Sta diventando sempre più frequente sentire o leggere su media di vario tipo nuovi termini utilizzati per parlare di genere o sessualità. E non è facilissimo restare al passo e capire di che cosa si stia parlando senza farsi delle gaffe o rischiare di urtare la sensibilità di qualcuno.
È sempre più chiaro che l’identità sessuale, la percezione che le persone hanno di sé come individui sessuati, sta diventando un concetto più complesso di un tempo. In effetti, si tratta di un costrutto multidimensionale composto da sesso biologico, ruolo di genere, identità di genere, orientamento sessuale e affettivo e fare confusione è facile.
Proviamo a fare un po’ di chiarezza e a scoprire il significato di parole come “cisgender”, “agender”, “non-binary”, ecc., che stanno diventando molto comuni.
Nel vocabolario, il sesso biologico è “la categoria anatomo-biologica di appartenenza in base alla quale si può essere femmina, maschio, o intersessuali (cioè con caratteri maschili e femminili). Il sesso è determinato dall’interazione tra cromosomi e ormoni”.
Pertanto, il sesso è un carattere biologico che viene determinato alla nascita, ma non è solo binario. Oltre a maschile e femminile, ci sono decine di condizioni anatomiche per cui i genitali interni e esterni si presentano ambigui. Le persone intersessuali presentano questa condizione alla nascita: sono dotati di alcuni caratteri maschili o femminili non concordanti tra loro. L’intersessualità interessa l’1,9 % della popolazione ed una volta veniva identificata col termine ermafroditismo. Tuttavia, un ermafrodita dovrebbe possedere entrambi gli organi sessuali, maschili e femminili, perfettamente funzionanti e tale condizione è impossibile per gli umani. Il termine è stato dunque rivisto come pseudo-ermafroditismo e poi sostituito con intersessualità. Ad oggi, si sta ancora cercando un vocabolo migliore.
L’intersessualità talvolta comporta dei rischi per la salute del bambino, dunque si procede chirurgicamente ad assegnare un sesso cercando di mantenere lo sviluppo congruente al genere assegnato.
Anche in questi casi, pertanto, quando parliamo del sesso di una persona, intendiamo la categoria che gli è stata assegnata alla nascita dai medici rispetto ai genitali esterni.
Non sempre, però, il sesso assegnato corrisponde al genere a cui la persona sente di appartenere.
Recentemente, gli attivisti intersessuali combattono per richiedere che non si intervenga chirurgicamente quando non necessario e che si lasci alla persona la possibilità di autodeterminarsi in età adulta.
Il ruolo di genere viene definito come “il ruolo pubblico vissuto e generalmente riconosciuto dal punto di vista legale come bambina o bambino, ragazza o ragazzo, uomo o donna, frutto dell’interazione di fattori biologici, psicologici e sociali”.
In pratica è l’esternalizzazione della propria identità di genere (modo di vestire e atteggiarsi, ecc.) ed è un costrutto socioculturale: ogni società individua dei comportamenti, dei ruoli e delle attività che ritiene appropriati per maschi e femmine.
Al giorno d’oggi, si tenta di superare gli stereotipi sociali legati al genere maschile e femminile, affermando che entrambi vanno trattati allo stesso modo senza creare rigidità (ad esempio, vestire di rosa le femmine o vietare ai bambini maschi di giocare con le bambole) e si considera che alcuni si sentono una via di mezzo tra queste due categorie o non si identificano con nessuna delle due.
Solitamente, come dicevamo, viene dato per scontato che il senso interno e privato del genere esperito sia coerente al sesso biologico (condizione detta cisgender). Eppure, non è automatico che l’identità di genere sia cisgender, essa potrebbe, ad esempio, essere anche transgender o non-binary.
L’identità di genere è proprio la percezione profonda del proprio genere e risponde alla domanda: “Chi sono?” È il senso soggettivo di appartenenza alle categorie di maschile o di femminile o altro.
Esempi: sono una donna, sono un uomo, sono transgender, non-binary, ecc.
Dunque, se il ruolo di genere identifica un insieme di aspettative sociali e culturali rispetto a ciò che chi appartiene ad un determinato sesso biologico deve fare, l’identità di genere indica un modo di percepire sé stessi nel profondo che non può essere modificato da interventi esterni.
Parlando di identità di genere, è utile introdurre anche il concetto di disforia di genere. Il manuale diagnostico psichiatrico DSM-V la definisce come “la sofferenza che deriva dall’incongruenza tra il genere percepito e quello assegnato alla nascita”.
La disforia porta a vivere con un senso di estraneità e sofferenza la propria appartenenza sessuale anatomica e il ruolo di genere ad essa associato. La sensazione è quella di essere imprigionati in un corpo che non risponde al proprio sentire.
È da sottolineare che la disforia di genere, benché sia inserita nel DSM-V, non è considerata una malattia, bensì, appunto, una condizione di grande sofferenza conseguente ad una varianza di genere. Pertanto, le persone colpite dalla disforia, non vanno curate ma aiutate a modificare ciò che crea la loro sofferenza.
Le persone che hanno cominciato e non ancora portato a termine il loro percorso di transizione (ormonale/chirurgico), che le condurrà ad acquisire l’identità sociale/sessuale del proprio genere, si chiamano transessuali.
L’orientamento sessuale e affettivo si riferisce all’attrazione affettivo-sessuale di una persona nei confronti di un’altra. Gli orientamenti sessuali sono diversi e sono ad oggi considerati come normali varianti della sessualità. Tra i più conosciuti troviamo l’orientamento eterosessuale, omosessuale e bisessuale ma ci sono anche persone asessuali e polisessuali, ecc.
Risponde alla domanda “Chi mi piace?” e viene definito come ciò che “indica il genere e le caratteristiche sessuali dell’oggetto dell’attrazione erotico-affettiva”.
È un concetto che non ha niente a che vedere con l’identità di genere e non si può quindi dare per scontato l’orientamento in base al genere (chi si identifica come donna, non è necessariamente eterosessuale; chi si identifica come transgender non è necessariamente omosessuale e così via).
A partire da questi concetti, si sono create nel tempo tutta una serie di parole per indicare l’esperienza multiforme e sfaccettata di ognuno.
Cerchiamo di spiegarne alcune.
Eterosessuale
L’individuo che sessualmente si sente attratto esclusivamente dall’altro sesso.
Omosessuale
L’individuo che sessualmente si sente attratto esclusivamente dal proprio stesso sesso.
Bisessuale
L’individuo che prova attrazione per persone di entrambi i sessi.
Asessuale
L’individuo che non prova attrazione verso nessun genere e/o verso la sessualità. L’asessualità viene definita anche come mancanza di orientamento sessuale. Gli individui asessuali possono o meno avvertire il desiderio sessuale e possono o meno attuare pratiche sessuali.
Polisessuale
La persona polisessuale può provare attrazione per più generi oltre a quello maschile e femminile, dunque anche generi non-binary, ma non per tutti.
Pansessuale
Persona che prova attrazione verso un altro individuo senza dare importanza al suo sesso o genere di appartenenza.
LGBT(QI)
È una sigla “cappello” che riunisce sotto di sé lesbiche, gay, bisessuali e transgender. Ultimamente è facile trovarla con in coda una q per queer (tutti coloro che non si riconoscono nell’identità “straight”, che indica gli eterosessuali) o una i per intersessuali (come abbiamo visto sopra, persone con alcuni caratteri sia maschili che femminili)
Cisgender
Indica le persone che si identificano nel loro genere di nascita: nei cisgender identità di genere e sesso biologico e ruolo sociale (come gli altri individui li considerano) corrispondono.
Transgender
Una persona che assume un’identità di genere diversa da quella attribuita alla nascita (è un concetto più ampio che include quello di transessuale).
Si oppone a cisgender.
Transessuale
Una persona che altera il proprio corpo chirurgicamente e sul piano ormonale per allinearlo alla sua identità di genere più profonda.
Ci si rivolge alle persone transgender e transessuali utilizzando il pronome corrispondente alla loro identità di genere e non al loro sesso biologico.
Inoltre, una transizione dal genere maschile a quello femminile si indica con MTF (male to female) e, viceversa, la transizione dal genere maschile a quello femminile si indica con FTM (female to male).
Non-binary
Indica una persona che non si riconosce nell’idea che esistano solo due generi, maschile o femminile. Le persone non-binary non si sentono nate nel corpo sbagliato (anche se potrebbero voler modificare alcuni aspetti), anzi, spesso armonizzano caratteri legati al genere maschile o femminile. Gender queer è un altro modo di indicare le persone non-binary e rende l’idea di un’identità di genere dinamica e in continua evoluzione. La comprensione che le persone maturano del proprio genere è complessa, può variare nel tempo e può includere infinite possibilità oltre al maschile e femminile.
Genderfluid
È un concetto che sta sotto al cappello non-binary e indica una persona che percepisce il suo genere in modo fluido, accettando che possa cambiare nel tempo o a seconda delle situazioni.
Una persona genderfluid può, in qualsiasi momento, identificarsi come maschio, femmina, genere neutro o qualsiasi altra identità non binaria.
Di solito, per indicare persone genderfluid si usano pronomi neutrali come they/them in inglese. In italiano non esiste il neutro e la questione è molto dibattuta. La cosa più comune per ora è che la persona interessata proponga da sé i pronomi dai quali si sente più rappresentata.
Agender
Indica una persona che non si identifica in nessun genere. Letteralmente, “senza genere”.
Fonte: pasionaria.it
Non ci ancora molti studi psicologici sulle persone non-binary ma, quelli che ci sono, indicano più alti livelli di sintomatologia ansiosa e depressiva, rispetto alle persone transessuali o cisgender.
Queste persone riportano più alti tassi di discriminazione e di molestie e anche un rischio suicidario molto più elevato rispetto alla popolazione generale.
Il disagio psicologico è dovuto proprio allo stress di subire lo stigma sociale ed esperienze di violenza, molestie o rifiuto che possono intaccare la sintonia con la propria identità e portare a nasconderla. Il rifiuto, percepito o temuto, da parte della famiglia è quello che ha il peso maggiore e può aumentare notevolmente il rischio suicidario.
A questo si aggiunge la difficoltà di trovare un riconoscimento all’interno di una società che fatica a lasciare spazio anche ad identità non binarie. Dai negozi, ai servizi pubblici, al linguaggio, la società odierna è impostata su una visione cisgender.
Sarà interessante notare che, nel mondo, ci sono sempre state altre culture che hanno abbracciato il non-binarismo (alcuni indigeni americani, i Chuckchi in Siberia, i Bakla nelle Filippine, i Hijra in India e i Quariwarmi in Perù).
La situazione tra gli adolescenti oggi è, però, in mutamento. Una ricerca condotta dal J. Walter Thompson Innovation Group ha rilevato che solo il 48% degli americani appartenenti alla Generazione Z (i nati tra il 1995 e il 2010) si identifica come esclusivamente eterosessuale (comparato al 65% dei Millennials, cioè i nati tra gli anni ’80 e la metà degli anni ‘90). Più di un terzo afferma, invece, che le differenze di genere non siano in grado di definire una persona.
Sempre più studi e sondaggi concordano nel sostenere che i giovani d’oggi sono più portati a interrogarsi sulla propria identità, si identificano come LGBTQI più frequentemente che in passato, accettano di meno una rigida dicotomia binary (eterosessuale/omosessuale, uomo/donna) e sono più sensibili e attenti verso le persone non-binary e la loro discriminazione.
Sicuramente, il fatto che queste tematiche vengano affrontate anche a livello mediatico, o a scuola, favorisce il dibattito e l’introspezione.
In parallelo si sta spostando anche il linguaggio, perché il rispetto e l’inclusione spesso passano anche di lì.
Se quando ci occupiamo di persone cisgender, il linguaggio da adottare risulta facilitato dalla presenza di nomi e pronomi altamente definiti in senso maschile o femminile, quando ci occupiamo di persone non-binary la situazione si complica.
Nei paesi anglofoni, come abbiamo visto, c’è l’opzione dei pronomi they/them che risolve in parte il problema essendo utilizzati come neutro, anche singolare. In italiano, come in altre lingue, questo non è praticabile.
Tra le soluzioni adottate nella lingua scritta c’è quella di troncare la parola terminandola con l’asterisco (“ieri sei uscit*?”) o con la lettera u (“ieri sei uscitu?”).
Per risolvere la resa del suono nel parlato, però, sta prendendo piede la proposta di utilizzare la schwa, un simbolo dell’Alfabeto Fonetico Internazionale che è rappresentato da una “e” minuscola rovesciata: “ə”. È un simbolo usato per indicare un suono neutro, senza accento o tono che ben si presta allo scopo (“ieri sei uscitǝ?”).
I promotori di un linguaggio inclusivo sostengono che non avere una parola per descriversi significhi, di fatto, essere discriminati.
Al di là di quale sia l’opinione di ciascuno in merito, va senz’altro considerato che come esseri umani fatichiamo a comprendere ciò a cui non diamo un nome. Inoltre, seppur con dei limiti, un nome che sia rappresentativo crea una categoria, un gruppo, e sentirci parte di un gruppo ci fa sentire meno soli e rafforza il senso di comunità. Questo, oltre ad aumentare il benessere dell’individuo, perpetua la coesione sociale e, dunque, va a beneficio della società stessa.
A convalida di quanto detto, si rileva che sono notevolmente aumentate anche le ricerche in rete sui termini che abbiamo descritto in questo articolo, così come il numero di adolescenti che si rivolgono ai consultori o alle associazioni del territorio per comprendere e per comprendersi meglio.
Se avete bisogno di trovare le parole per capirvi e sentirvi rappresentati o vi sentite confusi rispetto alla vostra identità di genere o orientamento sessuale, l’Associazione Eco può aiutarvi a rispondere alla domanda “Chi sono?”.
Dr.ssa Valeria Lussiana