ARTICOLI

Qui di seguito trovate gli articoli che i nostri soci hanno pubblicato su diverse testate. Buona lettura.

“QUANTO ESAGERI! È TUTTO NELLA TUA TESTA!” RICONOSCERE E DIFENDERSI DAL GASLIGHTING

Il gaslighting è una forma insidiosa di manipolazione e controllo psicologico. Si verifica quando qualcuno viene deliberatamente alimentato da false informazioni che lo portano a mettere in dubbio la realtà e a non credere ai propri pensieri e sentimenti.
La verità è che tutti possiamo
avere fatto gaslighting a qualcun altro senza averne intenzione, ma quando succede regolarmente, ad esempio in una relazione, può portare a serie conseguenze a lungo termine: si può finire per dubitare della propria memoria, della propria percezione e persino della propria salute mentale.

Ma da dove arriva questo curioso termine? Deriva da unopera teatrale del 1938, intitolata Gas Light, nella quale un uomo manipola sua moglie così tanto da farle pensare di aver perso la testa. Una sorta di lavaggio del cervello che tenta di minare l’autostima e la sanità mentale dell’altro, in maniera subdola, per poterlo controllare e sottomettere.

Il gaslighting si verifica più spesso nelle relazioni sentimentali, ma non è raro trovarlo anche nei contesti di lavoro e persino nel rapporto medico paziente.

Le relazioni con i gaslighter di solito cominciano piuttosto bene. In ambito sentimentale, è frequente che sappiano creare un clima di confidenza e intimità molto forte fin da subito, sono in grado di far sentire la persona molto attratta, ricoprirla di attenzioni e sintonizzarsi completamente con i suoi bisogni. Questa tattica iniziale va sotto il nome di love bombing (bombardamento damore), nel quale la vittima viene portata a stabilire subito un legame di fiducia benché la crescita dellintimità sia stata troppo rapida nei tempi per poter davvero giustificare la fiducia che si ripone nel gaslighter.

È bene ricordare che le relazioni sane, infatti, sono fatte di sintonizzazioni ma anche di piccole rotture (semplici fraintendimenti, comportamenti non intenzionali che magari ci feriscono o ci lasciano perplessi, moti di diffidenza, ecc.) e riparazioni (tentativi dei due partner di comprendersi meglio e avvicinarsi passo passo al funzionamento dellaltro). Per questo è utile tenere a mente che una relazione troppo perfetta fin da subito, nel quale il grado di sintonia è immediatamente altissimo, non è molto plausibile. Ptalvolta essere indice del fatto che uno dei due stia inconsapevolmente o deliberatamente assecondando tutti i bisogni dellaltro, proponendo sostanzialmente una falsa versione di sé.

Una volta stabilita questa connessione forte di fiducia cieca, sarà più facile per il  gaslighter manipolare la sua vittima.

Solitamente si comincia con piccole bugie su cose semplici, ma il volume delle distorsioni della realtà cresce rapidamente, arrivando ad accusare prontamente la persona se questa protesta mettendo in dubbio quanto le viene detto. Al contempo, il gaslighter tiene buona la relazione disseminando occasionalmente qualche piccolo rinforzo positivo che confonde la vittima. In questo modo la persona finirà col sentirsi confusa: da un lato avrà la percezione di essere trattata ingiustamente, ma dallaltra ricaverà dai piccoli rinforzi la sensazione di essere comunque amata.

Vediamo alcuni esempi di gaslighting per capire meglio:

Screditare. Una tattica comune è dire alla persona che è matta o stupida, in questo modo sentirà che le sue opinioni o sentimenti non sono affidabili. È un tentativo di negare la realtà della vittima anche quando è ben comprovata. Es. Fai presente a qualcuno che ha ferito i tuoi sentimenti e ti senti rispondere che: Sei matto/stupido se lo pensi, perché non è mai successo, te lo sei immaginato! Ti ricordi male, hai capito male come sempre! È tutto nella tua testa!
Minimizzare i sentimenti. Ti sei mai sentito dire che stai avendo una reazione esagerata? O che sei troppo emotivo? Hai mai evitato di dire a qualcuno come ti senti perché eri preoccupato della sua reazione? Quando queste cose accadono con sistematicità, ci troviamo in una situazione di gaslighting. Es. Dici a qualcuno che ha ferito i tuoi sentimenti e l’altra persona si arrabbia con te per aver provato a farla sentire male, o ti dice che sei drammaticoo troppo sensibile, di calmarti e di non tirare più fuori l’argomento.
Mentire e negare. Mentire è una tattica cruciale nel gaslighting, così come negare, negare, negare! Non prendersi mai la responsabilità delle proprie azioni, negare di avere un ruolo nel conflitto, rappresenta un problema e ha a che fare con il non volersi impegnare a cambiare e migliorare stessi per incontrare anche i bisogni dellaltro. Es. E un problema tuo, fattela passare. Era una battuta, fatti una risata! Non è colpa mia se non la capisci.
Isolare. I manipolatori hanno la tendenza a mostrare una faccia alla vittima e unaltra al resto del mondo. In questo modo diventa molto difficile per le vittime pensare di essere credute se decidessero di chiedere aiuto. Es. Sei lunico che la pensa così. Ma stai bene? Dici delle cose assurde, mi sto preoccupando per le cose che dici.

Alla lunga gli effetti del gaslighting possono portare a perdere fiducia in stessi e nella veridicità dei propri sentimenti e della percezione della realtà. Si può arrivare ad isolarsi dagli altri perché ci si vergogna o, al contrario, sentirsi dipendenti da essi perché l’autostima viene annientata. Come se si fosse indegni di amore e inutili di per . Ci si può sentire costantemente confusi, ansiosi, preoccupati riguardo alla relazione col gaslighter. Si finisce per mettere in secondo piano i propri sentimenti e scusarsi di frequente per cose che lasciano confusi. Si perde il senso della propria identità e la propria autostima.

Che fare allora?

Allontanarsi dalla persona aiuta nell’immediato a riguadagnare una prospettiva meno inquinata. Questo può condurci a distinguere meglio la manipolazione dalla realtà.

Se, parlando col diretto interessato di quello che si sta sperimentando, questi riesce a comprendere ed accettare di stare sbagliando, si può provare, con l’aiuto di un professionista, a ricostruire una relazione più sana, con dei confini chiari. Molte persone mettono in campo qualche abitudine non sana nelle proprie relazioni: a volte, si tratta di impararne di nuove e migliorare.

Può capitare infatti che il gaslighter non sia consapevole del proprio comportamento, non lo applichi cioè in modo volontario. Ad esempio, alcune persone attuano comportamenti manipolatori perché ne sono stati testimoni di frequente da bambini o perché hanno imparato a sfruttarli per sopravvivere in un ambiente famigliare gravemente deprivato. Indipendentemente dal livello di autoconsapevolezza del gaslighter o dalla patologia che vi sta dietro, però, il comportamento non è mai accettabile e il fatto che sia inconscio non dovrebbe essere usato come scusa per le azioni manipolative.

Dunque, se la persona non è disposta a cambiare il proprio atteggiamento (magari nonostante labbia promesso più volte, per poi ricascarci), bisogna allontanarsi. Nessuna relazione vale la nostra salute, bisogna mettersi al primo posto e chiudere il rapporto.

È difficile farlo da soli e per questo si può chiedere aiuto quando si ha bisogno di supporto o quando non ci si sente al sicuro.

È facile incolpare stessi per esser stati troppo fiduciosi o vulnerabili, ma non c’è da vergognarsi da biasimarsi. Il gaslighting può accadere a chiunque e in ogni tipo di relazione.

Dott.ssa Valeria Lussiana

Psicologa Psicoterapeuta

I MESSAGGI NASCOSTI DIETRO LE FIABE: “IL MERAVIGLIOSO MAGO DI OZ”

Chi dice che le fiabe siano solo per bambini? Ormai siamo abituati ad amare cartoni animati o fiabe anche da adulti. Sicuramente c’è il nostro Bambino interiore che spesso ce le richiede, ma ci sono quelle fiabe che tutti noi portiamo nel cuore più di altre. 

Voglio condividere, con voi, la mia: Il meraviglioso mago di Oz

È una storia dalla quale mi sono sentita rapita e affascinata fin da piccola. Ricordo molto bene quel libro che tenevo tra le mani, sia la sensazione tattile della copertina ruvida, sia le emozioni che avevo mentre mi addentravo sempre di più nel fantastico viaggio di Dorothy.

Ancora oggi ricordo alcune immagini di quell’edizione e sebbene non sia più in mio possesso e non sia più riuscita a trovarla, per il mio 34esimo compleanno mi sono fatta un regalo: ho riacquistato questo favoloso racconto.

Non è stata una scelta casuale: ho cercato attentamente un’edizione di cui le immagini mi coinvolgessero, perchè potessi attraverso i disegni immaginarmi e addentrarmi ancora di più nella storia.

Cosa di questa fiaba mi attirasse da bambina è difficile dirlo. Forse il lungo viaggio in un mondo incantato di una bimba coraggiosa, forse il senso di protezione che le riservano i suoi nuovi amici, o forse (come tutte le fiabe) il lieto fine. E sì, perchè la piccola Dorothy dopo un lungo e meraviglioso viaggio riesce a tornare a casa.

“Non importa quanto triste e grigia sia la nostra casa, noi gente di carne e ossa preferiamo vivere lì, piuttosto che in un altro Paese, per quanto bello possa essere. Non esiste al mondo posto migliore della propria casa”, scriveva l’autore L. F. Baum …. E quanta verità in queste sue parole!

Ma rileggere questo libro ora che sono adulta, e ora che ho una capacità d’analisi e di interpretazione più affinata, mi ha permesso di cogliere delle sfumature che ovviamente avevo tralasciato. E farlo nel ruolo di psicoterapeuta è come se tutto fosse più accentuato.

Non riesco a vedere il meraviglioso viaggio che intraprende la piccola Dorothy se non come la metafora di un viaggio di consapevolezza.

Di fatto chi ha intrapreso un percorso di psicoterapia può sentire sensazioni molto simili e per chi non ha mai avuto questa esperienza proverò a spiegarlo meglio. La psicoterapia è un percorso fatto di alti e bassi: ci saranno momenti in cui ci si sentirà bene e altri in cui ci si sentirà peggio. Ma continuando a camminare, ci si renderà conto sempre di più del proprio potenziale, delle proprie risorse. Ci si metterà in gioco più di quanto si creda, e per quanto sia faticoso il viaggio, “la strada di casa” prima o poi la si trova.

Condivido con voi una frase che mi ha detto recentemente una mia paziente e la quale ringrazio per la commozione che mi ha trasmesso nel sentire queste parole proprio da lei: “Ho iniziato un percorso di terapia pensando di dover cambiare delle cose di me stessa e invece ho imparato ad abbracciarle e ad accettarmi per come sono”.

Ma ritorniamo a Dorothy e al suo viaggio.

Un viaggio che ha inizio nel momento in cui un tornado solleva la casa della bambina e la trasporta in volo, facendola atterrare nel Paese dei Ghiottoni. Per quanto magari non sia un’esperienza così comune trovarci da tutt’altra parte a causa di un tornado, credo che la sensazione di “venir travolti da un ciclone” sia comune più di quanto si creda. 

Tutti noi, almeno una volta nella vita, abbiamo provato tale sensazione di smarrimento, di disorientamento e di paura. I nostri punti di riferimento svaniscono, le basi solide che credevamo di aver costruito si rivelano non così salde, e dopo un volo e una caduta, ci troviamo proprio con lo stesso stato d’animo di Dorothy: spaventati, smarriti e inermi.

Ma nella sfortuna, la disgrazia della bambina comporta la salvezza di un popolo fino ad allora ridotto in schiavitù: eh sì, perchè la casa di Dorothy schiaccia la Malvagia strega dell’Est.

Come ringraziamento di quello che involontariamente si era determinato, alla bambina vengono donate le scarpette d’argento della strega defunta, che accetta volentieri poichè le attende un lungo viaggio: Dorothy dovrà camminare a lungo per potersi recare dal grande Mago di Oz, il mago più potente di tutto il paese per chiedergli di poter tornare a casa sua, nel Kansas.

E così quando ci troviamo senza quei punti di riferimento, disorientati e impauriti non ci rimane altro che tirarci su e darci un nuovo obiettivo, una nuova direzione. E lungo il viaggio chissà quante cose ci possono accadere.

Dorothy, infatti, non sarà mai sola: lungo il cammino alla bambina e al suo cagnolino Totò si aggiungeranno tre compagni di viaggio. Lo spaventapasseri, il taglialegna di latta e il leone codardo si uniscono a lei, nella speranza di poter fare anche loro delle richieste al Mago di Oz.

Le storie di questi tre compagni di viaggio, per quanto siano molto differenti tra di loro, non possono passare inosservate e le loro richieste appaiono molto sensate se riusciamo a metterci nei loro panni.

Lo spaventapasseri desidera un cervello poichè, per quanto le sue sembianze lo rendano molto simile ad un uomo, la mancanza del cervello non lo fa sentire tale. 

Il taglialegna di latta, prima di ridursi in quello stato era un uomo in carne e ossa. In seguito ad una maledizione lanciata per ostacolare la storia d’amore tra lui e una ragazza, si trova a condurre una vita in tali condizioni, ma soprattutto senza cuore. Questa sarà la sua richiesta al grande Mago di Oz.

Infine, il leone codardo condurrà il viaggio con l’intento di ricevere dal Mago il coraggio. La mancanza di questa virtù, infatti, non gli ha permesso di diventare il Re della foresta e ne ha comportato una vita in isolamento, emarginato da tutti gli altri animali.

Nel lungo viaggio di questa strana compagnia (e si trattò davvero di un lungo viaggio!) tutti questi tre personaggi avranno modo di mostrare le loro doti. 

Lo spaventapasseri, con il suo essere perspicace e razionale, riuscirà più volte a salvare i compagni dai pericoli che si trovano sulla strada; così come il buon animo dell’uomo di latta e il coraggio del leone contribuiranno a condurre sani e salvi Dorothy nel paese del Mago di Oz, nella città di Smeraldo (chiamata così perchè lì era tutto verde, o almeno così gli abitanti credevano che fosse).

Il Mago di Oz li riceve individualmente, ma si mostra disponibile ad esaudire le loro richieste solo dopo che avranno ucciso la Strega Cattiva dell’Ovest. Ed ecco che inizia un altro lungo viaggio che li porta al cospetto della malvagia strega, che li riduce in schiavitù. 

Davanti all’ennesima ingiustizia che Dorothy si trova a subire dalla parte della Strega, molto arrabbiata le versa un secchio d’acqua addosso, liquefacendola e mostrando a tutti il punto debole di questa creatura cattiva, così tanto temuta.

Raggiunto anche questo obiettivo, decidono di ritornare dal mago di Oz, convinti che questa volta le loro richieste potranno avere ascolto, ma si trovano ad affrontare una grande delusione: il mago di Oz non è altro che un comune uomo, giunto in quella terra con una mongolfiera e per tanto considerato un Mago dal popolo che lo ha accolto.

Sebbene i tre personaggi avessero dato prova delle loro abilità, mostrando intelligenza, cuore e coraggio, avevano bisogno di qualcuno che donasse a loro tali virtù (o in altre parole avevano bisogno di qualcuno che credesse in queste capacità per loro), e il mago di Oz cercò di esaudire tali desideri. Allo spaventapasseri infilò un imbottitura di crusca e spilli nella testa come cervello:

“Il cervello è l’unica cosa che valga la pena possedere a questo mondo, che si sia cornacchie o uomini” (Mago di Oz, L.F. Baum);

all’uomo di latta gli inserì nel petto un cuore di seta pieno di sabbia:

“Uno sciocco non saprebbe che farsene del cuore, anche se ne avesse uno” (Mago di Oz, L.F. Baum);

e al Leone gli diede un cucchiaino di miele convincendolo che fosse un elisir di coraggio.

“Non esiste creatura vivente che non abbia paura quando si trova davanti al pericolo. Il vero coraggio consiste nell’affrontare il pericolo quando si ha paura” (Mago di Oz, L.F. Baum).

Ma purtroppo per Dorothy non aveva una soluzione reale per riportarla a casa e l’unica possibilità che le rimaneva era quella di rivolgersi alla Strega Buona del Sud.

Quando un altro lungo viaggio la conduce da lei, scopre che di fatto aveva da sempre avuto gli strumenti per ritornare a casa: quelle scarpette d’argento acquisite dalla Strega Malvagia dell’Est, infatti, potevano portarla ovunque lei avesse voluto. E così fu… in un baleno si ritrovo a casa, nel Kansas a riabbracciare la zia Emma e lo zio Henry.

Ma cosa ci insegna questa storia? 

Probabilmente a ognuno di noi lascia un messaggio diverso, un significato personale. Ma è inevitabile vedere come questo viaggio abbia cambiato emotivamente tutti i personaggi.

Dorothy con il suo viaggio aiuta i suoi amici a credere in se stessi, a conoscersi e a guardare le loro qualità. 

Non avviene una trasformazione magica in qualcosa di diverso da ciò che erano già, ma prendono coscienza di se stessi e delle proprie potenzialità, imparando a sfruttarle meglio.

Proprio quello che avviene attraverso una Psicoterapia!

Dott.ssa Sonia Allegro

Psicologa-Psicoterapeuta

CHRISTMAS BLUES – La tristezza da Natale

Christmas Blues…ne avete mai sentito parlare? Pare essere un concetto che indica l’insieme di improvvise sensazioni di tristezza, ansia, nervosismo, angoscia, insonnia e rancore durante i giorni di festività Natalizia.

Qualcuno di voi si starà chiedendo come possa essere vero ciò, come sia possibile essere minimamente giù di morale durante i felici giorni di festa, forse i più belli dell’anno…altri invece potrebbero non stupirsi troppo e trovare un po’ di vicinanza nei contenuti di questo articolo.

Facciamo un piccolo passo indietro, cosa è per noi il Natale? Cosa rappresenta nella nostra società? In che modo quest’ultima ci invita a viverlo?

Nella nostra cultura, il giorno di Natale è tipicamente una festa familiare che inevitabilmente richiama i legami affettivi e familiari ovvero giornate e momenti di incontro con le persone care (partner, figli, genitori, amici…).

Il Natale si pone come grande amplificatore di emozioni (positive e negative) che irrompe nel nostro equilibrio caratterizzato dai ritmi frenetici della vita (sfera professionale, scolastica, sentimentale etc…). La società ci informa di come sia “doveroso” essere felici del Natale, ci ricorda incessantemente la gioia di fare regali e quella di riceverli.

Possiamo immaginare che alcuni di noi vivano tutto ciò con serenità e gioia, non vedendo l’ora che il Natale arrivi, probabilmente avendo dei rapporti distesi e felici con i propri cari.

D’altra parte è presente anche chi, avendo degli aspetti irrisolti, conflittuali e/o del tutto assenti nelle relazioni interpersonali familiari, può far fatica a sintonizzarsi emotivamente con questo periodo dell’anno. Ciò potrebbe provocare in queste persone sensazioni di antipatia, apatia e ansia verso l’evento Natalizio, come se fosse una vera e propria punizione angosciante assieme, a volte, ad una deflessione del tono dell’umore.

In queste persone, a volte, è il sentimento di appartenenza ad inciampare e a far vacillare le proprie credenze, di conseguenza l’evento Natalizio diviene un evento stressante, che fa sentire inadeguati e “strani” poiché la tristezza provata non è in linea con la felicità che la società ci chiede.

Il Natale sembra essere un giorno che non perdona volentieri: può donare gioia o far rattristare la persona in un malessere nascosto ma presente.

Esso può rivelarsi un’occasione per spiacevoli sensazioni di solitudine e/o di vuoto difficili da colmare, un momento in cui dover fare dei bilanci con lo scopo di “tirare le somme” dell’anno appena trascorso (come accade anche durante il giorno del nostro compleanno) come fosse una prova di valutazione della vita in generale e l’esito delle nostre competenze relazionali nei rapporti familiari (di merito, di punizione, di fortuna etc.).

È chiaro come questo malessere possa essere dato, non solo da disagi del presente ma anche da situazioni irrisolte del passato.

La tristezza da Natale ha una durata assolutamente soggettiva, può andare da qualche giorno in piena festività oppure coprire per intero il Calendario dell’avvento fino al successivo anno, quando vengono ripresi gli abituali ritmi di vita che acquietano il nostro mondo psichico interno.

Le persone maggiormente vulnerabili alla Christmas Blues sembrano essere quelle che tendenzialmente non hanno molti contatti sociali e affettivi, quelle coinvolte da problemi oggettivi di lontananza dalle persone care; chi ha vissuto episodi negativi importanti (come un lutto, una separazione, un tradimento, un problema coniugale) e chi è già predisposto ad aspetti clinici depressivi a prescindere dalle festività.

Un percorso di psicoterapia con un professionista della salute mentale può rivelarsi certamente un’occasione per affrontare i significati profondi della propria tristezza Natalizia e comprendere le modalità e le motivazioni con le quali si è manifestata.

Teniamo presente che, essere tristi e malinconici a Natale non indica che siamo sbagliati o inadeguati ma ci ricorda che siamo esseri umani complessi con una propria individualità e storia di vita.

Questo articolo vuole essere un invito a normalizzare le emozioni negative poiché anche queste sono funzionali e dicono tanto su come stiamo, ascoltarle allena la nostra consapevolezza.

Si sconsiglia fortemente così il preporsi di “dover essere” felici a tutti i costi poiché ciò stresserebbe ulteriormente. Quando si vive un momento difficile, è fondamentale quindi prendersi lo spazio e il tempo per esprimere il proprio dolore e, se possibile, condividerlo con qualcuno per lenire il malessere e sviluppare maggiori quote di resilienza.

Quello della Christmas Blues, ricordiamo, non è uno stato patologico e dovrebbe farci preoccupare nella misura in cui invalida pesantemente le giornate.

La psicoterapia è fortemente consigliata qualora questa sia accompagnata più specificatamente da una sintomatologia attinente ad un disturbo d’ansia, un disturbo dell’umore, disturbo da attacchi di panico o altro.

Psico-pillole da tenere in tasca:

Rimanere nell’ hic et nunc ovvero il “qui ed ora”: imparare a vivere appieno e consapevolmente tutto ciò che ci accade nel presente, senza perdersi nei pensieri del passato o del futuro. Coltivare i pensieri positivi allentando rimuginio e i pensieri negativi.

Prendere le distanze da ciò che ci stressa/ci fa stare male, dalle aspettative e convenzioni sociali: limitare quelle attività che facciamo per “obbligo natalizio” (doni, visite, pranzi etc.) imparando a “dire di no” agli incontri con persone che sappiamo ci provocheranno malumore e cercare di aumentare gli incontri gradevoli. Allenare la nostra scelta consapevole rispetto a tutto ciò e limitare anche la consultazione pervasiva di social media per vivere la propria vita reale e non perdersi in quella di altre persone.

Concentrarsi su ciò che ci fa stare bene: dedicarsi a quelle attività piacevoli che aumentano lo stato di benessere mentale e fisico come la lettura di un libro che ci piace, dedicarsi a hobbies, attività fisica, percorrere una passeggiata distensiva (specie nelle ore di luce), ascoltare la propria musica preferita etc.

Coccolarsi: concedersi qualcosa di goloso, farsi un regalo, attività inerenti la cura del proprio corpo o la programmazione di un viaggio futuro donano sensazioni piacevoli.

Recuperare: approfittare del tempo libero da vacanze per dedicarsi ai progetti lasciati in sospeso, mandando avanti pezzi della propria vita.

Riposo: i giorni di festa possono rappresentare l’occasione per riposarsi e dormire di più.

Coltivare le relazioni: mantenere vivi i contatti con le persone alle quali teniamo, anche a distanza, ci fa sentire meno soli e aiuta l’umore.

 

Dott.ssa Maria Grazia Esposito

Psicologa Clinica Psicoterapeuta

Ansia Sociale 2020: un altro possibile “disturbo post-Covid-19”?

A seguito dell’isolamento dettato dalla pandemia da Covid-19 (e non solo) si sente spesso, nell’ultimo periodo parlare, propriamente o impropriamente di “Fobia o Ansia sociale”, come una sorta di “reazione” a seguito degli ultimi eventi stressanti a cui gli individui sono stati sottoposti.

Ciò che viene perlopiù riportato, nella pratica clinica, è che sembra quasi che nei momenti in cui è consentito dalle attuali condizioni sanitarie e quindi politico-sociali (vedi zona gialla, zona bianca), non si riesca più a ritornare ad una vita sociale “normale”, in quanto comunque bloccati dallo stare con gli altri, in quanto ci si sente, alle volte infastiditi dalla loro semplice presenza, alle altre ci sente osservati o giudicati da questi ultimi.

Viene dunque lecito chiedersi: Che cos’è realmente l’Ansia Sociale? Che possibile correlazione ha con gli ultimi eventi storici?

 Per rispondere a questi quesiti e provare a fare un po’ di chiarezza, risulta necessario approfondire in primis, con quanto si conosce in letteratura, circa l’epidemiologia, i criteri diagnostici, la comorbilità e l’eventuale trattamento dell’Ansia Sociale.

I primi a descrivere l’Ansia o Fobia sociale furono Marks e Gelder, nel 1966 riferendosi a essa come a “una paura di mangiare, bere, parlare, scrivere… in presenza di altre persone” che aveva come caratteristica principale “la paura di apparire ridicolo agli occhi degli altri”[1].

Venne attribuita all’Ansia sociale, un’autonomia nei sistemi diagnostici internazionali solo alcuni più tardi, con la sua introduzione come entità a sé stante nel DSM III. Nel DSM III- R furono introdotti come sottotipi l’ansia sociale generalizzata e la fobia sociale specifica. Successivamente con il DSM IV per attenuare le discordanze con l’ICD-10 è stata mantenuta la sotto classificazione che prevedeva la forma “generalizzata”. (Pietrini et al., 2009).

Infine, stando al DSM V, il Disturbo d’ansia sociale (DAS) anche nota come Fobia Sociale, è una condizione caratterizzata da una marcata, o intensa, paura o ansia relative a situazioni sociali in cui l’individuo può essere esaminato dagli altri. Nei bambini, la paura o l’ansia devono però manifestarsi in contesti in cui vi sono coetanei e non solamente durante le interazioni con gli adulti.[2]

Alla base del disturbo sembra esserci quindi la paura di un giudizio negativo diventata così pervasiva, da non consentire all’individuo una normale integrazione nel suo ambiente relazionale e sociale.

Secondo uno studio condotto da Pietrini et al (2009), l’esordio della Fobia Sociale tende ad essere generalmente graduale o può avvenire in seguito a un’esperienza stressante o umiliante (es essere vittima di bullismo, vomitare durante un discorso in pubblico) con un età media di insorgenza nel 75% degli individui tra gli 8 e i 15anni. (DSM V), a cui fa seguito un decorso tipicamente cronico e invalidante.

Per quanto riguarda invece, la remissione spontanea del disturbo, quest’ultima tende ad essere bassa e anzi vi si possono aggiungere importanti complicazioni, quali la depressione secondaria, l’abuso di sostanze (a scopo auto-terapeutico) e le condotte suicidarie.

Risulta, inoltre, nonostante diversi studi, difficile ottenere dati epidemiologici precisi sulla fobia sociale, in quanto la diagnosi viene spesso applicata a schemi interpersonali di timidezza e di evitamento del sesso opposto per paura di un rifiuto.

Ma in realtà vi è un continuum che va da un estremo, costituito dalla fobia sociale, a uno stile caratteriale generalizzato di mettersi in rapporto con gli altri, meglio identificato come disturbo evitante di personalità, posto all’altro estremo (Gabbard, 2015).

Potrebbe essere utile in tal senso, riportare alcuni tra i criteri diagnostici riportati nel DSM 5, quali:

  • La presenza di una paura o ansia marcate relative a una o più situazioni sociali nelle quali l’individuo è esposto al possibile esame degli altri;
  • Il timore da parte dell’individuo che agirà in modo tale o manifesterà sintomi di ansia che saranno valutati negativamente;
  • Le situazioni sociali temute provocano quasi invariabilmente paura e ansia.
  • La paura o l’ansia sono sproporzionate rispetto alla reale minaccia posta dalla situazione sociale e al contesto socioculturale.
  • La paura, l’ansia o l’evitamento sono persistenti e durano tipicamente 6 mesi o più.
  • Le situazioni sociali temute sono evitate oppure sopportate con paura o ansia intense.
  • La paura, l’ansia o l’evitamento causano disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti (Etc). [3]

Tali criteri sono fondamentali anche nel differenziare il disturbo da altri disturbi d’ansia quali la timidezza non patologica, l’agorafobia, il disturbo da panico, l’ansia generalizzata, le fobie specifiche, il mutismo selettivo, isolamento sociale e/o sindrome di hikikomori,  etc..

Per quanto riguarda invece la comorbilità, purtroppo, la fobia sociale è una condizione con un alto tasso di comorbilità: secondo uno studio condotto da Schneier et al (1992), una comorbilità con disturbi cronici importanti era presente nel 69% dei soggetti affetti da fobia sociale. Tali autori hanno anche segnalato come in assenza di comorbilità raramente la fobia sociale viene trattata dai professionisti della salute mentale, infatti, in uno studio condotto negli Stati Uniti da Grant et al, (2005) nonostante l’alta incidenza del disturbo, più dell’80% degli individui non aveva ricevuto un trattamento per questa condizione (Gabbard, 2015).

Stando al DSM V, l’Ansia sociale è spesso in comorbilità con altri disturbi d’ansia, il disturbo depressivo maggiore e disturbi da uso di sostanze, e tendenzialmente l’esordio di tale disturbo precede gli altri, tranne che per la fobia specifica e il disturbo d’ansia da separazione.

Sulla base di quanto fin qui riportato, viene dunque lecito chiedersi, anche in funzione di un’eventuale correlazione con quello che verrà, da qui in poi, riportato come evento stressante “covid-19”, quali siano i possibili fattori di rischio che portano allo sviluppo dell’Ansia Sociale.

Secondo diversi studi, pare che le fobie si inseriscano in un modello di diatesi genetico-costituzionale che interagisce con stressor ambientali (Gabbard 2015), tra cui:

  • Disposizione ereditaria alla fobia che richiede specifici fattori eziologici ambientali per produrre una sindrome fobica conclamata;
  • Esposizione a stress materno durante la prima e seconda infanzia;
  • Specifici stili parentali: genitori particolarmente ansiosi, iperprotettivi o con una o più psicopatologie;
  • Esposizione a eventi stressanti come umiliazioni e critiche da parte di un fratello maggiore, liti tra i genitori, morte di un familiare o separazione da una figura importante.

In un’ottica psicodinamica dunque i pazienti socialmente fobici sembrano aver interiorizzato rappresentazioni di genitori, caregiver o fratelli che inducono vergogna o imbarazzo, criticano, ridicolizzano, umiliano e abbandonano. Questi introietti, uniti a una predisposizione genetica a percepire gli altri come minacciosi, si stabiliscono precocemente nella vita e vengono poi ripetutamente proiettati in persone dell’ambiente esterno che vengono quindi evitate. Ciò non toglie che, tali effetti possano essere mitigati se invece, nonostante la predisposizione genetica, le relazioni significative siano sufficientemente buone.

Per quanto riguarda il trattamento, alcuni pazienti sono particolarmente resistenti, in quanto temono ogni situazione in cui possano sentirsi giudicati o criticati. L’imbarazzo e la vergogna sono però gli stati affettivi predominanti e il terapeuta che si sintonizza con questi affetti può avere una migliore possibilità di formare un’alleanza terapeutica nelle sedute iniziali con il paziente (Gabbard, 2015).

In conclusione e ritornando al motivo del nostra indagine, da quanto fin qui esposto si evince come in realtà, tale disturbo, anche se forse (proprio per quanto su detto) meno trattato, rispetto ad altri, sia presente da molto tempo e possegga un’alta incidenza tra la popolazione mondiale, quindi preesistente all’evento stressante covid-19. Ciò non toglie che un evento così stressante, unito a tutti i fattori di rischio su elencati, tra cui la maggior incidenza dei casi nei giovani di età compresa tra gli 8 e i 15anni,  e a una buona predisposizione genetica, non abbia contribuito a “slatentizzare”, ovvero a gettar luce,  in molti su un disturbo che forse era giunto il momento di trattare!

Val comunque la pena ricordare, per quel che concerne tutti i disturbi sorti in seguito alla pandemia, che l’Ansia sociale seppur a volte in comorbilità, si differenza nettamente dall’isolamento sociale!.

Dott.Ssa Monica Iuliano

 

[1] Pietrini F. et al (2009)”, Epidemiologia della fobia sociale”, rivista di psichiatria, 44,4 p.205

[2] Diagnostical and Statistical Manual of Mental Disorder (DSM), 5th  – pag.234

[3] Diagnostical and Statistical Manual of Mental Disorder (DSM), 5th  – pag.233

 

Bibliografia e Sitografia:

 

Psicologia positiva e comunicazione non violenta (CNV)

 

Ciao Io sono il lupo e sono il simbolo della comunicazione violenta, quella comunicazione che giudica, paragona, valuta, e usa tutto ciò che rende la comunicazione pesante, difficile. Quando ho le orecchie rivolte verso l’altro lo sto giudicando, svalutando ecc. Quando ho le orecchie rivolte indietro lo sto facendo con me stesso.

 

 

Ciao io sono la giraffa e sono il simbolo della comunicazione non violenta, perché sono Il mammifero terrestre con il cuore più grande e con il mio lungo collo posso avere una visuale più ampia. Con la comunicazione non violenta si è più capaci di comunicare, di gestire i conflitti e di empatizzare con sé e gli altri. L’empatia è la base della comunicazione non violenta. Quando ho le orecchie rivolte verso l’altro sto cercando di capire i suoi bisogni e motivazioni ecc. Quando ho le orecchie rivolte indietro lo sto facendo con me stessa.

 

Questi due simboli sono stati scelti fin dal 1960 da Rosenberg per insegnare alle persone, ai gruppi di lavoro, scolastici e alle famiglie come comunicare senza giudizi e in modo efficace. Senza giudizi la comunicazione non si chiude, ma si apre, perché si impara a comunicare i bisogni in maniera non violenta.
Durante la comunicazione violenta si entra in un sistema comportamentale agonistico in cui c’è un aggressore e una persona che viene aggredita. Di fronte ad un’aggressione la mente può scegliere tra tre comportamenti: aggredire a sua volta, difendersi anche attraverso la fuga, oppure bloccarsi, non riuscire né a contrattaccare, né a sottrarsi.
Il nostro cervello funziona in modo per cui più intensa è l’emozione più le capacità di pensiero e associative vengono bloccate. Questo comportamento è importante perché l’obiettivo è quello di far sopravvivere la persona.

Facciamo un esempio: se io mi trovo nella giungla e compare una tigre non devo trovarmi a pensare quanto è bella la tigre, che belli che sono i colori del suo mantello e altre cose su di lei, questa capacità di pensiero si deve spegnere in favore della mia capacità di sopravvivere e quindi devo provare intensa paura e di conseguenza scappare.
Tutte le volte in cui durante una comunicazione le emozioni che passano sono intense la capacità della neocorteccia di far funzionare le aree riflessive e associative viene compromessa, di conseguenza la persona non pone più la sua attenzione sul contenuto della comunicazione ma sulla modalità con cui la cosa viene comunicata e se questa modalità viene percepita come un’aggressione non penserà al contenuto che le viene comunicato ma ad un modo per potersi sottrarre all’aggressione.
Se invece utilizzo la comunicazione non violenta posso far sapere al mio interlocutore che sono arrabbiato, i motivi per cui lo sono e che cosa vorrei invece che accadesse di diverso. In questo modo l’emozione non sarà intensa e non comprometterà il funzionamento delle aree associative del cervello, diventerà quindi possibile confrontarsi su quello che sta accadendo e sul contenuto della comunicazione.
La CNV oltre a favorire una comunicazione interpersonale efficace permette di sviluppare empatia.
Nel momento in cui si comincia ad utilizzare la CNV si abbassano i livelli di aggressività, la comunicazione diventa più rilassata e c’è un maggior benessere percepito.
Rosenberg, dopo aver studiato con Carl Rogers il creatore della psicologia umanistica, ha creato un protocollo semplice composto da 4 fasi per poter parlare in modo non violento.
Le fasi sono: osservazione, sentimento, bisogno e richiesta.
Spesso le comunicazioni interpersonali non funzionano, diceva Rosenberg, perché cerchiamo soluzioni e facciamo richieste saltando la connessione con l’emozionante e i bisogni.
Questo fa sì che le persone non si sentano viste e riconosciute nel loro sentire e nei loro bisogni.
Con la CNV si impara prima di tutto a osservare, descrivere e riportare cosa è successo, successivamente a riconoscere le proprie emozioni e i propri bisogni, ed infine a fare richieste e trovare soluzioni congrue ad essi.

La CNV si inserisce all’interno della psicologia positiva che ha come suo obiettivo principale la promozione della salute attraverso due percorsi. Il primo lo fa a livello individuale promuovendo lo sviluppo e il rafforzamento dei punti di forza individuali come: l’ottimismo, la speranza, la resilienza, il coraggio, il senso di autoefficacia, la perseveranza, la competenza, l’empatia, il perdono e la saggezza, che costituiscono un “capitale psicologico”, che aiuta ad accrescere il proprio benessere. Il secondo a livello sociale promuovendo relazioni interpersonali caratterizzate da cooperazione, partecipazione attiva, senso di appartenenza.

Partendo dal presupposto che il potenziamento del benessere e il suo mantenimento nella varie fasi della vita, possa rivelarsi più efficace se è oggetto di interventi mirati partendo dall’infanzia, abbiamo ideato creato un libro, che stimolerà lavoro individuale e di gruppo su due abilità molto importanti nelle relazioni interpersonali: litigare in modo costruttivo e saper perdonare.

Per fare questo useremo una semplice storia che vede come protagonisti Volpino Martino, i suoi amici e due litiganti.

Applicando le fasi della comunicazione non violenta (CNV) e del perdono Martino e i suoi amici creeranno il circolo del pensiero in grado di favorire la comunicazione e la condivisione delle emozioni, delle difficoltà e delle soluzioni, fino ad utilizzare lo strumento del perdono per riparare le ferite emotive e lasciarle nel passato.

Qualunque sia la tua età: bambino o adulto, qualunque sia il tuo ruolo: genitore, educatore, insegnante, o lettore, questo libro ti prenderà per mano per aiutarti, divertendoti, ad acquisire gli strumenti necessari a comunicare in modo efficace e a perdonare.

Scopri di più su Le avventure di Volpino Martino e dei suoi amici nel bosco Fan Fan. Strumenti per imparare a litigare e perdonare.

 

Dr..sa Luigina Pugno

Vaccini: il contributo della psicologia del rischio

“…é lecito esporre un uomo a minor pericolo di morire, per salvarlo da un altro senza paragone maggiore? Niun dirà, cred’io di no; troppo sarebbe irragionevole”     

Genovesi, 1765

 

Da qualche mese assistiamo ad un dibattito sempre più acceso tra “si vax” e “no vax”. I rappresentanti delle due posizioni si incontrano, sempre più spesso si scontrano, quasi mai si capiscono.

Il risultato è che il dibattito diventa qualcosa di più simile a quello tra tifoserie.

Consapevoli che non è possibile esaurire nello spazio di un articolo un problema così complesso, vogliamo cercare di capire quali sono alcuni degli aspetti psicologici che sostengono la diffidenza e sfiducia, fino ad una vera e propria fobia, nei confronti dei vaccini.

I primi movimenti di scetticismo/ostilità nei confronti dei vaccini sono sorti già ad inizio ‘800, pochi anni dopo la loro scoperta. Questo avveniva prima dei Big Pharma, quando la realizzazione dei vaccini prevedeva anni di studi e sperimentazioni, prima dell’esistenza dei social network, quando il termine autismo ancora nemmeno esisteva. Questo ci può forse far ipotizzare che ci siano delle resistenze che esulano dal contesto specifico e fanno riferimento a variabili più emotive e cognitive.

Come spesso accade come reazione di fronte ad un rischio temuto, insorge forte il bisogno di una normalizzazione, di ritrovare sicurezze che si temevano perdute. Questo in parte spiega la radicalizzazione di certe opinioni: se da un lato c’è chi invoca il vaccino come strumento per poter ripartire in “totale” sicurezza, dall’altro c’è chi, proprio in reazione al senso di smarrimento ed insicurezza, attiva procedimenti cognitivi che, se da un lato rassicurano, semplificando la realtà dall’altro possono condurre a conclusioni fallaci, fino a chi a forza di doversi difendere da un nemico microscopico, finisce per vedere nemici dappertutto.

L’atteggiamento critico nei confronti dei vaccini si dispone su un continuum di intensità che va da posizioni più radicali ed assolute ad altre non necessariamente contrarie ai vaccini in sé, ma più dubbiose e preoccupate. Diverse quindi sono le posizioni rispetto ai vaccini così come diverse sono i possibili processi psicologici e sociali che ne stanno alla base. La psicologia del rischio ha evidenziato come, quando dobbiamo prendere decisioni percepite come rischiose, tendiamo a farlo non sempre su base razionale, ma su processi più automatici che semplificano la realtà; questo ci porta involontariamente a sovrastimare il rischio di alcuni comportamenti (prendere un aereo) e a sottostimarne altri (fumare). Non sempre alla fine fa più paura quello che è realmente più rischioso.

Sono proprio questi bias cognitivi che possono portare a ritenere più pericoloso un evento nuovo, che conosciamo poco, rispetto ad uno, magari statisticamente più rischioso, ma al quale siamo già abituati o a ritenere meno tollerabili rischi derivanti da una azione volontaria, quale il vaccinarsi ad esempio, piuttosto che quelli dovuti a un evento casuale o ancora dalla conseguenza di una mancata azione, quali ad esempio l’insorgere di una malattia o rischi legati al non essersi vaccinati. Un po’ come se ci fosse il pensiero di fondo di “essersela andata a cercare” che altera la valutazione oggettiva del rischio.

Altro bias cognitivo che influenza la percezione dei rischi è quello sintetizzato dalla locuzione “post hoc, ergo propter hoc”, che porta a confondere la causalità con la consequenzialità temporale, ovvero che tende a considerare un evento accaduto dopo un altro come sicuramente ed inevitabilmente da questo causato. Anche il cosiddetto effetto Dunning-Kruger porta ad una distorsione cognitiva, inducendo, almeno in un primo momento, a sovrastimare le proprie conoscenze in modo inversamente proporzionale alle reali competenze. Nel momento quindi in cui, “da profano” mi accosto ad un certo argomento, posso sopravvalutare la mia competenza, sottovalutando quella di studiosi più esperti e non riuscendo correttamente a discernere la validità effettiva delle fonti da cui traggo informazioni.

Si aggiungono variabili sociali e di personalità. Hornsey et al. fanno riferimento ad “attitudini profonde” inconsapevoli che sostengono atteggiamenti di ostilità e scetticismo nei confronti di evidenze scientifiche. Non può essere infatti, secondo gli autori, solo la mancanza di informazioni o una non corretta elaborazione di queste, che può determinare una tale resistenza ad assimilare e comprendere messaggi evidence based.

Sono state evidenziate persistenti credenze in teorie cospirative o complottiste, una tendenza individuale ad immaginare che vi siano reti di interessi che, per trarre benefici propri, sono disposti a creare danni, scatenare epidemie, manipolare le informazioni, mantenere soggiogata la popolazione generale. A questo si lega una tendenza ad avere sfiducia nelle istituzioni sanitarie e scientifiche e contemporaneamente un elevato livello di reattanza psicologica. Con questo si intende la resistenza a eseguire ordini che provengono sia da persone vicine che da organismi che possano esercitare una qualunque forma di controllo o norma, anche a scapito del proprio stesso interesse.

Si viene quindi a creare una narrazione di sé e del gruppo a cui si sente di appartenere, come detentore di un pensiero libero, indipendente anticonformista, non manipolato né manipolabile. Questa modalità di pensiero sostiene una certa tendenza all’individualismo, ovvero a ritenere che sia preferibile prendere decisioni per se stessi e che qualunque provvedimento derivi da un governo o da altra autorità sia eccessivamente intrusiva ed errata. Si collega a questo il pensiero di non poter essere efficacemente coinvolti nel percorso di cura, né essere parte di un contesto più ampio in cui essere attori di prevenzione e tutela della comunità.

Gli autori si riferiscono poi ad aspetti riconducibili a tematiche ansiose e inerenti al controllo. La fobia o anche solo il timore nei confronti di aghi, ospedali o sangue può determinare strategie di evitamento tra cui potrebbe esserci un atteggiamento contrario al vaccino. Va aggiunto anche che, nel caso specifico, i vaccini possono generare un’opposizione ancor più forte sia perché implicano letteralmente una penetrazione forzata nel corpo che perché possono attivare fantasie di contaminazione con l’idea che si “introduca” una malattia in un corpo sano.

Queste considerazioni portano a ritenere che un approccio simmetrico, intransigente nei confronti dei cosiddetti “no vax”, non solo non permette un confronto né un’azione trasformativa, ma anzi attiva meccanismi di reattanza, sostenendo la credenza di essere parte di una piccola nicchia di persone che coltivano il libero pensiero e incrementando tematiche ansiose e vissuti di isolamento.

Al contrario l’ascolto empatico di quelle che possono essere le motivazioni profonde che sostengono atteggiamenti più rigidamente avversi ai vaccini può aiutare sia la comunicazione che le relazioni, contribuendo poi, salvo contesti più francamente patologici, a limitare atteggiamenti più inflessibili e intransigenti.

Lo stesso può accadere anche in riferimento a coloro che hanno profondamente creduto nei vaccini come opportunità per uscire dalla fase di incertezza e isolamento scatenate dalla pandemia. L’atteggiamento favorevole al vaccino, può essere sì in linea con il sapere scientifico, ma talvolta fondare le radici in credenze non necessariamente logiche e razionali. Può essere primariamente una risposta all’ansia derivante dalla possibilità di ammalarsi e in generale dal bisogno di controllo e sicurezza. Anche in questo caso ci si trova di fronte a credenze immodificabili, che mal si adattano ad esempio al cambiamento di direzione dato dall’indicazione alla terza dose che potrebbe davvero “far crollare le certezze” che si avevano finora.

Vediamo quindi come ogniqualvolta ci troviamo di fronte a pensieri o comportamenti rigidi e pervasivi, di qualunque natura e direzione, può valere la pena domandarsi se derivano da bias cognitivi o da paure irrazionali che ci condizionano e guidano ed eventualmente rivolgerci ad uno psicoterapeuta che ci può aiutare ad affrontarli. Perché alcune volte è il nostro stesso inconscio che ci influenza più di qualunque possibile “dittatura sanitaria”.

Dott.ssa Chiara Delia – Psicologa Psicoterapeuta

Biografia

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· Hornsey MJ, Fielding KS. (2017) – Attitude roots and Jiu Jitsu persuasion: Understanding and overcoming the motivated rejection of science. Am Psychol. Jul-Aug;72(5):459-473

· Hornsey, M. J., Harris, E. A., & Fielding, K. S. (2018) – The psychological roots of anti-vaccination attitudes: A 24-nation investigation. Health Psychology, 37(4), 307–315.

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· Pandolfi F, Franza L, Todi L, Carusi V, Centrone M, Buonomo A, Chini R, Newton EE, Schiavino D, Nucera E. (2018) – The Importance of Complying with Vaccination Protocols in Developed Countries: “Anti-Vax” Hysteria and the Spread of Severe Preventable Diseases. Curr Med Chem. 25(42):6070-6081

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Famiglie omogenitoriali ne parliamo con Daniela Vassallo (Famiglie Arcobaleno)

Ho letto la storia tua e di tua moglie, che avete in qualche modo precorso i tempi. Hai voglia di raccontarcela?

Un pochino, ma c’è stato chi prima di noi l’ha fatto. Rispetto alla step child adoption, noi ci eravamo ispirate a quello che stava avvenendo a Roma dove c’erano stati una serie di casi di adozioni in casi particolari, abbiamo quindi tentato di fare anche noi a Torino la stessa cosa. La mancanza di definizioni certe, come succede spesso in giurisprudenza, ci permetteva di avere quello spiraglio attraverso cui provare a passare anche se a noi non è andata bene subito. In prima istanza abbiamo avuto un diniego e poi in appello siamo riuscite ad ottenere l’adozione incrociata perché noi abbiamo partorito, ciascuna di noi, una bimba e abbiamo chiesto di poterle adottare in maniera incrociata.

Tutto l’iter quanto è durato?

Un paio di anni e parecchi soldi. Nonostante le richieste di adozioni in casi particolari possano essere fatte di per sé compilando dei moduli, noi abbiamo dovuto, toccando un ambito così particolare, affidarci a dei legali preparati in materia ed è costato abbastanza, considerando i due gradi di giudizio. Diventa davvero elitaria come procedura.

Da un punto di vista relazionale e simbolico è cambiato qualcosa all’interno del vostro nucleo familiare?

Rispetto alle nostre dinamiche, no. Perché noi per come abbiamo impostato, vissuto e progettato le nostre maternità, eravamo già entrambe madri da subito, da prima ancora che nascessero le bimbe. Certamente però ci ha rasserenato, nel senso che ricordo precisamente il giorno in cui ci diedero l’annuncio; poco dopo vidi mia moglie e la piccola andare via, mano nella mano, le guardai dalle finestra e pensai, finalmente qualsiasi cosa accada da adesso in avanti sono tutelate, adesso forse posso stare un po’ più tranquilla.

A scuola ad esempio noi non abbiamo mai avuto problemi, però il fatto di presentare documenti in cui erano già presenti entrambi i cognomi e non dover pregare per partecipare ai consigli, insomma…un po’ di fatica te la toglie.

 In Italia la legge 40 non riconosce ancora alle coppie omosessuali la possibilità di accedere allo PMA. Qual è l’iter che devono compiere?

Tutte le coppie cercano una clinica all’estero che sia consona all’immaginario o al tipo di percorso che vogliono fare. Che sia più o meno medicalizzata o che risponda ad esigenze di lingua o affinità culturali particolari, ci si rivolge quindi ad un paese piuttosto che ad un altro. Però ti devi comunque mettere nell’ordine di idee di dover andare all’estero, di doverti spostare, di dover calcolare il viaggio in relazione ad i tuoi tempi di fertilità e non ad altre esigenze e che non potrai programmarlo con largo anticipo.

E quali sono le fatiche emotive che le coppie devono affrontare?

Per noi, personalmente è stato poco faticoso, siamo sempre state molto unite, facendo tutto assieme. Dai ritorni che ho da altre coppie la grande fatica è quella ad esempio di voler accompagnare laa tua compagna durante i trattamenti, ma non riuscire a prendere ad esempio le ferie all’ultimo momento. In generale però le fatiche sono tantissime… è vero che quasi tutte le cliniche, sicuramente in Danimarca e Spagna, sono organizzate con ostetriche e dottori che parlano italiano, per cui quando tu vai lì e affronti un percorso così particolare ti puoi affidare a qualcuno che se non altro parla la tua lingua. Però sei comunque in un contesto estraneo, non sei a casa, ti devi sottoporre ad un intervento, e non sei a casa tua, sei un po’ sradicata, non puoi avere vicino la famiglia.

Sono davvero tantissime le fatiche, anche emotive che si sommano a quelle fisiche e all’impatto dei trattamenti sul corpo.

Rispetto al percorso decisionale di avere un figlio quali sono secondo te le difficoltà principali? Penso ad esempio ad aspetti omofobici interiorizzati

Ovviamente ogni coppia e ogni persona è un mondo a sé, per le donne in generale si gioca un aspetto, che è quello del materno che entra in maniera potente in un immaginario di realizzazione esistenziale che devi cercare di combinare con la tua condizione di coppia omosessuale. Questo non sempre è semplice, anche per una omofobia interiorizzata. Rispetto al materno poi lo scontro culturale è, specie in Italia, che si considera che “di mamma ce n’è una sola” per cui spesso al termine del percorso le “madri sociali” fanno fatica a farsi spazio, perché la “madre biologica” fa fatica a lasciare spazio o perché spesso anche le famiglie si inseriscono in queste dinamiche. La famiglia della madre che partorisce riconosce il bambino come il “loro” bambino, mentre l’altra famiglia fa sempre un po’ più fatica, spesso lo definisce “il figlio della tua compagna”. Per raggiungere una situazione di bilanciamento di potere e per sentirsi ugualmente genitore, ci va un grosso lavoro su di sé ed una grossa consapevolezza. Da questo sbilanciamento di potere nascono poi spesso le crisi di coppia che portano a separazioni dolorosissime, spesso violente e per giunta, per le questioni legali di cui parlavamo, con la possibilità di escludere legalmente un genitore oppure di sottrarsi alle proprie responsabilità per l’altro.

In questo si evidenzia il vuoto legislativo che permette il riconoscimento alla nascita di un bambino nato da coppia omosessuale, solo con un atto amministrativo e solo in alcuni Comuni. A Torino, con l’attuale giunta, questo è possibile e nel resto del Piemonte?

Ci sono altri piccoli e grandi Comuni dove questo è possibile, dipende sempre dalla volontà del Sindaco di esporsi sia politicamente che a livello di responsabilità giuridica, perché ci sono state delle sentenze che ad un certo punto hanno un po’ frenato in tutta Italia i Sindaci più intenzionati ad aprire a questa possibilità. Ciononostante alcuni continuano.

 In Piemonte quante sono le famiglie omogenitoriali?

Quelle iscritte a Famiglie Arcobaleno in Piemonte, ma è un dato parziale, sono al momento 150, per la maggior parte donne. Meno di un terzo di questo numero sono di uomini. In realtà, la rappresentatività di questo dato è parziale, la stragrande maggioranza delle famiglie omogenitoriali sono fuori da Famiglie Arcobaleno.

Davvero?

Si, assolutamente. A me capita continuamente di incontrare gente al parco o nei contesti più diversi e scoprire che ho davanti due mamme con figli. Questo mi restituisce, in maniera molto empirica, la dimensione che è un fenomeno ben più ampio.

Una volta nato il bambino, anche in relazione, alla difficoltà di un effettivo riconoscimento del neonato, quali sono le difficoltà che le famiglie riportano?

Dove ci sono Sindaci come la Appendino, quasi nessuno. La difficoltà maggiore l’ha incontrata la prima coppia quando hanno chiesto che venisse riconosciuto il consenso informato firmato nella clinica in Danimarca. Come per le coppie eterosessuali volevano venisse validato il documento dove si assumevano la responsabilità genitoriale nell’affrontare eventuali eventi avversi. Loro volevano far valere questo diritto e sono arrivate, trascorsi 10 giorni, al limite per la riconoscibilità, rischiavano di trasformare loro figlio in apolide, finchè l’ultimo giorno possibile la Appendino è riuscita a trovare il modo amministrativo per far valere questo diritto. Sono stati giorni per Micaela e Chiara di estrema stanchezza e paura, ma anche di profonda determinazione a portare fino in fondo questa battaglia. La più grossa fatica per le coppie è non sapere se il tuo Sindaco ti riconoscerà questa opportunità,

Dalla tua esperienza vengono riportate, se ci sono, delle difficoltà per i bambini?

Per l’esperienza che ho io sia a livello piemontese che nazionale, molto poche, quasi non ne ho sentore. La scuola, che è uno dei contesti che fa più paura a noi grandi, spesso è un contesto in cui le insegnanti stesse si attivano per conoscere, per avere formazione e strumenti per compiere quello che è il loro mandato. Negli ultimi anni questo aspetto positivo della scuola pubblica è stato un po’ inficiato da battaglie politiche che si fanno sulla scuola, per cui è più difficile portare contenuti su cui far lavorare il corpo insegnante e le classi, nel caso di studenti più grandi. Questo però almeno al momento non arriva, non ha ripercussioni sui bambini, anche se è chiaro che se la rappresentazione rimarrà statica e univoca questo avrò delle ripercussioni. Al momento comunque non ho sentore di insegnanti che rifiutano il fatto di trovarsi di fronte ad una famiglia omogenitoriale o di parlare con entrambe le madri o i padri.

Talvolta una delle paure riportate dagli adulti è nel confronto tra pari, che i figli passano essere discriminati dagli altri bambini.

Io penso sia più la cattiveria degli adulti che parla attraverso i bambini. Nella nostra esperienza gli amici e le amiche delle mie figlie al massimo sono stati curiosi. In prima elementare un bambino disse e mia figlia, “ma non è possibile che tu abbia due mamme!”, lei un po’ stupita disse “quando vedi mia mamma prova a chiederglielo”. Lui alla prima festa di compleanno venne a chiedermelo ed io ho spiegato, come potevo ad un bambino di 6 anni, sperando di non urtare la sensibilità dei genitori, come era stata possibile la cosa.

Il problema è anche che per gli adulti ci sono dei temi che sono tabù. Anche se non sono così contrari alle famiglie omogenitoriali, parlare di questo argomento significa anche parlare della riproduzione, della sessualità o di come sono fatti gli esseri umani ed in questo vedo gli adulti tanto spaventati.

Prima parlavi di consapevolezza, dal tuo punto di vista se e in che modo può essere utile alle coppie uno spazio di elaborazione e sostegno emotivo?

Durante il percorso, tantissimo anche per gli sbilanciamenti di cui parlavamo prima. Non c’è solo un modo per essere genitori o di esserlo insieme. Guadagnare consapevolezza attraverso un percorso psicologico farebbe solo bene e poi forse anche dopo il parto, proprio come sostegno familiare. Le famiglie omogenitoriali, purtroppo raramente si sentono sicure nell’andare a chiedere aiuto, anche nelle strutture pubbliche, per paura di trovarsi di fronte a persone con pregiudizi o non preparate alla loro realtà. Per cui alla fine proprio che avrebbe bisogno di un aiuto di qualsiasi tipo spesso non si rivolge ad uno specialista si trova a dover fare tutto da solo.

Credo che anche in questo ambito si inserisca l’attività di Famiglie Arcobaleno, nel non lasciare sole le famiglie.

Famiglie Arcobaleno cerca di dare un sostegno nel fare comunità, anche se non siamo strutturati per fornire servizi di supporto psicologico. Il fare comunità si crea in relazione spesso all’età dei figli; è chiaro che figli di età diverse hanno esigenze diverse e i genitori di conseguenza, anche. Mi ricordo soprattutto quando le bimbe erano piccole c’era bisogno di un rispecchiamento, sia per far vedere alle bambine che non erano le uniche ad avere due madri, ma per sentirci noi meno sole, meno marziane. Vedo che anche adesso le richieste che arrivano in associazione sono di fare comunità, di confrontarsi sulle difficoltà che si incontrano, di condividere le esperienze.

Ti chiedo infine il tuo parere sul DDL Zan e sull’ostracismo che incontra. Che idea ti sei fatta?

Beh, da alcune forze politiche me lo aspetto, per motivazioni più politiche che ideologiche. Ci sono equilibri politici, interessi e questi sono argomenti che servono a smuovere quegli interessi. Per pochissimi penso sia una questione ideologica, come in fondo è successo con la legge sulle unioni civili.

Questo può voler dire che le persone, cosiddette comuni, sono più pronte a parlare di omogenitorialità rispetto alla politica?

Io le persone comuni in generale le trovo molto più pronte, anche soltanto a confrontarsi. È vero che ci sono persone che hanno da un punto di vista valoriale delle resistenze, però si può trovare uno spazio di confronto. È trovarsi di fronte alla complessità della vita reale e imparare a gestirla insieme anche attraverso la relazione e la conoscenza reciproca.

D. Vassallo – Vice Presidente Famiglie Arcobaleno

Dott.ssa Chiara Delia – Psicologa Psicoterapeuta

La gratitudine per fronteggiare le insidie della vita

foto royalties free

Il dizionario Treccani definisce la gratitudine come un sentimento che comporta affetto verso chi ci ha fatto del bene, ricordo del beneficio ricevuto e desiderio di poterlo ricambiare. Le ricerche focalizzate sul benessere psicologico considerano però che tale disposizione d’animo non sia rivolta esclusivamente alla riconoscenza verso l’altro ma che riguardi anche l’abitudine di rivolgere il proprio sguardo alle piccole cose belle della vita.

La gratitudine può dunque essere considerata un’emozione quando implica uno stato temporaneo nei confronti di situazioni/risultati in cui il successo sperimentato è vissuto come non dipendente da noi, ad esempio la vicinanza di una persona amata o l’apprezzamento di un gesto altruistico nei nostri confronti. Essa rappresenta invece un tratto di personalità più stabile quando fa riferimento alla predisposizione a notare “il lato positivo”.

In quest’ultima accezione, assume una certa rilevanza se connessa al concetto di resilienza, in quanto la tendenza alla gratitudine potrebbe rappresentare un punto di forza nel fronteggiamento di eventi di vita avversi e in ultima istanza un fattore protettivo rispetto alla vulnerabilità a patologie mentali.

Studi di neuroimmagine hanno portato a descrivere la gratitudine come un fenomeno determinato dalla collaborazione di più aree cerebrali coinvolte in riconoscimento, interpretazione, valutazione e risposta a stimoli emozionali o cognitivi, sia interni che esterni. Alcuni autori hanno poi osservato come esercizi di gratitudine modifichino l’attivazione del circuito della ricompensa.

Date queste premesse, negli ultimi anni molte ricerche si sono focalizzate sull’analisi dei benefici apportati da percorsi focalizzati sulla gratitudine in popolazioni cliniche e non.

Alcuni studi hanno dimostrato l’efficacia di interventi basati sulla gratitudine in individui a rischio suicidario e in pazienti oncologici nella riduzione della sintomatologia ansiosa e depressiva. Altri si sono concentrati sugli effetti di questi training nella popolazione generale. Sebbene la ricerca in questo ambito sia ancora a uno stato embrionale, i primi risultati appaiono promettenti.

Allenarsi alla gratitudine può, come si diceva prima, potenziare la capacità di affrontare piccole e grandi sfide ampliando le risorse psicologiche e sociali, riducendo i livelli di attivazione fisiologica e di ansia, incrementando la fiducia in se stessi e la sensazione di ”potercela fare” (autoefficacia percepita). In caso di insuccesso, può inoltre offrire la possibilità di normalizzare l’accaduto, lasciando poco spazio a distorsioni cognitive come la catastrofizzazione (“Non ne uscirò mai più!”) o il pensiero tutto-o-nulla (“Ho commesso un errore, sono un fallito!”).

Ma come allenarsi ad essere grati, dunque?

La strategia più nota riguarda la compilazione giornaliera di un diario della gratitudine in cui annotare, a fine giornata, da 3 a 5 cose per cui ci si sente grati in quel giorno. Inizialmente potrebbe apparire artificioso, ma concedersi il tempo di osservare le piccole cose belle quotidiane offre la possibilità di notare con sempre maggiore naturalezza (grazie all’allenamento!) come, affianco ai problemi e agli impegni giornalieri, trovino spazio anche piccoli momenti di gioia che spesso diamo per scontati (fare colazione con i nostri biscotti preferiti, incontrare un autista che vedendoci correre incontro all’autobus, decide di attenderci prima di ripartire, etc.). La nostra testa è allenata a scovare problemi, individuare soluzioni e garantirci così la sopravvivenza, ma affiancare al problem solving momenti di gratitudine potrebbe alleggerire la nostra quota di stress.

Un altro strumento per allenare la gratitudine è quello della lettera a un proprio caro. Si tratta di concedersi dieci-quindici minuti per scrivere a qualcuno le ragioni per cui gli siamo riconoscenti. Decidere di consegnare la lettera potrebbe implicare un rischio perché non è detto che le aspettative che inevitabilmente si creano rispetto a questa condivisione verranno soddisfatte ed è per questo che il diario rappresenta la scelta più popolare quando si tratta di esercizi di gratitudine.

Il “training di gratitudine” presenta però anche delle controindicazioni: in alcune popolazioni non appare efficace (es.: in individui che abbiano una dipendenza dall’alcol) ed è stato descritto come, specie in una fase iniziale, potrebbe indurre le persone a sperimentare sentimenti di colpa e vergogna e a sentirsi in debito nei confronti di ciò o di coloro verso i quali sono grati. Nonostante questo, allenarsi a riconoscere le piccole “grazie” quotidiane potrebbe avere ricadute positive sul benessere psicologico e sociale, sulla gestione di emozioni, pensieri ed eventi negativi e sull’abilità di coltivare i valori su cui si intende basare la propria vita.

Dr,ssa Arianna Calabrese

Bibliografia e sitografia

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  • O’Leary, K., Dockray, S. (2015). The effects of two novel gratitude and mindfulness interventions on well-being. Journal of Alternative ad Complementary Medicine, 21(4), 243-245.
  • Sztachańska, J., Krejtz, I., Nezlek, J.B. (2019). Using a gratitude intervention to improve the lives of women with breast cancer: A daily diary study. Frontiers in Psychology, 10, 1-11.
  • Tala, A. (2019). Thanks for everything: a review on gratitude from neurobiology to clinic. Revista Médica de Chile. 147(6), 755-761.

Flash Technique Sfiorare i ricordi traumatici per elaborarli

La Flash Technique (FT) è una tecnica recente utilizzata per facilitare l’elaborazione di esperienze di vita traumatiche o estremamente dolorose. Inserita all’interno di un percorso di psicoterapia, la FT permette di accedere in modo graduale a quei ricordi che al solo ripensarci, riattivano la stessa
intensità emotiva vissuta al momento del trauma, generando quell’angoscia che si cerca in tutti i modi di allontanare.
La FT si può utilizzare con qualsiasi tipo di pazienti, a prescindere dall’età. È breve e risulta efficace per disturbi come ansia, disturbo ossessivo-compulsivo, dissociazione lieve e depressione (Manfield et al. 2017). La caratteristica distintiva di questa tecnica è mettere il paziente nella condizione di poter elaborare un ricordo altamente disturbante riducendo l’intensità emotiva che tale ricordo genera. Si tratta di “sfiorare” il ricordo senza doverci pensare in modo consapevole.
La FT nasce grazie al tentativo di Philip Manfield di trovare una strategia da inserire nella fase di preparazione dell’EMDR (Eye Movment Desensitization and Reprocessing) vale a dire, all’interno di quel trattamento riconosciuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come efficace per
l’elaborazione di eventi di vita traumatici. L’idea di Manfield era trovare un modo per permettere ai pazienti, durante l’EMDR, di elaborare le proprie memorie traumatiche senza bloccarsi o esserne sopraffatti (Manfield et al. 2017). Per fare questo, P. Manfield si è ispirato alla tecnica della
“Titolazione Abbinata” di Krystyna Kinowski (2003) adattamento a sua volta, dell’esercizio della Pendolazione di Peter Levine. La tecnica della “Titolazione Abbinata” permetteva al paziente di individuare un’immagine positiva (risorsa) per aiutarlo a sentirsi più resiliente, e limitare
l’esposizione al materiale traumatico. Nel protocollo della Kinowski, i pazienti erano invitati a spostarsi ripetutamente dalla risorsa al materiale traumatico e viceversa valutando, se ogni contatto con il ricordo fosse troppo intenso e verificando se il paziente riportava difficoltà nel ritornare
all’immagine-risorsa. Questo movimento veniva eseguito proprio come un pendolo. L’idea di base era quella di “titolare” i ricordi altamente disturbanti, vale a dire avvicinarsi gentilmente, “goccia a goccia” all’esperienza traumatica, per ridurre e contenere l’attivazione emotiva, acquisendo un maggiore senso di efficacia e controllo (P. Levine, 1997).
Con il passare del tempo, P. Manfield osservò che questo tipo di tecnica, associata a delle esposizioni molto brevi ai ricordi traumatici, sembrava accelerare in modo significativo l’elaborazione degli stessi ricordi, riducendone il disturbo. Questa osservazione è ciò che ha poi, determinato il nome stesso della tecnica: “Flash Technique.”
Dagli studi condotti per testare tale ipotesi, P. Manfield ha ipotizzato che i risultati rapidi ottenuti potessero dipendere da tre possibili fenomeni:
1. un’elaborazione “non verbalizzabile” (subliminale) 2. una modificazione del processo di riconsolidamento della memoria 3. essere l’osservatore dell’esperienza Per comprendere meglio l’ipotesi dell’elaborazione “non verbalizzabile”, Manfield ha utilizzato gli studi condotti da P. Siegel dal 2009 sino al 2018 sugli “stimoli non riferibili”.
Dalle ricerche condotte su soggetti aracnofobici, Siegel aveva rilevato che l’esposizione rapida a immagini di ragni, portava ad una diminuzione della risposta di paura. L’essere esposti ad uno stimolo in modo molto rapido infatti, sembrerebbe indurre chi guarda a credere di non aver visto
nulla. Questo tipo di esperienza, rende difficile verbalizzare l’accaduto in quanto non si è pienamente consapevoli. Siegel ha chiamato questa sensazione “osservazione non verbalizzabile”.
Per suffragare tale idea, studi successivi con la risonanza magnetica funzionale, hanno permesso di rilevare che l’amigdala di quei soggetti a cui era stata proiettata l’immagine del ragno così rapidamente, non si era attivata, non mostrando alcuna risposta. L’amigdala è quella parte del nostro
cervello che svolge un ruolo cruciale nella formazione e memorizzazione dei ricordi associati a stati emotivi, elabora le nostre emozioni e le nostre risposte istintive. L’amgidala inoltre, è il nostro rilevatore rapido di pericolo. Ci avverte della presenza di un’eventuale minaccia alla nostra
sopravvivenza. A volte, può capitare che si attivi anche dinanzi ad un pericolo non reale ma a farlo sembrare tale, diventa una sensazione, un’emozione, un pensiero o uno stesso ricordo. Quando l’attivazione diventa intensa può arrivare a disconnettere le nostre funzioni cognitivi. La sede di tali funzioni quindi, dei nostri pensieri, è la corteccia prefrontale che gioca un ruolo importante durante i processi di elaborazione dei ricordi traumatici se particolarmente attiva. Durante l’elaborazione di un evento traumatico, le aree della corteccia prefrontale vengono alterate dall’intensità emotiva generata dal ricordo rievocato, causando sofferenza. Con la FT le aree del cervello che elaborano il trauma possono essere attive senza che il paziente provi alcun disturbo perché esposto al ricordo in modo subliminale. Non essendo consapevole dell’esposizione al ricordo, non riuscirà a riferire ciò che ha visto o sentito e di conseguenza, a non attivarsi particolarmente a livello emotivo. L’obiettivo della FT è far in modo che il paziente acceda al ricordo così velocemente da non consentirgli di riportare un’esperienza verbalizzabile (Manfield et al., 2017).
Per rendere questo possibile, è stato introdotto un aspetto significativo del protocollo di lavoro ovvero, la metafora del “battito d’occhio”, il battito di ciglia, il “Flash”. Durante la fase di preparazione alla FT, quella in cui si spiega al paziente il modo in cui si procederà, il flash viene paragonato ad un dito che passa attraverso una fiamma di una candela. Se fatto rapidamente, non dovrebbe causare alcun dolore (Manfield et al., 2017).
Per avvalorare la FT, Manfield ha utilizzato oltre, all’elaborazione “non verbalizzabile”, anche le teorie del riconsolidamento della memoria vale a dire, la capacità del nostro cervello di modificare specifici apprendimenti emotivi, immagazzinati nella memoria a lungo termine, attraverso una ricodifica (D.J. Wallin, 2007). Ogni volta che pensiamo ad un evento del nostro passato infatti, il ricordo, dopo essere stata rievocato, viene riposizionamento all’interno di uno dei cassetti della nostra mente. Solitamente, un ricordo normale è instabile e viene modificato ad ogni recupero perché influenzato dal contesto e dagli stati emotivi. Questo non è il caso dei ricordi traumatici. Il ricordo traumatico infatti, rimane bloccato nelle reti neurali poiché contrassegnato dal cervello come un ricordo legato alla sopravvivenza e il nostro cervello è programmato per tenere traccia di questo genere di ricordi. Fino agli anni ’80 si riteneva impossibile poter modificare un ricordo traumtico. Oggi sappiamo che non è così grazie proprio alla scoperta di F. Shapiro che è riuscita a dimostrare che con l’EMDR, è possibile elaborare un ricordo traumatico. In questo modo, è possibile lasciare nel passato il passato quindi, sensazioni fisiche spiacevoli, emozioni disturbanti e credenze di sé negative legate al momento del trauma. Questo tipo di elaborazione è stata definita da Bruce Ecker come “cambiamento transformazionale” (Ecker, 2012) .
Secondo B. Ecker e colleghi se l’attenzione viene distolta dall’intensità emotiva generata da quel ricordo specifico, nel momemto in cui tale ricordo verrà riposizionato nella nostra memoria (riconsolidato) non porterà più con sé l’intensità emotiva iniziale. Con molta probabilità, sarà
inferiore all’originale e quindi, meno disturbante (Scarito, 2021).
Ecker et al. (2012) e Lee (2009) inoltre, hanno sottolineato che per rendere efficace un processo di riconsolidamento della memoria è necessario che sia presente un’esperienza contraddittoria ovvero, venga rilevato il cosiddetto “errore di previsione” (Manfield). Per comprendere meglio questo
concetto, immaginiamo una persona che cammina nei boschi e ad un certo punto viene assalita da un lupo. Molto probabilmente si spaventerà. La paura è l’emozione che ci avvisa che siamo di fronte ad un pericolo e serve per attivarci in modo da garantirci la sopravvivenza attraverso la fuga, la
lotta, il freezing o la finta morte. Scampato al pericolo, la sua mente registrerà tale esperienza e di conseguenza, ogni volta che entrerà in un bosco, il suo sistema di allerta sarà attivato in modo da garantirgli la sopravvivenza. Tuttavia, se camminando nei boschi e sentendo dei rumori tra gli alberi
non si spaventerà come la prima volta, il cervello si troverà a dover rivedere il ricordo precedentemente immagazzinato e ricodificarlo a causa di questa incongruenza o meglio, a causa di questo errore di previsione. Con la FT la persona rievoca il ricordo senza essere attivata e questo
rappresenta “un grande errore di previsione” (Menfield).
Infine, l’ultimo fenomeno utilizzato da Manfield, per spiegare i risultati ottenuti con la FT, è quello della posizione dell’osservatore. L’ideatrice dell’EMDR, F. Shapiro ha sostenuto che se si permette al paziente di assumere la posizione dell’osservatore nei confronti del ricordo traumatico, vale a dire rimanere orientato nel presente, si aumenta la sua prospettiva adattiva, e di conseguenza, la sua consapevolezza. Questo tipo di ancoramento aiuta ad evitare di rivivere l’esperienza dolorosa legata all’evento traumatico in quanto, esperienza legata al passato e non più correlata al presente. Il
modello di Shapiro (2019) applicato alla FT rende possibile l’instaurarsi di nuove associazioni tra il ricordo traumatico e l’esperienza adattiva di rielaborazione (Manfield et al. 2017).
Tuttavia, come ogni nuova tecnica, esistono dei limiti. Nonostante la FT sembri ridurre il disturbo, le ricerche hanno evidenziato che potrebbe non elaborare in modo completo i ricordi o non
eliminare del tutto il disturbo correlato al ricordo traumatico. Inoltre, non essendoci una fase di assessment prima di iniziare con l’elaborazione, non è possibile identificare eventuali ricordi generatori che potrebbero bloccare l’elaborazione o potrebbero esserci delle distorsioni cognitive
che, non essendo state identificate in precedenza, non possono essere chiarite. Infine, pazienti altamente dissociativi che hanno bisogno di un maggiore sostegno prima di focalizzarsi sul materiale disturbante, per poter raggiungere uno stato di calma e sicurezza, potrebbero trovare
questa tecnica non efficace (Manfield et al., 2017).
Negli ultimi decenni, si è assistito ad un aumento esponenziale della ricerca nel campo del trauma e dei trattamenti correlati. Ad oggi, nonostante il trattamento per eccellenza, riconosciuto dalla stessa Organizzazione Mondiale della Sanità, resti l’EMDR, l’idea che possano esserci delle tecniche
aggiuntive che possano mettere il paziente nella condizione di rendere più tollerabile e gestibile quello che un’esperienza di vita impattante come il trauma possa avere, è senza dubbio un bene per la collettività clinica che ha come obiettivo l’interesse e la salute dei suoi pazienti.

Dott.ssa Antonia Di Pierro
Psicologa e Psicoterapeuta

Bibliografia
Ecker, B., Ticic, R., Hulley, L. (2012). Sbloccare il cervello emotivo. Eliminare i sintomi alla radice
utilizzando il riconsolidamento della memoria. Franco Angeli.
Kinowski, K. (2003). Put your best foot forward: An EMDRrelated protocol for empowerment using somatosensory and
visual priming of resource experiences.
Lee, J. L. (2009). Reconsolidation: Maintaining memory relevance. Trends in Neurosciences,
Manfield P., Lovet J., Engel L., Manfield D. (2017). Utilizzo della Flash Technique con la Terapia EMDR: Quattro
Casi Clinici
Levine, P. (1997) The Body as Healer; Trasformare il trauma. (tradotto e pubblicato da Macro Edizioni nell’ott. 2002
col titolo “Traumi e shock emotivi).
Scarito, P. (2021). Il riconsolidamento della memoria. Verso un modello unificato di cambiamento in psicoterapia.
Phenomena Journal.
Shapiro, F. (2019). EMDR: il manuale. Principi fondamentali, protocolli e procedure (nuova edizione). Cortino
Raffaello.
Wallin, D.J. (2007). Psicoterapia e teoria dell’attaccamento. Il Mulino.

Fobia dei clown? Non c’è niente da ridere!

Il termine coulrofobia deriva dal greco e fa riferimento alla paura per coloro che camminano su trampoli, anche se oggi è utilizzata tipicamente per descrivere la paura dei pagliacci. Nonostante il pagliaccio sia un personaggio che dovrebbe risultare simpatico, soprattutto ai più piccoli, per taluni invece rappresenta un’entità indefinita e ambigua e, pertanto, in grado di creare turbamento.

Pensare che ci siano persone fobiche rispetto ai clown potrebbe far sorridere qualcuno, tuttavia questa fobia pare avere una certa diffusione tra la popolazione, soprattutto americana e canadese. La maggior parte dei casi registrati riguarda la popolazione in età evolutiva, anche se si registrano casi anche tra adolescenti e giovani adulti.

Del resto, il nostro immaginario letterario e cinematografico è ricco di pagliacci terrificanti e malvagi, che hanno occupato i nostri incubi e si sono nutriti delle nostre inquietudini. Ma da qui si potrebbe aprire una riflessione sull’arte e su come essa inneschi le nostre paure o, al contrario, su come invece le nostre paure siano ispirate dalla realtà e trovino nel racconto artistico una propria rappresentazione.

A tal proposito cito la storia di Jean-Gaspard Deburau (1796-1846), attore teatrale e mimo francese che impersonò Pierrot a partire dal 1826 al Théâtre des Funambules di Parigi. Nel 1836 Deburau uccise con il suo bastone da passeggio un ragazzo che lo aveva insultato per strada: nel processo venne dichiarato innocente, ma l’idea di omicidio iniziò a legarsi alla figura del clown.

Ancora più inquietante è la storia di John Wayne Gacy, pagliaccio intrattenitore in feste per bambini conosciuto come Pogo il clown, che tra il 1972 ed il 1978 uccise 33 ragazzi e fu condannato alla pena di morte.

Le persone che soffrono di coulrofobia fanno fatica a relazionarsi con i clown e talvolta anche soltanto a guardarli, avvertendo una sensazione di angoscia che può sfociare nel panico e che fa da innesco a comportamenti difensivi di fuga da una minaccia percepita. Solitamente tali comportamenti vengono vissuti con vergogna dalla persona, che teme che la sua paura possa venire ridicolizzata dagli altri.

In riferimento al perché la figura del clown sia vissuta in termini così negativi da alcuni soggetti, pare che la coulrofobia derivi dal fatto che non è possibile sapere esattamente cosa c’è sotto il trucco colorato, elemento quindi che produrrebbe incertezza e apprensione nei courlofobici.

Si è inoltre ipotizzato che alla base della fobia ci sia il fenomeno dell’uncanny valley (“valle perturbante”), ossia una condizione emotiva negativa che si presenta quando ci imbattiamo in un soggetto che è quasi, ma non del tutto, umano. Tale fenomeno, descritto inizialmente in riferimento ai robot con sembianze umane, pare essere applicabile anche alle bambole e, appunto, ai clown.

Inoltre, i pagliacci sono nascosti dietro maschere, trucco e costumi e hanno un sorriso perenne che nasconde un’emotività distorta (si può sorridere sempre, anche quando si commettono azioni negative?); di conseguenza, l’origine della fobia può essere trovata nel rifiuto di un personaggio che potrebbe nascondere le sue reali intenzioni.

La courlofobia, al pari delle altre fobie, può essere trattata al fine di ridurre o eliminare l’ansia che il soggetto prova ed impedire che i meccanismi difensivi di fuga vengano agiti. Prima di intervenire sarà necessaria una valutazione psicologica che tenga in conto la presenza di un eventuale trauma che ha interessato il soggetto. Sarà poi lo specialista a proporre il trattamento psicoterapeutico che ritiene più appropriato.

 

Dott. Stefano Lagona – Psicologo Psicoterapeuta