ARTICOLI

Qui di seguito trovate gli articoli che i nostri soci hanno pubblicato su diverse testate. Buona lettura.

SE MI LASCI, MI CANCELLI!

Circa una ventina di anni fa arrivò nelle sale una pellicola che riscosse un grande successo con Jim Carrey e Kate Winslet come attori protagonisti e con un titolo italiano che destò non poche polemiche per via della traduzione poco coerente, ovvero Se mi lasci ti cancello (vs l’originale Eternal Sunshine of the Spotless Mind). I due protagonisti, Joel e Clementine, si incontrano su una spiaggia senza sapere di essere stati coinvolti in una relazione fino a qualche giorno prima quando, a seguito dell’ennesimo litigio, Clementine aveva deciso di rivolgersi a una clinica privata per cancellare dalla sua mente tutti i ricordi della loro storia d’amore, compreso il ricordo stesso di Joel.

Il dolore per la fine di una relazione può essere tanto forte da non poter essere tollerato. Questo evento è considerabile un lutto a tutti gli effetti, che da un lato implica la separazione, dall’altro introduce il concetto di limite come finitezza, impotenza. Ma perché alcune persone sembrano essere più forti e più capaci di attraversare la tempesta e altre rimangono intrappolate nell’eterno ricordo di ciò che non c’è più? Perché alcuni, come Clementine, non attraversano il dolore elaborando la fine della relazione, ma percorrono altre strade spesso con esiti patologici? Tollerare il limite e la frustrazione e attraversare il lutto è possibile se si contiene l’angoscia di separazione.

Di cosa si tratta?

L’angoscia di separazione è un evento centrale di ogni relazione a partire da quella tra madre/caregiver e bambino e si manifesta quando vi è una dipendenza dall’altro, come nel caso del neonato verso la madre/caregiver. La separazione da essa potrebbe essere vissuta come un evento drammatico che potrebbe ripercuotersi sulle future separazioni adulte (Rank, 1924). Le separazioni sono inevitabili nel corso della vita e le conosciamo fin dal primo momento in cui iniziamo la nostra esistenza con la nascita e con lo svezzamento. Il raggiungimento di una posizione depressiva, ovvero il superamento dell’onnipotenza e lo sperimentare l’impotenza e il senso del limite, è ciò che permette a bambini e adulti l’elaborazione della perdita (Klein, 1935). Nel tollerare tale evento la madre/caregiver ha un ruolo fondamentale, infatti è la figura che potrà aiutare il bambino a trasformare e tollerare l’angoscia di morte che si accompagna alla frustrazione, oppure può fallire e creare le premesse della sua patologia relazionale adulta (Bion, 1962). Il bambino nella relazione sviluppa una capacità considerata come una delle conquiste evolutive più difficili, ma necessaria per il raggiungimento della maturità affettiva: la capacità di essere solo, interiorizzando la presenza della madre/caregiver e poi la sua rappresentazione (Winnicott, 1965).

Dunque la capacità di essere solo, maturata nelle relazioni primarie, è ciò che rende tollerabile la separazione. Ma cosa succede quando tale capacità non si è sviluppata?

I fatti di cronaca ci parlano della difficoltà di alcuni di elaborare il lutto della separazione e la fine della storia d’amore, tanto da compiere gesti folli contro di sé e/o contro l’ex partner. Nel film il dolore di Clementine è tale da non poter continuare a vivere con il ricordo di ciò che è stato e di ciò che Joel rappresenta per lei e ad essere eliminato dalla mente è quindi il ricordo dell’Altro (per l’appunto, se mi lasci ti cancello). Nel film come nella realtà quando non è possibile recuperare la relazione si ricorre all’annientamento della rappresentazione dell’altro o, in casi peggiori, all’eliminazione dell’oggetto del dolore.

Quando termina una relazione, oltre all’angoscia di separazione, a entrare in gioco è il nostro senso di identità. Quello che siamo si costruisce nella relazione con l’Altro a partire dalle relazioni primarie, dove attraverso il riconoscimento e lo sguardo della madre/caregiver costruiamo noi stessi e così il sentimento d’identità. Nella relazione con una madre sufficientemente buona il bambino sperimenta di esistere e sviluppa un senso di Sé separato (Winnicott, 1971). Dunque il senso di identità per costruirsi necessita di una relazione e di un Altro da sé, ma successivamente deve essere in grado di sviluppare un Sé separato che possa esistere anche in assenza dell’Altro.

Lo stabilirsi del sentimento d’identità comporta il fatto che l’individuo reagisca con angoscia per la nuova situazione e con sentimenti depressivi relativi al lutto per l’oggetto perduto e anche alla perdita di aspetti del proprio Sé, lutto per il Sé (Grinberg e Grinberg, 1975). I momenti di cambiamento (come la fine di una relazione) pongono al centro il processo di elaborazione del lutto e se tale elaborazione non avviene ciò rappresenta una resistenza al cambiamento stesso.

In una celebre canzone di Riccardo Cocciante, Quando finisce un amore, oltre al lutto per l’oggetto perduto ritroviamo il bisogno di recuperare aspetti di Sé e ricostruirli, come esito della crisi che porta al cambiamento:

E vorresti cambiare faccia

E vorresti cambiare nome

E vorresti cambiare aria

E vorresti cambiare vita

E vorresti cambiare il mondo

[…]

Però, se potessi ragionarci sopra

Saprei perfettamente che domani sarà diverso

Lei non sarà più lei

Io non sarò lo stesso uomo

Chi invece sembra non avvicinarsi al cambiamento, non tollerare l’angoscia di separazione e non accettare la perdita è Clementine, che decide di non voler più pensare a Joel, rifiuta di averlo conosciuto e di aver condiviso insieme due anni della sua vita tanto da rivolgersi a una clinica per farsi cancellare i ricordi.

Ma proviamo ora a osservare la fine dell’amore da un altro punto di vista.

E se la decisione di cancellare la memoria non fosse tanto legata alla perdita di Joel quanto al proteggere se stessa? Ovvero, se il dolore non scaturisse tanto dalla perdita dell’oggetto d’amore quanto più dallo smarrimento di se stessi e dall’urgenza di rimettere insieme i brandelli lacerati del senso di identità, che in parte è andato perduto con la fine della relazione? Per usare i termini dei coniugi Grinber (1975) la reazione potrebbe quindi essere spiegata non tanto dal lutto per l’oggetto perduto quanto più dal lutto per il Sé. Il senso di identità viene dunque “cancellato” dall’Altro che con la fine della relazione porta via con sé pezzi di noi (da qui l’idea del titolo dell’articolo Se mi lasci, mi cancelli!).

Ecco quindi che giungiamo a una riflessione che mette in luce il senso narcisistico di alcune reazioni conseguenti alla fine della relazione. A essere intaccato è il senso di identità, l’essere riconosciuti e amati. E cosa accade se questo dipende dall’Altro? Un senso di sé non separato, un’incapacità di superare l’onnipotenza e di fare i conti con la propria impotenza e con il senso del limite, lo sperimentare la perdita di sé nella relazione con l’Altro, l’impossibilità di possedere l’Altro sono lo sfondo di molti omicidi e della non accettazione che l’Altro non ci voglia più, non ci ami più e rivolga ora lo sguardo altrove.

Prendo in prestito alcune parole dal web attribuite a Umberto Galimberti (tuttavia non vi sono riferimenti bibliografici che lo accertino), che sono state illuminanti su questo tema così attuale.

Quando finisce un amore non soffriamo tanto del congedo dell’altro, quanto del fatto che congedandosi da noi l’altro ci comunica che non siamo un granché. In gioco non è tanto la relazione, quanto la nostra identità. L’amore è uno stato ove per il tempo in cui siamo innamorati non affermiamo la nostra identità, ma la riceviamo dal riconoscimento dell’altroe quando l’altro se ne va restiamo senza identità. Ma è nostra la colpa di esserci disimpegnati da noi stessi, di aver fatto dipendere la nostra identità dall’amore dell’altro. E allora, dopo il congedo, il lavoro non è di cercare di recuperare la relazione dell’altro, ma di recuperare quel noi stessi che avevamo affidato all’altro, al suo amore, al suo apprezzamento.

È chiaro quindi quanto sia importante sviluppare e proteggere il proprio senso di identità e quanto la relazione psicoterapeutica possa essere un aiuto. Oggi più che mai la psicoterapia è un’interessata osservatrice di ciò che è la società e del funzionamento narcisistico che la contraddistingue ed è chiamata a lavorare sullo sviluppo della persona e dell’amore sano verso di sé quale generatore di relazioni basate su condivisione e reciprocità e non di autoaffermazione e dominio dell’Altro.

E tu, quanto ti senti persƏ dopo la fine di una relazione? Hai mai pensato di iniziare un viaggio terapeutico alla ricerca di te stessƏ?

Dott.ssa Tatiana Giunta

Psicologa – Psicoterapeuta

BIBLIOGRAFIA

Bion W.R. (1962). Apprendere dall’esperienza. Roma, Armando, 1972.

Grinberg, L. e Grinberg, R. (1975). Identità e cambiamento. Roma, Armando, 1976.

Klein M. (1935). Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi. In Scritti 1921-1958, Torino, Boringhieri, 1978.

Rank O. (1924). Il trauma della nascita. Firenze, Guaraldi, 1972.

Winnicott D.W. (1965). La capacità di essere solo. In Sviluppo affettivo e ambiente. Roma, Armando, 1974.

Winnicott D.W. (1971). Gioco e realtà. Roma, Armando, 1974.

DESTRA O SINISTRA? COSA SIGNIFICA ESSERE MANCINI OGGI

Non stiamo parlando di politica, come nella canzone di Giorgio Gaber “Destra sinistra” del 1994, ma di quale parte del nostro corpo (mani e piedi) abbiamo maggiormente sviluppato tanto da utilizzarla in modo preferenziale.

Essere mancini è una caratteristica che comporta alcune differenze, sia funzionali che fisiologiche.

Da cosa deriva la parola “mancino”?

Trae origine dal latino “mancus” che letteralmente significa “manchevole, impedito, mutilato”.

Un tempo essere mancini veniva considerato alla stregua di una vera e propria malattia. Infatti, l’utilizzo della mano sinistra era visto come un tratto caratteristico delle persone che non potevano “fare le cose dritte” o ancora i mancini erano additati come “fatti al contrario”. La mano sinistra era considerata come la mano del diavolo e, per questo motivo, non tanto tempo fa, doveva essere assolutamente corretta già nella prima infanzia, facendo ricorso a metodi rieducazionali al quanto discutibili. Ancora oggi nel nostro lessico c’è  traccia di un pregiudizio superstizioso nei confronti della mano sinistra, per esempio il “sinistro” è un incidente stradale, uno “sguardo sinistro” è uno sguardo minaccioso, un “tiro mancino” è un atto sleale etc.

Chi sono i mancini?

La risposta a tale domanda non è scontata come potrebbe apparire poiché non tutti coloro che utilizzano la mano sinistra per le loro azioni quotidiane in realtà sono mancini. Secondo una ricerca svolta nel 1977, infatti, circa il 15 % della popolazione mondiale era mancina. Di questi, però, non tutti sono mancini al 100%.

PODALE (20 % dei casi)

OCULARE (30 % dei casi)

UDITIVO (40 % dei casi)

Esiste un questionario, messo a punto da Chris McManus, che serve a valutare le preferenze di ognuno. In questo test vengono poste numerose domande che riguardano le azioni quotidiane: con quale mano afferriamo il coltello, quale piede spostiamo in avanti quando dobbiamo raccogliere un oggetto caduto in terra, quale occhio preferiamo per prendere la mira, quale orecchio usiamo durante una conversazione telefonica.

Essere mancini o destrorsi è frutto di un processo molto complesso che si chiama lateralizzazione, nei mancini differente rispetto alla maggioranza delle persone,  e che oggi finalmente non viene più considerato un difetto ma una diversità dalla quale derivano alcune proprietà e abilità.

Il cervello umano è diviso in 2 emisferi:

emisfero destro responsabile delle funzioni visuo-spaziali (immaginazione, creatività e pensiero intuittivo-sintetico)
emisfero sinistro responsabile delle funzioni logico-linguistiche (scrittura, linguaggio e pensiero lineare).

Essere mancini significa non solo usare prevalentemente la mano sinistra rispetto alla destra in tutte le attività che richiedono l’utilizzo di una sola mano per volta, ma avere anche una diversa distribuzione delle funzioni celebrali dei due emisferi. Mentre nei destrorsi il linguaggio è governato dall’emisfero sinistro, nei mancini queste funzioni sono controllate prevalentemente dall’emisfero destro oppure vedono la collaborazione di entrambi gli emisferi.

Mancini si nasce o si diventa?

Il processo che conduce alla lateralità manuale (LM), ovvero all’uso preferenziale di una mano rispetto all’altra (e quindi anche della mano sinistra rispetto alla destra), sembra essere influenzato da diversi fattori: genetici, prenatali, cerebrali e ambientali. Le ricerche effettuate confrontando gemelli che condividono lo stesso genoma e gemelli eterozigoti, hanno evidenziato che circa il 25% della varianza fenotipica della lateralità manuale ha anche una componente genetica. La suddetta componente però non è predominante come può esserlo per esempio rispetto alla ereditabilità di un tratto come l’altezza che si aggira intorno all’80%. Inoltre,  gli studi condotti sul genoma (GWAS),  ci dicono che la lateralità manuale sembra essere un fenotipo complesso influenzato da molteplici varianti genetiche piuttosto che da un singolo gene.

La domanda “Mancini si nasce?” è difficilmente liquidabile con una risposta binaria (sì/no), ciò che sappiamo è che la maggioranza degli individui mostra una preferenza per l’uso della mano destra e che questa asimmetria tra i due lati del nostro corpo si può già rintracciare nel primo periodo di gestazione, come afferma uno studio condotto dall’Università della Ruhr, in Germania. Lo studio evidenzia come già dalla decima settimana di gravidanza, circa il 90% dei feti tenderebbe a muovere maggiormente l’arto superiore destro e soltanto il 10% prediligerebbe il movimento di quello sinistro.

Considerando però che un feto di 10 settimane non presenta ancora il collegamento tra cervello e midollo spinale, i ricercatori ipotizzano che l’origine del mancinismo non sia tanto legata al cervello quanto al midollo spinale stesso.

In parole povere, sembrerebbe che il bambino inizi a preferire una mano piuttosto che l’altra ancora prima che il cervello governi interamente il resto del corpo.

Da un punto di vista neurologico ci sono differenze?

Il fenomeno della lateralizzazione emisferica, un principio fondamentale dell’organizzazione cerebrale della nostra specie, rimane a tratti oscuro. Dal punto di vista funzionale,  la preferenza manuale destra sembra essere associata ad una più marcata lateralizzazione emisferica per funzioni cognitive come il linguaggio e l’attenzione spaziale. Nei mancini invece, a parità di compito vi è un coinvolgimento  di aree cerebrali maggiormente distribuito e bilaterale. In parole semplici nei mancini i due emisferi operano in modo più integrato rispetto ai soggetti destrimani, con  livelli più efficienti di comunicazione interemisferica.

L’uso di tecniche di neuroimmagine hanno osservato che, nei mancini, il corpo calloso ha dimensioni maggiori.

Questa struttura è un fascio di fibre neuronali che si occupa di mettere in comunicazione emisfero destro e sinistro, un compito fondamentale nelle attività che richiedono la comunicazione e integrazione tra diverse strutture cerebrali. Da qui deriva il luogo comune che forse avrai sentito anche tu, secondo il quale i mancini sarebbero più coordinati e più efficienti nello svolgimento di determinate attività che richiedono coordinazione.

Inoltre, è stato possibile osservare alcune differenze anche relativamente al senso di rotazione e di direzionalità: quando viene richiesto di ruotare un determinato oggetto, un mancino lo farà principalmente in senso orario.

In più, i mancini elaborano le informazioni grafiche da destra a sinistra e riescono ad astrarre con maggior semplicità gli oggetti tridimensionali e a sviluppare abilità visuo-spaziali più precise.

E’ possibile ipotizzare che una lateralizzazione meno marcata nei soggetti mancini potrebbe derivare, anche dal fattore ambientale, ovvero dalla pressione esercitata da un’architettura ambientale a misura di destrorsi. I continui adattamenti producono maggiori abilità psicomotorie, migliorando ulteriormente le connessioni tra emisfero destro e sinistro e facilitando l’apprendimento di informazioni nuove.

Ecco spiegato un altro luogo comune secondo il quale i mancini sarebbero migliori nello sport.

Tutta questa adattabilità incrementa anche la flessibilità cognitiva e rende le persone mancine più abili in quei compiti che richiedono abilità multitasking.

Quando possiamo affermare che un bambino è mancino?

Il processo di lateralizzazione, sviluppo di una maggiore forza e maggiore quantità di energia (tono) in uno dei due lati del nostro corpo,  inizia intorno ai 3-4 anni e si conclude  verso i 7-8 anni con l’acquisizione dello schema corporeo e la consapevolezza della propria lateralità.

Per capire in quale direzione (destra/sinistra) sta andando il processo di lateralizzazione nei bambini dobbiamo porci le seguenti domande:

con quale mano afferra un oggetto in arrivo?
con quale piede inizia una scalinata?
con quale gamba tira calci?
con quale mano conta fino a 5?
quale braccio è più forte?

Fino a relativamente poco tempo fa, succedeva spesso che i genitori o gli insegnanti a scuola costringessero i bambini mancini a usare la mano destra.

Uno studio in Germania del 2010 ha analizzato il cervello di persone adulte che erano state costrette a cambiare mano. Se paragonata con quella di persone rimaste mancine, la loro attività cerebrale era più simile a quella di persone destre. Ma se comparata a quella di persone destre, somigliava di più a quella di persone mancine. Sulla base di ciò, Willems sostiene che l’allenamento non può cambiare completamente l’inclinazione naturale verso la mano sinistra.

Essere mancini nella vita quotidiana.

Il mondo in cui viviamo è maggiormente progettato per persone che usano di preferenza la mano destra, i mancini non hanno ancora una vita facile in alcune azioni quotidiane. Basti pensare all’utilizzo di un paio di forbici, o a quello di un mouse per pc, alle sedie da conferenza con tavolino ribaltabile, all’apriscatole, tutti oggetti progettati principalmente per le persone destrorse.

Senza considerare attività come la scrittura che, a causa della convenzione di scrivere da sinistra verso destra, impedisce alle persone mancine di vedere correttamente che cosa stanno scrivendo con tanto di sbavature che la mano crea sul foglio e i segni dell’inchiostro sulla pelle. Anche a tavola, le posate vengono sistemate a sinistra del piatto, nonostante poi ciascuna persona trovi il suo personale modo per utilizzarle in maniera funzionale.

Infine, molti abiti presentano i bottoni sul lato destro e le asole sul sinistro, dunque anche il semplice atto di vestirsi per un mancino può apparire un po’ più complicato. Per fortuna, oggi esistono molti articoli studiati per essere utilizzati in modo agevole anche dai mancini.

Dal 1992 il Club “Lefthanders International” ha istituito la giornata internazionale dei mancini che ricade annualmente il 13 agosto: scopo della ricorrenza è quello di aumentare la consapevolezza presso l’opinione pubblica sulle implicazioni del mancinismo, incluse le sue difficoltà e i suoi punti di forza. A tale proposito secondo uno studio condotto dall’Università di Toledo, le persone mancine sembrerebbero avvantaggiate nella memoria episodica, ovvero quella che si occupa di immagazzinare a lungo termine gli avvenimenti della vita di tutti i giorni.

Anche l’abilità oratoria è un’altra particolarità nei mancini, che pare siano più abili nei discorsi articolati e fluidi. Infine, i mancini sembrano più bravi anche in tutte le attività artistiche.

Dott.ssa Angela Pia Gianpalmo

 

 

Bibliografia

Cuellar-Partida, G., Tung, J. Y., Eriksson, N., Albrecht, E., Aliev, F., Andreassen, O. A., … & Medland, S. E. (2021). Genome-wide association study identifies 48 common genetic variants associated with handedness. Nature human behaviour5(1), 59-70.
Hepper, P. G. (2013). The developmental origins of laterality: Fetal handedness. Developmental Psychobiology55(6), 588-595.
Klöppel, S., Mangin, J. F., Vongerichten, A., Frackowiak, R. S., & Siebner, H. R. (2010). Nurture versus nature: long-term impact of forced right-handedness on structure of pericentral cortex and basal ganglia. Journal of Neuroscience30(9), 3271-3275.
Vallortigara, G., Rogers, L. J., & Bisazza, A. (1999). Possible evolutionary origins of cognitive brain lateralization. Brain Research Reviews30(2), 164-175.

Perché dormire bene è fondamentale per la salute? Effetti della deprivazione di sonno e consigli pratici per migliorarlo

Il sonno è una componente essenziale della nostra vita quotidiana: se ci pensiamo, passiamo (e passeremo), all’incirca, un terzo della nostra vita a dormire. Il sonno influenza significativamente la salute mentale e fisica e, nonostante la sua importanza, molte persone trascurano il valore di un buon riposo notturno. In Italia, quasi un italiano su tre dorme un numero insufficiente di ore e uno su sette riporta una qualità insoddisfacente del proprio sonno: uno studio condotto nel 2019 dai ricercatori dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e il trend sembra stare peggiorando, anche per via del Covid. Sarebbero fino a 13,4 milioni le persone nel nostro Paese affette da disturbi del sonno. Stando all’Associazione Italiana per la Medicina del Sonno (AIMS), un adulto su quattro soffre di insonnia cronica o transitoria.

In questo articolo cercherò di approfondire tre macro-temi:

Come il sonno influisce sul benessere;
Gli effetti della deprivazione di sonno;
Qualche consiglio pratico per migliorare la qualità del sonno.

L’Importanza del Sonno per la Salute Mentale e Fisica

Dormire adeguatamente e a sufficienza è cruciale per il corretto funzionamento di corpo, mente e organismo. Durante il sonno, il cervello e il corpo svolgono diverse funzioni vitali:

1. Consolidamento della Memoria e Apprendimento: dormendo, il cervello elabora e consolida le informazioni acquisite durante il giorno, trasferendole dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine. Diversi studi hanno dimostrato che soprattutto la faseREM (Rapid Eye Movement, chiamata così proprio perché durante questa fase, sotto le palpebre chiuse, i nostri occhi si muovono molto velocemente: è questa la fase in cui sogniamo) è particolarmente importante per l’apprendimento e la memorizzazione.
2. Regolazione Emotiva: Il sonno aiuta a stabilizzare l’umore e a gestire lo stress. La mancanza di sonno è collegata a una maggiore irritabilità, ansia e rischio di depressione e disturbi dell’umore.
3. Riparazione Fisica: Durante il sonno profondo, il corpo rilascia ormoni della crescita che aiutano a riparare i tessuti e ad agire correttamente sullo sviluppo e la ripresa muscolare. Questo processo è fondamentale per la guarigione delle ferite e il recupero muscolare dopo l’attività fisica, ad esempio.
4. Sistema Immunitario: Il sonno rafforza il sistema immunitario. Durante il sonno, il corpo produce citochine, molecole proteiche essenziali per combattere infezioni e infiammazioni perché sono il canale di comunicazione tra il sistema immunitario e gli organi e i tessuti. La mancanza di sonno può indebolire la risposta immunitaria, rendendo l’individuo più suscettibile alle malattie.

Quanto ore bisognerebbe dormire?

La quantità di sonno necessaria varia a seconda dell’età e delle esigenze individuali. Tuttavia, esistono linee guida generali fornite da enti come la National Sleep Foundation:

Neonati (0-3 mesi): 14-17 ore
Infanti (4-11 mesi): 12-15 ore
Bambini (1-2 anni): 11-14 ore
Bambini in età prescolare (3-5 anni): 10-13 ore
Bambini in età scolare (6-13 anni): 9-11 ore
Adolescenti (14-17 anni): 8-10 ore
Adulti (18-64 anni): 7-9 ore
Anziani (65+ anni): 7-8 ore

Diversi studi confermano che la quantità di ore ottimali è di 7 ore e mezzo/8 ore a notte ma nonostante ciò resta comunque più importante la soggettività di ogni singolo individuo: il valore medio deve essere preso come un’indicazione generale perché bisogna sempre fare i conti con i ritmi di vita di ognuno, la genetica, le abitudini e le caratteristiche dell’ambiente. Dormire meno di quanto raccomandato può avere effetti negativi sulla salute a lungo termine.

Effetti della Deprivazione del Sonno

La deprivazione del sonno può avere conseguenze gravi e diffuse su vari aspetti della salute:

1. Diminuzione delle Funzioni Cognitive: La mancanza di sonno compromette la memoria, la concentrazione e la capacità decisionale. Le persone private del sonno mostrano una riduzione delle prestazioni cognitive e un rallentamento nei tempi di reazione.

Nel 2017 è partito uno dei più grandi studi sul sonno di sempre. A dirigerlo è Adrian Owen, un neuroscienziato britannico con sede in Ontario. La ricerca si basava sulla somministrazione di un banale test pratico (un gioco in cui bisogna cliccare sulla parola nella parte bassa dello schermo che corrisponde al colore con cui è scritta la parola nella parte alta) allo stesso individuo, per due volte: una dopo una normale nottata di sonno e una dopo una notte con sole 4 ore di sonno. Il risultato di questa ricerca, pubblicato nel 2018, ha rivelato che, in termini di capacità cognitive generali e complesse, dormire solamente 4 ore a notte può equivalere all’effetto di un invecchiamento di 8 anni.

2. Rischio di Malattie Croniche: La deprivazione cronica del sonno è associata a un aumento del rischio di diverse malattie croniche, tra cui malattie cardiovascolari, diabete di tipo 2, obesità e ipertensione. La mancanza di sonno influisce negativamente sul metabolismo e sulla regolazione della glicemia.
3. Compromissione della Salute Mentale: Il sonno insufficiente è collegato a un rischio maggiore di sviluppare disturbi dell’umore, come la depressione, e disturbi d’ansia. La deprivazione del sonno può alterare i livelli di neurotrasmettitori nel cervello, influenzando negativamente l’umore e il benessere emotivo.
4. Sistema Immunitario Debole: La mancanza di sonno riduce la produzione delle suddette citochine, aumentando la vulnerabilità a malattie come raffreddori e influenza.
5. Alterazioni Metaboliche: La deprivazione di sonno può alterare gli ormoni che regolano l’appetito, aumentando la produzione di grelina (ormone della fame) e riducendo la produzione di leptina (ormone della sazietà). Questo può portare a un aumento di peso e all’obesità.

Molto importante da tenere in considerazione è il fatto che anche solo uno di questi effetti negativi può portare ad un “effetto domino” e coinvolgere anche altri aspetti o far sviluppare altre patologie o psicopatologie: ad esempio, l’aumento considerevole di peso potrebbe portare ad un profonda tristezza e/o sensazione di inadeguatezza che potrebbe scivolare più facilmente in un disturbo dell’umore.

Consigli per Migliorare la Qualità del Sonno

Per migliorare la qualità del sonno si possono adottare delle misure pratiche e delle sane abitudini in modo da creare un ambiente favorevole al riposo:

1. Stabilisci una Routine Regolare: cerca di andare a dormire e di svegliarti alla stessa ora ogni giorno, anche nei fine settimana. Questo aiuta a regolare il ritmo circadiano del tuo corpo, ovvero il nostro “orologio biologico”.
2. Crea un Ambiente di Sonno Ottimale: Assicurati che la tua camera da letto sia buia, silenziosa e fresca. Possono essere utili tende, tappi per le orecchie, mascherine per gli occhi, ad esempio.
3. Limita l’Uso degli Schermi Prima di Dormire: L’esposizione alla luce blu degli schermi elettronici può interferire con la produzione di melatonina, l’ormone del sonno. Sarebbe opportuno diminuire l’utilizzo dei dispositivi elettronici almeno un’ora prima di coricarti.
4. Limita l’utilizzo dello smartphone/tablet e della tv/computer mentre sei nel letto: anche per una questione di una adatta associazione mentale, il letto dovrebbe essere contemplato come “l’oggetto dove si dorme”, in modo da abituare profondamente il nostro corpo e la nostra mente che quel posto serve per dormire. Può essere un semplice gesto che facilita l’addormentamento.
5. Fai Attività Fisica Regolare: L’esercizio fisico può migliorare la qualità del sonno, ma evita l’attività intensa nelle ore troppo tarde, poiché potrebbe avere l’effetto opposto.
6. Evita Caffeina e Alcol: La caffeina può rimanere nel sistema per diverse ore, quindi cerca di limitarne l’assunzione nel pomeriggio e nella sera. Anche l’alcol può interferire con il sonno, causando risvegli notturni e una riduzione della qualità del sonno REM.
7. Adotta una Routine di Rilassamento: Pratiche come la lettura, il bagno caldo o le tecniche di respirazione profonda possono aiutare a segnalare al tuo corpo che è ora di rilassarsi e prepararsi per il sonno: l’intensità delle attività dovrebbe calare man mano che ci si avvicina all’ora nella quale andremo a dormire.

Ora una digressione su quello che concerne la psicologia e, soprattutto, la psicoterapia. Il sonno è una delle funzioni che più spesso e facilmente viene primariamente “attaccata dalla nostra mente”: molti disturbi o disagi del sonno possono essere riconducibili a periodi difficili, di stress, di disadattamento a nuove situazioni di vita, di malessere psicologico in generale. La psicoterapia può aiutare ad individuare quello che si potrebbe celare dietro le difficoltà di addormentamento, l’insonnia, temporanea o cronica, il sonno disturbato, gli incubi notturni, ecc. Vale la pena tenere in considerazione l’intervento psicoterapeutico da parte di un/una professionista, in modo da agire sulle criticità nella maniera eventualmente più adatta possibile: spesso, la causa potrebbe essere anche solo psicologica, in effetti…

In conclusione, il sonno è una componente essenziale del benessere fisico e mentale e della salute del nostro organismo, per una serie di motivi, anche molto importanti, che spesso però sfuggono di mente. Adottare abitudini sane e stabili e creare un ambiente favorevole al riposo può migliorare significativamente la qualità del sonno, contribuendo a una vita più sana, rilassata, positiva e felice.

Per chi desidera approfondire ancora di più, questi due testi di stampo scientifico ma accessibili anche ai non addetti ai lavori possono essere presi come riferimento: L’arte di dormire bene” di Russell Foster e “Perché dormiamo. Poteri e segreti del sonno per una vita sana e felice” di Matthew Walker.

Dott. Riccardo Falconieri

Psicologo

 

Bibliografia:

1. National Sleep Foundation (2020), Sleep and Memory.
2. Owen A. (2018), Effetti dissociabili della durata del sonno giornaliero auto-riportata sulle capacità cognitive di alto livello.
3. National Sleep Foundation (2015), Sleep Duration Recommendations.
4. Foster R. (2023), L’arte di dormire bene.
5. Walker M. (2023), Perché dormiamo. Poteri e segreti del sonno per una vita sana e felice

Progetto RDC

Il progetto di sportello di ascolto psicologico nelle Valli di Lanzo prende forma grazie alla proposta promulgata dall’Associazione Eco (Epistemologia-Conoscenza-Orientamento) in risposta ad un bando emanato dal Corsorzio Intercomunale dei servizi socio-assitenziali (CIS) Valli di Lanzo.

Chi è, di cosa si occupa e quale posizione/ruolo ricopre l’Associazione Eco all’interno del panorama del terzo settore? L’associazione senza fini di lucro è stata fondata a Torino nel 1998 per rispondere a delle carenze percepite nell’ambito dell’offerta nell’area disabili del comune di Torino. Si è da subito contraddistinta per l’avvio di gruppi di lavoro, come quello denominato “AMA” destinato alle famiglie con pazienti disabili, per fornire loro sostegno e supporto nell’individuazione di strategie mirate per la risoluzione di difficoltà legate alla loro gestione. La mission a cui l’associazione Eco è sempre rimasta fedele è quella di migliorare la qualità di vita delle persone. Nel corso degli anni gli interventi espletati si sono ampliati, diversificandosi, interessando anche realtà differenti da quelle della disabilità, includendo nel proprio raggio di azione: le scuole, di diverso ordine e grado (sportello di sostegno psicologico ed educativo, attività di conoscenza del tema disabilità, laboratori per bambini con difficoltà intellettiva e comportamentale), l’Ospedale Valdese (gruppi sul tema disturbi del comportamento alimentare), i Centri per l’impiego della provincia di Torino (inserimento lavorativo mirato), i CSM di Avigliana-Giaveno-Rivoli (progetti di danza-movimento terapia, gruppi social skill training). In collaborazione con l’Associazione ASAI si è impegnata nella realizzazione di incontri di prevenzione sui disturbi del comportamento alimentare ed incontri incentrati sull’orientamento scolastico e nell’organizzazione di laboratori per l’implemento delle competenze emotive e per la gestione dei conflitti, rivolti a minori delle scuole primarie e secondarie di primo grado e alle famiglie. Nel comune di Torino, infine, ha realizzato laboratori per persone con disabilità fisica e intellettiva e serate socializzanti. Tra le altre attività gestite dall’associazione si fa menzione della realizzazione di eventi culturali e di promozione del benessere psico-fisico della persona, mediante organizzazione di conferenze, incontri di yoga della risata, di meditazione, laboratori sull’assertività, laboratori di social skill training.
All’interno dei progetti indetti dall’Associazione ECO, di più recente realizzazione è il servizio di supporto/sostegno psicologico, psicoterapico, realizzato tramite sportello di ascolto, in collaborazione con il CIS, rivolto ai percettori del reddito di cittadinanza, all’interno di un’offerta destinata ad un bacino di utenza comprensiva di minori, famiglie nel sostegno alla genitorialità, giovani adulti, adulti, anziani. Si tratta di un’ulteriore strumento che si propone quale risorsa aggiuntiva destinata a quella fetta di popolazione che lotta contro la povertà e l’esclusione sociale. Il progetto, che vede la sua concretizzazione nei mesi di Aprile-Maggio 2022, prevede la collaborazione attiva e sinergica dei professionisti psicologi/psicoterapeuti dell’associazione con i servizi socio-assistenziali, educativi del territorio delle valli di Lanzo nelle rispettive figure di educatori, assistenti sociali, il cui confronto, scambio sui casi/progetti clinici, segnalazione per le future prese in carico, attività di coordinamento vede l’equipe di lavoro riunirsi, in modo cadenzato, una volta al mese. Lo sportello si svolge al mattino e al pomeriggio per un totale di quindici ore articolandosi nel seguente modo: ogni persona seguita avrà la possibilità di svolgere 10 sedute di supporto psicologico e/o percorso psicoterapico, eventualmente rinnovabili fino ad un massimo di tre volte per un totale di trenta sedute, in accordo e nel rispetto delle esigenze, bisogni della persona e dei Servizi. Il totale delle ore annuali dal progetto previste, in accordo con i fondi finanziati dal CIS, è pari a 265. Il progetto prevede altresì una prima fase di screening dedita alla raccolta e analisi della domanda, realizzata mediante colloquio conoscitivo, a seguito della segnalazione dei casi dai parte dei servizi. Il colloquio viene gestito da un professionista (psicologo clinico-psicoterapeuta) che si occupa di accogliere lo stato di sofferenza, malessere condiviso o meno dalla persona che ne richiede la presa in carico, al fine di testare la sua autentica motivazione intrinseca per l’avvio dei lavori. Nel rodare il progetto, costituito al suo interno di un primo step di triage medico e di un secondo step di invio al collega per la presa in carico ufficiale della persona, si è rivelato utile e prezioso lo scambio, la formazione ai servizi da parte dei professionisti sulla natura psicologica del lavoro che si sarebbe svolto. Fondamentale, pertanto, l’accompagnamento dei servizi all’alfabetizzazione del linguaggio psicologico, alla conoscenza degli strumenti di lavoro (relazione clinica, test), alla condivisione degli indici su cui focalizzare l’attenzione per la comprensione della sofferenza psicopatologica, filtrando in tal modo i servizi stessi le richieste da segnalare. Non poche le criticità emerse con i servizi nella fase iniziali di lavoro e rodaggio, ad esempio in merito ad alcune segnalazioni pervenute, come ad es. pazienti in carico ai centri di salute mentale con trattamento farmacologico in funzionamenti contraddistinti da gravi disturbi psicopatologici e/o in doppia diagnosi all’interno di compromesse e gravi organizzazioni di personalità. Prezioso il riconoscimento dei limiti emersi (casi di dropout, o di mancato rinnovo del percorso) nel lavoro sin ad ora svolto, al fine di poter migliore e garantire una sempre più elevata qualità del servizio offerto alla popolazione. Si è compreso l’importanza del rispetto di alcuni parametri, indicativi nel predire il grado di efficienza del lavoro terapeutico svolto: la motivazione intrinseca (propria, personale) e non estrinseca della persona presa in carico, la capacità della persona e/o dei servizi di saper differenziare il tipo di lavoro che si sarebbe svolto: piscologico all’interno dello sportello “Ti Ascolto”, di natura economica, socio-assistenziale nella relazione con i servizi socio-educativi. Quest’ultimo aspetto si è rivelato prezioso nel poter istaurare il professionista con l’utente un’autentica alleanza di lavoro terapeutica, non inquinata o contaminata da fattori distraenti/altri. Un ulteriore importante aspetto ha riguardato la possibilità per i professionisti, coinvolti all’interno del progetto nelle prese in carico ufficiali e strutturate della persona, di potersi distribuire nei diversi comuni afferenti al raggio di azione e intervento del CIS, garantendo alla popolazione quei minimi spostamenti richiesti per l’avvio dei lavori previsti. Imminente fu l’evidenza, come segnalato dai servizi stessi, della carente e deficitaria componente dei trasporti nel collegare i comuni tra di loro. Infine ancora due le aree di interesse, oggetto di riflessione, sulla natura e sull’efficacia del progetto: la dimensione di lavoro in rete, il tariffario proposto all’utente. In merito al primo punto si è potuto costatare, come già emerso in letteratura clinica, quanto la deprivazione sociale-economica, l’esiguità di servizi forniti dalla comunità alla persona, i fenomeni di isolamento sociale, la carenza di rete di figure parentali significative, costituiscano floridi fattori di rischio per l’emersione di fenomeni come la devianza e di condizioni gravi, importanti, psicopatologiche, in grado di compromettere in modo significativo il funzionamento bio-psico-socio-culturale dell’individuo. Alla luce dei casi via via sempre più frequentemente presi in carico, è emersa la preziosità e la significatività nel poter disporre di un lavoro di rete che coinvolga nel progetto di cura della persona tutti gli attori sociali che vi ruotino intorno, al fine di disporre di quanti più strumenti possibili a disposizione e di conoscenze che in modo esaustivo ne migliorino la qualità del lavoro offerto. Circa il secondo e ultimo punto si è rivelato utile rendere gratuite, alla popolazione dei percettori del reddito di cittadinanza, le prestazioni terapeutiche offerte nell’ottica di incoraggiare una maggiore sensibilizzazione della causa (la possibilità di chiedere aiuto, la presa in carico strutturata del proprio stato di malessere), in vista di uno sviluppo via via sempre più raffinato di presa di consapevolezza delle proprie problematicità, superando le criticità dettate dalle difficoltà economiche che ne impedirebbero l’accesso alle cure tanto negli studi privati per gli onerosi costi quanto nelle strutture ospedaliere caratterizzate da esiguità numerica, insufficienza di organico. Lo scopo del progetto è quello di invitare la popolazione a prendersi maggiormente cura di sé anche da un punto di vista psichico, offrendo la possibilità di fornire uno spazio privato, intimo, caldo, accogliente di ascolto. Ad oggi lo stato dell’arte del progetto prevede il fatto che alcune ore in più raccolte vengano destinate ad un prolungamento di percorso per le prese in carico più emergenziali, e per l’organizzazione di laboratori di yoga della risata, di meditazione e di social skill training. Si tratta di laboratori e incontri rivolti a piccoli gruppi di massimo sei-otto persone sempre afferenti ai territori gestiti dal CIS; esempi questi ultimi di altre modalità di prese in carico che passino attraverso la dimensione di cura gruppale con un focus centrato su tematiche di lavoro ben circoscritte. Il suddetto progetto che ha visto la sua programmazione e pianificazione nell’anno 2022, concretizzazione nell’anno 2022/2023, è stato oggetto di proroghe nel finanziamento da parte dei servizi fino all’anno 2025, per la fiducia riposta nel lavoro fino ad ora svolto da parte di professionisti. L’anno 2024, a seguito di modifiche riportate dal decreto legge 48 2023 in materia di erogazione sussidi economici per situazioni a rischio, fragili, ha visto l’assegno di inclusione (ADI) sostituirsi al reddito di cittadinanza. E’ stato previsto come l’ADI venisse destinato a tutti quei nuclei familiari i cui requisiti, di soddisfacimento richiesto, prevedano la presenza al loro interno di una o più delle seguenti condizioni: soggetti portatori di gravi handicap, (disabilità fisiche/psichiche invalidanti), minori, persona con almeno un’età anagrafica pari o over a 60 anni, soggetti in condizioni di svantaggio, certificate ,inserite in programmi di cura e assistenza dei servizi socio-sanitari (disturbi psichici, dipendenze patologiche, disabilità certificate almeno al 46%, vittime di tratta e di violenza di genere, ex detenuti senza fissa dimnora, neo-maggiorenni che vivono fuori dal nucleo di origine per provvedimento delle autorità).

 

Dott.ssa Silvia Longo

Psicologa – Psicoterapeuta

SUL SUCCESSO DELLA ROUTINE

Morning routine, beauty routine, daily routine.


I social sono pieni di suggerimenti su come impostare routine efficaci ed efficienti per iniziare bene la giornata, prendersi cura di sé, fare sport, dedicarsi alla pulizia della casa, riposare al meglio, prosperare economicamente e chi più ne ha più ne metta.
Ma che cosa ci dice la scienza al riguardo? Le routine sono utili? E se sì, perché?

Quando si parla di miglioramento della qualità di vita, gran parte delle ricerche si focalizza su come, in situazioni di sofferenza e disagio, l’instaurazione e il mantenimento di nuove abitudini possa essere d’aiuto.

Studi hanno dimostrato come i ritmi biologici siano influenzati da quelli sociali. Costruirsi una routine che implichi la ripetizione giornaliera di alcune azioni o che identifichi in maniera chiara le fasi della giornata da dedicare ad attività specifiche, tenendo conto anche delle ore di luce/buio, permette di regolare il proprio ritmo interiore. Di conseguenza si riposerà meglio e durante la veglia si avranno risorse adeguate a regolare le emozioni e coltivare presenza e intenzionalità, con ricadute positive sulla produttività.

Si è visto inoltre come con l’età aumenti anche la stabilità delle routine quotidiane, poiché esse rappresentano verosimilmente un importante fattore di adattamento al cambiamento fisiologico dei ritmi biologici e circadiani.

Analizziamo insieme le suggestioni che arrivano dalle ricerche.

In centri che accolgono persone affette da demenza, la scansione del tempo attraverso momenti che si ripetono in maniera regolare nel corso della giornata (i pasti serviti sempre negli stessi orari, etc.) e della settimana (i laboratori del giovedì, l’attività ricreativa del sabato, e così via) rallenta il declino funzionale e offre sensazioni di sicurezza e stabilità in un mondo che appare sempre più confuso agli occhi degli ospiti.

Per i bambini, disporre di routine regolari stabilite dall’adulto è rassicurante perché riduce l’entropia di un mondo ancora tutto da esplorare e offre limiti all’interno dei quali muoversi e sperimentare. Un discorso analogo vale a maggior ragione per alcuni disturbi del neurosviluppo, come l’autismo o l’ADHD, poiché per bimbi che ne soffrono l’esterno apparirà ancora più disorientante e pericoloso.

Adulti neurodiversi beneficeranno anche loro di routine quotidiane e sociali perché esse rappresenteranno cornici all’interno delle quali muoversi per raggiungere obiettivi e coltivare valori.

Numerose ricerche hanno dimostrato come nel trattamento dell’insonnia è utile praticare quella che viene definita “igiene del sonno”. Essa consiste nell’eliminazione di stimoli attivanti dal luogo preposto al riposo e nel tempo immediatamente precedente la messa a letto. Si tratta, ad esempio, di evitare di tenere a vista nella stanza da letto oggetti che rimandino al lavoro o allo studio, di non fare attività fisica intensa e non utilizzare dispositivi elettronici prima di andare a dormire, di riservare un luogo fisico definito al sonno. A questa sorta di pulizia si dovrebbe affiancare l’introduzione di una serie di passaggi ripetitivi che dicano al corpo che ci si sta preparando al riposo. Tale routine può prevedere un bagno caldo, l’uso di una crema corpo spalmata con un automassaggio, la preparazione e l’assunzione di una tisana rilassante e così via.

In presenza di sintomi depressivi, l’attivazione comportamentale, ossia l’introduzione di piccole attività un tempo piacevoli nella quotidianità, insieme al supporto dei professionisti, è uno dei tasselli del percorso di ripresa.

Riassumendo, in condizioni di fragilità le routine aiutano a dare ritmo e significato alle giornate.

Infine, veniamo alle abitudini dei milionari. Vi sarà capitato di leggere libri o recensioni di libri che suggeriscono come la strada per il successo venga spianata da una routine collaudata.
Questo, in un certo senso, è vero.

Se ci pensiamo, avere una giornata con dei ritmi ben scanditi può:

regolare il tempo da dedicare al lavoro, al riposo e allo svago;
incrementare i livelli di energia;
aiutare a gestire le emozioni in maniera efficace;
velocizzare le incombenze quotidiane;
permettere di dedicare risorse a ciò che si ritiene prioritario;
mantenersi motivati per
raggiungere i propri obiettivi.

Non si può però esportare nella propria vita la routine di qualcun altro. È pensabile prendere spunto, ma la riproduzione dei ritmi di una persona che si ammira non garantirà i risultati sperati. E questo perché la routine è strettamente connessa ai valori. È da essi che bisogna partire per costruire quella più efficace per sé.

Fare mente locale su quel che conta offre la possibilità di scegliere ciò su cui si vuole investire risorse. Se si considera importante avere dei capelli lucenti, bisognerà prevedere nella giornata un momento da dedicare all’uso di prodotti specifici. Un’attività così semplice può apparire superflua ma, se riflettiamo, rappresenta un modo per coccolarsi, per sentirsi a proprio agio con se stessi e con gli altri e, in ultima istanza, per accrescere autostima e autoefficacia percepita. Se si intende accudire le persone amate, le giornate dovranno includere dei momenti riservati a una visita, una telefonata, un messaggio.

Riflettere sui valori permette di comprendere in quale direzione si vuole condurre la propria vita, come farlo, a che cosa dare priorità nel qui e ora, come tollerare la frustrazione e i cali di motivazione quando per coltivare un valore è necessario “sforzarsi”.

Una routine di successo non rende necessariamente, più ricchi, più affermati o più belli. Il successo consiste nel riuscire ad allineare le proprie azioni ai propri valori. Trovare spazio per fare ciò che conta farà sentire più appagati, più affermati e permetterà di affrontare con maggiore resilienza le intemperie della vita!

 

Dott.ssa Arianna Calabrese

Psicologa – Psicoterapeuta

 

Riferimenti bibliografici

Gitlin, L. N., Kales, H. C., & Lyketsos, C. G. (2012). Nonpharmacologic management of behavioralsymptoms in dementia. JAMA, 308(19), 2020–2029.

Haynes, P. L., Gengler, D., Kelly, M. (2016). Social Rhythm Therapies for Mood Disorders: an Update. Current psychiatry reports, 18(8), 75.

Moss, T. G., Carney, C. E., Haynes, P., Harris, A. L. (2015). Is daily routine important for sleep? An investigation of social rhythms in a clinical insomnia populationChronobiologyinternational, 32(1), 92–102.

Rogers, S. J., Dawson, G., Lord, C., (2010). Early Start Denver Model for Young Children with Autism: Promoting Language, Learning, and Engagement. New York: Guilford Press.

Sabet, S. M., Dautovich, N. D., & Dzierzewski, J. M. (2021). The Rhythm is Gonna Get You: Social Rhythms, Sleep, Depressive, and Anxiety Symptoms. Journal of affective disorders, 286, 197–203.

SINDROME DELL’IMPOSTORE Quando accettare il proprio valore personale diventa impossibile

La sindrome dell’impostore è stata teorizzata per la prima volta negli anni ’70 dalle psicologhe Pauline Clance e Suzanne Imes. Alcuni studi rilevano che il 70% della popolazione, sia maschile sia femminile, almeno una volta nella vita ha sperimentato questa condizione e si pensa che addirittura Albert Einstein ne soffrisse.

E’ importante rilevare che, anche se le psicologhe hanno attribuito il nome “sindrome” a questo fenomeno, non si tratta di una malattia e, di conseguenza, non lo troviamo tra le patologie inserite nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM).

Ma se non è una malattia, cos’è la sindrome dell’impostore? Si tratta di un fenomeno psicologico a causa del quale il soggetto non riesce ad attribuirsi il merito dei propri successi. Potrebbe dunque pensare di aver ottenuto un determinato traguardo, come per esempio il superamento di un esame universitario o una promozione sul lavoro, grazie alla fortuna (“le domande che mi hanno fatto erano facili!”) o all’aver ingannato gli altri (“il mio capo crede che sia competente, ma presto scoprirà che non è così!”).

La condizione di chi soffre della sindrome dell’impostore non necessariamente legata alla psicopatologia, dunque non è detto che chi ne è vittima sia affetto, ad esempio, da ansia o depressione. Piuttosto tale fenomeno è legato ad una combinazione di condizioni ambientali e caratteristiche personali.

Tra le cause possiamo trovare:

Essere cresciuto in un contesto familiare con una o più persone che hanno ottenuto successo o che si sono sempre distinte;
Essere particolarmente sensibili;
Aver ricevuto in famiglia sempre e solo complimenti, anche quando i risultati ottenuti non erano eccellenti;
Avere (o aver avuto) poche possibilità di esprimere liberamente le proprie emozioni;
Appartenere ad una minoranza oggetto di discriminazione sociale;
Affrontare nuove sfide (es. nuovo ambiente di lavoro).

La sindrome dell’impostore è strettamente legata all’autostima, al valore personale e all’idea che abbiamo di noi stessi e dei traguardi che immaginiamo di dover raggiungere per essere “accettabili” al livello sociale. Non a caso, è una condizione che spesso colpisce persone che ricoprono cariche importanti. Un aspetto che spesso non viene considerato è quello delle relazioni sociali. Infatti la sindrome dell’impostore non riguarda solo le capacità lavorative o accademiche, ma spesso colpisce anche l’ambito relazionale. Una persona potrebbe pensare di risultare simpatica o interessante solo perché gli altri non la conoscono abbastanza, e non si sono ancora accorti di quanto riesca a fingere di essere ciò che non è.

Essere colpiti dalla sindrome dell’impostore genera sofferenza e insicurezza e spesso dà origine ad una serie di pensieri negativi su di sé. Eccone alcuni esempi:

Sentirsi inadeguati rispetto al proprio ruolo professionale o sociale;
Convinzione di ingannare le persone rispetto al proprio valore;
Sentirsi in colpa per i traguardi raggiunti e pensare di non meritarli;
Paura di esporsi e di essere giudicati;
Paura di essere smascherati e di essere considerati degli impostori;
Accettare con difficoltà elogi e complimenti;
Essere convinti che i propri successi derivino unicamente dalla fortuna.

Ma quali sono i fattori che contribuiscono al mantenimento della sindrome dell’impostore? Ne sono stati rilevati principalmente due: il perfezionismo e la bassa autostima.

Il perfezionismo consiste nella consuetudine di pretendere da se stessi dei risultati di livello superiore a quelli richiesti dalla situazione. Questo porta il soggetto a diventare ipercritico rispetto alle proprie prestazioni (sociali, lavorative, accademiche, ecc.), portandolo a porre a se stesso standard sempre più elevati e spesso irraggiungibili. Qualunque risultato ottenuto ritenuto inferiore all’obiettivo preposto viene percepito come insoddisfacente e come diretta conseguenza dello scarso valore della persona. Il perfezionismo dà dunque origine ad un circolo vizioso, da cui diventa spesso difficile uscire. Ogni risultato “non perfetto” sarà considerato dal soggetto come la conferma di essere incompetente e, nel caso della sindrome dell’impostore, confermerà a convinzione di aver raggiunto traguardi e riconoscimenti di cui in realtà non è meritevole.

La bassa autostima è strettamente correlata al perfezionismo. Chi ne soffre ha la costante sensazione di essere inadeguato e di non valere abbastanza. Riconosce a se stesso uno scarso valore personale ed è afflitto dalla paura di sbagliare in qualunque situazione. Spesso chi ha bassa autostima è convinto di non poter essere amato e apprezzato per ciò che è. Il perfezionismo e l’impossibilità di raggiungere risultati impensabili vanno a riconfermare la scarsa percezione che la persona ha di sé.

Come superare la sindrome dell’impostore? Questo implica certamente un lavoro su se stessi, in particolare se questa è una condizione frequente o addirittura cronica. Per far fronte alla sindrome dell’impostore è importante imparare ad avere uno sguardo più oggettivo su se stessi, ad apprezzare i traguardi raggiunti e a fare i conti con i propri limiti: in poche parole bisogna imparare ad apprezzarsi e ad amarsi per ciò che si è. Porsi degli obiettivi raggiungibili e apprezzare i risultati ottenuti, imparare ad accettare i complimenti, accogliere con gioia i riconoscimenti, lasciando da parte l’ipercritica, è ciò che può aiutare a vivere al meglio la vita lavorativa e sociale.

A volte però sapere cosa dovremmo fare per stare meglio non è sufficiente a cambiare le cose. Fare ricorso alla psicoterapia potrebbe aiutare a uscire dalla dolorosa sensazione di essere degli impostori e imparare ad accettarsi per ciò che si è.

Dott.ssa Rossella Totaro

Psicologa e Psicoterapeuta

ALLA RICERCA DELLA FELICITA’: MODI SANI E NATURALI PER RAGGIUNGERE IL BENESSERE

Attraverso le culture e le epoche, ci si è spesso interrogati sulla felicità. Filosofi, studiosi e scienziati hanno cercato di offrire diversi approcci e prospettive nel tentativo di comprenderla. Da  Aristotele che affermava che la felicità risiedeva nelle virtù morali o etiche, ad Epicuro che considerava la felicità come lo scopo ultimo dell’esistenza umana, a José Ortega secondo cui si raggiunge la felicità solo quando la “vita proiettata” e quella affettiva coincidono. Ad oggi, la scienza ci ha permesso di comprendere la felicità in termini oggettivi, identificandone meccanismi e processi neurobiologici associati.

La complessità della nostra vita quotidiana ci catapulta e ci immerge costantemente in una miriade di situazioni ricche di stimoli. In molte occasioni, questi stimoli migliorano il nostro umore. Pensiamo alle sensazioni che proviamo dopo una corsa al parco, dopo aver ascoltato della buona musica o aver fatto una passaggiata in motagna o al mare, dopo aver abbracciato un caro o aver mangiato del buon cibo. In situazioni simili, il nostro cervello produce dei messaggeri chimici che attraverso la circolazione sanguigna, giungono in diverse aree del nostro corpo innescando specifice sensazioni. Queste sostanze chimiche, note anche come neurotrasmettitori, possono influenzare il nostro stato d’animo e il nostro benessere emotivo. Stiamo parlando proprio, dei cosiddetti “ormoni della felicità o del benessere”. Di questi ormoni fanno parte la dopamina, la serotonina, l’ossitocina e l’endorfina che giocano un ruolo fondamentale nel regolare il nostro umore, ridurre lo stress e promuovere la sensazione di felicità e benessere generale. Esistono diversi modi naturali per stimolarne la loro produzione affinché ci si possa sentire più calmi, felici e in equilibrio emotivo.

In questo articolo, proveremo ad esplorare alcuni dei modi più efficaci per aumentare la produzione di dopamina, serotonina, ossitocina ed endorfine nel nostro corpo, migliorando così il nostro benessere.

La dopamina è spesso conosciuta come “ormone del piacere” ed è coinvolta nella motivazione, gratificazione, ricompensa e nella sensazione del piacere. È responsabile del rinforzo di comportamenti appresi anziché promuoverne di nuovi. La sua  funzione principale infatti, è quella di agire da sistema di ricompensa. Assecondare il desiderio di cibi come la cioccolata, raggiungere un obiettivo, svolgere attività di cura del Sè come un bel bagno caldo, sono tutte attività che possono innescare il rilascio di dopamina, producendo una sensazione di piacere che farà aumentare il desiderio di ricorrere nuovamente a quel particolare cibo o attività. Bisogna però fare attenzione perché non tutte le attività o le sostanze introdotte nel corpo, possono essere sane seppur rilasciando ugualmente una scarica di dopamina. È il caso dell’assunzione di alcol, droghe o attività come il gioco d’azzardo che possono diventare vere e proprie dipendenze.

La serotonina invece, è conosciuta come “l’amplificatore naturale del buon umore” o “ormone della felictà”.Viene spesso associata al benessere emotivo e alla felicità ma in realtà,  è coinvolta anche nella regolazione dell’umore, dell’ansia, del sonno, della temperatura corporea, nella percezione del dolore e nella motilità intestinale.  Le ricerche inoltre, suggeriscono che questo ormone influenza positivamente la memoria, migliora l’apprendimento e promuove il rilassamento. Trascorrere del tempo al sole, praticare del buon esercizo fisico e meditare sono tutte attività che permettono il rilascio di serotonina.

Ci sono poi, le endorfine gli “antidolorifici naturali del corpo”. Sono conosciute per il loro potere analgesico in quanto agiscono come gli oppiodi, con il vantaggio di essere direttamente prodotti dal nostro corpo. Questo neurotrasmettitore infatti, permette di alleviare il dolore e può aiutare a ridurre lo stress e migliorare l’umore. Le endorfine vengono rilasciate attraverso l’esercizio fisico intenso, durante l’eccitazione sessuale, quando si guarda un bel film, si ascolta musica o si ride.

Infine, abbiamo l’ossitocina, il cosiddetto “ormone dell’amore”. Svolge un ruolo cruciale durante la gravidanza, il parto e l’allattamento. Inoltre, è fondamentale nelle interazioni sociali perché permette di instaurare relazioni profonde. È ormai noto che siamo esseri sociali e che è proprio grazie al supporto sociale positivo e a relazioni sane che possiamo ottenere numerosi benefici. È stato dimostrato che questa sostanza chimica viene attivata attraverso il contatto fisico ma  anche socializzando in conversazioni, fornendo assistenza agli altri e interagendo con un animale domestico. Le relazioni sociali e le connessioni sane, nel corso della nostra vita quindi,  aumentano le emozioni positive e promuovono il benessere generale.

A prescindere da quale sia l’attività o il comportamento che permette il rilascio di uno di questi ormoni, ciò avverrà solo in piccole dosi. Una volta metabolizzato infatti, la sensazione di piacere tenderà a svanire e il nostro corpo ritornerà alla sua omeostasi originaria.

Un buon promemoria per ricordarsi come stimolare la produzioni di questi ormoni “della felicità” (o del benessere) potrebbe essere il seguente:

fare esercizio fisico regolare (o una breve passeggiata all’aperto) ci permetterà di aumentare i livelli di endorfine nel corpo così come, dopamina e serotonina, migliorando di conseguenza, l’umore e riducendo ansia e stress.
una dieta sana ed equilibrata  e l’assunzione di cibi, come il cioccolato fondente, le banane, le arachidi, i cereali integrali, proteine magre e grassi sani ci permetteranno di aumentare i livelli di serotonina.
dormire a sufficienza. Un buon sonno è fondamentale per il rilascio di serotonina e melatonina.
mindfulness e meditazione ci permetteranno di aumentare i livelli di serotonina e dopamina nel cervello, riducendo ansia e stress.
passare del tempo all’aperto e in contatto con la natura stimolerà la produzione divitamina D, che può influenzare positivamente l’umore aumentando i livelli di serotonina.
la socializzazione e l’interazione con gli altri potrà aumentare i livelli di ossitocina, dopamina e endorfine, migliorando così l’umore complessivo.
praticare hobby e passioni; che si tratti di fare yoga, dipingere, leggere un libro o ascoltare musica, dedicare del tempo alle attività che fanno sentire bene può aumentare i livelli di dopamina e endorfine.

La chiave di tutto resta sempre un approccio curioso alla vita e quindi anche, a quei modi naturali di stimolare i nostri ormoni della felicità. Sperimentare quello che è nelle proprie corde, così da poter cercare la propria personale strada a ciò che può promuovere in modo sano, un maggiore benessere alla nostra vita. È già tutto a nostra disposizione e sotto i nostri occhi, dobbiamo solo provare a (ri)scoprirlo.

 

 

Dott.ssa Antonia Di Pierro

Psicologa, Psicoterapeuta

 

 

Bibliografia

2021 Alexander R. et al. The neuroscience of positive emotions and affect: Implications for cultivating happiness and wellbeing https://doi.org/10.1016/j.neubiorev.2020.12.002

1979 Fox E.R.W. Happiness Hormones? The western journal of medicine

Sitografia

2023 Austin D. Dopamine, serotonin, endorphins, oxytocin: Your happy hormones, explained(nationalgeographic.com)

LA REALTÀ VIRTUALE… NON E’ SOLO UN GIOCO

La realtà virtuale (VR) è una tecnologia che permette agli utenti di interagire con un ambiente digitale e tridimensionale in maniera immersiva e realistica. Questo ambiente viene creato utilizzando computer e software che generano una simulazione del mondo reale. Gli utenti possono interagire con questo ambiente utilizzando dispositivi come visori VR, guanti sensoriali e controller. Questi dispositivi consentono di manipolare gli oggetti dell’ambiente virtuale, muoversi attraverso lo spazio e comunicare in tempo reale con altri utenti.

Il concetto di realtà virtuale ha radici negli anni ’60 e ’70, ma è diventato “popolare” negli ultimi anni.

Grazie ai rapidi progressi tecnologici, la realtà virtuale sta diventando sempre più accessibile ed utilizzata in diversi campi, dai videogiochi all’addestramento militare, dall’architettura alla psicoterapia.

Le neuroscienze possono fornire importanti chiavi di lettura per comprendere come il nostro cervello reagisce alla realtà virtuale. Studi recenti hanno dimostrato che l’esperienza della reltà virtuale può attivare le stesse aree cerebrali coinvolte nella percezione e nell’elaborazione delle informazioni provenienti dall’ambiente esterno.

Ciò significa che il nostro cervello interpreta le esperienze virtuali in modo simile a come interpreta le esperienze reali, anche se sono generate dal computer.

Questo fenomeno, noto come “presenza”, è fondamentale per il successo della realtà virtuale. La sensazione di essere immersi in un ambiente virtuale, di interagire con oggetti e persone come se fossero reali, ha un impatto significativo sul nostro benessere emotivo e psicologico.

Studi condotti in ambito terapeutico hanno dimostrato come l’uso della realtà virtuale può avere effetti positivi sul trattamento di disturbi come fobie, traumi psicologici e disturbi dell’umore.

Ad esempio, la realtà virtuale può essere utilizzata per esporre in modo graduale e controllato i pazienti alle situazioni temute, permettendo loro di affrontare le proprie paure in un ambiente sicuro e controllato. Questo approccio, noto come terapia dell’esposizione in realtà virtuale, è particolarmente efficace nel trattamento di fobie specifiche, come paura degli insetti, del volo e degli spazi chiusi.

Inoltre, può essere utilizzata per ricreare ambienti virtuali che favoriscono il rilassamento e la riduzione dello stress. Attraverso l’uso dei dispositivi è possibile immergersi in scenari naturali, come boschi, spiagge o cascate che favoriscono la calma e la tranquillità.

Al di là delle implicazioni terapeutiche, la realta virtuale può avere importanti risvolti negativi sulla nostra salute mentale.

L’uso eccessivo della realtà virtuale può portare ad un distacco dalla realtà, causando isolamento sociale e problemi di dipendenza. Alcuni studi hanno evidenziato come l’abuso di videogiochi di realtà virtuale possa causare sintomi simili a quelli dell’abuso da sostanze come irritabilità, ansia e depressione.

L’immersione continua in ambienti virtuali può alterare la percezione della realtà, portando alcune persone a confondere ciò che è reale da ciò che è virtuale. Questo fenomeno, noto come sindrome da realtà virtuale, può avere conseguenze negative sulla salute mentale e sul benessere psicologico, portando con sé perdita del senso di identità e di controllo sulla propria vita.

E’ fondamentale trovare un equilibrio tra l’uso della realtà virtuale per fini terapeutici e ricreativi, e l’eccessivo utilizzo che può portare a conseguenze negative.

In conclusione, la realtà virtuale è una tecnologia che offre importanti opportunità di sviluppo e di crescita in diversi settori, dalle neuroscienze alla psicologia.

Tuttavia, è fondamentale essere consapevoli dei risvolti psicologici e adottare misure preventive per prevenire l’insorgere di problemi legati all’abuso.

Solo attraverso un uso consapevole e responsabile possiamo sfruttare il suo potenziale e beneficiare dei numerosi vantaggi che può offrire.

 

Dott. Mirco Carbonetti

Psicologo – Psicoterapeuta

 

 

Bibliografia

Morganti F. Riva G., 2006, Conoscenza comunicazione e tecnologia, aspetti cognitivi della realtà virtuale. Milano.

Vincelli, Rira, Molinari, 2007, La realtà virtuale in psicologia clinica. Milano, McGraw Hill.

Wallece, 2017, La psicologia di internet, Milano, Cortina.

IL TRAUMA E LE SUE CONSEGUENZE

Dal trauma si può guarire? Il trauma non può essere cancellato, ma si possono curare le tracce che il trauma lascia nella mente, nel corpo e nell’anima.

I segni che lascia il trauma si manifestano in modi differenti:

– con una sensazione di peso sul petto che denominiamo ansia o depressione; 

  • con la paura di perdere il controllo che ci fa sentire maggiormente vulnerabili; 
  • con il sentirsi sempre in allerta, come se un pericolo possa essere dietro l’angolo ad ogni nostro passo; 
  • con il forte disgusto che si prova nei propri confronti, sentendosi spesso colpevoli più che vittime; 
  • con flashback e incubi costanti; 
  • con la fatica di essere concentrati in quello che facciamo;
  • con la difficoltà di amare e di sentirsi amati.

Ma cosa è il trauma? In psicologia il trauma viene definito come una risposta emotiva ad un evento, o ad una serie di eventi, estremamente stressanti o disturbanti. Il trauma può avere effetti profondi e duraturi sulla salute menale di un individuo, influenzando il suo comportamento, le sue emozioni e le sue capacità di relazione. In alcuni casi, il trauma può portare a disturbi più gravi come il Disturbo da Stress Pos-Traumatico (PTSD).

Il trattamento del trauma spesso coinvolge interventi terapeutici come la terapia cognitivo-comportamentale, la terapia EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprcessing) e altre forme di supporto psicologico.

Con un percorso di cura ci si pone l’obiettivo di ritornare ad essere padroni di se stessi e di riprendere la connessione tra corpo e mente. Chi lavora con le persone traumatizzate sa che per riprendere il controllo di se stessi è necessario ripercorrere il trauma, ma non è possibile farlo se prima non abbiamo condotto la persona a provare direttamente quella sensazione di sicurezza, condizione indispensabile per non sentirsi nuovamente traumatizzati.

La ricerca neuroscientifica ha messo in evidenza come l’unico modo per modificare come ci si sente, consiste nel diventare consapevoli delle nostre sensazioni interiori, non avendone paura e sentendosi in balia di esse, ma cercando di accogliere ciò che accade dentro di noi.

L’obiettivo non vuole essere stabilire con certezza cosa sia esattamente accaduto, ma guidare “le persone a tollerare le sensazioni, le emozioni e le reazioni che provano, senza esserne sopraffatti” (B. Van Der Kolk).

È importante far sì che la persona non si senta colpevole dell’accaduto; il trauma non è colpa loro e tanto meno è stato causato da qualche loro difetto e nessuno può meritarsi quello che è accaduto a loro.

Elaborare un trauma è un processo complesso e individuale che può variare notevolmente da persona a persona. Tuttavia ci sono alcuni approcci e strategie comuni utilizzati in psicologia per aiutare le persone ad elaborare e superare il trauma. 

 1. Riconoscimento e accettazione attraverso il supporto professionale:

  • Consapevolezza: il primo passo è riconoscere che si è vissuto un evento traumatico. In questa fase è importante accettare i sentimenti e le emozioni associate al trauma.
  • Autoaccettazione: accogliere le reazioni al trauma come normali e non sbagliate sebbene si percepisca l’ora fatica nel superare l’evento. “Ciò che è successo non può essere cancellato” (B. Van Der Kolk). È necessario occuparsi delle tracce del trauma che rimangono nel corpo, nella mente e nell’anima.

Chi ha subito dei traumi sa bene di cosa sto parlando, perchè questi vissuti interni sono quelli che accendono maggiormente l’ansia, la depressione e la paura: si temono le proprie sensazioni fisiche; esse diventano il vero pericolo da evitare.

Anche se il trauma riguarda il passato, il cervello emotivo continua a generare sensazioni che rendono la persona impaurita e impotente nel presente, e così il corpo si congela e la mente si spegne.

Il cambiamento ha inizio con l’aprirsi alla propria esperienza interna, focalizzandosi sulle sensazioni e portando l’attenzione a come esse siano, di fatto, transitorie, poichè reagiscono a modifiche posturali minime, o a variazioni nella respirazione o a mutamenti del pensiero.

Dopo aver imparato a notare queste sensazioni fisiche è necessario imparare a chiamarle con il giusto nome es. “Quando sono ansioso, ho una sensazione di oppressione al petto”.

In questo modo possiamo guidare il paziente a stare su quella sensazione e notare cosa cambia se si fa un respiro profondo o se ci si abbandona ad un pianto.

È importante sentirsi capaci di poter esplorare e tollerare le proprie reazioni fisiche per poter “approdare” nel passato in modo sicuro.

Altro passo fondamentale in questo viaggio, sarà quello di osservare l’interrelazione tra i pensieri e le sensazioni fisiche. È inevitabile che pensieri diversi, creano sensazioni diversi, es “mio padre mi ama” o “la mia ragazza mi ha lasciata” hanno effetti diversi nel nostro corpo.

Perchè tutto questo possa avvenire in modo efficace è importante poter creare una buona relazione terapeutica in cui sentirsi al sicuro e concedersi di esplorare anche parti traumatizzate.

“Sicurezza e terrore sono incompatibili. Quando siamo terrorizzati, niente ci calma come la voce rassicurante o l’abbraccio deciso di qualcuno di cui ci fidiamo” (B. Van Der Kolk).

2. Supporto sociale:

Nel trattare il trauma, i contesti relazionali sono fondamentali: che siano famiglie, persone amate, gruppi di auto-aiuto, comunità religiose, psicoterapia, lo scopo è di dare sicurezza emotiva e fisica. È fondamentale riuscire a creare una ri-connessione con gli altri esseri umani, soprattutto quando si è stati vittima di traumi relazionali, quando chi doveva o diceva di amarci in realtà ci ha inflitto sofferenza e dolore.

Avere un sistema di supporto solido, che includa amici, familiari o gruppi di supporto è cruciale per la guarigione.

3. Tecniche di coping:

  • Mindfulness e meditazione: queste pratiche possono aiutare a radicare la persona nel presente, riducendo l’ansia e migliorando la consapevolezza del corpo e delle emozioni.
  • L’esercizio fisico: l’attività fisica regolare può aiutare a ridurre lo stress e migliorare l’umore;
  • Routine di auto-cura: prendersi cura di sè attraverso una buona alimentazione, sonno adeguato e altre pratiche di benessere.

4. Rielaborazione del significato:

  • Riflettere sull’esperienza: comprendere l’impatto del trauma sulla propria vita e cercare di dare un nuovo significato all’esperienza può aiutare a integrare il trauma in una narrazione personale più ampia.
  • Resilienza e crescita post-traumatica: Alcune persone trovano che lavorare attraverso il trauma porti a una maggiore resilienza e a una nuova comprensione di sé.                          

5. Interventi farmacologici:

  • Medicazione: In alcuni casi, i farmaci possono essere prescritti per gestire i sintomi di ansia, depressione o PTSD

Il percorso di elaborazione del trauma è spesso lungo e può richiedere un impegno costante. Ogni individuo è unico, quindi le strategie che funzionano per una persona potrebbero non essere efficaci per un’altra. È importante lavorare con professionisti qualificati per trovare il percorso di guarigione più adatto.

Dott.ssa Sonia Allegro

Psicologa – Psicoterapeuta

LA MEDITAZIONE METTA NEL PROTOCOLLO MBSR

La mia religione è la gentilezza

Dalai Lama

Nel protocollo di meditazione Mindfulness chiamato MBSR (mindfunell based stress reduction) ideato da Jon Kabat-Zinn alla fine degli anni ’70 si pratica la meditazione Metta, ovvero dell’amorevole gentilezza.

La parola in lingua pali Metta ha due significati principali: uno corrisponde a benevolo. Essa è paragonata appunto a una pioggia lieve che cade sulla terra che non seleziona o sceglie, ma scende semplicemente senza discriminare.

L‘altro significato della parola Metta é amico. Il culmine della meditazione Metta é diventare veri amici di noi stessi e di tutte le forme di vita.
La pratica della meditazione Metta (che significa amorevole gentilezza ) è alla base della pratica della presenza mentale, poiché richiede lo stesso atteggiamento di rifiuto del giudizio e dell’attaccamento, un atteggiamento di accettazione nei riguardi del momento presente, un orientamento che invita a far posto alla calma, alla chiarezza della mente del cuore, alla compassione.
Secondo Jon kabat-Zinn la pratica della gentilezza amorevole è una disciplina ardua, non meno che prestare attenzione al proprio respiro, o osservare il corso del proprio pensiero.

Nel corso della nostra vita desideriamo essere amati, amare, e amare noi stessi. Purtroppo a causa della sofferenza tendiamo invece a percepirci come separati dagli altri e a isolarci per proteggerci. Buddha definì il cammino spirituale che conduce alla liberazione dalla sofferenza e all’uscita dall’isolamento come “la liberazione del cuore, che è amore”.
Praticando le meditazioni (brahma-vihara,) dell’amore, della compassione, della gioia compartecipe e dell’equanimità facciamo sì che l’amore, la compassione, la gioia compartecipe e l’equanimità costruiscano la nostra casa interiore.
Quando entriamo in contatto con la capacità di amare la luce si accende. La pratica di queste meditazioni è un modo per accendere la luce e per poi averne cura, è un processo di profonda trasformazione spirituale.

Possiamo accumulare esperienze e beni, possiamo cercare qualcosa che riteniamo di non avere e che ci renderà felici, ma la nostra felicità non nasce dall’accumulare e dal possedere dobbiamo cambiare idea su dove cercarla.
Secondo Buddha la felicità ordinaria viene dall’esperienza del piacere, la fugace soddisfazione di ottenere ciò che vogliamo, ma tale felicità è simile all’acquietamento temporaneo della fame. Questa felicità ordinaria è transitoria e porta con sé una tendenza nascosta alla solitudine e alla paura. Quando cerchiamo la felicità nel possedere e nell’accumulare ci procuriamo soltanto sofferenza.
Dobbiamo abbandonare il tentativo di controllare i cicli del piacere e del dolore, che sono incontrollabili, e imparare invece come connetterci, aprirci e amare indipendentemente da ciò che accade.

Ricordare alle cose la propria bellezza è l’essenza della Metta.
La meditazione di Metta è  la prima delle 4 brahma-vihara, le altre sorgono dalla Metta, che le sostiene e le amplia.
Quando nella vita proviamo paura e dolore queste creano distacco tra alcune parti di noi stessi. Quando queste esperienze di paure e dolore sono intense al punto da definirsi traumatiche creano una frammentazione di noi stessi, ci separiamo dentro di noi e ci sentiamo separati dalla nostra vita e dagli altri. Una mente spaventata può comunque essere penetrata dall’amorevole gentilezza, questo senso di amore che non è legato al desiderio e che non pretende che le cose siano diverse da quelle che sono, vince l’illusione dell’isolamento, di non essere parte di un tutto e vince la frammentazione interiore.
Metta diventa la capacità di accogliere tutte le parti di noi e del mondo.
Il risveglio dell’amore e la sensazione di unione non sono condizionate dal fatto che le cose vadano in un certo modo, poiché la Metta, non è dipendente né condizionata.
La pratica di Metta, che può sradicare la paura, la rabbia e la colpa, comincia con l’amicizia verso se stessi. Il suo fondamento consiste nell’imparare ad essere amici di se stessi.
La fiducia nella nostra innata capacità di dare amore rende possibile la coltivazione della Metta.

La meditazione di Metta si compone di frasi di gentilezza amorevole; che ci aiutano a cominciare ad essere amici di noi stessi.

Tradizionalmente all’inizio si usano quattro frasi:
” possa Io essere libero dal pericolo”
“possa Io essere felice”
“possa Io essere in salute”
“possa Io disporre dei beni indispensabili”.

Quando si pratica questa meditazione a volte emerge con forza un sentimento di indegnità e si possono vedere chiaramente le circostanze che limitano l’amore verso noi stessi. Quando questo accade si respira gentilmente e si accetta che questi sentimenti siano sorti, si richiama alla mente la bellezza del desiderio di essere felici e si ritorna alle frasi di Metta.

Partire da noi stessi è la base per offrire amore agli altri.

In seguita la Metta procede in modo strutturato e preciso: dopo averla offerta a noi stessi, ci spostiamo verso qualcuno che è stato buono con noi, verso le persone che amiamo, verso gli amici, verso chi ci ha fornito aiuto, verso un conoscente, un estraneo, verso gli esseri viventi tutti e poi ci si sposta verso coloro ai quali è più difficile indirizzare la Metta, ovvero verso chi ci ha fatti soffrire, ci ha traditi, delusi. In questo modo mettiamo in discussione i nostri limiti ed estendiamo la nostra capacità di benevolenza,

Qualunque sentimento momentaneo è meno potente degli auguri che facciamo, che sono dei semi de a tempo debito fruttificheranno.

Concludo riportando la parole di Sharon Salzberg, autrice de L’arte rivoluzionaria della gioia, edito da Ubaldini Editore:

la Metta è un tesoro che rallegra e porta all’intimità con noi stessi e con gli altri, è la forza dell’amore che condurrà oltre la frammentazione, la solitudine e la paura”.

 

Dott.ssa Luigina Pugno

Psicologa – Psicoterapeuta