ARTICOLI

Qui di seguito trovate gli articoli che i nostri soci hanno pubblicato su diverse testate. Buona lettura.

Strappare lungo i bordi come metafora dell’adolescenza. Riflessione personale in un’ottica psicodinamica

!   Non adatto a chi non ha ancora visto la serie perché potrebbe contenere spoiler.

Nel mio lavoro di psicoterapeuta mi è capitato di parlare in seduta di Strappare lungo i bordi e, come sempre, una delle cose che mi piace delle mie giornate è poter cogliere come le persone captino ed elaborino gli stimoli in modo diverso, soggettivo, e spesso in relazione al proprio mondo interno.

C’è chi si è riconosciuto in un male di vivere diffuso, chi ha colto le citazioni e i dettagli studiati al millimetro in ogni scena, chi non lo ha apprezzato, chi si è commosso, chi avrebbe voluto sapere di più.

Poiché lavoro con una fascia di età variegata, ho colto che le persone, a seconda della fase di vita in cui si trovavano, si sono identificate e sintonizzate con alcuni degli aspetti che vengono trattati o solo sfiorati.

Ho deciso di scrivere questo breve articolo per cogliere una sfumatura relativa all’adolescenza e al processo, a volte doloroso, di costruzione della propria identità in relazione ai contenuti di questa serie. Chiaramente, e con mio dispiacere, non posso sapere se l’autore sarà d’accordo con questa personale lettura ed interpretazione, ma, come i miei pazienti, decido di sintonizzarmi su una sfaccettura tra mille, senza pretendere che sia l’unica possibile o quella corretta.

Il titolo in primis mi ha colpito e rimandata alle immagini, alla forma delle forbici, delle forme preconfezionate e alle guide; poi il mio pensiero è volato all’ideale dell’Io e alla definizione di Winnicott di Vero e Falso Sé nei termini che seguono.

L’Ideale dell’Io si riferisce a quell’istanza della personalità in cui convergono il narcisismo, inteso come idealizzazione dell’Io, le identificazioni con i genitori e gli ideali collettivi; esso rappresenta un ideale verso il quale il soggetto tende. L’ideale dell’Io è una formazione psichica parzialmente indipendente che rappresenta un punto di riferimento per l’Io. Quest’ultimo valuta, misura e modula le proprie realizzazioni proprio a partire da questo e proietta in avanti il proprio ideale sostituendo il narcisismo dell’infanzia in cui egli stesso era il proprio ideale.

Secondo Winnicott il Vero Sé è il “gesto spontaneo”, l’idea personale, il sentirsi reale e creativo mentre il Falso Sé è una protezione nei confronti di un ambiente che si è rivelato inadeguato ad anticipare e soddisfare il bisogno del bambino causando frustrazione.

In condizioni ottimali, l’infanzia è caratterizzata da sicurezza, il mondo del bambino è stabile, prevedibile, le figure di riferimento come genitori e insegnati costanti e affidabili, ma, sotto le spinte della crescita e la nascita delle nuove istanze, questo paradigma può subire dei violenti stravolgimenti. In condizioni sfavorevoli, il bambino prima e l’adolescente poi, si trova a dover rinunciare all’autenticità in favore di un adattamento che tuttavia, sotto le spinte della crescita, rischia di crollare originando uno stallo e, forse, un break down. La sensazione di stallo e quindi di arresto evolutivo può generare un profondo dolore, i compiti evolutivi che erano stati messi all’ordine del giorno non sono soddisfatti e il futuro, prima idealizzato e pensato roseo, non esiste più.

Il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, infatti, può essere turbolento: crolla l’onnipotenza infantile, si incontra la caducità propria e del mondo, si scopre che i genitori e gli adulti significativi non sono supereroi, ma donne e uomini fallibili, che non conoscono tutto, ma che si arrabattano anche loro nel miglior modo possibile. Venute meno le certezze esterne, lo sguardo si volge al Sé e sorgono le domande: “Chi sono? Se non sono il bambino prodigio che avevano decantato mamma e papà, se non sono lo studente preferito della maestra, se non sono l’atleta che mi avevano promesso che sarei diventato, allora chi sono?”.

Zerocalcare sembra parlare della fatica delle proiezioni che provengono dall’esterno, degli stereotipi sociali che si abbattono sul singolo e che possono far sentire inadeguati e a volte “rotti”. Se si dà voce alla parte autentica di sé, cosa resta?

Lo psicoterapeuta Charmet sottolinea quanto l’adolescente senta di avere dei compiti evolutivi da svolgere. Questo significa che sente l’esigenza di dover fare, pensare o realizzare qualcosa di importante per sé, qualcosa di così significativo ed irreversibile tale da dare una svolta alla propria vita e che le dia importanza. La finalità è quella di sentire di aver fatto un salto di qualità, ma cosa accade se il processo si blocca? Se non si ha una direzione specifica, se le risorse si rivelano insufficienti e se l’angoscia diventa opprimente? Trovare la propria strada può diventare un compito difficile e accidentato.

Spesso, infatti, gli adolescenti sentono su di sè lo sguardo di ritorno colmo di domande in merito alla propria identità e valore e sentono la pressante richiesta sociale in merito alla necessità di sbrigarsi nel capire chi siano, quale siano i loro talenti e che si assumano responsabilità. Ma se dentro di sé esiste l’ipotesi e la paura di non essere altro che quel ragazzo annoiato, violento, “addormentato” allora il dolore non può che aumentare soprattutto nel momento in cui si prende consapevolezza che tutte queste voci, che si pensava provenissero dall’esterno, nascono in realtà dall’interno.

E allora noi andavamo lenti perché pensavamo che la vita funzionasse così, che bastava strappare lungo i bordi, piano piano, seguire la linea tratteggiata di ciò a cui eravamo destinati e tutto avrebbe preso la forma che doveva avere. Perché c’avevamo diciassette anni e tutto il tempo del mondo.

Se l’adulto nevrotico soffre per il “passato” e le ferite che esso ha comportato, l’adolescente spesso soffre a causa della mancanza di futuro e per il lutto di quella promessa non mantenuta. E qui “strappare lungo i bordi non è più possibile: bisogna fare il lutto di quella promessa, di quel futuro immaginato che non può più realizzarsi, di quel sé futuro non raggiungibile. Crescere significa allora costruire la propria linea tratteggiata, essere pronti ad aggiustarla quando le cose non vanno come desiderate e immaginarsene una nuova, magari non proprio identica a quella idealizzata. E forse quell’ideale dell’Io promosso dai genitori, dall’ambiente e da se stessi non può funzionare, quella sagoma deve essere personale, nuova, creativa. Qui può trovare spazio il desiderio, la speranza per la costruzione di sé, non solo intrisa di aspettative, ma frutto di un percorso personale e intimo a volte accidentato.

Zerocalcare parla anche della paura di crescere e dell’errore, quindi dello scacco evolutivo in cui i ragazzi a volte si trovano. Capita infatti che i ragazzi si ritirino, che decidano di non partecipare più alla vita, né scolastica né sociale/relazionale.

Per un sacco di tempo ho pensato che se non strappavo più un cazzo, se tenevo tutte le bocce ferme immobili, almeno non facevo altri danni.

Ma si tratta di una chimera: il tempo scorrerà lo stesso e la vita con esso infatti:

pure se non lo strappi quello si ciancica.

È un processo che non si può arrestare. Fare e non fare sono comunque due azioni, sono scelte che porteranno a delle conseguenze; il tempo scorre e subentra la consapevolezza della morte. Emerge così un forte dolore e la sensazione di inadeguatezza, della paura di presentarsi al mondo e dell’entrata nel mondo degli adulti cupi, grigi e privi di speranza o spessore.

Personaggio chiave e controverso è Secco, l’amico che tutti dovremmo avere. A prima vista sembra superficiale, ma quel gelato che offre come panacea di tutti i mali può forse rappresentare la cura dell’amico, la sua vicinanza e sintonizzazione silenziosa. Quello che propone non è solo passare oltre il dolore, ma introdurre un elemento consolatorio. Secco si dimostra l’amico sempre presente, forse afflitto anche lui dell’assenza di un posto nel mondo e di un futuro, si barcamena nell’oggi e offre una spalla a chi gliela chiede. Secco gioca a poker, scommette sul fatto che le cose andranno bene, in qualche modo scommette sul futuro, pensa che potranno capitargli buone carte e allora riscattarsi. Amico silenzioso e riservato conosce i pensieri e i segreti di tutti: davanti al gelato gli amici si aprono, forse in qualche modo si sentono consolati e accettati; senza pressioni ci si confida. Secco non offre solo l’oggetto, ma l’occasione dell’esperienza della condivisione.

L’uscita dall’adolescenza e l’entrata nel mondo degli adulti è rappresentata come un percorso tragicomico in cui leggerezza e profondità si mescolano. La morte, silenzioso filo conduttore che attraversa gli episodi, compare prepotentemente con tutto il suo dolore solo alla fine (non tratterò in questo articolo il tema del suicidio perché merita una riflessione a parte). La morte, simbolo e metafora del lutto per ciò che non è più possibile, lascia cicatrici visibili ed eterne e al tempo stesso lascia spazio per la guarigione della ferita (forse anche di quella narcisistica) che consente di proseguire il percorso senza dimenticare.

Dott.ssa Debora Tonello

Psicologa – Psicoterapeuta

 

BIBLIOGRAFIA

Lancini M., Cirillo L., Scodeggio T., Zanella T. L’adolescente. Psicopatologia e psicoterapia evolutiva. Raffaello Cortina editore 2020
Pietropolli Charmet G. Fragile e spavaldo. Ritratto dell’adolescente di oggi. Editori Laterza 2008.
Pietropolli Charmet G., Bignamini S., Comazzi D. Psicoterapia evolutiva dell’adolescente. FrancoAngeli 201
S. Freud, Totem e tabù e altri scritti 1912-1914, OSF, Torino, Bollati Boringhieri, 2000
Winnicott D. W. (1960). Sviluppo affettivo e ambiente. Armando: Roma.
Winnicott D. W. (1975). Dalla pediatria alla psicoanalisi. Feltrinelli: Firenze
Zerocalcare. Strappare lungo i bordi

Quando il passato ritorna prepotente nel nostro presente: la solitudine come patto di lealtà

Non esiste nessuno a cui piaccia la solitudine.

E’ solo che odio le delusioni”

Haruki Murakami

Le ricerche sull’attaccamento e sulla relazione madre-bambino, dimostrano quanto, per ciascuno di noi, sia importante creare relazioni con gli altri. Fondamentalmente è la relazione con l’altro a determinare la nostra identità (Bowlby, 1989; Bartels & Zeki, 2004).

Il processo di individualizzazione si fonda sul bisogno di appartenenza e di differenziazione.

L’appartenenza è il bisogno del bambino di appartenere e riconoscersi nella sua famiglia d’origine.  Con la crescita, il ragazzo prima e l’adulto poi, sentirà la necessità di appartenere non solo al suo nucleo d’origine, ma anche di appartenere al contesto sociale in cui vive (Bateson,1977). L’uomo, costruendo la propria rete di relazioni interpersonali, riuscirà a definire così, il proprio sé e l’altro da sé.

Per Hawkly e Cacioppo (2010), il bisogno di appartenenza è coinvolto nello sviluppo dell’intersoggettività: “il senso di connessione sociale funziona come un’impalcatura per il sé; se si  danneggia l’impalcatura, il sé inizierà a crollare”.

Il bisogno di differenziazione permette il raggiungimento della propria individualità.  La ricerca di relazioni interpersonali appaganti e durature all’interno di un contesto sociale più ampio, porterà  ciascuno di noi a sentirci parte integrante di un tutto e contemporaneamente a mantenere la nostra indipendenza e individualità.

Appartenenza e differenziazione pur assolvendo a funzioni differenti sono la spinta motivazionale a creare relazioni, orientando così il nostro comportamento, le nostre emozioni e i nostri pensieri (Liotti & Farina, 2011).

Perché ci sentiamo soli? Innanzitutto, è importante distinguere tra solitudine e isolamento.

La solitudine è infelicità, può rappresentare un tratto distintivo della persona o essere  una risposta transitoria a circostanze esterne come lutti, rotture o cambiamenti. Non richiede un necessario isolamento fisico ma piuttosto un’assenza di vicinanza, di contatto, un grado di intimità desiderata che non sempre si è in grado di raggiungere nonostante il contesto sia favorevole. Non tutti sono stati accompagnati in modo stabile dalla solitudine, ma più o meno tutti da posizioni e prospettive diverse hanno dimostrato una particolare sensibilità nel percepire “muri e ostacoli” tra le persone, sensazioni di isolamento e invisibilità. La solitudine è l’esperienza di sentirsi separato dagli altri, di non appartenenza e  non condivisione, è sinonimo di insicurezza e auto-svalutazione. Fin da piccoli, quando sperimentiamo un disagio, sia esso emotivo (tristezza, paura, ansia) o fisico (dolore, stanchezza..), sentiamo il bisogno di ricevere affetto dalla nostra figura di accudimento, generalmente la mamma. Il bambino cercherà la vicinanza e protezione dell’altro gridando e piangendo. Quando otterrà una risposta amorevole e accogliente, riuscirà a calmare la sua attivazione fisiologica, disinnescando la risposta alla minaccia.

Cancrini ha evidenziato come questa relazione di tipo filiale/genitoriale vada oltre il legame di sangue diretto, sostituendo il suddetto termine con legame degli affetti. Tutti quei legami che assumono grande importanza per lo sviluppo degli individui, ma che possono non essere naturali:    “ figlio o figlia ti è, penso, colui o colei a cui hai dato e da cui hai preso, in una posizione di cura, nello scambio continuo da cui si concreta la vita di relazione, elementi costitutivi della sua identità” (Cancrini, 2020).

I legami, dunque, ci aiutano a sviluppare le nostre capacità di regolazione emotiva. In età adulta, le relazioni, pur orientandosi verso una maggiore reciprocità continueranno ad avere un ruolo fondamentale per il mantenimento del nostro benessere. Anche da grandi avvertiremo il bisogno di sentirci visti, compresi e di poter contare sul supporto di persone per noi importanti. Il bambino che avrà fatto esperienza di un attaccamento sicuro, sarà un adulto capace di tollerare la solitudine e la conseguente sensazione di disorientamento, mantenendo la propria identità integra anche in assenza di una figura di riferimento benevola e protettrice. Seguendo le acquisizioni più recenti della neurobiologia, “la mente si forma nell’ambito delle interazioni fra processi  neurofisiologici interni ed esperienze interpersonali e i collegamenti umani plasmano lo sviluppo delle connessioni nervose che sono alla base del nostro cervello” (Mucci, 2014). Se la felicità degli esseri umani è legata al vivere con gli altri, per cui i fattori decisivi del successo riproduttivo dell’uomo si fondano sull’empatia, sulla cooperazione e sui legami sociali (Cacioppo 2009),  allora la solitudine è una condizione patologizzante, che trasforma il bisogno insoddisfatto dell’altro in sensazioni, pensieri e comportamenti ostili. Il sentirsi soli non è necessariamente sinonimo di essere soli e isolati. Ciascuno di noi si è sentito solo, per tempi più o meno prolungati, per propria scelta o a causa di condizioni esterne. Il senso di solitudine bussa alla nostra porta quando vorremmo ricevere amore, contenimento, compagnia, ma sembra difficile riuscirci. Si torna così al tempo iniziale della vita e dello sviluppo emotivo, quando il bambino ha fatto esperienza di sentirsi solo in una situazione di bisogno, vivendo una condizione familiare di forte precarietà affettiva ed emotiva. Oppure si torna al tempo adolescenziale o adulto, quando un evento o un problema, porteranno la persona a confrontarsi con le proprie fragilità, per cui il sentirsi soli si trasformerà nel sentimento della solitudine. L’impatto emotivo che le interazioni dell’infanzia hanno sullo sviluppo della personalità di ciascuno di noi, evidenzia il complesso rapporto tra essere soli, sentirsi soli, e la solitudine nel processo del divenire se stessi (Benjamin). In questi  casi, l’altro diventa per noi imprevedibile, la paura di essere ignorati e abbandonati in qualsiasi momento pietrifica anche la nascita dell’amore, in alcuni casi la sensazione di disconnessione-vuoto dagli altri  è così forte che qualsiasi azione dell’altro non riesce a colmare il nostro bisogno di attenzione e amore. Boon, Steel e Van der Hart (2013) parlano di fobia della perdita dell’attaccamento.

In questi casi si instaurano relazioni complesse caratterizzate da:

comportamenti altamente richiestivi verso l’altro, si pretende sempre maggiore vicinanza, attenzioni e risposte sempre più rapide (“perché non mi hai risposto subito?..mi vuoi lasciare?…). Diventa difficile tollerare la frustrazione dell’assenza dell’altro perché magari impegnato nel suo quotidiano. Tutto diventa una misura di quanto l’altro tiene a noi, sembra quasi impossibile regolare le emozioni senza l’aiuto degli altri e, per di più, questo aiuto non sembra mai sufficiente.
oppure al contrario, mostrare comportamenti passivi, anticipando sempre i bisogni dell’altro e mettendo in secondo piano i propri (“Vengo subito da te anche se avrei dovuto finire delle cose di lavoro”..). Queste modalità finiscono per esaurire le energie mentali e fisiche, accumulando rabbia e risentimento.

Qualsiasi sia la strategia, quello che si avverte è un profondo bisogno di contatto e protezione che fatica ad essere colmato. Nascono relazioni non equilibrate che inevitabilmente andranno a confermare l’idea che gli altri siano portati prima o poi a deluderci. A valle della solitudine ci sono molti schemi comportamentali disfunzionali che si ripetono, senza neanche esserne consapevoli.  L’agire per ripetizioni spesso ha a che fare con  la trasmissione intergenerazionale, viene passata da una generazione all’altra, da padre a figlio, da madre a figlia, e la relazione con l’altro riattiva vecchie ferite dell’infanzia (Benjamin 2004).

Spesso accade che le persone desiderano una relazione, ma contemporaneamente la temono; questo comporta un’ ipervigilanza rispetto alle minacce sociali, l’individuo tende a percepire il mondo in termini sempre più negativi isolandosi sempre di più. Chi si sente isolato e fuori dal giro delle relazioni sociali, inizia a sviluppare una serie di comportamenti negativi  che hanno lo scopo di non incontrare gli altri, per  evitare di essere rifiutati. Una sorta di atto di difesa che non fa altro che aggravare il malessere di partenza.

Ecco alcune credenze in grado di perpetuare l’isolamento sociale:

nel corso della propria esistenza, alcune persone a seguito di ripetute critiche e svalutazioni potrebbero faticare a fidarsi degli altri, attribuendo a quest’ultimi intenzioni malevole. L’isolamento diventa così una strategia per prevenire ulteriori sofferenze o delusioni.
le relazioni sono pericolose. E’ meglio essere totalmente autosufficienti. In questi casi è possibile sperimentare un senso di minaccia, paura o pericolo all’interno delle relazioni. Sulla base di ciò ritirarsi dalle relazioni è una risposta comprensibile.
se vedessero i miei difetti, non potrebbero amarmi”. Quando ci si sente così, profondamente sbagliati, l’isolamento è quindi un modo per non incorrere nel rischio che gli altri scoprano chi si è realmente.

Queste sono alcune delle credenze che rinforzano la sensazione di non poter essere in sintonia con gli altri, di poter creare legami interpersonali basati sulla vicinanza empatica e sull’ascolto. In questo modo diventa difficoltoso accedere ad esperienze relazionali positive, fondamentali per modificare le credenze rigide e inflessibili che condizionano i nostri rapporti presenti. In questo modo il passato ritorna prepotente nel nostro presente, per sentirci al sicuro facciamo e ripetiamo quello che abbiamo visto fare dalle nostre figure di riferimento. Come dice la Benjamin il patto di lealtà con le figure di riferimento è un “dono d’amore”, è la ricerca di un’intimità  tanto desiderata e sognata e contemporaneamente è la perdita della propria differenziazione, del riconoscimento delle proprie idee, pensieri e atteggiamenti.

Alla luce delle considerazioni fatte, la solitudine ha origini lontane ed è espressione di un problema di differenziazione, di individuazione e d’amore: la sofferenza che genera il sentirsi soli, racconta sempre di un percorso di individuazione che è stato messo a repentaglio dal senso di mancanza, di assenza, di vuoto, che la distanza dall’altro suscita. L’atto di rinuncia alla propria identità si manifesta nelle diverse relazioni di dipendenza, sconfinando in un isolamento/solitudine che, seppur con differenti posizioni, asseconda il bisogno di protezione di non esposizione, accrescendo il proprio sentirsi insicuri ed inadeguati , incapaci per sé e per gli altri.

Dott.ssa Angela Pia Gianpalmo

Psicologa – Psicoterapeuta

 

 

Bibliografia

1. Barles, A.; Zeki, S.(2004). The neural correlates of maternal and romantic love. Neuroimage, 21, 1155-1166.
2. Bateson, G. (1977). Verso un’ecologia della mente. Adelphi, Milano.
3. Benjamin, L.S.(2004). Terapia ricostruttiva interpersonale. Promuovere il cambiamento in coloro che non reagiscono.LAS, Roma.
4. Boon, S.; Steele, K.; Van Der Hart, O. (2013). La dissociazione traumatica comprenderla e affrontarla. Mimesis Edizioni, Milano
5. Bowlby, J. (1989). Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento. Milano: Raffaello Cortina Editore.
6. Cacioppo, J. T.; William, P. (2009). Solitudine: l’essere umano e il bisogno dell’altro. Il Saggiatore, Milano.
7. Cancrini, L., (2020). La sfida all’adozione. Cronaca di una terapia riuscita. Raffaello Cortina Editore Milano.
8. Liotti G., (2010) Lo studio della motivazione in una prospettiva evoluzionistica: cenni storici e concetti di base. Raffaello Cortina Milano
9. Liotti, G., Farina, B. (2011). Sviluppi Traumatici. Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione  dissociativa. Milano: Raffaello Cortina Editore.
10. Mucci, C., (2014). Trauma e perdono. Una prospettiva psicoanalitica intergenerazionale. Raffaello Cortina Editore, Milano.

Cambiamento climatico e ansia

Eco-ansia. È con questo termine che ci si riferisce alla sintomatologia ansiosa sperimentata in risposta al cambiamento climatico. Negli ultimi anni i media hanno puntato i riflettori sugli effetti del riscaldamento globale indotto dalla condotta dell’uomo sul pianeta. E tali effetti sono osservabili: aumento delle temperature, cambiamento delle rotte dei venti e della distribuzione delle piogge, estinzione di alcune specie animali, difficoltà negli approvvigionamenti di cibo, distruzione di ecosistemi e, in un futuro non troppo lontano, migrazioni climatiche.

L’incremento della consapevolezza circa il cambiamento climatico, dunque, unito alla preoccupazione per il futuro e al senso di impotenza costruisce le basi per l’eco-ansia. Essa può essere caratterizzata anche da paura e panico, rabbia, sensazione di svuotamento, stanchezza, senso di colpa, fino a includere disperazione e vere e proprie fobie.

Alcuni autori considerano l’eco-ansia una specie di disturbo pre-traumatico da stress, poiché le conseguenze dell’evento traumatico vengono sperimentate ancor prima che se ne abbia esperienza diretta.

Il malessere connesso al cambiamento climatico include anche il lutto ecologico, riferito alla perdita di ecosistemi, paesaggi, abitudini, etc. e la solastalgia intesa, quest’ultima, come la sofferenza che ci pervade quando l’ambiente che ci circonda viene violato.

Bambini e adolescenti sono maggiormente esposti a questo genere di disturbi e questo perché, a differenza delle generazioni precedenti, sono cresciuti in un contesto in cui lo spettro del cambiamento climatico è costantemente in agguato e, sotto questo punto di vista, non si sono mai sentiti protetti e al sicuro. Inoltre è possibile che gli effetti del riscaldamento globale influiscano sullo sviluppo già dal concepimento.

Non è un caso che gli scioperi per il clima (es.: Fridays for Future) coinvolgano proprio i più giovani: sono loro a sentire maggiormente il peso e l’ineluttabilità dei cambiamenti climatici ed è a loro che bisogna guardare per la costruzione di buone prassi collettive che li vedano protagonisti.

Ma come si può gestire l’eco-ansia? Si tratta di un ambito di ricerca del tutto nuovo, perciò non è possibile identificare strumenti indubbiamente efficaci nel trattamento di questo malessere del Ventunesimo secolo. Chi se ne occupa, però, lo fa agendo su due fronti:

individuale, offrendo la possibilità, a chi chiede aiuto, di riscoprire le proprie risorse personali mettendole al servizio dei valori che intende perseguire, limitando la tendenza a catastrofizzare e riscoprendo le sfumature di un mondo che non è solo in bianco e nero grazie anche a pratiche di mindfulness e gratitudine oltreché all’instaurazione di routine salutari;
collettivo, mettendo in contatto individui con bisogni simili, promuovendo programmi di educazione ambientale e incentivando azioni di gruppo volte alla salvaguardia del pianeta.

L’eco-ansia, il lutto ecologico e la solastalgia, pur procurando sofferenza e disagio, possono in fin dei conti rappresentare anche un importante motore per il passaggio all’azione. Le istituzioni e i professionisti devono perciò mettersi al servizio di questo malessere che, di fatto, è connesso a un bisogno fondamentale: prendersi cura del pianeta per sopravvivere!

 

Dott.ssa Arianna Calabrese
Psicologa- Psicoterapeuta

Riferimenti bibliografici

Baudon, P., & Jachens, L. (2021). A Scoping Review of Interventions for the Treatment of Eco-Anxiety. International journal of environmental research and public health, 18(18), 9636.
Benoit, L., Thomas, I., & Martin, A. (2021). Review: Ecological awareness, anxiety, and actions among youth and their parents – a qualitative study of newspaper narratives. Child and adolescent mental health, 10.1111/camh.12514.
Comtesse, H., Ertl, V., Hengst, S., Rosner, R., & Smid, G. E. (2021). Ecological Grief as a Response to Environmental Change: A Mental Health Risk or Functional Response?. International journal of environmental research and public health, 18(2), 734.
Gislason, M. K., Kennedy, A. M., & Witham, S. M. (2021). The Interplay between Social and Ecological Determinants of Mental Health for Children and Youth in the Climate Crisis. International journal of environmental research and public health, 18(9), 4573.

“QUANTO ESAGERI! È TUTTO NELLA TUA TESTA!” RICONOSCERE E DIFENDERSI DAL GASLIGHTING

Il gaslighting è una forma insidiosa di manipolazione e controllo psicologico. Si verifica quando qualcuno viene deliberatamente alimentato da false informazioni che lo portano a mettere in dubbio la realtà e a non credere ai propri pensieri e sentimenti.
La verità è che tutti possiamo
avere fatto gaslighting a qualcun altro senza averne intenzione, ma quando succede regolarmente, ad esempio in una relazione, può portare a serie conseguenze a lungo termine: si può finire per dubitare della propria memoria, della propria percezione e persino della propria salute mentale.

Ma da dove arriva questo curioso termine? Deriva da unopera teatrale del 1938, intitolata Gas Light, nella quale un uomo manipola sua moglie così tanto da farle pensare di aver perso la testa. Una sorta di lavaggio del cervello che tenta di minare l’autostima e la sanità mentale dell’altro, in maniera subdola, per poterlo controllare e sottomettere.

Il gaslighting si verifica più spesso nelle relazioni sentimentali, ma non è raro trovarlo anche nei contesti di lavoro e persino nel rapporto medico paziente.

Le relazioni con i gaslighter di solito cominciano piuttosto bene. In ambito sentimentale, è frequente che sappiano creare un clima di confidenza e intimità molto forte fin da subito, sono in grado di far sentire la persona molto attratta, ricoprirla di attenzioni e sintonizzarsi completamente con i suoi bisogni. Questa tattica iniziale va sotto il nome di love bombing (bombardamento damore), nel quale la vittima viene portata a stabilire subito un legame di fiducia benché la crescita dellintimità sia stata troppo rapida nei tempi per poter davvero giustificare la fiducia che si ripone nel gaslighter.

È bene ricordare che le relazioni sane, infatti, sono fatte di sintonizzazioni ma anche di piccole rotture (semplici fraintendimenti, comportamenti non intenzionali che magari ci feriscono o ci lasciano perplessi, moti di diffidenza, ecc.) e riparazioni (tentativi dei due partner di comprendersi meglio e avvicinarsi passo passo al funzionamento dellaltro). Per questo è utile tenere a mente che una relazione troppo perfetta fin da subito, nel quale il grado di sintonia è immediatamente altissimo, non è molto plausibile. Ptalvolta essere indice del fatto che uno dei due stia inconsapevolmente o deliberatamente assecondando tutti i bisogni dellaltro, proponendo sostanzialmente una falsa versione di sé.

Una volta stabilita questa connessione forte di fiducia cieca, sarà più facile per il  gaslighter manipolare la sua vittima.

Solitamente si comincia con piccole bugie su cose semplici, ma il volume delle distorsioni della realtà cresce rapidamente, arrivando ad accusare prontamente la persona se questa protesta mettendo in dubbio quanto le viene detto. Al contempo, il gaslighter tiene buona la relazione disseminando occasionalmente qualche piccolo rinforzo positivo che confonde la vittima. In questo modo la persona finirà col sentirsi confusa: da un lato avrà la percezione di essere trattata ingiustamente, ma dallaltra ricaverà dai piccoli rinforzi la sensazione di essere comunque amata.

Vediamo alcuni esempi di gaslighting per capire meglio:

Screditare. Una tattica comune è dire alla persona che è matta o stupida, in questo modo sentirà che le sue opinioni o sentimenti non sono affidabili. È un tentativo di negare la realtà della vittima anche quando è ben comprovata. Es. Fai presente a qualcuno che ha ferito i tuoi sentimenti e ti senti rispondere che: Sei matto/stupido se lo pensi, perché non è mai successo, te lo sei immaginato! Ti ricordi male, hai capito male come sempre! È tutto nella tua testa!
Minimizzare i sentimenti. Ti sei mai sentito dire che stai avendo una reazione esagerata? O che sei troppo emotivo? Hai mai evitato di dire a qualcuno come ti senti perché eri preoccupato della sua reazione? Quando queste cose accadono con sistematicità, ci troviamo in una situazione di gaslighting. Es. Dici a qualcuno che ha ferito i tuoi sentimenti e l’altra persona si arrabbia con te per aver provato a farla sentire male, o ti dice che sei drammaticoo troppo sensibile, di calmarti e di non tirare più fuori l’argomento.
Mentire e negare. Mentire è una tattica cruciale nel gaslighting, così come negare, negare, negare! Non prendersi mai la responsabilità delle proprie azioni, negare di avere un ruolo nel conflitto, rappresenta un problema e ha a che fare con il non volersi impegnare a cambiare e migliorare stessi per incontrare anche i bisogni dellaltro. Es. E un problema tuo, fattela passare. Era una battuta, fatti una risata! Non è colpa mia se non la capisci.
Isolare. I manipolatori hanno la tendenza a mostrare una faccia alla vittima e unaltra al resto del mondo. In questo modo diventa molto difficile per le vittime pensare di essere credute se decidessero di chiedere aiuto. Es. Sei lunico che la pensa così. Ma stai bene? Dici delle cose assurde, mi sto preoccupando per le cose che dici.

Alla lunga gli effetti del gaslighting possono portare a perdere fiducia in stessi e nella veridicità dei propri sentimenti e della percezione della realtà. Si può arrivare ad isolarsi dagli altri perché ci si vergogna o, al contrario, sentirsi dipendenti da essi perché l’autostima viene annientata. Come se si fosse indegni di amore e inutili di per . Ci si può sentire costantemente confusi, ansiosi, preoccupati riguardo alla relazione col gaslighter. Si finisce per mettere in secondo piano i propri sentimenti e scusarsi di frequente per cose che lasciano confusi. Si perde il senso della propria identità e la propria autostima.

Che fare allora?

Allontanarsi dalla persona aiuta nell’immediato a riguadagnare una prospettiva meno inquinata. Questo può condurci a distinguere meglio la manipolazione dalla realtà.

Se, parlando col diretto interessato di quello che si sta sperimentando, questi riesce a comprendere ed accettare di stare sbagliando, si può provare, con l’aiuto di un professionista, a ricostruire una relazione più sana, con dei confini chiari. Molte persone mettono in campo qualche abitudine non sana nelle proprie relazioni: a volte, si tratta di impararne di nuove e migliorare.

Può capitare infatti che il gaslighter non sia consapevole del proprio comportamento, non lo applichi cioè in modo volontario. Ad esempio, alcune persone attuano comportamenti manipolatori perché ne sono stati testimoni di frequente da bambini o perché hanno imparato a sfruttarli per sopravvivere in un ambiente famigliare gravemente deprivato. Indipendentemente dal livello di autoconsapevolezza del gaslighter o dalla patologia che vi sta dietro, però, il comportamento non è mai accettabile e il fatto che sia inconscio non dovrebbe essere usato come scusa per le azioni manipolative.

Dunque, se la persona non è disposta a cambiare il proprio atteggiamento (magari nonostante labbia promesso più volte, per poi ricascarci), bisogna allontanarsi. Nessuna relazione vale la nostra salute, bisogna mettersi al primo posto e chiudere il rapporto.

È difficile farlo da soli e per questo si può chiedere aiuto quando si ha bisogno di supporto o quando non ci si sente al sicuro.

È facile incolpare stessi per esser stati troppo fiduciosi o vulnerabili, ma non c’è da vergognarsi da biasimarsi. Il gaslighting può accadere a chiunque e in ogni tipo di relazione.

Dott.ssa Valeria Lussiana

Psicologa Psicoterapeuta

I MESSAGGI NASCOSTI DIETRO LE FIABE: “IL MERAVIGLIOSO MAGO DI OZ”

Chi dice che le fiabe siano solo per bambini? Ormai siamo abituati ad amare cartoni animati o fiabe anche da adulti. Sicuramente c’è il nostro Bambino interiore che spesso ce le richiede, ma ci sono quelle fiabe che tutti noi portiamo nel cuore più di altre. 

Voglio condividere, con voi, la mia: Il meraviglioso mago di Oz

È una storia dalla quale mi sono sentita rapita e affascinata fin da piccola. Ricordo molto bene quel libro che tenevo tra le mani, sia la sensazione tattile della copertina ruvida, sia le emozioni che avevo mentre mi addentravo sempre di più nel fantastico viaggio di Dorothy.

Ancora oggi ricordo alcune immagini di quell’edizione e sebbene non sia più in mio possesso e non sia più riuscita a trovarla, per il mio 34esimo compleanno mi sono fatta un regalo: ho riacquistato questo favoloso racconto.

Non è stata una scelta casuale: ho cercato attentamente un’edizione di cui le immagini mi coinvolgessero, perchè potessi attraverso i disegni immaginarmi e addentrarmi ancora di più nella storia.

Cosa di questa fiaba mi attirasse da bambina è difficile dirlo. Forse il lungo viaggio in un mondo incantato di una bimba coraggiosa, forse il senso di protezione che le riservano i suoi nuovi amici, o forse (come tutte le fiabe) il lieto fine. E sì, perchè la piccola Dorothy dopo un lungo e meraviglioso viaggio riesce a tornare a casa.

“Non importa quanto triste e grigia sia la nostra casa, noi gente di carne e ossa preferiamo vivere lì, piuttosto che in un altro Paese, per quanto bello possa essere. Non esiste al mondo posto migliore della propria casa”, scriveva l’autore L. F. Baum …. E quanta verità in queste sue parole!

Ma rileggere questo libro ora che sono adulta, e ora che ho una capacità d’analisi e di interpretazione più affinata, mi ha permesso di cogliere delle sfumature che ovviamente avevo tralasciato. E farlo nel ruolo di psicoterapeuta è come se tutto fosse più accentuato.

Non riesco a vedere il meraviglioso viaggio che intraprende la piccola Dorothy se non come la metafora di un viaggio di consapevolezza.

Di fatto chi ha intrapreso un percorso di psicoterapia può sentire sensazioni molto simili e per chi non ha mai avuto questa esperienza proverò a spiegarlo meglio. La psicoterapia è un percorso fatto di alti e bassi: ci saranno momenti in cui ci si sentirà bene e altri in cui ci si sentirà peggio. Ma continuando a camminare, ci si renderà conto sempre di più del proprio potenziale, delle proprie risorse. Ci si metterà in gioco più di quanto si creda, e per quanto sia faticoso il viaggio, “la strada di casa” prima o poi la si trova.

Condivido con voi una frase che mi ha detto recentemente una mia paziente e la quale ringrazio per la commozione che mi ha trasmesso nel sentire queste parole proprio da lei: “Ho iniziato un percorso di terapia pensando di dover cambiare delle cose di me stessa e invece ho imparato ad abbracciarle e ad accettarmi per come sono”.

Ma ritorniamo a Dorothy e al suo viaggio.

Un viaggio che ha inizio nel momento in cui un tornado solleva la casa della bambina e la trasporta in volo, facendola atterrare nel Paese dei Ghiottoni. Per quanto magari non sia un’esperienza così comune trovarci da tutt’altra parte a causa di un tornado, credo che la sensazione di “venir travolti da un ciclone” sia comune più di quanto si creda. 

Tutti noi, almeno una volta nella vita, abbiamo provato tale sensazione di smarrimento, di disorientamento e di paura. I nostri punti di riferimento svaniscono, le basi solide che credevamo di aver costruito si rivelano non così salde, e dopo un volo e una caduta, ci troviamo proprio con lo stesso stato d’animo di Dorothy: spaventati, smarriti e inermi.

Ma nella sfortuna, la disgrazia della bambina comporta la salvezza di un popolo fino ad allora ridotto in schiavitù: eh sì, perchè la casa di Dorothy schiaccia la Malvagia strega dell’Est.

Come ringraziamento di quello che involontariamente si era determinato, alla bambina vengono donate le scarpette d’argento della strega defunta, che accetta volentieri poichè le attende un lungo viaggio: Dorothy dovrà camminare a lungo per potersi recare dal grande Mago di Oz, il mago più potente di tutto il paese per chiedergli di poter tornare a casa sua, nel Kansas.

E così quando ci troviamo senza quei punti di riferimento, disorientati e impauriti non ci rimane altro che tirarci su e darci un nuovo obiettivo, una nuova direzione. E lungo il viaggio chissà quante cose ci possono accadere.

Dorothy, infatti, non sarà mai sola: lungo il cammino alla bambina e al suo cagnolino Totò si aggiungeranno tre compagni di viaggio. Lo spaventapasseri, il taglialegna di latta e il leone codardo si uniscono a lei, nella speranza di poter fare anche loro delle richieste al Mago di Oz.

Le storie di questi tre compagni di viaggio, per quanto siano molto differenti tra di loro, non possono passare inosservate e le loro richieste appaiono molto sensate se riusciamo a metterci nei loro panni.

Lo spaventapasseri desidera un cervello poichè, per quanto le sue sembianze lo rendano molto simile ad un uomo, la mancanza del cervello non lo fa sentire tale. 

Il taglialegna di latta, prima di ridursi in quello stato era un uomo in carne e ossa. In seguito ad una maledizione lanciata per ostacolare la storia d’amore tra lui e una ragazza, si trova a condurre una vita in tali condizioni, ma soprattutto senza cuore. Questa sarà la sua richiesta al grande Mago di Oz.

Infine, il leone codardo condurrà il viaggio con l’intento di ricevere dal Mago il coraggio. La mancanza di questa virtù, infatti, non gli ha permesso di diventare il Re della foresta e ne ha comportato una vita in isolamento, emarginato da tutti gli altri animali.

Nel lungo viaggio di questa strana compagnia (e si trattò davvero di un lungo viaggio!) tutti questi tre personaggi avranno modo di mostrare le loro doti. 

Lo spaventapasseri, con il suo essere perspicace e razionale, riuscirà più volte a salvare i compagni dai pericoli che si trovano sulla strada; così come il buon animo dell’uomo di latta e il coraggio del leone contribuiranno a condurre sani e salvi Dorothy nel paese del Mago di Oz, nella città di Smeraldo (chiamata così perchè lì era tutto verde, o almeno così gli abitanti credevano che fosse).

Il Mago di Oz li riceve individualmente, ma si mostra disponibile ad esaudire le loro richieste solo dopo che avranno ucciso la Strega Cattiva dell’Ovest. Ed ecco che inizia un altro lungo viaggio che li porta al cospetto della malvagia strega, che li riduce in schiavitù. 

Davanti all’ennesima ingiustizia che Dorothy si trova a subire dalla parte della Strega, molto arrabbiata le versa un secchio d’acqua addosso, liquefacendola e mostrando a tutti il punto debole di questa creatura cattiva, così tanto temuta.

Raggiunto anche questo obiettivo, decidono di ritornare dal mago di Oz, convinti che questa volta le loro richieste potranno avere ascolto, ma si trovano ad affrontare una grande delusione: il mago di Oz non è altro che un comune uomo, giunto in quella terra con una mongolfiera e per tanto considerato un Mago dal popolo che lo ha accolto.

Sebbene i tre personaggi avessero dato prova delle loro abilità, mostrando intelligenza, cuore e coraggio, avevano bisogno di qualcuno che donasse a loro tali virtù (o in altre parole avevano bisogno di qualcuno che credesse in queste capacità per loro), e il mago di Oz cercò di esaudire tali desideri. Allo spaventapasseri infilò un imbottitura di crusca e spilli nella testa come cervello:

“Il cervello è l’unica cosa che valga la pena possedere a questo mondo, che si sia cornacchie o uomini” (Mago di Oz, L.F. Baum);

all’uomo di latta gli inserì nel petto un cuore di seta pieno di sabbia:

“Uno sciocco non saprebbe che farsene del cuore, anche se ne avesse uno” (Mago di Oz, L.F. Baum);

e al Leone gli diede un cucchiaino di miele convincendolo che fosse un elisir di coraggio.

“Non esiste creatura vivente che non abbia paura quando si trova davanti al pericolo. Il vero coraggio consiste nell’affrontare il pericolo quando si ha paura” (Mago di Oz, L.F. Baum).

Ma purtroppo per Dorothy non aveva una soluzione reale per riportarla a casa e l’unica possibilità che le rimaneva era quella di rivolgersi alla Strega Buona del Sud.

Quando un altro lungo viaggio la conduce da lei, scopre che di fatto aveva da sempre avuto gli strumenti per ritornare a casa: quelle scarpette d’argento acquisite dalla Strega Malvagia dell’Est, infatti, potevano portarla ovunque lei avesse voluto. E così fu… in un baleno si ritrovo a casa, nel Kansas a riabbracciare la zia Emma e lo zio Henry.

Ma cosa ci insegna questa storia? 

Probabilmente a ognuno di noi lascia un messaggio diverso, un significato personale. Ma è inevitabile vedere come questo viaggio abbia cambiato emotivamente tutti i personaggi.

Dorothy con il suo viaggio aiuta i suoi amici a credere in se stessi, a conoscersi e a guardare le loro qualità. 

Non avviene una trasformazione magica in qualcosa di diverso da ciò che erano già, ma prendono coscienza di se stessi e delle proprie potenzialità, imparando a sfruttarle meglio.

Proprio quello che avviene attraverso una Psicoterapia!

Dott.ssa Sonia Allegro

Psicologa-Psicoterapeuta

CHRISTMAS BLUES – La tristezza da Natale

Christmas Blues…ne avete mai sentito parlare? Pare essere un concetto che indica l’insieme di improvvise sensazioni di tristezza, ansia, nervosismo, angoscia, insonnia e rancore durante i giorni di festività Natalizia.

Qualcuno di voi si starà chiedendo come possa essere vero ciò, come sia possibile essere minimamente giù di morale durante i felici giorni di festa, forse i più belli dell’anno…altri invece potrebbero non stupirsi troppo e trovare un po’ di vicinanza nei contenuti di questo articolo.

Facciamo un piccolo passo indietro, cosa è per noi il Natale? Cosa rappresenta nella nostra società? In che modo quest’ultima ci invita a viverlo?

Nella nostra cultura, il giorno di Natale è tipicamente una festa familiare che inevitabilmente richiama i legami affettivi e familiari ovvero giornate e momenti di incontro con le persone care (partner, figli, genitori, amici…).

Il Natale si pone come grande amplificatore di emozioni (positive e negative) che irrompe nel nostro equilibrio caratterizzato dai ritmi frenetici della vita (sfera professionale, scolastica, sentimentale etc…). La società ci informa di come sia “doveroso” essere felici del Natale, ci ricorda incessantemente la gioia di fare regali e quella di riceverli.

Possiamo immaginare che alcuni di noi vivano tutto ciò con serenità e gioia, non vedendo l’ora che il Natale arrivi, probabilmente avendo dei rapporti distesi e felici con i propri cari.

D’altra parte è presente anche chi, avendo degli aspetti irrisolti, conflittuali e/o del tutto assenti nelle relazioni interpersonali familiari, può far fatica a sintonizzarsi emotivamente con questo periodo dell’anno. Ciò potrebbe provocare in queste persone sensazioni di antipatia, apatia e ansia verso l’evento Natalizio, come se fosse una vera e propria punizione angosciante assieme, a volte, ad una deflessione del tono dell’umore.

In queste persone, a volte, è il sentimento di appartenenza ad inciampare e a far vacillare le proprie credenze, di conseguenza l’evento Natalizio diviene un evento stressante, che fa sentire inadeguati e “strani” poiché la tristezza provata non è in linea con la felicità che la società ci chiede.

Il Natale sembra essere un giorno che non perdona volentieri: può donare gioia o far rattristare la persona in un malessere nascosto ma presente.

Esso può rivelarsi un’occasione per spiacevoli sensazioni di solitudine e/o di vuoto difficili da colmare, un momento in cui dover fare dei bilanci con lo scopo di “tirare le somme” dell’anno appena trascorso (come accade anche durante il giorno del nostro compleanno) come fosse una prova di valutazione della vita in generale e l’esito delle nostre competenze relazionali nei rapporti familiari (di merito, di punizione, di fortuna etc.).

È chiaro come questo malessere possa essere dato, non solo da disagi del presente ma anche da situazioni irrisolte del passato.

La tristezza da Natale ha una durata assolutamente soggettiva, può andare da qualche giorno in piena festività oppure coprire per intero il Calendario dell’avvento fino al successivo anno, quando vengono ripresi gli abituali ritmi di vita che acquietano il nostro mondo psichico interno.

Le persone maggiormente vulnerabili alla Christmas Blues sembrano essere quelle che tendenzialmente non hanno molti contatti sociali e affettivi, quelle coinvolte da problemi oggettivi di lontananza dalle persone care; chi ha vissuto episodi negativi importanti (come un lutto, una separazione, un tradimento, un problema coniugale) e chi è già predisposto ad aspetti clinici depressivi a prescindere dalle festività.

Un percorso di psicoterapia con un professionista della salute mentale può rivelarsi certamente un’occasione per affrontare i significati profondi della propria tristezza Natalizia e comprendere le modalità e le motivazioni con le quali si è manifestata.

Teniamo presente che, essere tristi e malinconici a Natale non indica che siamo sbagliati o inadeguati ma ci ricorda che siamo esseri umani complessi con una propria individualità e storia di vita.

Questo articolo vuole essere un invito a normalizzare le emozioni negative poiché anche queste sono funzionali e dicono tanto su come stiamo, ascoltarle allena la nostra consapevolezza.

Si sconsiglia fortemente così il preporsi di “dover essere” felici a tutti i costi poiché ciò stresserebbe ulteriormente. Quando si vive un momento difficile, è fondamentale quindi prendersi lo spazio e il tempo per esprimere il proprio dolore e, se possibile, condividerlo con qualcuno per lenire il malessere e sviluppare maggiori quote di resilienza.

Quello della Christmas Blues, ricordiamo, non è uno stato patologico e dovrebbe farci preoccupare nella misura in cui invalida pesantemente le giornate.

La psicoterapia è fortemente consigliata qualora questa sia accompagnata più specificatamente da una sintomatologia attinente ad un disturbo d’ansia, un disturbo dell’umore, disturbo da attacchi di panico o altro.

Psico-pillole da tenere in tasca:

Rimanere nell’ hic et nunc ovvero il “qui ed ora”: imparare a vivere appieno e consapevolmente tutto ciò che ci accade nel presente, senza perdersi nei pensieri del passato o del futuro. Coltivare i pensieri positivi allentando rimuginio e i pensieri negativi.

Prendere le distanze da ciò che ci stressa/ci fa stare male, dalle aspettative e convenzioni sociali: limitare quelle attività che facciamo per “obbligo natalizio” (doni, visite, pranzi etc.) imparando a “dire di no” agli incontri con persone che sappiamo ci provocheranno malumore e cercare di aumentare gli incontri gradevoli. Allenare la nostra scelta consapevole rispetto a tutto ciò e limitare anche la consultazione pervasiva di social media per vivere la propria vita reale e non perdersi in quella di altre persone.

Concentrarsi su ciò che ci fa stare bene: dedicarsi a quelle attività piacevoli che aumentano lo stato di benessere mentale e fisico come la lettura di un libro che ci piace, dedicarsi a hobbies, attività fisica, percorrere una passeggiata distensiva (specie nelle ore di luce), ascoltare la propria musica preferita etc.

Coccolarsi: concedersi qualcosa di goloso, farsi un regalo, attività inerenti la cura del proprio corpo o la programmazione di un viaggio futuro donano sensazioni piacevoli.

Recuperare: approfittare del tempo libero da vacanze per dedicarsi ai progetti lasciati in sospeso, mandando avanti pezzi della propria vita.

Riposo: i giorni di festa possono rappresentare l’occasione per riposarsi e dormire di più.

Coltivare le relazioni: mantenere vivi i contatti con le persone alle quali teniamo, anche a distanza, ci fa sentire meno soli e aiuta l’umore.

 

Dott.ssa Maria Grazia Esposito

Psicologa Clinica Psicoterapeuta

Ansia Sociale 2020: un altro possibile “disturbo post-Covid-19”?

A seguito dell’isolamento dettato dalla pandemia da Covid-19 (e non solo) si sente spesso, nell’ultimo periodo parlare, propriamente o impropriamente di “Fobia o Ansia sociale”, come una sorta di “reazione” a seguito degli ultimi eventi stressanti a cui gli individui sono stati sottoposti.

Ciò che viene perlopiù riportato, nella pratica clinica, è che sembra quasi che nei momenti in cui è consentito dalle attuali condizioni sanitarie e quindi politico-sociali (vedi zona gialla, zona bianca), non si riesca più a ritornare ad una vita sociale “normale”, in quanto comunque bloccati dallo stare con gli altri, in quanto ci si sente, alle volte infastiditi dalla loro semplice presenza, alle altre ci sente osservati o giudicati da questi ultimi.

Viene dunque lecito chiedersi: Che cos’è realmente l’Ansia Sociale? Che possibile correlazione ha con gli ultimi eventi storici?

 Per rispondere a questi quesiti e provare a fare un po’ di chiarezza, risulta necessario approfondire in primis, con quanto si conosce in letteratura, circa l’epidemiologia, i criteri diagnostici, la comorbilità e l’eventuale trattamento dell’Ansia Sociale.

I primi a descrivere l’Ansia o Fobia sociale furono Marks e Gelder, nel 1966 riferendosi a essa come a “una paura di mangiare, bere, parlare, scrivere… in presenza di altre persone” che aveva come caratteristica principale “la paura di apparire ridicolo agli occhi degli altri”[1].

Venne attribuita all’Ansia sociale, un’autonomia nei sistemi diagnostici internazionali solo alcuni più tardi, con la sua introduzione come entità a sé stante nel DSM III. Nel DSM III- R furono introdotti come sottotipi l’ansia sociale generalizzata e la fobia sociale specifica. Successivamente con il DSM IV per attenuare le discordanze con l’ICD-10 è stata mantenuta la sotto classificazione che prevedeva la forma “generalizzata”. (Pietrini et al., 2009).

Infine, stando al DSM V, il Disturbo d’ansia sociale (DAS) anche nota come Fobia Sociale, è una condizione caratterizzata da una marcata, o intensa, paura o ansia relative a situazioni sociali in cui l’individuo può essere esaminato dagli altri. Nei bambini, la paura o l’ansia devono però manifestarsi in contesti in cui vi sono coetanei e non solamente durante le interazioni con gli adulti.[2]

Alla base del disturbo sembra esserci quindi la paura di un giudizio negativo diventata così pervasiva, da non consentire all’individuo una normale integrazione nel suo ambiente relazionale e sociale.

Secondo uno studio condotto da Pietrini et al (2009), l’esordio della Fobia Sociale tende ad essere generalmente graduale o può avvenire in seguito a un’esperienza stressante o umiliante (es essere vittima di bullismo, vomitare durante un discorso in pubblico) con un età media di insorgenza nel 75% degli individui tra gli 8 e i 15anni. (DSM V), a cui fa seguito un decorso tipicamente cronico e invalidante.

Per quanto riguarda invece, la remissione spontanea del disturbo, quest’ultima tende ad essere bassa e anzi vi si possono aggiungere importanti complicazioni, quali la depressione secondaria, l’abuso di sostanze (a scopo auto-terapeutico) e le condotte suicidarie.

Risulta, inoltre, nonostante diversi studi, difficile ottenere dati epidemiologici precisi sulla fobia sociale, in quanto la diagnosi viene spesso applicata a schemi interpersonali di timidezza e di evitamento del sesso opposto per paura di un rifiuto.

Ma in realtà vi è un continuum che va da un estremo, costituito dalla fobia sociale, a uno stile caratteriale generalizzato di mettersi in rapporto con gli altri, meglio identificato come disturbo evitante di personalità, posto all’altro estremo (Gabbard, 2015).

Potrebbe essere utile in tal senso, riportare alcuni tra i criteri diagnostici riportati nel DSM 5, quali:

  • La presenza di una paura o ansia marcate relative a una o più situazioni sociali nelle quali l’individuo è esposto al possibile esame degli altri;
  • Il timore da parte dell’individuo che agirà in modo tale o manifesterà sintomi di ansia che saranno valutati negativamente;
  • Le situazioni sociali temute provocano quasi invariabilmente paura e ansia.
  • La paura o l’ansia sono sproporzionate rispetto alla reale minaccia posta dalla situazione sociale e al contesto socioculturale.
  • La paura, l’ansia o l’evitamento sono persistenti e durano tipicamente 6 mesi o più.
  • Le situazioni sociali temute sono evitate oppure sopportate con paura o ansia intense.
  • La paura, l’ansia o l’evitamento causano disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti (Etc). [3]

Tali criteri sono fondamentali anche nel differenziare il disturbo da altri disturbi d’ansia quali la timidezza non patologica, l’agorafobia, il disturbo da panico, l’ansia generalizzata, le fobie specifiche, il mutismo selettivo, isolamento sociale e/o sindrome di hikikomori,  etc..

Per quanto riguarda invece la comorbilità, purtroppo, la fobia sociale è una condizione con un alto tasso di comorbilità: secondo uno studio condotto da Schneier et al (1992), una comorbilità con disturbi cronici importanti era presente nel 69% dei soggetti affetti da fobia sociale. Tali autori hanno anche segnalato come in assenza di comorbilità raramente la fobia sociale viene trattata dai professionisti della salute mentale, infatti, in uno studio condotto negli Stati Uniti da Grant et al, (2005) nonostante l’alta incidenza del disturbo, più dell’80% degli individui non aveva ricevuto un trattamento per questa condizione (Gabbard, 2015).

Stando al DSM V, l’Ansia sociale è spesso in comorbilità con altri disturbi d’ansia, il disturbo depressivo maggiore e disturbi da uso di sostanze, e tendenzialmente l’esordio di tale disturbo precede gli altri, tranne che per la fobia specifica e il disturbo d’ansia da separazione.

Sulla base di quanto fin qui riportato, viene dunque lecito chiedersi, anche in funzione di un’eventuale correlazione con quello che verrà, da qui in poi, riportato come evento stressante “covid-19”, quali siano i possibili fattori di rischio che portano allo sviluppo dell’Ansia Sociale.

Secondo diversi studi, pare che le fobie si inseriscano in un modello di diatesi genetico-costituzionale che interagisce con stressor ambientali (Gabbard 2015), tra cui:

  • Disposizione ereditaria alla fobia che richiede specifici fattori eziologici ambientali per produrre una sindrome fobica conclamata;
  • Esposizione a stress materno durante la prima e seconda infanzia;
  • Specifici stili parentali: genitori particolarmente ansiosi, iperprotettivi o con una o più psicopatologie;
  • Esposizione a eventi stressanti come umiliazioni e critiche da parte di un fratello maggiore, liti tra i genitori, morte di un familiare o separazione da una figura importante.

In un’ottica psicodinamica dunque i pazienti socialmente fobici sembrano aver interiorizzato rappresentazioni di genitori, caregiver o fratelli che inducono vergogna o imbarazzo, criticano, ridicolizzano, umiliano e abbandonano. Questi introietti, uniti a una predisposizione genetica a percepire gli altri come minacciosi, si stabiliscono precocemente nella vita e vengono poi ripetutamente proiettati in persone dell’ambiente esterno che vengono quindi evitate. Ciò non toglie che, tali effetti possano essere mitigati se invece, nonostante la predisposizione genetica, le relazioni significative siano sufficientemente buone.

Per quanto riguarda il trattamento, alcuni pazienti sono particolarmente resistenti, in quanto temono ogni situazione in cui possano sentirsi giudicati o criticati. L’imbarazzo e la vergogna sono però gli stati affettivi predominanti e il terapeuta che si sintonizza con questi affetti può avere una migliore possibilità di formare un’alleanza terapeutica nelle sedute iniziali con il paziente (Gabbard, 2015).

In conclusione e ritornando al motivo del nostra indagine, da quanto fin qui esposto si evince come in realtà, tale disturbo, anche se forse (proprio per quanto su detto) meno trattato, rispetto ad altri, sia presente da molto tempo e possegga un’alta incidenza tra la popolazione mondiale, quindi preesistente all’evento stressante covid-19. Ciò non toglie che un evento così stressante, unito a tutti i fattori di rischio su elencati, tra cui la maggior incidenza dei casi nei giovani di età compresa tra gli 8 e i 15anni,  e a una buona predisposizione genetica, non abbia contribuito a “slatentizzare”, ovvero a gettar luce,  in molti su un disturbo che forse era giunto il momento di trattare!

Val comunque la pena ricordare, per quel che concerne tutti i disturbi sorti in seguito alla pandemia, che l’Ansia sociale seppur a volte in comorbilità, si differenza nettamente dall’isolamento sociale!.

Dott.Ssa Monica Iuliano

 

[1] Pietrini F. et al (2009)”, Epidemiologia della fobia sociale”, rivista di psichiatria, 44,4 p.205

[2] Diagnostical and Statistical Manual of Mental Disorder (DSM), 5th  – pag.234

[3] Diagnostical and Statistical Manual of Mental Disorder (DSM), 5th  – pag.233

 

Bibliografia e Sitografia:

 

Psicologia positiva e comunicazione non violenta (CNV)

 

Ciao Io sono il lupo e sono il simbolo della comunicazione violenta, quella comunicazione che giudica, paragona, valuta, e usa tutto ciò che rende la comunicazione pesante, difficile. Quando ho le orecchie rivolte verso l’altro lo sto giudicando, svalutando ecc. Quando ho le orecchie rivolte indietro lo sto facendo con me stesso.

 

 

Ciao io sono la giraffa e sono il simbolo della comunicazione non violenta, perché sono Il mammifero terrestre con il cuore più grande e con il mio lungo collo posso avere una visuale più ampia. Con la comunicazione non violenta si è più capaci di comunicare, di gestire i conflitti e di empatizzare con sé e gli altri. L’empatia è la base della comunicazione non violenta. Quando ho le orecchie rivolte verso l’altro sto cercando di capire i suoi bisogni e motivazioni ecc. Quando ho le orecchie rivolte indietro lo sto facendo con me stessa.

 

Questi due simboli sono stati scelti fin dal 1960 da Rosenberg per insegnare alle persone, ai gruppi di lavoro, scolastici e alle famiglie come comunicare senza giudizi e in modo efficace. Senza giudizi la comunicazione non si chiude, ma si apre, perché si impara a comunicare i bisogni in maniera non violenta.
Durante la comunicazione violenta si entra in un sistema comportamentale agonistico in cui c’è un aggressore e una persona che viene aggredita. Di fronte ad un’aggressione la mente può scegliere tra tre comportamenti: aggredire a sua volta, difendersi anche attraverso la fuga, oppure bloccarsi, non riuscire né a contrattaccare, né a sottrarsi.
Il nostro cervello funziona in modo per cui più intensa è l’emozione più le capacità di pensiero e associative vengono bloccate. Questo comportamento è importante perché l’obiettivo è quello di far sopravvivere la persona.

Facciamo un esempio: se io mi trovo nella giungla e compare una tigre non devo trovarmi a pensare quanto è bella la tigre, che belli che sono i colori del suo mantello e altre cose su di lei, questa capacità di pensiero si deve spegnere in favore della mia capacità di sopravvivere e quindi devo provare intensa paura e di conseguenza scappare.
Tutte le volte in cui durante una comunicazione le emozioni che passano sono intense la capacità della neocorteccia di far funzionare le aree riflessive e associative viene compromessa, di conseguenza la persona non pone più la sua attenzione sul contenuto della comunicazione ma sulla modalità con cui la cosa viene comunicata e se questa modalità viene percepita come un’aggressione non penserà al contenuto che le viene comunicato ma ad un modo per potersi sottrarre all’aggressione.
Se invece utilizzo la comunicazione non violenta posso far sapere al mio interlocutore che sono arrabbiato, i motivi per cui lo sono e che cosa vorrei invece che accadesse di diverso. In questo modo l’emozione non sarà intensa e non comprometterà il funzionamento delle aree associative del cervello, diventerà quindi possibile confrontarsi su quello che sta accadendo e sul contenuto della comunicazione.
La CNV oltre a favorire una comunicazione interpersonale efficace permette di sviluppare empatia.
Nel momento in cui si comincia ad utilizzare la CNV si abbassano i livelli di aggressività, la comunicazione diventa più rilassata e c’è un maggior benessere percepito.
Rosenberg, dopo aver studiato con Carl Rogers il creatore della psicologia umanistica, ha creato un protocollo semplice composto da 4 fasi per poter parlare in modo non violento.
Le fasi sono: osservazione, sentimento, bisogno e richiesta.
Spesso le comunicazioni interpersonali non funzionano, diceva Rosenberg, perché cerchiamo soluzioni e facciamo richieste saltando la connessione con l’emozionante e i bisogni.
Questo fa sì che le persone non si sentano viste e riconosciute nel loro sentire e nei loro bisogni.
Con la CNV si impara prima di tutto a osservare, descrivere e riportare cosa è successo, successivamente a riconoscere le proprie emozioni e i propri bisogni, ed infine a fare richieste e trovare soluzioni congrue ad essi.

La CNV si inserisce all’interno della psicologia positiva che ha come suo obiettivo principale la promozione della salute attraverso due percorsi. Il primo lo fa a livello individuale promuovendo lo sviluppo e il rafforzamento dei punti di forza individuali come: l’ottimismo, la speranza, la resilienza, il coraggio, il senso di autoefficacia, la perseveranza, la competenza, l’empatia, il perdono e la saggezza, che costituiscono un “capitale psicologico”, che aiuta ad accrescere il proprio benessere. Il secondo a livello sociale promuovendo relazioni interpersonali caratterizzate da cooperazione, partecipazione attiva, senso di appartenenza.

Partendo dal presupposto che il potenziamento del benessere e il suo mantenimento nella varie fasi della vita, possa rivelarsi più efficace se è oggetto di interventi mirati partendo dall’infanzia, abbiamo ideato creato un libro, che stimolerà lavoro individuale e di gruppo su due abilità molto importanti nelle relazioni interpersonali: litigare in modo costruttivo e saper perdonare.

Per fare questo useremo una semplice storia che vede come protagonisti Volpino Martino, i suoi amici e due litiganti.

Applicando le fasi della comunicazione non violenta (CNV) e del perdono Martino e i suoi amici creeranno il circolo del pensiero in grado di favorire la comunicazione e la condivisione delle emozioni, delle difficoltà e delle soluzioni, fino ad utilizzare lo strumento del perdono per riparare le ferite emotive e lasciarle nel passato.

Qualunque sia la tua età: bambino o adulto, qualunque sia il tuo ruolo: genitore, educatore, insegnante, o lettore, questo libro ti prenderà per mano per aiutarti, divertendoti, ad acquisire gli strumenti necessari a comunicare in modo efficace e a perdonare.

Scopri di più su Le avventure di Volpino Martino e dei suoi amici nel bosco Fan Fan. Strumenti per imparare a litigare e perdonare.

 

Dr..sa Luigina Pugno

Vaccini: il contributo della psicologia del rischio

“…é lecito esporre un uomo a minor pericolo di morire, per salvarlo da un altro senza paragone maggiore? Niun dirà, cred’io di no; troppo sarebbe irragionevole”     

Genovesi, 1765

 

Da qualche mese assistiamo ad un dibattito sempre più acceso tra “si vax” e “no vax”. I rappresentanti delle due posizioni si incontrano, sempre più spesso si scontrano, quasi mai si capiscono.

Il risultato è che il dibattito diventa qualcosa di più simile a quello tra tifoserie.

Consapevoli che non è possibile esaurire nello spazio di un articolo un problema così complesso, vogliamo cercare di capire quali sono alcuni degli aspetti psicologici che sostengono la diffidenza e sfiducia, fino ad una vera e propria fobia, nei confronti dei vaccini.

I primi movimenti di scetticismo/ostilità nei confronti dei vaccini sono sorti già ad inizio ‘800, pochi anni dopo la loro scoperta. Questo avveniva prima dei Big Pharma, quando la realizzazione dei vaccini prevedeva anni di studi e sperimentazioni, prima dell’esistenza dei social network, quando il termine autismo ancora nemmeno esisteva. Questo ci può forse far ipotizzare che ci siano delle resistenze che esulano dal contesto specifico e fanno riferimento a variabili più emotive e cognitive.

Come spesso accade come reazione di fronte ad un rischio temuto, insorge forte il bisogno di una normalizzazione, di ritrovare sicurezze che si temevano perdute. Questo in parte spiega la radicalizzazione di certe opinioni: se da un lato c’è chi invoca il vaccino come strumento per poter ripartire in “totale” sicurezza, dall’altro c’è chi, proprio in reazione al senso di smarrimento ed insicurezza, attiva procedimenti cognitivi che, se da un lato rassicurano, semplificando la realtà dall’altro possono condurre a conclusioni fallaci, fino a chi a forza di doversi difendere da un nemico microscopico, finisce per vedere nemici dappertutto.

L’atteggiamento critico nei confronti dei vaccini si dispone su un continuum di intensità che va da posizioni più radicali ed assolute ad altre non necessariamente contrarie ai vaccini in sé, ma più dubbiose e preoccupate. Diverse quindi sono le posizioni rispetto ai vaccini così come diverse sono i possibili processi psicologici e sociali che ne stanno alla base. La psicologia del rischio ha evidenziato come, quando dobbiamo prendere decisioni percepite come rischiose, tendiamo a farlo non sempre su base razionale, ma su processi più automatici che semplificano la realtà; questo ci porta involontariamente a sovrastimare il rischio di alcuni comportamenti (prendere un aereo) e a sottostimarne altri (fumare). Non sempre alla fine fa più paura quello che è realmente più rischioso.

Sono proprio questi bias cognitivi che possono portare a ritenere più pericoloso un evento nuovo, che conosciamo poco, rispetto ad uno, magari statisticamente più rischioso, ma al quale siamo già abituati o a ritenere meno tollerabili rischi derivanti da una azione volontaria, quale il vaccinarsi ad esempio, piuttosto che quelli dovuti a un evento casuale o ancora dalla conseguenza di una mancata azione, quali ad esempio l’insorgere di una malattia o rischi legati al non essersi vaccinati. Un po’ come se ci fosse il pensiero di fondo di “essersela andata a cercare” che altera la valutazione oggettiva del rischio.

Altro bias cognitivo che influenza la percezione dei rischi è quello sintetizzato dalla locuzione “post hoc, ergo propter hoc”, che porta a confondere la causalità con la consequenzialità temporale, ovvero che tende a considerare un evento accaduto dopo un altro come sicuramente ed inevitabilmente da questo causato. Anche il cosiddetto effetto Dunning-Kruger porta ad una distorsione cognitiva, inducendo, almeno in un primo momento, a sovrastimare le proprie conoscenze in modo inversamente proporzionale alle reali competenze. Nel momento quindi in cui, “da profano” mi accosto ad un certo argomento, posso sopravvalutare la mia competenza, sottovalutando quella di studiosi più esperti e non riuscendo correttamente a discernere la validità effettiva delle fonti da cui traggo informazioni.

Si aggiungono variabili sociali e di personalità. Hornsey et al. fanno riferimento ad “attitudini profonde” inconsapevoli che sostengono atteggiamenti di ostilità e scetticismo nei confronti di evidenze scientifiche. Non può essere infatti, secondo gli autori, solo la mancanza di informazioni o una non corretta elaborazione di queste, che può determinare una tale resistenza ad assimilare e comprendere messaggi evidence based.

Sono state evidenziate persistenti credenze in teorie cospirative o complottiste, una tendenza individuale ad immaginare che vi siano reti di interessi che, per trarre benefici propri, sono disposti a creare danni, scatenare epidemie, manipolare le informazioni, mantenere soggiogata la popolazione generale. A questo si lega una tendenza ad avere sfiducia nelle istituzioni sanitarie e scientifiche e contemporaneamente un elevato livello di reattanza psicologica. Con questo si intende la resistenza a eseguire ordini che provengono sia da persone vicine che da organismi che possano esercitare una qualunque forma di controllo o norma, anche a scapito del proprio stesso interesse.

Si viene quindi a creare una narrazione di sé e del gruppo a cui si sente di appartenere, come detentore di un pensiero libero, indipendente anticonformista, non manipolato né manipolabile. Questa modalità di pensiero sostiene una certa tendenza all’individualismo, ovvero a ritenere che sia preferibile prendere decisioni per se stessi e che qualunque provvedimento derivi da un governo o da altra autorità sia eccessivamente intrusiva ed errata. Si collega a questo il pensiero di non poter essere efficacemente coinvolti nel percorso di cura, né essere parte di un contesto più ampio in cui essere attori di prevenzione e tutela della comunità.

Gli autori si riferiscono poi ad aspetti riconducibili a tematiche ansiose e inerenti al controllo. La fobia o anche solo il timore nei confronti di aghi, ospedali o sangue può determinare strategie di evitamento tra cui potrebbe esserci un atteggiamento contrario al vaccino. Va aggiunto anche che, nel caso specifico, i vaccini possono generare un’opposizione ancor più forte sia perché implicano letteralmente una penetrazione forzata nel corpo che perché possono attivare fantasie di contaminazione con l’idea che si “introduca” una malattia in un corpo sano.

Queste considerazioni portano a ritenere che un approccio simmetrico, intransigente nei confronti dei cosiddetti “no vax”, non solo non permette un confronto né un’azione trasformativa, ma anzi attiva meccanismi di reattanza, sostenendo la credenza di essere parte di una piccola nicchia di persone che coltivano il libero pensiero e incrementando tematiche ansiose e vissuti di isolamento.

Al contrario l’ascolto empatico di quelle che possono essere le motivazioni profonde che sostengono atteggiamenti più rigidamente avversi ai vaccini può aiutare sia la comunicazione che le relazioni, contribuendo poi, salvo contesti più francamente patologici, a limitare atteggiamenti più inflessibili e intransigenti.

Lo stesso può accadere anche in riferimento a coloro che hanno profondamente creduto nei vaccini come opportunità per uscire dalla fase di incertezza e isolamento scatenate dalla pandemia. L’atteggiamento favorevole al vaccino, può essere sì in linea con il sapere scientifico, ma talvolta fondare le radici in credenze non necessariamente logiche e razionali. Può essere primariamente una risposta all’ansia derivante dalla possibilità di ammalarsi e in generale dal bisogno di controllo e sicurezza. Anche in questo caso ci si trova di fronte a credenze immodificabili, che mal si adattano ad esempio al cambiamento di direzione dato dall’indicazione alla terza dose che potrebbe davvero “far crollare le certezze” che si avevano finora.

Vediamo quindi come ogniqualvolta ci troviamo di fronte a pensieri o comportamenti rigidi e pervasivi, di qualunque natura e direzione, può valere la pena domandarsi se derivano da bias cognitivi o da paure irrazionali che ci condizionano e guidano ed eventualmente rivolgerci ad uno psicoterapeuta che ci può aiutare ad affrontarli. Perché alcune volte è il nostro stesso inconscio che ci influenza più di qualunque possibile “dittatura sanitaria”.

Dott.ssa Chiara Delia – Psicologa Psicoterapeuta

Biografia

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Famiglie omogenitoriali ne parliamo con Daniela Vassallo (Famiglie Arcobaleno)

Ho letto la storia tua e di tua moglie, che avete in qualche modo precorso i tempi. Hai voglia di raccontarcela?

Un pochino, ma c’è stato chi prima di noi l’ha fatto. Rispetto alla step child adoption, noi ci eravamo ispirate a quello che stava avvenendo a Roma dove c’erano stati una serie di casi di adozioni in casi particolari, abbiamo quindi tentato di fare anche noi a Torino la stessa cosa. La mancanza di definizioni certe, come succede spesso in giurisprudenza, ci permetteva di avere quello spiraglio attraverso cui provare a passare anche se a noi non è andata bene subito. In prima istanza abbiamo avuto un diniego e poi in appello siamo riuscite ad ottenere l’adozione incrociata perché noi abbiamo partorito, ciascuna di noi, una bimba e abbiamo chiesto di poterle adottare in maniera incrociata.

Tutto l’iter quanto è durato?

Un paio di anni e parecchi soldi. Nonostante le richieste di adozioni in casi particolari possano essere fatte di per sé compilando dei moduli, noi abbiamo dovuto, toccando un ambito così particolare, affidarci a dei legali preparati in materia ed è costato abbastanza, considerando i due gradi di giudizio. Diventa davvero elitaria come procedura.

Da un punto di vista relazionale e simbolico è cambiato qualcosa all’interno del vostro nucleo familiare?

Rispetto alle nostre dinamiche, no. Perché noi per come abbiamo impostato, vissuto e progettato le nostre maternità, eravamo già entrambe madri da subito, da prima ancora che nascessero le bimbe. Certamente però ci ha rasserenato, nel senso che ricordo precisamente il giorno in cui ci diedero l’annuncio; poco dopo vidi mia moglie e la piccola andare via, mano nella mano, le guardai dalle finestra e pensai, finalmente qualsiasi cosa accada da adesso in avanti sono tutelate, adesso forse posso stare un po’ più tranquilla.

A scuola ad esempio noi non abbiamo mai avuto problemi, però il fatto di presentare documenti in cui erano già presenti entrambi i cognomi e non dover pregare per partecipare ai consigli, insomma…un po’ di fatica te la toglie.

 In Italia la legge 40 non riconosce ancora alle coppie omosessuali la possibilità di accedere allo PMA. Qual è l’iter che devono compiere?

Tutte le coppie cercano una clinica all’estero che sia consona all’immaginario o al tipo di percorso che vogliono fare. Che sia più o meno medicalizzata o che risponda ad esigenze di lingua o affinità culturali particolari, ci si rivolge quindi ad un paese piuttosto che ad un altro. Però ti devi comunque mettere nell’ordine di idee di dover andare all’estero, di doverti spostare, di dover calcolare il viaggio in relazione ad i tuoi tempi di fertilità e non ad altre esigenze e che non potrai programmarlo con largo anticipo.

E quali sono le fatiche emotive che le coppie devono affrontare?

Per noi, personalmente è stato poco faticoso, siamo sempre state molto unite, facendo tutto assieme. Dai ritorni che ho da altre coppie la grande fatica è quella ad esempio di voler accompagnare laa tua compagna durante i trattamenti, ma non riuscire a prendere ad esempio le ferie all’ultimo momento. In generale però le fatiche sono tantissime… è vero che quasi tutte le cliniche, sicuramente in Danimarca e Spagna, sono organizzate con ostetriche e dottori che parlano italiano, per cui quando tu vai lì e affronti un percorso così particolare ti puoi affidare a qualcuno che se non altro parla la tua lingua. Però sei comunque in un contesto estraneo, non sei a casa, ti devi sottoporre ad un intervento, e non sei a casa tua, sei un po’ sradicata, non puoi avere vicino la famiglia.

Sono davvero tantissime le fatiche, anche emotive che si sommano a quelle fisiche e all’impatto dei trattamenti sul corpo.

Rispetto al percorso decisionale di avere un figlio quali sono secondo te le difficoltà principali? Penso ad esempio ad aspetti omofobici interiorizzati

Ovviamente ogni coppia e ogni persona è un mondo a sé, per le donne in generale si gioca un aspetto, che è quello del materno che entra in maniera potente in un immaginario di realizzazione esistenziale che devi cercare di combinare con la tua condizione di coppia omosessuale. Questo non sempre è semplice, anche per una omofobia interiorizzata. Rispetto al materno poi lo scontro culturale è, specie in Italia, che si considera che “di mamma ce n’è una sola” per cui spesso al termine del percorso le “madri sociali” fanno fatica a farsi spazio, perché la “madre biologica” fa fatica a lasciare spazio o perché spesso anche le famiglie si inseriscono in queste dinamiche. La famiglia della madre che partorisce riconosce il bambino come il “loro” bambino, mentre l’altra famiglia fa sempre un po’ più fatica, spesso lo definisce “il figlio della tua compagna”. Per raggiungere una situazione di bilanciamento di potere e per sentirsi ugualmente genitore, ci va un grosso lavoro su di sé ed una grossa consapevolezza. Da questo sbilanciamento di potere nascono poi spesso le crisi di coppia che portano a separazioni dolorosissime, spesso violente e per giunta, per le questioni legali di cui parlavamo, con la possibilità di escludere legalmente un genitore oppure di sottrarsi alle proprie responsabilità per l’altro.

In questo si evidenzia il vuoto legislativo che permette il riconoscimento alla nascita di un bambino nato da coppia omosessuale, solo con un atto amministrativo e solo in alcuni Comuni. A Torino, con l’attuale giunta, questo è possibile e nel resto del Piemonte?

Ci sono altri piccoli e grandi Comuni dove questo è possibile, dipende sempre dalla volontà del Sindaco di esporsi sia politicamente che a livello di responsabilità giuridica, perché ci sono state delle sentenze che ad un certo punto hanno un po’ frenato in tutta Italia i Sindaci più intenzionati ad aprire a questa possibilità. Ciononostante alcuni continuano.

 In Piemonte quante sono le famiglie omogenitoriali?

Quelle iscritte a Famiglie Arcobaleno in Piemonte, ma è un dato parziale, sono al momento 150, per la maggior parte donne. Meno di un terzo di questo numero sono di uomini. In realtà, la rappresentatività di questo dato è parziale, la stragrande maggioranza delle famiglie omogenitoriali sono fuori da Famiglie Arcobaleno.

Davvero?

Si, assolutamente. A me capita continuamente di incontrare gente al parco o nei contesti più diversi e scoprire che ho davanti due mamme con figli. Questo mi restituisce, in maniera molto empirica, la dimensione che è un fenomeno ben più ampio.

Una volta nato il bambino, anche in relazione, alla difficoltà di un effettivo riconoscimento del neonato, quali sono le difficoltà che le famiglie riportano?

Dove ci sono Sindaci come la Appendino, quasi nessuno. La difficoltà maggiore l’ha incontrata la prima coppia quando hanno chiesto che venisse riconosciuto il consenso informato firmato nella clinica in Danimarca. Come per le coppie eterosessuali volevano venisse validato il documento dove si assumevano la responsabilità genitoriale nell’affrontare eventuali eventi avversi. Loro volevano far valere questo diritto e sono arrivate, trascorsi 10 giorni, al limite per la riconoscibilità, rischiavano di trasformare loro figlio in apolide, finchè l’ultimo giorno possibile la Appendino è riuscita a trovare il modo amministrativo per far valere questo diritto. Sono stati giorni per Micaela e Chiara di estrema stanchezza e paura, ma anche di profonda determinazione a portare fino in fondo questa battaglia. La più grossa fatica per le coppie è non sapere se il tuo Sindaco ti riconoscerà questa opportunità,

Dalla tua esperienza vengono riportate, se ci sono, delle difficoltà per i bambini?

Per l’esperienza che ho io sia a livello piemontese che nazionale, molto poche, quasi non ne ho sentore. La scuola, che è uno dei contesti che fa più paura a noi grandi, spesso è un contesto in cui le insegnanti stesse si attivano per conoscere, per avere formazione e strumenti per compiere quello che è il loro mandato. Negli ultimi anni questo aspetto positivo della scuola pubblica è stato un po’ inficiato da battaglie politiche che si fanno sulla scuola, per cui è più difficile portare contenuti su cui far lavorare il corpo insegnante e le classi, nel caso di studenti più grandi. Questo però almeno al momento non arriva, non ha ripercussioni sui bambini, anche se è chiaro che se la rappresentazione rimarrà statica e univoca questo avrò delle ripercussioni. Al momento comunque non ho sentore di insegnanti che rifiutano il fatto di trovarsi di fronte ad una famiglia omogenitoriale o di parlare con entrambe le madri o i padri.

Talvolta una delle paure riportate dagli adulti è nel confronto tra pari, che i figli passano essere discriminati dagli altri bambini.

Io penso sia più la cattiveria degli adulti che parla attraverso i bambini. Nella nostra esperienza gli amici e le amiche delle mie figlie al massimo sono stati curiosi. In prima elementare un bambino disse e mia figlia, “ma non è possibile che tu abbia due mamme!”, lei un po’ stupita disse “quando vedi mia mamma prova a chiederglielo”. Lui alla prima festa di compleanno venne a chiedermelo ed io ho spiegato, come potevo ad un bambino di 6 anni, sperando di non urtare la sensibilità dei genitori, come era stata possibile la cosa.

Il problema è anche che per gli adulti ci sono dei temi che sono tabù. Anche se non sono così contrari alle famiglie omogenitoriali, parlare di questo argomento significa anche parlare della riproduzione, della sessualità o di come sono fatti gli esseri umani ed in questo vedo gli adulti tanto spaventati.

Prima parlavi di consapevolezza, dal tuo punto di vista se e in che modo può essere utile alle coppie uno spazio di elaborazione e sostegno emotivo?

Durante il percorso, tantissimo anche per gli sbilanciamenti di cui parlavamo prima. Non c’è solo un modo per essere genitori o di esserlo insieme. Guadagnare consapevolezza attraverso un percorso psicologico farebbe solo bene e poi forse anche dopo il parto, proprio come sostegno familiare. Le famiglie omogenitoriali, purtroppo raramente si sentono sicure nell’andare a chiedere aiuto, anche nelle strutture pubbliche, per paura di trovarsi di fronte a persone con pregiudizi o non preparate alla loro realtà. Per cui alla fine proprio che avrebbe bisogno di un aiuto di qualsiasi tipo spesso non si rivolge ad uno specialista si trova a dover fare tutto da solo.

Credo che anche in questo ambito si inserisca l’attività di Famiglie Arcobaleno, nel non lasciare sole le famiglie.

Famiglie Arcobaleno cerca di dare un sostegno nel fare comunità, anche se non siamo strutturati per fornire servizi di supporto psicologico. Il fare comunità si crea in relazione spesso all’età dei figli; è chiaro che figli di età diverse hanno esigenze diverse e i genitori di conseguenza, anche. Mi ricordo soprattutto quando le bimbe erano piccole c’era bisogno di un rispecchiamento, sia per far vedere alle bambine che non erano le uniche ad avere due madri, ma per sentirci noi meno sole, meno marziane. Vedo che anche adesso le richieste che arrivano in associazione sono di fare comunità, di confrontarsi sulle difficoltà che si incontrano, di condividere le esperienze.

Ti chiedo infine il tuo parere sul DDL Zan e sull’ostracismo che incontra. Che idea ti sei fatta?

Beh, da alcune forze politiche me lo aspetto, per motivazioni più politiche che ideologiche. Ci sono equilibri politici, interessi e questi sono argomenti che servono a smuovere quegli interessi. Per pochissimi penso sia una questione ideologica, come in fondo è successo con la legge sulle unioni civili.

Questo può voler dire che le persone, cosiddette comuni, sono più pronte a parlare di omogenitorialità rispetto alla politica?

Io le persone comuni in generale le trovo molto più pronte, anche soltanto a confrontarsi. È vero che ci sono persone che hanno da un punto di vista valoriale delle resistenze, però si può trovare uno spazio di confronto. È trovarsi di fronte alla complessità della vita reale e imparare a gestirla insieme anche attraverso la relazione e la conoscenza reciproca.

D. Vassallo – Vice Presidente Famiglie Arcobaleno

Dott.ssa Chiara Delia – Psicologa Psicoterapeuta