigliare le differenze con i pari e di mostrarsi meno irrequieti e caotici. Persone con ADHD si uniformano ai bisogni e i desideri degli altri significativi, forzandosi anche a sperimentare emozioni che idealmente “dovrebbe essere sentite” e impegnandosi anche per anni in attività contrarie alla loro natura che rinforzano l’immagine interna fallimentare, di insuccesso e la bassa stima di sé (es. svolgere il lavoro di commercialista nonostante la fatica nei processi logici-matematici). Ecco che questo si associa a vuoto interiore e angosciante quando ci si approccia alla scoperta di se’.

Un altro importante elemento che caratterizza questa neurodivergenza è l’ipersensibilità emotiva e sensoriale. L’autore porta come esempio sua figlia con ADHD al leggero aumentare della voce lamentava al padre di star gridando o al suo leggero variare di tono si sentiva subito rimproverata.
Le persone con ADHD sembrano infatti essere molto ricettive agli stimoli sensoriali esterni (es. uditivi, visivi, tattili, olfattivi) e alle impressioni mentali, e possono reagire a stimoli ed emozioni stressanti ipo o iper attivandosi. Nel primo caso si nota sonnolenza o spegnimento delle energie, che
possono modificarsi repentinamente appena la fonte di stress viene a mancare. Sentirsi sottoposti a bombardamenti di stimoli sensoriali esterni in aggiunta ad un deficit nell’attenzione selettiva,comporta per le persone con ADHD un enorme fatica a vivere il momento presente tanto che la
“dissociazione” può subentrare come uno dei meccanismi di difesa più comuni. La dissociazione, ovvero la tendenza ad assentarsi mentalmente, non va qui intensa in termini di disturbo, ma come autoprotezione. In quest’ottica la dissociazione diventa un anestetico emotivo e si esprime in modo
sempre più massiccio quando si affrontano situazioni intense connesse ad impotenza e/o a sovraccarico, dalle quali persone con ADHD sembrano scollegarsi automaticamente.
Nel secondo caso lo stimolo esterno viene processato attraverso la via breve, ovvero tramite l’amigdala e il sistema limbico senza passare dalla corteccia prefrontale attivando reazioni di ansia e paura immediate ed impedendo la mentalizzazione dello stesso. In questo caso il soggetto sente di essere sotto sequestro emotivo ovvero la sensazione di essere catturati dall’emozione spiacevole immediata e sproporzionata con conseguente disregolazione. Le persone ADHD possono subire degli scompensi sensoriali in situazioni con stimoli eccessivi (es. folla o feste) o sono ipervigili rispetto ai cambiamenti emotivi dell’ambiente che registrano in modo molto raffinato. É come se
avessero della antenne recettive potenti rispetto al minimo variare dell’atmosfera emotiva ed è per questo che spesso vengono classificati come bambini dal temperamento difficile. Uno stimolo ritenuto insignificante per altri può dare origine ad una intensa reazione. Per i genitori comprendere
la loro ipersensibilità non è sempre facile e spesso viene associata ad atteggiamenti oppositivi nei loro confronti con la conseguenza che il figlio venga spesso descritto come irascibile e scontroso.
Matè parla allora di allergie emotive spiegando come la volontà non c’entri. È impossibile infatti chiedere ad una persona che soffre di un allergia di “smetterla di essere così allergico!” o “di limitare la propria reazione”. In accordo con l’autore possiamo perciò pensare alle persone con ADHD come persone dalla “pelle sottile”. Ecco che nel processo di cura diventa indispensabile porsi in ascolto in modo curioso e aperto a ciò che emerge, rinunciando a pretendere di sapere ciò che il bambino pensa o agisce. Non attribuire quindi un significato all’atteggiamento dell’altro (es. mio figlio mi sfida) ma chiedere e orientarsi con fiducia a partire dal dialogo. Elemento
fondamentale per il processo di cura è la presenza, la comprensione e l’accettazione autentica delle caratteristiche e la coltivazione di uno spazio sicuro. Spesso i genitori chiedono come aiutare i propri figli con diagnosi di ADHD.

Le strategie più efficaci sono quelle di vicinanza e sostegno: i genitori dovrebbero dimostrare di desiderare la compagnia del figlio autenticamente e non come senso del dovere, scegliere di coinvolgere il bambino e ricercare il contatto prima di un’esplicita richiesta o invito. E’ fondamentale per un genitore esplorare cosa c’è dietro ai comportamenti disfunzionali del figlio provando a non leggerli come atteggiamenti oppositivi ma alla luce di ansia,
vergogna o rabbia. Questo vale anche per l’adulto che può guardare a se stesso ponendosi degli interrogativi compassionevoli su ciò che gli accade e sul perché dei propri atteggiamenti, trasformando le feroci critiche in domande sul senso di sé. Non è da sottovalutare in questo processo l’importanza del dare e darsi tempo in quanto lavorare sull’urgenza per un ADHD andrebbe a colludere con il proprio funzionamento.
Il bambino con ADHD può vivere costantemente la sensazione di colpa e vergogna con il timore di essere isolato e umiliato. Ecco che il genitore più che contrastare l’atteggiamento auto-denigratorio, con il rischio di rafforzare il senso di inadeguatezza, può prestare attenzione a non alimentarlo e a
sospendere il giudizio. Sia in manifestazioni di critica che di lode il genitore dovrebbe limitarsi a considerare il comportamento piuttosto che complimentarsi o rimproverare la persona. Questo si traduce in un incremento autentico dell’ autostima reale diversa da quella acquisita, ovvero determinata dall’ esterno, che non concede la possibilità di interiorizzazione e accettazione. Il bambino ha bisogno di sentire che sarà accettato e amato per ciò che è, non per ciò che fa bene o male che sia. L’adulto ADHD invece, a tal proposito, può osservare il senso di colpa nelle vesti di guardiano riconoscendo e valorizzando i messaggi che offre e imparando a discriminarne e valutarne il senso, senza obbedirvi in modo cieco.

Obbiettivo finale può diventare tollerare l’ansia e il senso di colpa senza evitarlo, silenziarlo o farsene sopraffare. Riguardo la difficoltà di autoregolazione del bambino ADHD, è fondamentale creare intorno al piccolo un ambiente stabile e imparare a disinnescare reazioni a sua volta disregolate che favoriranno la co-costruzione di un’atmosfera negativa. I genitori devono prendere coscienza dell’interdipendenza tra la reattività del figlio e il loro umore proprio per un discorso di ipersensibilità sensoriale. E’ essenziale che i genitori lavorino su se stessi al fine di promuovere il processo di individuazione e differenziazione, prestando massima attenzione agli schemi di fusionalità emotiva e invischiamento, interrogandosi sulle proprie modalità di interazione con il bambino.
Spesso bambini con ADHD vengono descritti come oppositivi, testardi, viziati, insolenti, “prova ad ottenere sempre ciò che vuole con reazioni esagerate”: questo accade quando l’individuo non ha la possibilità di agire liberamente e autodeterminarsi ma solo di reagire e compiacere la volontà di bisogni e desideri genitoriali ai quali i bambini ADHD provano ad aderire senza successo.
Il dissenso arriva dalla paura di essere controllati e può manifestarsi con comportamenti di passività o pigrizia (es. “più gli si mette fretta a prepararsi la mattina più rallenta i movimenti, sembra che lo faccia di proposito”) o al contrario con reazioni fuori controllo (es. urla, pianti). In entrambi i casi
l’atteggiamento oppositivo arriva da insicurezze profonde che se comprese possono evitare al genitore di sentirsi sotto scacco emotivamente o manipolato dal bambino e sostenere una posizione di curiosità e ascolto dei bisogno e dei sentimenti del figlio. In assenza di un reale ascolto è possibile che si inneschi a livello familiare una lotta di potere perché l’opposizione viene percepita
in termini di affronto all’autorità. In conclusione anche la visione dicotomica del mondo, di sé e degli altri e la difficoltà di integrazione dei vissuti deriva dall’assunzione di un immagine di sé come fallimentare. È comune che bambini e adulti con ADHD non riescano a cucire insieme le esperienze, che sembrano rimanere scomposte e frammentate (es. non posso essere sia felice che triste, non riesco a tenere insieme pregi e difetti, parti di luce e parti di ombra). Questo funzionamento “tutto o niente” dei bambini ADHD può incoraggiare i genitori ad educare con premi o punizioni che sembrano nel breve termine essere molto efficaci ma sostengono a lungo andare una visione in bianco e nero dell’ambiente e di se stessi.

In conclusione, scrive l’autore il compito più difficile che spetta ai pazienti con ADHD è imparare a trattare sé stessi con amore e compassione.

 

Dott.ssa Valentina Pizzichetti

Psicologa – Psicoterapeuta

L’IMPORTANZA DELLA PRESENZA DEI PAPA’ IN SALA PARTO: SUPPORTO, CONNESSIONE E AMORE FIN DAL PRIMO ISTANTE

*Prima di proseguire con la lettura dell’articolo, ci tengo fare una premessa perchè il termine PAPA’ non venga frainteso. L’obiettivo è discutere l’importanza della presenza dei genitori in sala parto indipendentemente da come si definiscono le famiglie, e utilizzerò il termine “papà” sebbene non ci sia l’intenzione di limitarsi ad una figura maschile tradizionale.

 

In molte famiglie, i genitori possono essere di qualsiasi genere e orientamento sessuale, e tutti meritano di essere supportati e inclusi in questo momento speciale.

La nascita di un bambino è uno dei momenti più importanti, intensi ed emotivi nella vita di una coppia. Se per molti anni il parto è stato considerato un evento esclusivamente femminile, oggi si parla molto del ruolo del papà, fin dai primi giorni della gravidanza, durante il momento del parto e nel periodo post-partum.

In questo articolo mi soffermerò, in particolare, sull’importanza della presenza del papà in sala parto e su come in quel momento si generi supporto, connessione e amore fin dal primo istante.

E’ indiscutibile, infatti, che la presenza del papà in sala parto offra vantaggi emotivi e psicologici sia per la madre che per il bambino. Vediamoli nel dettaglio:

  1. Un supporto emotivo essenziale per la madre. Durante il travaglio e il parto, le madri affrontano emozioni, paure e fatiche enormi. La presenza del partner al loro fianco può avere un effetto calmante e rassicurante, riducendo l’ansia e migliorando la gestione del dolore. Il papà diventa un riferimento emotivo, una figura che la madre conosce e di cui si fida profondamente, rendendo il momento più gestibile e meno isolante.

2. Rafforzare il legame tra padre e figlio sin dal primo istante. Quando un papà è presente alla nascita del proprio figlio, l’esperienza di assistere al primo respiro del bambino crea un legame istantaneo. Il contatto visivo e la possibilità di toccare o tenere in braccio il neonato subito dopo il parto permette al papà di sviluppare fin da subito un forte legame con il figlio, stabilendo una connessione emozionale profonda che crescerà con il tempo.

3. Un momento di crescita per la coppia. Essere presenti insieme in sala parto rafforza il legame di coppia, facendo vivere un’esperienza intensa di complicità e supporto reciproco. Superare insieme un momento di grande difficoltà e gioia, crea una base solida per affrontare le sfide future della genitorialità. Il papà non è solo un osservatore, ma un partecipante attivo nel portare il bambino al mondo.

4. Sentirsi parte della nascita del proprio bambino. Molti padri riferiscono che essere presenti durante il parto li ha fatti sentire partecipi di questo evento unico, e ha dato loro la possibilità di contribuire attivamente al benessere della loro famiglia. I papà possono dare un contributo reale anche nelle piccole cose: offrire acqua, incoraggiare, aiutare la madre a trovare posizioni più confortevoli, e, semplicemente, esserci.

5. Superare le paure e creare ricordi preziosi. La sala parto può essere un luogo carico di tensione, ma è anche l’inizio di una nuova vita e di un capitolo fondamentale per una famiglia. Per il papà, essere presente significa anche affrontare le proprie paure e vivere in prima persona una trasformazione personale. Questo momento irripetibile diventa una memoria preziosa, che rafforza il loro ruolo nella famiglia.

Vien da sè che la presenza dei papà in sala parto non è solo un supporto prezioso per la madre, ma anche un’occasione unica per il padre di creare un legame con il bambino e con la compagna. Essere presenti al parto non significa solo assistere, ma vivere e contribuire all’inizio di una nuova vita insieme.

Ovviamente tutti questi aspetti sono fondamentali se pensiamo al periodo post-partum di una donna, poichè il parto non è la fine di una condizione, ma delinea l’inizio di un nuovo ruolo per i neogenitori, che non sempre viene vissuto in modo “semplice” come spesso la società vuole far credere. 

Il periodo post-partum è una fase molto delicata per la neo-mamma, segnata da cambiamenti fisici, emozionali e psicologici profondi. La presenza del papà in sala parto, infatti, può avere un impatto significativo su come la madre affronta il post-partum e contribuisce a far crescere la fiducia, la serenità e la connessione emotiva.

Nella fase post-partum si sono delineati vantaggi negli aspetti emotivi nelle donne che hanno avuto il supporto del papà in sala parto.

  • Maggiore sicurezza e serenità. La presenza del partner durante il parto ha un effetto rassicurante che può prolungarsi nel post-partum. Le madri che hanno condiviso con il compagno l’intensità del parto tendono a sentirsi più sicure e sostenute nei giorni successivi alla nascita. Sapere che il partner è stato lì e ha vissuto l’esperienza con loro permette alle mamme di sentirsi meno sole di fronte alle sfide emotive e fisiche dei primi giorni.
  • Riduzione del rischio di depressione post-partum. Gli studi hanno evidenziato che la partecipazione attiva del partner alla nascita può aiutare a prevenire la depressione post-partum. La sensazione di essere accompagnati e comprese, unita alla certezza che il partner ha un quadro chiaro di ciò che comporta la nascita, riduce l’ansia e il senso di isolamento che spesso accompagnano le neomamme. Con un supporto empatico e presente, la madre ha maggiori probabilità di affrontare questa fase con uno stato emotivo più stabile.
  • Rafforzamento del legame di coppia e maggiore comunicazione. Affrontare insieme la sala parto permette di creare una base solida per affrontare il post-partum come una squadra. Questo si traduce spesso in una comunicazione più aperta e sincera nei giorni e nei mesi successivi, poiché entrambi i partner hanno vissuto la nascita come un evento condiviso. Quando il papà è presente, i piccoli gesti e attenzioni nel post-partum diventano anche più spontanei: può essere più propenso a condividere responsabilità come il cambio dei pannolini, l’alimentazione e il supporto notturno, rafforzando l’intesa e l’equilibrio familiare.
  • Sostegno attivo e comprensione delle esigenze fisiche e psicologiche della madre. Chi ha vissuto il travaglio al fianco della propria compagna comprende meglio le difficoltà fisiche che lei sta affrontando, come il dolore, la stanchezza, e i cambiamenti ormonali. Questo aiuta i papà a essere più presenti e consapevoli nel periodo post-partum, sia a livello pratico che emotivo. Con un supporto più empatico, la madre può sentirsi più compresa e meno in difficoltà nell’esprimere i propri bisogni.
  • Senso di gratitudine e di fiducia reciproca. L’esperienza condivisa in sala parto spesso genera un profondo senso di gratitudine e fiducia reciproca. Molte mamme si sentono emotivamente riconnesse con il partner e apprezzano la sua presenza e il sostegno dimostrato. Questo senso di fiducia facilita il dialogo e la collaborazione nel periodo post-partum, rendendo entrambi più attenti alle reciproche esigenze e alla cura del neonato.
  • Facilitazione del processo di attaccamento. Il coinvolgimento del partner dal momento della nascita aiuta la mamma a sentirsi meno “l’unica responsabile” della relazione col bambino e favorisce un attaccamento sicuro e condiviso. Sapere che il partner è emotivamente connesso e partecipe della nuova realtà familiare aiuta la mamma a dedicarsi a sé stessa e a riposare, migliorando la propria stabilità emotiva.

La presenza del papà in sala parto crea, quindi, una connessione speciale e un terreno di collaborazione emotiva che agevola la madre nel periodo post-partum. Con il sostegno emotivo del partner, molte madri si sentono più sicure, accolte e comprese, con un impatto positivo che si riflette sia sulla relazione di coppia che sull’equilibrio emotivo del nucleo familiare.

“I papà non sono accompagnatori. Quando scegliamo di andarci insieme, il papà non ci “accompagna” in sala parto: viene con noi ad accogliere il nuovo essere umano che forse avrà i suoi occhi” (Cit. Il parto positivo).

Qui di seguito riporto (in forma anonima) alcuni racconti di persone che hanno voluto condividere la loro storia e opinione.

Racconto di M.P.:

“Assistere a un parto è un’esperienza che ti cambia nel profondo. È il momento in cui il tempo sembra sospendersi, eppure ogni istante è carico di tensione, speranza e paura. La sala parto diventa uno spazio dove il mondo esterno scompare, dove esistono solo lei, con il suo corpo che si piega alla forza della natura, e tu, testimone silenzioso e impotente di qualcosa di primordiale. Lei era entrata in travaglio già da qualche ora quando io sono arrivato. Ricordo la corsa, il battito del mio cuore che si accelerava mentre attraversavo i corridoi dell’Ospedale Sant’Anna, sapendo che ogni secondo poteva essere decisivo. Quando l’ho vista, distesa sul letto della sala parto, con il viso segnato dalla fatica e dal dolore, ho capito che quelle ore sarebbero state dure. Non solo per lei, che stava affrontando una battaglia fisica e mentale, ma anche per la piccola creatura che voleva arrivare. Seduto su una sedia, guardavo, osservavo, cercavo di offrire conforto, ma il lavoro vero lo stava facendo lei. E tutto questo mi lasciava un senso di impotenza che non avevo mai provato prima. Le ore sono volate per me, ma sapevo che per lei ogni minuto era un tormento. Continuavo a chiedermi: perché una donna deve sopportare tutto questo? Viviamo in un’epoca in cui la scienza compie passi da gigante, mandiamo sonde nello spazio, esploriamo galassie lontane, eppure il parto resta un’esperienza che mette in ginocchio una donna, come se fosse rimasta ferma nel tempo, una sfida che la tecnologia non ha ancora saputo alleviare. Durante quelle ore intense in sala parto, non ho mai guardato l’orologio, né una sola volta ho preso in mano il telefonino. Il tempo sembrava essersi fermato, e non c’era nulla che potesse distogliermi da quel momento. Ero completamente immerso in ciò che stava accadendo davanti ai miei occhi, come se tutto il resto del mondo fosse sparito. Ogni respiro, ogni espressione sul suo volto, ogni movimento era qualcosa che volevo imprimere nella mia memoria per sempre. Nulla era più importante di quel momento, e non volevo che andasse perduto in distrazioni o banalità. Volevo essere presente, realmente presente, in ogni istante, perché sapevo che stavo assistendo a qualcosa di straordinario, qualcosa che avrebbe segnato per sempre la mia vita. E poi, quando il pensiero della sofferenza sembrava non avere fine, alle 18 e qualcosa, come un fulmine a ciel sereno, è arrivato lui. Minuscolo, fragile, perfetto. La sala parto, per un attimo, si è riempita di una luce diversa, una gioia immensa ha travolto tutto il resto. Non potevo crederci: dopo tutte quelle ore di fatica, di attesa, e di quel dolore che sembrava insormontabile, ecco che tra le mani c’era un piccolo miracolo. Un esserino così piccolo, ma capace di riempire tutto lo spazio che fino a quel momento era stato vuoto di senso.

In quell’istante ho capito che la vita, in tutte le sue forme e complessità, è davvero un miracolo, uno che nessuna scienza o progresso potrà mai spiegare o replicare completamente.

Assistere a quel momento mi ha lasciato una gratitudine che non riuscirò mai a esprimere a parole. Lei ha affrontato una battaglia che io non potrò mai comprendere fino in fondo, ha sopportato un dolore che sembrava quasi inumano, e lo ha fatto con una forza che mi ha lasciato senza fiato. Ho capito in quelle ore quanto sia straordinaria, quanto il suo coraggio e la sua resistenza siano qualcosa che va oltre il semplice atto del dare alla luce una nuova vita.

Ogni respiro affannato, ogni sforzo, ogni istante di dolore ha costruito quel miracolo che ho avuto la fortuna di vedere nascere. La mia gratitudine per Lei è immensa, perché ha portato nel mondo una vita nuova, e l’ha fatto nonostante tutta la sofferenza, la fatica e la paura. Ero lì, seduto su quella sedia, impotente, ma il mio cuore era pieno di riconoscenza per ciò che stava facendo.

Lei non solo ha messo al mondo nostro figlio, ma mi ha mostrato cosa significhi davvero il sacrificio, la forza, e l’amore incondizionato. Non dimenticherò mai la sua determinazione, la sua lotta silenziosa e implacabile.”

Racconto di S.A.:

“Ancora prima di rimanere incinta, sapevo che non avrei voluto, in quel momento, nessuno al mio fianco oltre a mio marito e nei 9 mesi di gravidanza non ho fatto altro che confermare, a me stessa e agli altri, questa mia consapevolezza. 

Prima figlia, pertanto tutto nuovo per me… mi sono documentata nei mesi, ho cercato di dare una nuova immagine al parto, non solo come evento di dolore e fatica, ma come un “viaggio” che mi avrebbe avvicinata sempre di più alla mia bimba… e devo dire di esserci riuscita. Mi sono vissuta il momento con molta serenità, pronta ad accogliere qualsiasi “cosa” accadesse perchè sarebbe stato un passo in più verso di lei. Mi sono completamente affidata al mio corpo, che ha sempre saputo “cosa fare” fin dal primo giorno della gravidanza (e molte volte lo sottovalutiamo), ma la presenza di mio marito ha fatto la differenza. 

Lui era li con me e per me! 

È stato sostegno emotivo, psicologico e fisico per tutto il lunghissimo travaglio e poi lo è stato anche per la mia bambina, perchè io allo stremo delle forze non me la sono sentita di prenderla in braccio nell’immediato…e questa scelta l’ho vissuta serenamente sapendo che la mia bimba era avvolta dalle braccia del suo papà.

Tutto questo ha contribuito a rafforzare il nostro rapporto e farmi sentire compresa e sostenuta anche nel periodo post partum, un periodo in cui ci si sente molto labili e vulnerabili. Sentivo che lui era nel “mio stesso team” e ho percepito la cura e le attenzioni, che mi aveva dedicato al momento del parto, ancora presenti”.

Racconto di E.T.:

“Nonostante il mio sia stato un parto meraviglioso in quanto del tutto fisiologico, rapidissimo e senza alcuna problematica/complicazione nel post, l’ho vissuto e lo ripenso ad oggi come un vero e proprio trauma. 

Per trauma intendo un momento catartico, di rottura.

È stato come se il mio corpo avesse voluto segnare con un evento forte e intenso come la fine del mio percorso di gravidanza e, allo stesso tempo,  dare risalto all’inizio del percorso di genitorialità che coinvolge in prima persona anche M.

È stata un’esperienza mistica e terrena (cit. Jovanotti) allo stesso tempo, a tratti violenta e straziante, sopratutto quando il mio corpo era al limite dello sforzo e la mia mente ha iniziato a vacillare e a perdersi in pensieri di cui ho provato immediatamente vergogna: voglio morire; toglietemi questa cosa dalla pancia;

Voglio fuggire da questa situazione; se l’avessi saputo non l’avrei mai fatto.  

La presenza di M. durante il parto per me è stata fondamentale. Senza colpevolizzarmi, lui mi ha aiutata a trasformare questi pensieri distruttivi in pensieri positivi, a tramutarli in pensieri di forza, ricordandomi costantemente che il dolore fisico sarebbe cessato e che stavo facendo un ottimo lavoro.

Il suo supporto fisico e psicologico non sono riusciti ad eliminare il dolore fisico ma hanno alleviato le mie preoccupazioni e mi hanno aiutata a sgomberare la mente, a lasciarmi andare e a sentirmi scura in un momento di grande fragilità, consapevole che, per qualunque altra cosa diversa dall’atto di “partorire”, lui avrebbe agito per me. Sebbene impotente di fronte al mio dolore corporeo, vederlo e sentirlo al mio fianco mi ricordava che l’impresa che stavo affrontando non era soltanto mia. Sento c he aver condiviso con lui un momento così intimo e speciale ci ha legati in un modo particolare per sempre.”

Racconto di S.M.:

“Avevo letto tanto sul parto, avevamo anche fatto un corso pre-parto con un’ostetrica privata. Ma la verità è che nulla ti prepara veramente a tutto ciò che ti aspetta durante il travaglio e il parto. Ore di ansia. Ma quando questa è condivisa sicuramente è più facile da sopportare. Mia moglie continua tuttora a dire che io le sia stato di grande supporto. Io mi sono sentito inutile tutto il tempo. Vedi tutta quella sofferenza e puoi fare ben poco, aumentava solo la mia frustrazione. Come può il corpo umano sopportare tutto ciò non l’ho ancora capito. Dolore atroce che ti spinge a vomitare il nulla che hai nello stomaco. Un mistero. Ed io ero lì, a guardare tutto questo. Volevo aiutarla, ci provavo. Cercavo di incoraggiarla, di farmi sentire al suo fianco, ma mi sembrava tutto inutile. Mi sentivo impotente. Quando poi é nata mia figlia, mia moglie era stremata. Ho visto mia figlia. Era blu, neanche un gemito. Ero terrorizzato ma non volevo che, dopo quello sforzo inimmaginabile, mia moglie si preoccupasse. Le dicevo: “va tutto bene…”. Intanto morivo dentro. Poi l’ho sentita. Penso sia stato il minuto più lungo della mia vita! Mi hanno poi spiegato che era solo un momento di adattamento al nuovo habitat. Tremavo di gioia. Ho avuto la fortuna di fare il contatto pelle a pelle. Non potevo credere che qualcosa di così bello potesse esistere ed era lì tra le mie braccia. Mia moglie sul lettino della sala parto e rideva con la ginecologa e le ostetriche mentre la suturavano. Ero troppo felice per riflettere. Poi a mente fredda ho pensato: “ Non riesco a spiegarmi come possa aver sopportato tutto ciò, ma addirittura ridere… é surreale…”. Credo che sia stato l’amore. L’amore batte tutto il resto.”

Dott.ssa Sonia Allegro

Psicologa – Psicoterapeuta

LE RELAZIONI A DISTANZA: UN’ANALISI PSICOLOGICA

Le relazioni a distanza (o long-distance relationships, LDR) sono un tema sempre più rilevante nella società contemporanea, grazie alla globalizzazione, all’aumento delle opportunità professionali e accademiche all’estero e alla diffusione delle tecnologie di comunicazione. Sebbene queste relazioni possano essere vissute con entusiasmo e passione, comportano anche sfide psicologiche significative che richiedono un adattamento emotivo, comunicativo e comportamentale da parte dei partner.

Come si sviluppa una relazione a distanza?
Una relazione a distanza si caratterizza dalla separazione fisica tra i partner, i quali, tuttavia, riescono a mantenere un forte legame emotivo. Grazie ai progressi tecnologici, oggi è possibile restare in contatto in tempo reale attraverso messaggi, videochiamate e social media, creando una sensazione di vicinanza nonostante la distanza geografica. Tuttavia, ciò che manca in una relazione a distanza è l’intimità quotidiana e la condivisione di momenti
fisici che caratterizzano le relazioni tradizionali, basate sulla vicinanza e sull’esperienza diretta.
Dal punto di vista psicologico, le relazioni a distanza possono essere viste come una “sfida” per l’attaccamento. L’attaccamento sicuro (un concetto sviluppato da Bowlby) si basa sulla presenza fisica e sulla capacità di condividere esperienze quotidiane. Quando i partner sono lontani, l’ansia e l’incertezza possono aumentare, specialmente nei casi in cui uno o entrambi i partner abbiano stili di attaccamento più ansiosi o evitanti. Tuttavia, la teoria
dell’attaccamento suggerisce che, in un contesto di lontananza, i partner potrebbero sviluppare forme di “attaccamento virtuale”, basate sulla fiducia e sulla continuità delle comunicazioni. Questi legami virtuali, pur essendo diversi dall’interazione fisica, possono comunque essere emotivamente gratificanti. Nei primi periodi di una relazione a distanza, si vive spesso un’intensa passione emotiva, accompagnata da una forte idealizzazione del
partner e dalla speranza che la lontananza sia solo temporanea e superabile. In questo contesto, mantenere una comunicazione digitale diventa lo strumento principale per mantenere il legame quotidiano. La qualità e la frequenza delle interazioni virtuali giocano un ruolo cruciale nell’influenzare la percezione della relazione e nel determinare il benessere emotivo e la stabilità psicologica di entrambi i partner.

Quali sono le difficoltà psicologiche nelle relazioni a distanza?
Nonostante la forte attivazione emotiva iniziale, le difficoltà nelle relazioni a distanza sono molteplici e vanno ben oltre la semplice lontananza fisica. I partner si trovano ad affrontare sfide legate alla gestione del tempo, alla fiducia reciproca, alla solitudine e, talvolta, alla difficoltà di mantenere una connessione emotiva profonda. Una delle difficoltà psicologiche
più intense è la sensazione di ansia e insicurezza: la distanza fisica può generare preoccupazione nei partner, che si sentono vulnerabili rispetto all’incertezza della stabilità della relazione. L’assenza del contatto diretto può alimentare dubbi sulla fedeltà, sulla sincerità e sul futuro della relazione. Alla base vi è la paura di essere trascurati o di non essere abbastanza importanti per l’altro. Infatti, anche quando i partner sono molto impegnati a comunicare tramite messaggi o videochiamate, la solitudine emotiva può emergere in modo considerevole. Non poter condividere momenti quotidiani, come una
cena insieme o una passeggiata, può dare il senso di una mancanza di “presenza” affettiva.
La carenza di esperienze condivise nella vita quotidiana può, inoltre, ridurre la sensazione di intimità. Proprio per questo motivo, le relazioni a distanza pongono una sfida aggiuntiva nella comunicazione emotiva: mentre nelle relazioni tradizionali è possibile cogliere segnali non verbali come il linguaggio del corpo, il tono di voce o il contatto fisico, nelle relazioni virtuali tali segnali sono ridotti o assenti. Questo può portare a malintesi, interpretazioni errate e conflitti non risolti. Questa disconnessione emotiva, può essere poi alimentata anche dal fatto che spesso i partner possono trovarsi a vivere in fusi orari diversi, con impegni professionali, sociali e familiari che differiscono notevolmente. La difficoltà nell’organizzare momenti per parlare e l’incapacità di condividere routine quotidiane comuni può generare frustrazione e alimentare la sensazione di essere lontani. Infine, questo tipo di relazioni richiedono, in molti casi, una visione chiara e condivisa sul futuro: se i partner non sono allineati riguardo agli obiettivi a lungo termine, come ad
esempio la possibilità di vivere insieme o di ridurre la distanza fisica, può crescere il senso di incertezza, di solitudine e di frustrazione.

Come mantenere una relazione a distanza sana e solida?
Nonostante le molteplici difficoltà, le relazioni a distanza non sono destinate a fallire. Al contrario, possono essere occasioni di crescita, di maggiore consapevolezza di sé e del partner e di sviluppo di competenze comunicative avanzate. Vasilenko et al. (2014), propongono una panoramica critica sull’adattamento psicologico ed emotivo nelle relazioni a distanza, che offre spunti su come le coppie possano gestire le difficoltà psicologiche
derivanti dalla separazione fisica. Il primo è sicuramente una comunicazione aperta e sincera: infatti, la chiave per una relazione a distanza di successo è la comunicazione. È fondamentale che entrambi i partner siano aperti e onesti riguardo ai propri sentimenti, alle proprie esigenze e alle proprie aspettative. Questo significa non solo parlare delle cose positive, ma anche affrontare le difficoltà e le frustrazioni con empatia e disponibilità.
Inoltre, stabilire regole chiare su come e quando comunicare aiuta a prevenire malintesi. Lo stesso Baker (2010), in uno studio psicologico, esplora le dinamiche di contatto nelle relazioni a distanza, sottolineando come la comunicazione sia cruciale per la manutenzione della relazione e come i partner sviluppano nel tempo strategie per renderla sana e
soddisfacente. Un secondo spunto di riflessione è legato allo stabilire obiettivi comuni: è essenziale che entrambi i partner abbiano una visione condivisa del futuro. Questo potrebbe includere decisioni concrete, come quando ci si rivedrà fisicamente, come si pianificherà di colmare la distanza a lungo termine o quali sacrifici si sono disposti a fare per la relazione.
Avere obiettivi comuni e condivisibili aiuta a dare significato alla distanza e a mantenere viva la carica emotiva all’interno della coppia, anche al fine di rendere quotidiana la meta da raggiungere. Infatti, cercare di realizzare una routine di comunicazione è cruciale: la regolarità nei contatti quotidiani o settimanali aiuta a mantenere la connessione emotiva e a ridurre il senso di solitudine. Anche se non è sempre possibile parlare ogni giorno, stabilire
un momento fisso per confrontarsi aiuta a sentirsi più vicini, capiti e uniti. Questo sforzo aiuta anche nel condividere le esperienze, anche a distanza. Sebbene non sia possibile vivere insieme e fisicamente tutto quello che accade, è necessario impegnarsi per creare esperienze condivise a distanza: guardare un film in contemporanea, cucinare lo stesso piatto, fare attività virtuali insieme (come giochi online, letture, o hobby comuni) può rafforzare il legame emotivo e il senso di vicinanza. E’ importante essere pronti anche ad
adattarsi ai cambiamenti e ad essere pazienti quando le cose non vanno come
pianificato. La fiducia reciproca è l’elemento cruciale in ogni relazione, ma in una relazione a distanza deve essere ancora più forte: è necessario dare spazio all’altro, evitando eccessivi controlli o aspettative irrealistiche. Per fare questo al meglio, ogni partner deve essere in grado di coltivare il proprio benessere emotivo e la propria indipendenza. La crescita
personale e la realizzazione delle proprie ambizioni aiuteranno a ridurre la dipendenza emotiva e a rendere la relazione più equilibrata.
Le relazioni a distanza rappresentano una sfida psicologica significativa, ma non sono destinate a fallire se affrontate con consapevolezza, pazienza e impegno. I partner che riescono a sviluppare una comunicazione sana, a mantenere alta la fiducia e a stabilire obiettivi comuni possono trovare nelle difficoltà un’opportunità di crescita e rafforzamento del legame. Sebbene le sfide psicologiche siano evidenti, con il giusto supporto emotivo e la
volontà di lavorare sulla relazione, le coppie a distanza possono prosperare e mantenere un legame solido nel tempo.

Dott.ssa Caterina Marini

Psicologa – Psicoterapeuta

FONTI
• Baker, L. A., & Oswalt, S. B. (2010). Relational Maintenance and
Communication in Long-Distance Relationships: An Overview. Journal of Social
and Personal Relationships, 27(1), 42-58.
• Vasilenko, S. A., & Piper, M. E. (2014). Psychological and Emotional
Adjustment in Long-Distance Relationships: A Critical Review. Journal of Family
Psychology, 38(5), 550-563.

PERCHE’ SERVE LO PSICOLOGO A SCUOLA?

Lo psicologo scolastico è sempre più richiesto nelle scuole di ogni ordine e grado, a partire dalle scuole primarie fino ad arrivare alle scuole cosiddette Superiori (Secondarie di secondo grado). Tale figura professionale viene identificata come utile e facilitante verso la creazione di un ambiente maggiormente positivo nell’ambito scolastico. Obiettivo primario dello psicologo scolastico è quello infatti di creare un ambiente sereno e cooperativo al fine di supportare le relazioni tra tutte le persone che afferiscono all’istituzione scolastica (studenti, famiglie, insegnanti, personale scolastico) per favorire un clima di serenità che supporti l’apprendimento, la gestione dello stress dell’insegnamento e rafforzi le relazioni tra famiglie-scuola e comunità territoriale.

Lo  psicologo scolastico è dunque focalizzato ad accogliere e a rispondere ai bisogni della scuola intesa come un sistema complesso costituito da individui, gruppi ed istituzioni in interazione tra loro.

Gli ambiti di intervento dello Psicologo all’interno delle scuole sono diversi in base all’ordine e grado della Scuola e delle esigenze territoriali, tuttavia possiamo individuare alcuni settori in cui tendenzialmente il professionista è chiamato ad operare.

L’ambito primario d’intervento è il supporto ai minori con situazioni di disagio (difficoltà emotive, relazionali o svantaggio sociale/culturale) e ai ragazzi con esigenze educative speciali (BES, DSA, difficoltà legate al comportamento e all’impulsività).

Spesso le manifestazioni di rabbia, aggressività, condotta indisciplinata e svogliatezza nascondano un malessere che va al di là del conflitto con i compagni o i docenti. Talvolta sono presenti sintomi ansiosi, fatica a sentirsi parte integrante della classe, percezione di non valere quanto si vorrebbe e inefficacia da un punto di vista del profitto nonostante gli sforzi messi in atto. Lo psicologo aiuta lo studente a fare luce su ciò che sta vivendo e a costruisce con lui un percorso per stare meglio, affrontando il problema in modo personalizzato.

La prevenzione e l’individuazione precoce di segnali di disagio che potrebbero in futuro esitare in patologie conclamate (disturbi d’ansia, disturbi alimentari, consumo di alcol e droghe, autolesionismo, comportamento dirompente, bullismo, …) sono l’ambito d’intervento privilegiato dello sportello d’ascolto per attuare la propria mission di prevenzione: un ascolto precoce, un’accoglienza non giudicante, un sostegno nel costruire un cambiamento sono un bene prezioso per i ragazzi.

In alcuni casi, quando la situazione richiede un intervento prettamente clinico, il professionista effettua un invio ai servizi del territorio per una presa in carico più approfondita e a lungo termine.

Lo psicologo a scuola lavora inoltre con insegnanti e ragazzi sull’inclusione di allievi e famiglie straniere che accedono ai servizi educativi e alle scuole del territorio, con attenzione a fornire anche un supporto alla genitorialità.

Un altro ambito in cui lo psicologo scolastico opera è la progettazione, realizzazione e/o supervisione di interventi in aula su tematiche legate alla formazione e alla prevenzione. Molto spesso allo psicologo è richiesto di lavorare con i gruppi classe, strutturando dei veri e propri percorsi sui temi rilevanti in base alla fascia d’età: la gestione delle emozioni, la prevenzione del bullismo, l’educazione all’affettività e alla sessualità, la conoscenza e prevenzione delle dipendenze (fumo, sostanze, gaming, affettive, smartphone e social).

I nostri ragazzi vivono contemporaneamente nel mondo reale e nel mondo del web e dei Social Network: il confronto con i modelli proposti, le prese in giro, la perdita di senso e di direzione nel loro percorso di crescita può diventare molto pericolosa, se non intercettata. Inoltre spesso le modalità disfunzionali di gestione dei conflitti in classe, tra pari, (ma anche tra docente-studente, genitori-insegnanti) possono essere migliorate con training psico-educativi sulla gestione delle proprie emozioni e sulla consapevolezza delle proprie modalità comunicative, riportando in aula, e fuori, un clima maggiormente costruttivo.

Lo psicologo può sostenere  anche i docenti nella comprensione delle classi difficili e nel contenimento dei rischi di burn out. I casi di cronaca riportati dalle testate giornalistiche dimostrano quanto frequentemente la scuola e le relazioni che gravitano intorno ad essa possono diventare teatro di conflitti violenti, con escalation di atti violenti e aggressioni fisiche e verbali.

Le attività in classe rappresentano una risorsa importante perché permettono allo psicologo di avvicinare tutti i ragazzi e farsi conoscere, costruendo un clima di fiducia e una prima relazione, permettendo anche a chi è più timido, scettico o riluttante al confronto di considerare l’idea di aprirsi con un estraneo. Gli incontri sul tema dell’ educazione sessuale, ad esempio, sono un’ottima occasione per entrare in contatto e in relazione con i ragazzi. Ci tengo inoltre a sottolineare che l’educazione sessuale  e affettiva è una materia di insegnamento obbligatoria nella maggior parte dei paesi dell’Unione Europea: in questo momento  fanno eccezione soltanto alcuni Stati membri, tra cui l’Italia. Quando è presente nell’Istituzione scolastica lo psicologo è spesso chiamato a effettuare questa tipologia di attività veicolando le  conoscenze specifiche e le abilità relazionali promosse in base alle fasce d’età, come indicato dalle linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

L’educazione sessuale e affettiva precoce è concepita come una forma di prevenzione primaria delle gravidanze indesiderate e delle malattie sessualmente trasmissibili oltre ad aiutare a prevenire forme di sfruttamento, coercizione e abuso sessuale, forme dipregiudizio e stereotipi legati all’identità di genere, discriminazioni basate sull’orientamento sessuale.

Un altro dei focus su cui si concentra lo psicologo scolastico è la prevenzione e la riduzione del fenomeno della dispersione scolastica. Rispetto al resto dell’Europa, l’Italia infatti presenta tassi di abbandono molto alti (al pari di Bulgaria e Malta): circa un 1% degli studenti abbandona la scuola Secondaria di primo grado e circa il 4% la scuola Secondaria di secondo grado.  

Tuttavia tutti gli sforzi messi in atto dallo Psicologo all’interno dell’Istituzione scolastica si scontrano spesso con la scarsità di risorse a disposizione della Scuola per garantire una presenza stabile e continuativa tale da permettere l’instaurarsi di relazioni significative e di fiducia. Spesso il professionista si trova ad avere così tante richieste di consulenza da dover effettuare delle scelte in base alle urgenze e differire nel tempo gli incontri con ragazzi che ugualmente portano un reale disagio ma in quel momento meno sintomatico, non riuscendo così a trovane un’immediata accoglienza o la continuità nel tempo che sarebbe loro sufficiente in molti casi ad alleviare le loro preoccupazioni. La scuola e lo sportello d’ascolto non si configurano come un luoghi di diagnosi o di psicoterapia, ma come spazi circoscritti di confronto, di de-compressione in cui lo studente, il docente, il genitore possono mettere a fuoco il disagio e ritrovare le fila del percorso d’intervento (qualora necessario).

Come viene sottolineato dalla legge e dai professionisti che vi operano, la scuola non è e non deve diventare un luogo di cura, ma spesso finisce per essere un “Triage” che necessita di invii ai Servizi specialistici sul Territorio, che sempre per la stessa ragione, ovvero l’esiguità di risorse investite per la salute mentale, in termini di prevenzione e cura, non riescono a fare fronte e prendere in carico le necessità richieste.

In Italia, restando fanalino di coda rispetto alla maggior parte dei Paesi Europei, non è ancora stata definita una legge che istituisca la figura dello psicologo scolasticocome professionista competente e presente stabilmente in tale contesto. Attualmente, esistono soltanto alcune norme che regolano molti aspetti dell’attività professionale dello psicologo che opera nella scuola. Allo stato attuale le scuole, in virtù dell’autonomia didattica ed organizzativa delle singole istituzioni (Legge 15 marzo 1997, n. 59) e della cosiddetta “Buona Scuola” (Legge 13 luglio 2015, n. 107), possono avvalersi di uno psicologo attraverso accordi con i singoli professionisti, con le aziende sanitarie locali, con gli uffici scolastici regionali, con gli studenti e le loro famiglie e su delibera degli organi collegiali, ricorrendo al contributo di enti, istituti bancari, associazioni, genitori o al Fondo d’Istituto.

La mancanza di uniformità a livello normativo fa emergere una situazione critica poiché le attività psicologiche a scuola talvolta non risultano realizzate esclusivamente dallo psicologo, come sarebbe previsto dalla legge nazionale, ma molteplici altre figure vengono inserite all’interno del contesto scolastico, previa presentazioni di progetti con tematiche legate alla promozione del benessere e della salute, provenienti da differenti formazioni. Ciò talvolta determina sovrapposizione e confusione soprattutto per i ragazzi e  le famiglie.

Attualmente, secondo il Disegno di Legge S. 2613 proposto, lo psicologo scolastico deve essere iscritto all’Ordine degli Psicologi, in possesso di laurea magistrale in psicologia, con specializzazione quadriennale nello specifico settore dell’età evolutiva e operare in uno spazio identificato, previo appuntamento, senza entrare in classe se non con il consenso informato dei soggetti coinvolti e delle famiglie in caso di minori. Secondo la Cassazione, infatti, gli psicologi possono stare in classe solo se i genitori degli alunni sono stati informati della loro presenza e hanno prestato il consenso. Il tema del consenso informato dei genitori di allievi minori, solleva non poche problematiche per lo psicologo che opera a scuola. Non è semplice reperire i consensi di entrambi i genitori, spesso non presenti entrambi nella vita del minore o in forte conflittualità tra loro, questo spesso impedisce o scoraggia i ragazzi a partecipare alle attività di Sportello, per evitare di reperire un genitore, magari focus del loro disagio o che sanno non essere d’accordo con la partecipazione al tipo di attività, per timori e pregiudizio circa il lavoro dello Psicologo e dei Servizi sociali e territoriali. Questo genera un grande sommerso in termini di intercettazione dei ragazzi più sofferenti o coinvolti in situazioni familiari più complesse, proprio i ragazzi talvolta che avrebbero più necessità di avere un momento di ascolto.

La pandemia di Covid-19 viene considerata un vero e proprio “evento cerniera”all’interno del contesto scolastico, capace di segnare un “prima” e un “dopo” sulla presenza dello psicologo nelle scuole. La diffusione di difficoltà psicologiche, in particolar modo di ragazzi e adolescenti, ha spinto a riconsiderare la presenza dello psicologo all’interno del contesto scolastico e per la prima volta c’è stata una promozione importante da parte dello Stato per l’inserimento di questa figura professionale. Con il protocollo siglato nel 2020 tra Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi e il Ministero dell’Istruzione, sono state definite le Linee di indirizzo per la promozione del benessere psicologico a scuola. Questo documento ha riportato in primo piano la figura dello psicologo, fondamentale per la promozione del benessere nel contesto scolastico scosso dal susseguirsi di lockdown, restrizioni e nuove forme di didattica online o mista. La realtà delle cose, come diretta conseguenza dell’emergenza, è stata l’istituzione, negli Istituti scolastici che ne erano ancora sprovvisti, di uno Sportello d’ascolto a cui gli studenti, gli insegnanti e i genitori, su prenotazione volontaria, potessero accedere e ricevere ascolto rispetto alla problematica emergente (ansia, difficoltà di apprendimento, comportamento alimentare). Lo specialista ha avuto la funzione di accogliere e riconfigurare il problema emergente per mezzo di un intervento di consulenza e orientamento.L’inserimento più diffuso dello Psicologo nell’istituzione scolastica durante la Pandemia ha aperto le porte a ragionare non più solo in un’ottica di riparazione, ma ha permesso di iniziare a pensare in termini di prevenzione attraverso l’ascolto, il confronto, l’informazione.

La speranza è che con il termine dell’emergenza e dei fondi stanziati in tale contesto, sia possibile per le Scuole continuare a sostenere queste attività e promuoverle come un bene primario, al pari dell’insegnamento della conoscenza.

Dott.ssa Consuelo Aringhieri

Psicologo – Psicoterapeuta

STRESS, ANSIA E CONCENTRAZIONE: SAI CHE I GIOCHI SENSORIALI POSSONO AIUTARTI?

Hai mai avuto bisogno di calmarti manipolando un oggetto, come una pallina antistress o un pop it? Gli stimming toys, ormai diffusi tra adulti e bambini, non sono semplicemente giochi, ma veri alleati per il benessere emotivo e sensoriale. Questi strumenti si stanno facendo strada anche nella psicoterapia, dimostrandosi utili in situazioni di stress, ansia e difficoltà di concentrazione. Ma cosa sono esattamente e perché funzionano così bene?

Cosa sono gli Stimming Toys?

Gli stimming toys sono dispositivi progettati per stimolare i sensi attraverso il movimento, il tatto o il suono. Tra i più noti troviamo:

fidget spinner, pop it e cubi antistress,
palline sensoriali, slime o pasta modellabile,
oggetti con texture particolari, come tappetini tattili o tessuti.

Il termine “stimming” deriva da “self-stimulatory behavior” (comportamento auto-stimolatorio) ed è stato originariamente associato all’autismo. Oggi, il loro utilizzo si è esteso anche a persone neurotipiche per affrontare momenti di stress, ansia o difficoltà di concentrazione.

Perché funzionano?

Gli stimming toys aiutano a:

1. Ridurre stress e ansia, offrendo uno sfogo fisico per l’energia nervosa.
2. Migliorare la concentrazione, mantenendo l’attenzione su uno stimolo leggero e costante.
3. Favorire il grounding (ancoraggio al presente), aiutando a rimanere nel “qui e ora” attraverso stimoli concreti e sensoriali.

Ma cosa rende questi strumenti così efficaci? La loro azione si basa su meccanismi neurologici profondi che influenzano il nostro stato emotivo.

I Meccanismi Neurologici
1. Attivazione del Sistema Somatosensoriale:
La manipolazione di oggetti tattili stimola il sistema somatosensoriale, che aiuta il cervello a rilasciare serotonina e dopamina, neurotrasmettitori legati al benessere. Questo tipo di stimolazione riduce l’attivazione del sistema nervoso simpatico (responsabile della risposta “attacco o fuga”) e promuove il rilassamento.
2. Grounding sensoriale:
Stimoli concreti e prevedibili, come la sensazione di pressione o movimento, ancorano la mente al presente. Questo processo coinvolge il talamo, che filtra le informazioni sensoriali, distogliendo l’attenzione da pensieri intrusivi o stati dissociativi.
3. Regolazione del Sistema Limbico:
Gli stimoli ripetitivi degli stimming toys riducono l’attività dell’amigdala, il centro delle emozioni, spesso iperattiva in stati di stress, ansia o emozioni intense come rabbia e frustrazione. Questo effetto calmante può aiutare a modulare anche impulsi legati a comportamenti disfunzionali, come la fame emotiva. L’ancoraggio al presente, inoltre, stimola l’ippocampo, favorendo un migliore equilibrio cognitivo ed emotivo, contribuendo a gestire sensazioni di tristezza o sopraffazione.
4. Stimolazione del Cervelletto e del Sistema Vestibolare:
Movimenti ritmici o compressivi attivano il cervelletto e il sistema vestibolare, migliorando il senso di equilibrio interno ed esterno e favorendo una sensazione di calma e stabilità.
5. Attivazione dei Circuiti Dopaminergici:
Gli stimming toys attivano i circuiti della dopamina, offrendo una gratificazione immediata che migliora l’umore e aumenta il senso di controllo.
6. Modulazione del Nervo Vago:
Attraverso la stimolazione tattile, gli stimming toys agiscono sul nervo vago, promuovendo rilassamento, sicurezza e un ritmo respiratorio regolare.
Utilizzo in Psicoterapia

Gli stimming toys possono essere integrati in diversi modi nel setting terapeutico, ad esempio come:

Strumento di autoregolazione: durante una seduta, un paziente in preda ad una forte emozione come ansia, agitazione, rabbia, tristezza ecc. può manipolare un oggetto per calmarsi e sentirsi più a proprio agio.
Promozione del grounding: in momenti di intensa attivazione emotiva, toccare o manipolare un oggetto può aiutare il paziente a rientrare in contatto con il presente.
Facilitazione del dialogo: spesso, il semplice gesto di manipolare un oggetto durante una conversazione può abbassare le difese e favorire un dialogo più aperto e spontaneo.
Per chi sono indicati?
Adulti e bambini con difficoltà di regolazione emotiva: persone con ansia, ADHD, o difficoltà di gestione dello stress possono trovare grande beneficio.
Persone in terapia per trauma: gli stimming toys possono aiutare a gestire flashback o stati di dissociazione.
Chiunque cerchi uno strumento pratico per rilassarsi: gli stimming toys non hanno controindicazioni e sono facilmente accessibili!

In conclusione, gli stimming toys non sono solo giochi: sono strumenti semplici ma potenti per migliorare la qualità della vita, aiutandoci a gestire momenti di difficoltà e a riconnetterci con il presente. Esplorarli significa scoprire un nuovo modo di prendersi cura di sé, trovando il proprio equilibrio con un gesto tanto piccolo quanto efficace.

Dott.ssa Valeria Lussiana

Psicologa Psicoterapeuta

Bibliografia
1. Brand, B. L., Schielke, H. J., & Lanius, R. A. (2022). Finding Solid Ground: Overcoming Obstacles in Trauma Treatment. Oxford University Press.
2. Schaaf, R. C., & Davies, P. L. (2010). Evolution of the Sensory Integration Frame of Reference. American Journal of Occupational Therapy, 64(3), 363-367.
3. Porges, S. W. (2011). The Polyvagal Theory: Neurophysiological Foundations of Emotions, Attachment, Communication, and Self-regulation. W.W. Norton & Company.
4. Cozolino, L. (2014). The Neuroscience of Human Relationships: Attachment and the Developing Social Brain. W.W. Norton & Company.
5. Siegel, D. J. (2012). The Developing Mind: How Relationships and the Brain Interact to Shape Who We Are. Guilford Press.

INTRATTENIMENTO TECNOLOGICO: ACCUDIMENTO O DIPENDENZA?

La tecnologia è un problema? I cambiamenti e gli sviluppi del campo tecnologico rappresentano qualcosa che va modificato o resettato?
Nel primo quarto di secolo degli anni duemila siamo stati sottoposti a grandi cambiamenti tecnologici e digitali, tanto da poter parlare di digital trasformation: l’invenzione di Internet, del Bluetooth, dei Clouds, di Google Maps, delle piattaforme Social Network, dei Bitcoin, degli Assistenti Digitali (…) ha completamente rivoluzionato il mondo in cui viviamo, modificando a
fondo il nostro modo di viverlo e abitarlo. Sono cambiate infatti non soltanto le cose che utilizziamo ma anche il modo in cui le usiamo e si sono trasformate profondamente anche le relazioni, le modalità in cui si costruiscono, si mantengono, si evolvono nel tempo: se prima non era pensabile che i rapporti avvenissero se non in presenza, oggi alcune relazioni vengono costruite attraverso il mezzo tecnologico e, spesso, possono essere mantenute proprio grazie a questo strumento. Le grandi possibilità che ci concede la tecnologia (per esempio di accorciare le distanze e di modificare
lo spazio -tempo) ci permettono di abitare il mondo con delle procedure completamente differenti rispetto al passato e con degli strumenti che rappresentano il nostro periodo storico, quasi più di noi stessi.
Riprendendo il discorso del filosofo e psicoanalista Umberto Galimberti: “con il termine “tecnica” intendiamo sia l’universo dei mezzi (le tecnologie) che nel loro insieme compongono l’apparato tecnico, sia la razionalità che presiede al loro impiego in termini di funzionalità ed efficienza. Con questi caratteri la tecnica è nata non come espressione dello “spirito” umano, ma come “rimedio”
alla sua insufficienza biologica 1”. Galimberti fa un confronto tra l’istinto che guida e indirizza il comportamento degli animali e l’azione che distingue e differenzia l’uomo: la tecnica rientrerebbe nel mondo delle azioni insieme all’anticipazione, all’ideazione, alla progettazione e alla libertà di
movimento ed azione. In questo senso, secondo Galimberti, “la tecnica è l’essenza dell’uomo” perché da lui costruita e da lui utilizzata per sostituirlo o porsi al suo posto: se nei tempi antichi la tecnica era uno strumento nelle mani dell’uomo utile a raggiungere uno scopo e ad organizzare la sua vita, ad oggi la tecnica rappresenta invece l’essenza, l’ambiente all’interno del quale l’uomo
vive e si è costituita con la finalità di controllare e dominare il mondo circostante, a livello locale e/o planetario. Ad oggi, infatti, abbiamo degli strumenti che ci aiutano a fare tutto: calcolare le spese, prevedere il tempo, organizzare le cose e noi stessi, migliorare il fisico, l’importo calorico, la
salute mentale, strumenti che ci aiutano a bere a sufficienza, a mangiare il giusto, a muoverci quanto necessario, a cucinare, a dormire, a svegliarci, a cambiare stile di vita o modificare il modo in cui facciamo le cose…possiamo dire che più niente è guidato essenzialmente dal nostro istinto e dalla
nostra parte animalesca, tutto ciò che è istintuale può essere potenzialmente sostituito da qualcosa di tecnico. “Infatti, finché la strumentazione tecnica disponibile era appena sufficiente per raggiungere quei fini in cui si esprimeva la soddisfazione degli umani bisogni, la tecnica era un semplice mezzo il cui significato era interamente assorbito dal fine, ma quando la tecnica aumenta
quantitativamente al punto da rendersi disponibile per la realizzazione di qualsiasi fine, allora muta qualitativamente lo scenario, perché non è più il fine a condizionare la rappresentazione, la ricerca, l’acquisizione dei mezzi tecnici, ma sarà l’accresciuta disponibilità dei mezzi tecnici a dispiegare il ventaglio di qualsivoglia fine che per loro tramite può essere raggiunto. Così la tecnica da mezzo diventa fine, non perché la tecnica si proponga qualcosa, ma perché tutti gli scopi e i fini che gli uomini si propongono non si lasciano raggiungere se non attraverso la mediazione tecnica 2”. In questo senso i nostri desideri e i nostri scopi diventano condizionati dalla tecnica e dalle infinite possibilità che questa ci propone. Sicuramente sarà difficile, andando avanti con i secoli, che i nostri bisogni non siano condizionati dalle infinite possibilità che la tecnologia ci concede e che propone.

Quale è dunque l’effetto che la tecnologia ha su di noi?
Se, prima dell’esistenza della tecnologia, costruivamo noi stessi a partire dalla risonanza individuale delle esperienze che facevamo, ad oggi, attraverso la tecnologia, l’esperienza collettiva diviene esperienza individuale: c’è infatti un veloce appiattimento della differenza tra interiorità ed esteriorità, della differenza tra superficialità e profondità e di quella tra passività ed attività. In un mondo moderno e tecnologizzato si perde il significato di queste differenze e, in qualche modo, la psicologia dell’uomo si appiattisce a causa di un sempre minore confronto con sé stesso, in cambio della funzionalità dell’apparato tecnico.
Per tornare sulle parole di Umberto Galimberti “Non dunque l’uomo che può usare la tecnica come qualcosa di neutrale rispetto alla sua natura, ma
l’uomo la cui natura si modifica in base alle modalità con cui si declina tecnicamente3”.
La strutturazione di un mondo sempre più tecnologico non fa altro ridurre la capacità umana di psicologizzare, non utilizzando doti psicologiche come quella della mentalizzazione e della immaginazione; il risultato di questa situazione è che ci si omologhi sempre più alla razionalità dell’apparato tecnico e che si perda, oltre che la dimensione dell’istinto, quella della produzione immaginifica. Secondo Galimberti la tecnica non risponde più ai bisogni degli uomini ma è finalizzata ad un proprio obiettivo (quello per esempio di creare e produrre contenuti) e contribuisce a creare un nuovo tipo di ambiente nel quale l’uomo è portato a vivere, un mondo tecnologico. In
questo senso, l’epoca della tecnica porta l’uomo a doversi adattare a questi nuovi equilibri, a modificare il proprio modo di stare in contatto con le persone e con il mondo e ad omologarsi alle novità proposte dalla tecnologia, in crescente e sempre continuo mutamento. “Un’azione è omologata quando è conforme a una norma che la prescrive, quindi quando non è un’azione, ma
una conform-azione. E “conformazioni” sono tutte le azioni che si compiono in un apparato e in funzione dell’apparato, al cui interno il “fare da sé” cessa dove incomincia il “deve essere fatto” in perfetto accordo con le altre componenti dell’apparato 4”. L’omologazione e la conformazione passano dal fatto che per vivere nel mondo è necessario utilizzare lo strumento tecnico che diventa
l’unico modo possibile di esistere e di adattarsi. Il mondo è talmente tanto governato dalla tecnica da renderci dipendenti dalle sue principali caratteristiche: senza l’interruzione dell’utilizzo continuativo della tecnica diventa per noi impossibile renderci conto di quanto la utilizziamo e di
quanto ne abbiamo bisogno. Arriviamo a mettere in atto una vera e propria dissociazione psichica, affidando gran parte del nostro appartato cognitivo e mentale a degli strumenti tecnici, senza adoperare le nostre capacità intellettive. Questo succede a prescindere dalla nostra volontà,
all’interno di un mondo tecnologico dal quale non ci è possibile sottrarci, pena l’assenza di adattamento o l’esclusione da una rappresentazione condivisa del mondo.
Se, da un lato, la tecnologia favorisce una dissociazione psichica, creando nuovi desideri al posto dell’uomo e impedendo lui di “decidere” a cosa affidarsi e cosa preferire, dall’altra ci consente però di sentirci anche al sicuro, rassicurati e compresi: il fatto che si sostituisca a noi ci consente di
delegare le nostre facoltà emotive e di sentirci, in qualche modo, capiti dalle proposte che provengono dal essa. Quando per esempio ci vengono proposti dei contenuti da parte dei social network, essi sono selezionati in base alle nostre preferenze e all’indicizzazione delle nostre precedenti visualizzazioni: il fatto che ci ritroviamo nei contenuti proposti, che sentiamo che in
qualche modo ci riguardano, favorisce una sensazione e un senso di accudimento, di gratificazione e di cura, vissuti che spostano la nostra attenzione cosciente sui contenuti proposti e non più sul
nostro mondo interno. La tecnica che anticipa e indirizza i nostri desideri, oltre a toglierci “l’impiccio” di pensare, favorisce delle sensazioni emotive gradevoli e positive, che hanno a che fare con l’accudimento.
In chiusura di questa lettura del mondo di oggi, a tratti pessimista, a tratti realistica, resta solo da rispondere alla domanda iniziale, la tecnologia è davvero un problema?

Se restiamo sulle premesse condivise più in alto, il punto potrebbe non essere questo: la tecnologia non è più un mero strumento da noi possibilmente utilizzabile ma sta diventando il mondo in cui viviamo. Diventa dunque per noi impossibile sottrarcene. Ciò che sicuramente sarà importante tenere a mente, sia nel mondo attuale che in quello futuro, sarà imparare a utilizzarla responsabilmente: ciò significa non delegare completamente ad essa tutte le funzioni mentali ed emotive, le decisioni legate alla nostra vita e alle relazioni, rendendola un po’ più strumento che
apparato psichico sostitutivo. La tecnologia ci fornisce tante possibilità ad oggi imprescindibili ma, forse, pensare di utilizzarla meno, per meno tempo al giorno, provando a riscoprire la conoscenza e la relazione attraverso altre modalità, potrebbe favorire non solo un migliore e più funzionale contatto con noi stessi e con il nostro mondo interno, ma anche un uso più consapevole ed efficiente dell’apparato tecnico che ci ritroviamo a utilizzare.

 

1Galimberti, in questo caso si riferisce a tutti gli strumenti e le innovazioni appartenenti al nostro periodo storico, noi invece all’interno di questo articolo ci riferiremo principalmente all’utilizzo di Internet e dell’intrattenimento.
2 Galimberti U., “Psiche e Techne”. Universale Economica Feltrinelli 1999, pp. 37.
3 Galimberti U., “Psiche e Techne”. Universale Economica Feltrinelli 1999, pp 47
4 Galimberti U., “Psiche e Techne”. Universale Economica Feltrinelli 1999, pp 615

Dott.ssa Federica Ariani

Psicologa-Psicoterapeuta

 

LIMERENZA: quando il desiderio diventa ossessione

Probabilmente sarà capitato a moltƏ, se non a tuttƏ, di provare un intenso attaccamento e desiderio emotivo nei confronti di qualcunƏ, che però non ci corrisponde. Ebbene, dopo un po’, insomma “ce ne siamo fattƏ una ragione”; questo non accade, o comunque avviene dopo tantissimo tempo se si soffre di limerenza.

Con questo termine si indica una condizione emotiva, ancora poco studiata, che determina un attaccamento ossessivo verso una particolare persona o un “oggetto di limerenza” con cui non si riesce ad instaurare una relaziona sana e che interferisce con il funzionamento quotidiano del soggetto.

Il termine è stato utilizzato per la prima volta dalla psicologa Dorothy Tennov nel suo libro del 1979 Love and Limerence – the Experience of Being”, tradotto poi in italiano come limerenza o ultrattaccamento. La Tennov condusse sin dagli anni ’60 studi sull’amore romantico, sul significato e sulle sensazioni associate alla sensazione di essere innamoratƏ. L’innamoramento determina, secondo la Tennoy un desiderio travolgente di attenzione e considerazione da parte di un’altra persona e la richiesta di essere corrispostƏ con pari sentimenti di ammirazione e desiderio. Talvolta però tutto questo assume dei contorni più cupi: il desiderio diventa pensiero intrusivo, la ricerca di considerazione si tramuta in ossessione e l’innamoramento diventa limerenza.

Caratteristiche della limerenza sono oltre al già citato pensiero intrusivo, l’estrema sensibilità alle azioni e ai cambiamenti dell’altrƏ che influenzano lo stato emotivo del soggetto limerente. Ad ogni minimo gesto, anche casuale o non rivolto a loro, può corrispondere una gioia immensa o un’estrema disperazione. C’è un intenso, ed appunto ossessivo, bisogno di ricevere conferme spesso ricercate in gesti o comportamenti che magari nel concreto non sono intenzionali o non sono rivolti a loro e persistenti fantasie e rimuginii riguardo alle azioni e situazioni che si possono venire a creare, in una continua spirale di gelosia e dubbio.

L’oggetto di limerenza è qualcunƏ che quasi mai corrisponde i sentimenti di idealizzazione e considerazione; sono “amori” non corrisposti che si instaurano indipendentemente dalla reale conoscenza dell’altrƏ o del tipo di rapporto instaurato. Effettivamente si evidenzia come la limerenza non sia un disturbo relazionale, ma a tutti gli effetti un disturbo affettivo; la vera relazione con l’oggetto di limerenza, infatti, è davvero marginale tanto che spesso, contrariamente da quello che succede nell’innamoramento, manca una autentica partecipazione o preoccupazione per il benessere dell’altrƏ. Anche il desiderio o l’attrazione sessuale non è presente o comunque ha un ruolo del tutto marginale, accade anche che oggetto di limerenza non sia dello stesso sesso da cui il soggetto è sessualmente attratto.

Per quanto fin qui detto, seguendo il pensiero di Wakin e Vo (2008), si possono osservare alcuni aspetti comuni tra la limerenza, il disturbo ossessivo compulsivo e quello da uso di sostanze.

Secondo i due autori tra i sintomi della limerenza si ritrovano sia i pensieri intrusivi caratteristici del DOC, che le compulsioni che si manifestano, in questo caso, con rituali legati al controllo, all’idealizzazione dell’oggetto e alla pianificazione. Così come nel DOC emerge una significativa compromissione del funzionamento del soggetto ed un elevato stato ansioso legato prevalentemente alla paura di un rifiuto da parte dell’oggetto di limerenza.

Allo stesso modo gli autori individuano alcune modalità di pensiero e comportamento simili a quanto si individua nel disturbo da uso di sostanze. Si rintracciano infatti sia il fenomeno della tolleranza, ovvero c’è sempre un maggior bisogno di reciprocità emotiva per mantenere il livello di gratificazione desiderato, che veri e propri sintomi da astinenza come dolore fisico, disturbi del sonno, irritabilità e depressione. Anche gli aspetti legati al continuo pensiero, all’iperfocalizzazione e alle fantasie legate all’oggetto ed il sottile piacere che ne deriva, sono assimilabili al cosiddetto rimuginio desiderate presente in chi usa sostanze.

Tutto questo ci porta, nonostante l’esigua letteratura in merito, a dire qualcosa anche sul possibile trattamento della limerenza. Proprio a partire infatti dai punti di contatto col DOC si può supporre che la psicoterapia cognitivo comportamentale possa essere quella maggiormente indicata (Wyant, 2021).

In un periodo come questo in cui si assiste ad un considerevole aumento di casi di dipendenza affettiva e di difficoltà relazionali è quanto mai importante incentivare gli studi clinici su questi temi oltre che prestare attenzione a situazioni di disagio emotivo che sebbene abbiano un’origine individuale, possono avere ripercussioni anche a livello relazionale e rivolgersi conseguentemente a professionisti competenti ed esperti.

Dott.ssa Chiara Delia

Psicologo – Pscoterapeuta

SE MI LASCI, MI CANCELLI!

Circa una ventina di anni fa arrivò nelle sale una pellicola che riscosse un grande successo con Jim Carrey e Kate Winslet come attori protagonisti e con un titolo italiano che destò non poche polemiche per via della traduzione poco coerente, ovvero Se mi lasci ti cancello (vs l’originale Eternal Sunshine of the Spotless Mind). I due protagonisti, Joel e Clementine, si incontrano su una spiaggia senza sapere di essere stati coinvolti in una relazione fino a qualche giorno prima quando, a seguito dell’ennesimo litigio, Clementine aveva deciso di rivolgersi a una clinica privata per cancellare dalla sua mente tutti i ricordi della loro storia d’amore, compreso il ricordo stesso di Joel.

Il dolore per la fine di una relazione può essere tanto forte da non poter essere tollerato. Questo evento è considerabile un lutto a tutti gli effetti, che da un lato implica la separazione, dall’altro introduce il concetto di limite come finitezza, impotenza. Ma perché alcune persone sembrano essere più forti e più capaci di attraversare la tempesta e altre rimangono intrappolate nell’eterno ricordo di ciò che non c’è più? Perché alcuni, come Clementine, non attraversano il dolore elaborando la fine della relazione, ma percorrono altre strade spesso con esiti patologici? Tollerare il limite e la frustrazione e attraversare il lutto è possibile se si contiene l’angoscia di separazione.

Di cosa si tratta?

L’angoscia di separazione è un evento centrale di ogni relazione a partire da quella tra madre/caregiver e bambino e si manifesta quando vi è una dipendenza dall’altro, come nel caso del neonato verso la madre/caregiver. La separazione da essa potrebbe essere vissuta come un evento drammatico che potrebbe ripercuotersi sulle future separazioni adulte (Rank, 1924). Le separazioni sono inevitabili nel corso della vita e le conosciamo fin dal primo momento in cui iniziamo la nostra esistenza con la nascita e con lo svezzamento. Il raggiungimento di una posizione depressiva, ovvero il superamento dell’onnipotenza e lo sperimentare l’impotenza e il senso del limite, è ciò che permette a bambini e adulti l’elaborazione della perdita (Klein, 1935). Nel tollerare tale evento la madre/caregiver ha un ruolo fondamentale, infatti è la figura che potrà aiutare il bambino a trasformare e tollerare l’angoscia di morte che si accompagna alla frustrazione, oppure può fallire e creare le premesse della sua patologia relazionale adulta (Bion, 1962). Il bambino nella relazione sviluppa una capacità considerata come una delle conquiste evolutive più difficili, ma necessaria per il raggiungimento della maturità affettiva: la capacità di essere solo, interiorizzando la presenza della madre/caregiver e poi la sua rappresentazione (Winnicott, 1965).

Dunque la capacità di essere solo, maturata nelle relazioni primarie, è ciò che rende tollerabile la separazione. Ma cosa succede quando tale capacità non si è sviluppata?

I fatti di cronaca ci parlano della difficoltà di alcuni di elaborare il lutto della separazione e la fine della storia d’amore, tanto da compiere gesti folli contro di sé e/o contro l’ex partner. Nel film il dolore di Clementine è tale da non poter continuare a vivere con il ricordo di ciò che è stato e di ciò che Joel rappresenta per lei e ad essere eliminato dalla mente è quindi il ricordo dell’Altro (per l’appunto, se mi lasci ti cancello). Nel film come nella realtà quando non è possibile recuperare la relazione si ricorre all’annientamento della rappresentazione dell’altro o, in casi peggiori, all’eliminazione dell’oggetto del dolore.

Quando termina una relazione, oltre all’angoscia di separazione, a entrare in gioco è il nostro senso di identità. Quello che siamo si costruisce nella relazione con l’Altro a partire dalle relazioni primarie, dove attraverso il riconoscimento e lo sguardo della madre/caregiver costruiamo noi stessi e così il sentimento d’identità. Nella relazione con una madre sufficientemente buona il bambino sperimenta di esistere e sviluppa un senso di Sé separato (Winnicott, 1971). Dunque il senso di identità per costruirsi necessita di una relazione e di un Altro da sé, ma successivamente deve essere in grado di sviluppare un Sé separato che possa esistere anche in assenza dell’Altro.

Lo stabilirsi del sentimento d’identità comporta il fatto che l’individuo reagisca con angoscia per la nuova situazione e con sentimenti depressivi relativi al lutto per l’oggetto perduto e anche alla perdita di aspetti del proprio Sé, lutto per il Sé (Grinberg e Grinberg, 1975). I momenti di cambiamento (come la fine di una relazione) pongono al centro il processo di elaborazione del lutto e se tale elaborazione non avviene ciò rappresenta una resistenza al cambiamento stesso.

In una celebre canzone di Riccardo Cocciante, Quando finisce un amore, oltre al lutto per l’oggetto perduto ritroviamo il bisogno di recuperare aspetti di Sé e ricostruirli, come esito della crisi che porta al cambiamento:

E vorresti cambiare faccia

E vorresti cambiare nome

E vorresti cambiare aria

E vorresti cambiare vita

E vorresti cambiare il mondo

[…]

Però, se potessi ragionarci sopra

Saprei perfettamente che domani sarà diverso

Lei non sarà più lei

Io non sarò lo stesso uomo

Chi invece sembra non avvicinarsi al cambiamento, non tollerare l’angoscia di separazione e non accettare la perdita è Clementine, che decide di non voler più pensare a Joel, rifiuta di averlo conosciuto e di aver condiviso insieme due anni della sua vita tanto da rivolgersi a una clinica per farsi cancellare i ricordi.

Ma proviamo ora a osservare la fine dell’amore da un altro punto di vista.

E se la decisione di cancellare la memoria non fosse tanto legata alla perdita di Joel quanto al proteggere se stessa? Ovvero, se il dolore non scaturisse tanto dalla perdita dell’oggetto d’amore quanto più dallo smarrimento di se stessi e dall’urgenza di rimettere insieme i brandelli lacerati del senso di identità, che in parte è andato perduto con la fine della relazione? Per usare i termini dei coniugi Grinber (1975) la reazione potrebbe quindi essere spiegata non tanto dal lutto per l’oggetto perduto quanto più dal lutto per il Sé. Il senso di identità viene dunque “cancellato” dall’Altro che con la fine della relazione porta via con sé pezzi di noi (da qui l’idea del titolo dell’articolo Se mi lasci, mi cancelli!).

Ecco quindi che giungiamo a una riflessione che mette in luce il senso narcisistico di alcune reazioni conseguenti alla fine della relazione. A essere intaccato è il senso di identità, l’essere riconosciuti e amati. E cosa accade se questo dipende dall’Altro? Un senso di sé non separato, un’incapacità di superare l’onnipotenza e di fare i conti con la propria impotenza e con il senso del limite, lo sperimentare la perdita di sé nella relazione con l’Altro, l’impossibilità di possedere l’Altro sono lo sfondo di molti omicidi e della non accettazione che l’Altro non ci voglia più, non ci ami più e rivolga ora lo sguardo altrove.

Prendo in prestito alcune parole dal web attribuite a Umberto Galimberti (tuttavia non vi sono riferimenti bibliografici che lo accertino), che sono state illuminanti su questo tema così attuale.

Quando finisce un amore non soffriamo tanto del congedo dell’altro, quanto del fatto che congedandosi da noi l’altro ci comunica che non siamo un granché. In gioco non è tanto la relazione, quanto la nostra identità. L’amore è uno stato ove per il tempo in cui siamo innamorati non affermiamo la nostra identità, ma la riceviamo dal riconoscimento dell’altroe quando l’altro se ne va restiamo senza identità. Ma è nostra la colpa di esserci disimpegnati da noi stessi, di aver fatto dipendere la nostra identità dall’amore dell’altro. E allora, dopo il congedo, il lavoro non è di cercare di recuperare la relazione dell’altro, ma di recuperare quel noi stessi che avevamo affidato all’altro, al suo amore, al suo apprezzamento.

È chiaro quindi quanto sia importante sviluppare e proteggere il proprio senso di identità e quanto la relazione psicoterapeutica possa essere un aiuto. Oggi più che mai la psicoterapia è un’interessata osservatrice di ciò che è la società e del funzionamento narcisistico che la contraddistingue ed è chiamata a lavorare sullo sviluppo della persona e dell’amore sano verso di sé quale generatore di relazioni basate su condivisione e reciprocità e non di autoaffermazione e dominio dell’Altro.

E tu, quanto ti senti persƏ dopo la fine di una relazione? Hai mai pensato di iniziare un viaggio terapeutico alla ricerca di te stessƏ?

Dott.ssa Tatiana Giunta

Psicologa – Psicoterapeuta

BIBLIOGRAFIA

Bion W.R. (1962). Apprendere dall’esperienza. Roma, Armando, 1972.

Grinberg, L. e Grinberg, R. (1975). Identità e cambiamento. Roma, Armando, 1976.

Klein M. (1935). Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi. In Scritti 1921-1958, Torino, Boringhieri, 1978.

Rank O. (1924). Il trauma della nascita. Firenze, Guaraldi, 1972.

Winnicott D.W. (1965). La capacità di essere solo. In Sviluppo affettivo e ambiente. Roma, Armando, 1974.

Winnicott D.W. (1971). Gioco e realtà. Roma, Armando, 1974.

DESTRA O SINISTRA? COSA SIGNIFICA ESSERE MANCINI OGGI

Non stiamo parlando di politica, come nella canzone di Giorgio Gaber “Destra sinistra” del 1994, ma di quale parte del nostro corpo (mani e piedi) abbiamo maggiormente sviluppato tanto da utilizzarla in modo preferenziale.

Essere mancini è una caratteristica che comporta alcune differenze, sia funzionali che fisiologiche.

Da cosa deriva la parola “mancino”?

Trae origine dal latino “mancus” che letteralmente significa “manchevole, impedito, mutilato”.

Un tempo essere mancini veniva considerato alla stregua di una vera e propria malattia. Infatti, l’utilizzo della mano sinistra era visto come un tratto caratteristico delle persone che non potevano “fare le cose dritte” o ancora i mancini erano additati come “fatti al contrario”. La mano sinistra era considerata come la mano del diavolo e, per questo motivo, non tanto tempo fa, doveva essere assolutamente corretta già nella prima infanzia, facendo ricorso a metodi rieducazionali al quanto discutibili. Ancora oggi nel nostro lessico c’è  traccia di un pregiudizio superstizioso nei confronti della mano sinistra, per esempio il “sinistro” è un incidente stradale, uno “sguardo sinistro” è uno sguardo minaccioso, un “tiro mancino” è un atto sleale etc.

Chi sono i mancini?

La risposta a tale domanda non è scontata come potrebbe apparire poiché non tutti coloro che utilizzano la mano sinistra per le loro azioni quotidiane in realtà sono mancini. Secondo una ricerca svolta nel 1977, infatti, circa il 15 % della popolazione mondiale era mancina. Di questi, però, non tutti sono mancini al 100%.

PODALE (20 % dei casi)

OCULARE (30 % dei casi)

UDITIVO (40 % dei casi)

Esiste un questionario, messo a punto da Chris McManus, che serve a valutare le preferenze di ognuno. In questo test vengono poste numerose domande che riguardano le azioni quotidiane: con quale mano afferriamo il coltello, quale piede spostiamo in avanti quando dobbiamo raccogliere un oggetto caduto in terra, quale occhio preferiamo per prendere la mira, quale orecchio usiamo durante una conversazione telefonica.

Essere mancini o destrorsi è frutto di un processo molto complesso che si chiama lateralizzazione, nei mancini differente rispetto alla maggioranza delle persone,  e che oggi finalmente non viene più considerato un difetto ma una diversità dalla quale derivano alcune proprietà e abilità.

Il cervello umano è diviso in 2 emisferi:

emisfero destro responsabile delle funzioni visuo-spaziali (immaginazione, creatività e pensiero intuittivo-sintetico)
emisfero sinistro responsabile delle funzioni logico-linguistiche (scrittura, linguaggio e pensiero lineare).

Essere mancini significa non solo usare prevalentemente la mano sinistra rispetto alla destra in tutte le attività che richiedono l’utilizzo di una sola mano per volta, ma avere anche una diversa distribuzione delle funzioni celebrali dei due emisferi. Mentre nei destrorsi il linguaggio è governato dall’emisfero sinistro, nei mancini queste funzioni sono controllate prevalentemente dall’emisfero destro oppure vedono la collaborazione di entrambi gli emisferi.

Mancini si nasce o si diventa?

Il processo che conduce alla lateralità manuale (LM), ovvero all’uso preferenziale di una mano rispetto all’altra (e quindi anche della mano sinistra rispetto alla destra), sembra essere influenzato da diversi fattori: genetici, prenatali, cerebrali e ambientali. Le ricerche effettuate confrontando gemelli che condividono lo stesso genoma e gemelli eterozigoti, hanno evidenziato che circa il 25% della varianza fenotipica della lateralità manuale ha anche una componente genetica. La suddetta componente però non è predominante come può esserlo per esempio rispetto alla ereditabilità di un tratto come l’altezza che si aggira intorno all’80%. Inoltre,  gli studi condotti sul genoma (GWAS),  ci dicono che la lateralità manuale sembra essere un fenotipo complesso influenzato da molteplici varianti genetiche piuttosto che da un singolo gene.

La domanda “Mancini si nasce?” è difficilmente liquidabile con una risposta binaria (sì/no), ciò che sappiamo è che la maggioranza degli individui mostra una preferenza per l’uso della mano destra e che questa asimmetria tra i due lati del nostro corpo si può già rintracciare nel primo periodo di gestazione, come afferma uno studio condotto dall’Università della Ruhr, in Germania. Lo studio evidenzia come già dalla decima settimana di gravidanza, circa il 90% dei feti tenderebbe a muovere maggiormente l’arto superiore destro e soltanto il 10% prediligerebbe il movimento di quello sinistro.

Considerando però che un feto di 10 settimane non presenta ancora il collegamento tra cervello e midollo spinale, i ricercatori ipotizzano che l’origine del mancinismo non sia tanto legata al cervello quanto al midollo spinale stesso.

In parole povere, sembrerebbe che il bambino inizi a preferire una mano piuttosto che l’altra ancora prima che il cervello governi interamente il resto del corpo.

Da un punto di vista neurologico ci sono differenze?

Il fenomeno della lateralizzazione emisferica, un principio fondamentale dell’organizzazione cerebrale della nostra specie, rimane a tratti oscuro. Dal punto di vista funzionale,  la preferenza manuale destra sembra essere associata ad una più marcata lateralizzazione emisferica per funzioni cognitive come il linguaggio e l’attenzione spaziale. Nei mancini invece, a parità di compito vi è un coinvolgimento  di aree cerebrali maggiormente distribuito e bilaterale. In parole semplici nei mancini i due emisferi operano in modo più integrato rispetto ai soggetti destrimani, con  livelli più efficienti di comunicazione interemisferica.

L’uso di tecniche di neuroimmagine hanno osservato che, nei mancini, il corpo calloso ha dimensioni maggiori.

Questa struttura è un fascio di fibre neuronali che si occupa di mettere in comunicazione emisfero destro e sinistro, un compito fondamentale nelle attività che richiedono la comunicazione e integrazione tra diverse strutture cerebrali. Da qui deriva il luogo comune che forse avrai sentito anche tu, secondo il quale i mancini sarebbero più coordinati e più efficienti nello svolgimento di determinate attività che richiedono coordinazione.

Inoltre, è stato possibile osservare alcune differenze anche relativamente al senso di rotazione e di direzionalità: quando viene richiesto di ruotare un determinato oggetto, un mancino lo farà principalmente in senso orario.

In più, i mancini elaborano le informazioni grafiche da destra a sinistra e riescono ad astrarre con maggior semplicità gli oggetti tridimensionali e a sviluppare abilità visuo-spaziali più precise.

E’ possibile ipotizzare che una lateralizzazione meno marcata nei soggetti mancini potrebbe derivare, anche dal fattore ambientale, ovvero dalla pressione esercitata da un’architettura ambientale a misura di destrorsi. I continui adattamenti producono maggiori abilità psicomotorie, migliorando ulteriormente le connessioni tra emisfero destro e sinistro e facilitando l’apprendimento di informazioni nuove.

Ecco spiegato un altro luogo comune secondo il quale i mancini sarebbero migliori nello sport.

Tutta questa adattabilità incrementa anche la flessibilità cognitiva e rende le persone mancine più abili in quei compiti che richiedono abilità multitasking.

Quando possiamo affermare che un bambino è mancino?

Il processo di lateralizzazione, sviluppo di una maggiore forza e maggiore quantità di energia (tono) in uno dei due lati del nostro corpo,  inizia intorno ai 3-4 anni e si conclude  verso i 7-8 anni con l’acquisizione dello schema corporeo e la consapevolezza della propria lateralità.

Per capire in quale direzione (destra/sinistra) sta andando il processo di lateralizzazione nei bambini dobbiamo porci le seguenti domande:

con quale mano afferra un oggetto in arrivo?
con quale piede inizia una scalinata?
con quale gamba tira calci?
con quale mano conta fino a 5?
quale braccio è più forte?

Fino a relativamente poco tempo fa, succedeva spesso che i genitori o gli insegnanti a scuola costringessero i bambini mancini a usare la mano destra.

Uno studio in Germania del 2010 ha analizzato il cervello di persone adulte che erano state costrette a cambiare mano. Se paragonata con quella di persone rimaste mancine, la loro attività cerebrale era più simile a quella di persone destre. Ma se comparata a quella di persone destre, somigliava di più a quella di persone mancine. Sulla base di ciò, Willems sostiene che l’allenamento non può cambiare completamente l’inclinazione naturale verso la mano sinistra.

Essere mancini nella vita quotidiana.

Il mondo in cui viviamo è maggiormente progettato per persone che usano di preferenza la mano destra, i mancini non hanno ancora una vita facile in alcune azioni quotidiane. Basti pensare all’utilizzo di un paio di forbici, o a quello di un mouse per pc, alle sedie da conferenza con tavolino ribaltabile, all’apriscatole, tutti oggetti progettati principalmente per le persone destrorse.

Senza considerare attività come la scrittura che, a causa della convenzione di scrivere da sinistra verso destra, impedisce alle persone mancine di vedere correttamente che cosa stanno scrivendo con tanto di sbavature che la mano crea sul foglio e i segni dell’inchiostro sulla pelle. Anche a tavola, le posate vengono sistemate a sinistra del piatto, nonostante poi ciascuna persona trovi il suo personale modo per utilizzarle in maniera funzionale.

Infine, molti abiti presentano i bottoni sul lato destro e le asole sul sinistro, dunque anche il semplice atto di vestirsi per un mancino può apparire un po’ più complicato. Per fortuna, oggi esistono molti articoli studiati per essere utilizzati in modo agevole anche dai mancini.

Dal 1992 il Club “Lefthanders International” ha istituito la giornata internazionale dei mancini che ricade annualmente il 13 agosto: scopo della ricorrenza è quello di aumentare la consapevolezza presso l’opinione pubblica sulle implicazioni del mancinismo, incluse le sue difficoltà e i suoi punti di forza. A tale proposito secondo uno studio condotto dall’Università di Toledo, le persone mancine sembrerebbero avvantaggiate nella memoria episodica, ovvero quella che si occupa di immagazzinare a lungo termine gli avvenimenti della vita di tutti i giorni.

Anche l’abilità oratoria è un’altra particolarità nei mancini, che pare siano più abili nei discorsi articolati e fluidi. Infine, i mancini sembrano più bravi anche in tutte le attività artistiche.

Dott.ssa Angela Pia Gianpalmo

 

 

Bibliografia

Cuellar-Partida, G., Tung, J. Y., Eriksson, N., Albrecht, E., Aliev, F., Andreassen, O. A., … & Medland, S. E. (2021). Genome-wide association study identifies 48 common genetic variants associated with handedness. Nature human behaviour5(1), 59-70.
Hepper, P. G. (2013). The developmental origins of laterality: Fetal handedness. Developmental Psychobiology55(6), 588-595.
Klöppel, S., Mangin, J. F., Vongerichten, A., Frackowiak, R. S., & Siebner, H. R. (2010). Nurture versus nature: long-term impact of forced right-handedness on structure of pericentral cortex and basal ganglia. Journal of Neuroscience30(9), 3271-3275.
Vallortigara, G., Rogers, L. J., & Bisazza, A. (1999). Possible evolutionary origins of cognitive brain lateralization. Brain Research Reviews30(2), 164-175.

Perché dormire bene è fondamentale per la salute? Effetti della deprivazione di sonno e consigli pratici per migliorarlo

Il sonno è una componente essenziale della nostra vita quotidiana: se ci pensiamo, passiamo (e passeremo), all’incirca, un terzo della nostra vita a dormire. Il sonno influenza significativamente la salute mentale e fisica e, nonostante la sua importanza, molte persone trascurano il valore di un buon riposo notturno. In Italia, quasi un italiano su tre dorme un numero insufficiente di ore e uno su sette riporta una qualità insoddisfacente del proprio sonno: uno studio condotto nel 2019 dai ricercatori dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e il trend sembra stare peggiorando, anche per via del Covid. Sarebbero fino a 13,4 milioni le persone nel nostro Paese affette da disturbi del sonno. Stando all’Associazione Italiana per la Medicina del Sonno (AIMS), un adulto su quattro soffre di insonnia cronica o transitoria.

In questo articolo cercherò di approfondire tre macro-temi:

Come il sonno influisce sul benessere;
Gli effetti della deprivazione di sonno;
Qualche consiglio pratico per migliorare la qualità del sonno.

L’Importanza del Sonno per la Salute Mentale e Fisica

Dormire adeguatamente e a sufficienza è cruciale per il corretto funzionamento di corpo, mente e organismo. Durante il sonno, il cervello e il corpo svolgono diverse funzioni vitali:

1. Consolidamento della Memoria e Apprendimento: dormendo, il cervello elabora e consolida le informazioni acquisite durante il giorno, trasferendole dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine. Diversi studi hanno dimostrato che soprattutto la faseREM (Rapid Eye Movement, chiamata così proprio perché durante questa fase, sotto le palpebre chiuse, i nostri occhi si muovono molto velocemente: è questa la fase in cui sogniamo) è particolarmente importante per l’apprendimento e la memorizzazione.
2. Regolazione Emotiva: Il sonno aiuta a stabilizzare l’umore e a gestire lo stress. La mancanza di sonno è collegata a una maggiore irritabilità, ansia e rischio di depressione e disturbi dell’umore.
3. Riparazione Fisica: Durante il sonno profondo, il corpo rilascia ormoni della crescita che aiutano a riparare i tessuti e ad agire correttamente sullo sviluppo e la ripresa muscolare. Questo processo è fondamentale per la guarigione delle ferite e il recupero muscolare dopo l’attività fisica, ad esempio.
4. Sistema Immunitario: Il sonno rafforza il sistema immunitario. Durante il sonno, il corpo produce citochine, molecole proteiche essenziali per combattere infezioni e infiammazioni perché sono il canale di comunicazione tra il sistema immunitario e gli organi e i tessuti. La mancanza di sonno può indebolire la risposta immunitaria, rendendo l’individuo più suscettibile alle malattie.

Quanto ore bisognerebbe dormire?

La quantità di sonno necessaria varia a seconda dell’età e delle esigenze individuali. Tuttavia, esistono linee guida generali fornite da enti come la National Sleep Foundation:

Neonati (0-3 mesi): 14-17 ore
Infanti (4-11 mesi): 12-15 ore
Bambini (1-2 anni): 11-14 ore
Bambini in età prescolare (3-5 anni): 10-13 ore
Bambini in età scolare (6-13 anni): 9-11 ore
Adolescenti (14-17 anni): 8-10 ore
Adulti (18-64 anni): 7-9 ore
Anziani (65+ anni): 7-8 ore

Diversi studi confermano che la quantità di ore ottimali è di 7 ore e mezzo/8 ore a notte ma nonostante ciò resta comunque più importante la soggettività di ogni singolo individuo: il valore medio deve essere preso come un’indicazione generale perché bisogna sempre fare i conti con i ritmi di vita di ognuno, la genetica, le abitudini e le caratteristiche dell’ambiente. Dormire meno di quanto raccomandato può avere effetti negativi sulla salute a lungo termine.

Effetti della Deprivazione del Sonno

La deprivazione del sonno può avere conseguenze gravi e diffuse su vari aspetti della salute:

1. Diminuzione delle Funzioni Cognitive: La mancanza di sonno compromette la memoria, la concentrazione e la capacità decisionale. Le persone private del sonno mostrano una riduzione delle prestazioni cognitive e un rallentamento nei tempi di reazione.

Nel 2017 è partito uno dei più grandi studi sul sonno di sempre. A dirigerlo è Adrian Owen, un neuroscienziato britannico con sede in Ontario. La ricerca si basava sulla somministrazione di un banale test pratico (un gioco in cui bisogna cliccare sulla parola nella parte bassa dello schermo che corrisponde al colore con cui è scritta la parola nella parte alta) allo stesso individuo, per due volte: una dopo una normale nottata di sonno e una dopo una notte con sole 4 ore di sonno. Il risultato di questa ricerca, pubblicato nel 2018, ha rivelato che, in termini di capacità cognitive generali e complesse, dormire solamente 4 ore a notte può equivalere all’effetto di un invecchiamento di 8 anni.

2. Rischio di Malattie Croniche: La deprivazione cronica del sonno è associata a un aumento del rischio di diverse malattie croniche, tra cui malattie cardiovascolari, diabete di tipo 2, obesità e ipertensione. La mancanza di sonno influisce negativamente sul metabolismo e sulla regolazione della glicemia.
3. Compromissione della Salute Mentale: Il sonno insufficiente è collegato a un rischio maggiore di sviluppare disturbi dell’umore, come la depressione, e disturbi d’ansia. La deprivazione del sonno può alterare i livelli di neurotrasmettitori nel cervello, influenzando negativamente l’umore e il benessere emotivo.
4. Sistema Immunitario Debole: La mancanza di sonno riduce la produzione delle suddette citochine, aumentando la vulnerabilità a malattie come raffreddori e influenza.
5. Alterazioni Metaboliche: La deprivazione di sonno può alterare gli ormoni che regolano l’appetito, aumentando la produzione di grelina (ormone della fame) e riducendo la produzione di leptina (ormone della sazietà). Questo può portare a un aumento di peso e all’obesità.

Molto importante da tenere in considerazione è il fatto che anche solo uno di questi effetti negativi può portare ad un “effetto domino” e coinvolgere anche altri aspetti o far sviluppare altre patologie o psicopatologie: ad esempio, l’aumento considerevole di peso potrebbe portare ad un profonda tristezza e/o sensazione di inadeguatezza che potrebbe scivolare più facilmente in un disturbo dell’umore.

Consigli per Migliorare la Qualità del Sonno

Per migliorare la qualità del sonno si possono adottare delle misure pratiche e delle sane abitudini in modo da creare un ambiente favorevole al riposo:

1. Stabilisci una Routine Regolare: cerca di andare a dormire e di svegliarti alla stessa ora ogni giorno, anche nei fine settimana. Questo aiuta a regolare il ritmo circadiano del tuo corpo, ovvero il nostro “orologio biologico”.
2. Crea un Ambiente di Sonno Ottimale: Assicurati che la tua camera da letto sia buia, silenziosa e fresca. Possono essere utili tende, tappi per le orecchie, mascherine per gli occhi, ad esempio.
3. Limita l’Uso degli Schermi Prima di Dormire: L’esposizione alla luce blu degli schermi elettronici può interferire con la produzione di melatonina, l’ormone del sonno. Sarebbe opportuno diminuire l’utilizzo dei dispositivi elettronici almeno un’ora prima di coricarti.
4. Limita l’utilizzo dello smartphone/tablet e della tv/computer mentre sei nel letto: anche per una questione di una adatta associazione mentale, il letto dovrebbe essere contemplato come “l’oggetto dove si dorme”, in modo da abituare profondamente il nostro corpo e la nostra mente che quel posto serve per dormire. Può essere un semplice gesto che facilita l’addormentamento.
5. Fai Attività Fisica Regolare: L’esercizio fisico può migliorare la qualità del sonno, ma evita l’attività intensa nelle ore troppo tarde, poiché potrebbe avere l’effetto opposto.
6. Evita Caffeina e Alcol: La caffeina può rimanere nel sistema per diverse ore, quindi cerca di limitarne l’assunzione nel pomeriggio e nella sera. Anche l’alcol può interferire con il sonno, causando risvegli notturni e una riduzione della qualità del sonno REM.
7. Adotta una Routine di Rilassamento: Pratiche come la lettura, il bagno caldo o le tecniche di respirazione profonda possono aiutare a segnalare al tuo corpo che è ora di rilassarsi e prepararsi per il sonno: l’intensità delle attività dovrebbe calare man mano che ci si avvicina all’ora nella quale andremo a dormire.

Ora una digressione su quello che concerne la psicologia e, soprattutto, la psicoterapia. Il sonno è una delle funzioni che più spesso e facilmente viene primariamente “attaccata dalla nostra mente”: molti disturbi o disagi del sonno possono essere riconducibili a periodi difficili, di stress, di disadattamento a nuove situazioni di vita, di malessere psicologico in generale. La psicoterapia può aiutare ad individuare quello che si potrebbe celare dietro le difficoltà di addormentamento, l’insonnia, temporanea o cronica, il sonno disturbato, gli incubi notturni, ecc. Vale la pena tenere in considerazione l’intervento psicoterapeutico da parte di un/una professionista, in modo da agire sulle criticità nella maniera eventualmente più adatta possibile: spesso, la causa potrebbe essere anche solo psicologica, in effetti…

In conclusione, il sonno è una componente essenziale del benessere fisico e mentale e della salute del nostro organismo, per una serie di motivi, anche molto importanti, che spesso però sfuggono di mente. Adottare abitudini sane e stabili e creare un ambiente favorevole al riposo può migliorare significativamente la qualità del sonno, contribuendo a una vita più sana, rilassata, positiva e felice.

Per chi desidera approfondire ancora di più, questi due testi di stampo scientifico ma accessibili anche ai non addetti ai lavori possono essere presi come riferimento: L’arte di dormire bene” di Russell Foster e “Perché dormiamo. Poteri e segreti del sonno per una vita sana e felice” di Matthew Walker.

Dott. Riccardo Falconieri

Psicologo

 

Bibliografia:

1. National Sleep Foundation (2020), Sleep and Memory.
2. Owen A. (2018), Effetti dissociabili della durata del sonno giornaliero auto-riportata sulle capacità cognitive di alto livello.
3. National Sleep Foundation (2015), Sleep Duration Recommendations.
4. Foster R. (2023), L’arte di dormire bene.
5. Walker M. (2023), Perché dormiamo. Poteri e segreti del sonno per una vita sana e felice