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SE MI LASCI, MI CANCELLI!

Circa una ventina di anni fa arrivò nelle sale una pellicola che riscosse un grande successo con Jim Carrey e Kate Winslet come attori protagonisti e con un titolo italiano che destò non poche polemiche per via della traduzione poco coerente, ovvero Se mi lasci ti cancello (vs l’originale Eternal Sunshine of the Spotless Mind). I due protagonisti, Joel e Clementine, si incontrano su una spiaggia senza sapere di essere stati coinvolti in una relazione fino a qualche giorno prima quando, a seguito dell’ennesimo litigio, Clementine aveva deciso di rivolgersi a una clinica privata per cancellare dalla sua mente tutti i ricordi della loro storia d’amore, compreso il ricordo stesso di Joel.

Il dolore per la fine di una relazione può essere tanto forte da non poter essere tollerato. Questo evento è considerabile un lutto a tutti gli effetti, che da un lato implica la separazione, dall’altro introduce il concetto di limite come finitezza, impotenza. Ma perché alcune persone sembrano essere più forti e più capaci di attraversare la tempesta e altre rimangono intrappolate nell’eterno ricordo di ciò che non c’è più? Perché alcuni, come Clementine, non attraversano il dolore elaborando la fine della relazione, ma percorrono altre strade spesso con esiti patologici? Tollerare il limite e la frustrazione e attraversare il lutto è possibile se si contiene l’angoscia di separazione.

Di cosa si tratta?

L’angoscia di separazione è un evento centrale di ogni relazione a partire da quella tra madre/caregiver e bambino e si manifesta quando vi è una dipendenza dall’altro, come nel caso del neonato verso la madre/caregiver. La separazione da essa potrebbe essere vissuta come un evento drammatico che potrebbe ripercuotersi sulle future separazioni adulte (Rank, 1924). Le separazioni sono inevitabili nel corso della vita e le conosciamo fin dal primo momento in cui iniziamo la nostra esistenza con la nascita e con lo svezzamento. Il raggiungimento di una posizione depressiva, ovvero il superamento dell’onnipotenza e lo sperimentare l’impotenza e il senso del limite, è ciò che permette a bambini e adulti l’elaborazione della perdita (Klein, 1935). Nel tollerare tale evento la madre/caregiver ha un ruolo fondamentale, infatti è la figura che potrà aiutare il bambino a trasformare e tollerare l’angoscia di morte che si accompagna alla frustrazione, oppure può fallire e creare le premesse della sua patologia relazionale adulta (Bion, 1962). Il bambino nella relazione sviluppa una capacità considerata come una delle conquiste evolutive più difficili, ma necessaria per il raggiungimento della maturità affettiva: la capacità di essere solo, interiorizzando la presenza della madre/caregiver e poi la sua rappresentazione (Winnicott, 1965).

Dunque la capacità di essere solo, maturata nelle relazioni primarie, è ciò che rende tollerabile la separazione. Ma cosa succede quando tale capacità non si è sviluppata?

I fatti di cronaca ci parlano della difficoltà di alcuni di elaborare il lutto della separazione e la fine della storia d’amore, tanto da compiere gesti folli contro di sé e/o contro l’ex partner. Nel film il dolore di Clementine è tale da non poter continuare a vivere con il ricordo di ciò che è stato e di ciò che Joel rappresenta per lei e ad essere eliminato dalla mente è quindi il ricordo dell’Altro (per l’appunto, se mi lasci ti cancello). Nel film come nella realtà quando non è possibile recuperare la relazione si ricorre all’annientamento della rappresentazione dell’altro o, in casi peggiori, all’eliminazione dell’oggetto del dolore.

Quando termina una relazione, oltre all’angoscia di separazione, a entrare in gioco è il nostro senso di identità. Quello che siamo si costruisce nella relazione con l’Altro a partire dalle relazioni primarie, dove attraverso il riconoscimento e lo sguardo della madre/caregiver costruiamo noi stessi e così il sentimento d’identità. Nella relazione con una madre sufficientemente buona il bambino sperimenta di esistere e sviluppa un senso di Sé separato (Winnicott, 1971). Dunque il senso di identità per costruirsi necessita di una relazione e di un Altro da sé, ma successivamente deve essere in grado di sviluppare un Sé separato che possa esistere anche in assenza dell’Altro.

Lo stabilirsi del sentimento d’identità comporta il fatto che l’individuo reagisca con angoscia per la nuova situazione e con sentimenti depressivi relativi al lutto per l’oggetto perduto e anche alla perdita di aspetti del proprio Sé, lutto per il Sé (Grinberg e Grinberg, 1975). I momenti di cambiamento (come la fine di una relazione) pongono al centro il processo di elaborazione del lutto e se tale elaborazione non avviene ciò rappresenta una resistenza al cambiamento stesso.

In una celebre canzone di Riccardo Cocciante, Quando finisce un amore, oltre al lutto per l’oggetto perduto ritroviamo il bisogno di recuperare aspetti di Sé e ricostruirli, come esito della crisi che porta al cambiamento:

E vorresti cambiare faccia

E vorresti cambiare nome

E vorresti cambiare aria

E vorresti cambiare vita

E vorresti cambiare il mondo

[…]

Però, se potessi ragionarci sopra

Saprei perfettamente che domani sarà diverso

Lei non sarà più lei

Io non sarò lo stesso uomo

Chi invece sembra non avvicinarsi al cambiamento, non tollerare l’angoscia di separazione e non accettare la perdita è Clementine, che decide di non voler più pensare a Joel, rifiuta di averlo conosciuto e di aver condiviso insieme due anni della sua vita tanto da rivolgersi a una clinica per farsi cancellare i ricordi.

Ma proviamo ora a osservare la fine dell’amore da un altro punto di vista.

E se la decisione di cancellare la memoria non fosse tanto legata alla perdita di Joel quanto al proteggere se stessa? Ovvero, se il dolore non scaturisse tanto dalla perdita dell’oggetto d’amore quanto più dallo smarrimento di se stessi e dall’urgenza di rimettere insieme i brandelli lacerati del senso di identità, che in parte è andato perduto con la fine della relazione? Per usare i termini dei coniugi Grinber (1975) la reazione potrebbe quindi essere spiegata non tanto dal lutto per l’oggetto perduto quanto più dal lutto per il Sé. Il senso di identità viene dunque “cancellato” dall’Altro che con la fine della relazione porta via con sé pezzi di noi (da qui l’idea del titolo dell’articolo Se mi lasci, mi cancelli!).

Ecco quindi che giungiamo a una riflessione che mette in luce il senso narcisistico di alcune reazioni conseguenti alla fine della relazione. A essere intaccato è il senso di identità, l’essere riconosciuti e amati. E cosa accade se questo dipende dall’Altro? Un senso di sé non separato, un’incapacità di superare l’onnipotenza e di fare i conti con la propria impotenza e con il senso del limite, lo sperimentare la perdita di sé nella relazione con l’Altro, l’impossibilità di possedere l’Altro sono lo sfondo di molti omicidi e della non accettazione che l’Altro non ci voglia più, non ci ami più e rivolga ora lo sguardo altrove.

Prendo in prestito alcune parole dal web attribuite a Umberto Galimberti (tuttavia non vi sono riferimenti bibliografici che lo accertino), che sono state illuminanti su questo tema così attuale.

Quando finisce un amore non soffriamo tanto del congedo dell’altro, quanto del fatto che congedandosi da noi l’altro ci comunica che non siamo un granché. In gioco non è tanto la relazione, quanto la nostra identità. L’amore è uno stato ove per il tempo in cui siamo innamorati non affermiamo la nostra identità, ma la riceviamo dal riconoscimento dell’altroe quando l’altro se ne va restiamo senza identità. Ma è nostra la colpa di esserci disimpegnati da noi stessi, di aver fatto dipendere la nostra identità dall’amore dell’altro. E allora, dopo il congedo, il lavoro non è di cercare di recuperare la relazione dell’altro, ma di recuperare quel noi stessi che avevamo affidato all’altro, al suo amore, al suo apprezzamento.

È chiaro quindi quanto sia importante sviluppare e proteggere il proprio senso di identità e quanto la relazione psicoterapeutica possa essere un aiuto. Oggi più che mai la psicoterapia è un’interessata osservatrice di ciò che è la società e del funzionamento narcisistico che la contraddistingue ed è chiamata a lavorare sullo sviluppo della persona e dell’amore sano verso di sé quale generatore di relazioni basate su condivisione e reciprocità e non di autoaffermazione e dominio dell’Altro.

E tu, quanto ti senti persƏ dopo la fine di una relazione? Hai mai pensato di iniziare un viaggio terapeutico alla ricerca di te stessƏ?

Dott.ssa Tatiana Giunta

Psicologa – Psicoterapeuta

BIBLIOGRAFIA

Bion W.R. (1962). Apprendere dall’esperienza. Roma, Armando, 1972.

Grinberg, L. e Grinberg, R. (1975). Identità e cambiamento. Roma, Armando, 1976.

Klein M. (1935). Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi. In Scritti 1921-1958, Torino, Boringhieri, 1978.

Rank O. (1924). Il trauma della nascita. Firenze, Guaraldi, 1972.

Winnicott D.W. (1965). La capacità di essere solo. In Sviluppo affettivo e ambiente. Roma, Armando, 1974.

Winnicott D.W. (1971). Gioco e realtà. Roma, Armando, 1974.

DESTRA O SINISTRA? COSA SIGNIFICA ESSERE MANCINI OGGI

Non stiamo parlando di politica, come nella canzone di Giorgio Gaber “Destra sinistra” del 1994, ma di quale parte del nostro corpo (mani e piedi) abbiamo maggiormente sviluppato tanto da utilizzarla in modo preferenziale.

Essere mancini è una caratteristica che comporta alcune differenze, sia funzionali che fisiologiche.

Da cosa deriva la parola “mancino”?

Trae origine dal latino “mancus” che letteralmente significa “manchevole, impedito, mutilato”.

Un tempo essere mancini veniva considerato alla stregua di una vera e propria malattia. Infatti, l’utilizzo della mano sinistra era visto come un tratto caratteristico delle persone che non potevano “fare le cose dritte” o ancora i mancini erano additati come “fatti al contrario”. La mano sinistra era considerata come la mano del diavolo e, per questo motivo, non tanto tempo fa, doveva essere assolutamente corretta già nella prima infanzia, facendo ricorso a metodi rieducazionali al quanto discutibili. Ancora oggi nel nostro lessico c’è  traccia di un pregiudizio superstizioso nei confronti della mano sinistra, per esempio il “sinistro” è un incidente stradale, uno “sguardo sinistro” è uno sguardo minaccioso, un “tiro mancino” è un atto sleale etc.

Chi sono i mancini?

La risposta a tale domanda non è scontata come potrebbe apparire poiché non tutti coloro che utilizzano la mano sinistra per le loro azioni quotidiane in realtà sono mancini. Secondo una ricerca svolta nel 1977, infatti, circa il 15 % della popolazione mondiale era mancina. Di questi, però, non tutti sono mancini al 100%.

PODALE (20 % dei casi)

OCULARE (30 % dei casi)

UDITIVO (40 % dei casi)

Esiste un questionario, messo a punto da Chris McManus, che serve a valutare le preferenze di ognuno. In questo test vengono poste numerose domande che riguardano le azioni quotidiane: con quale mano afferriamo il coltello, quale piede spostiamo in avanti quando dobbiamo raccogliere un oggetto caduto in terra, quale occhio preferiamo per prendere la mira, quale orecchio usiamo durante una conversazione telefonica.

Essere mancini o destrorsi è frutto di un processo molto complesso che si chiama lateralizzazione, nei mancini differente rispetto alla maggioranza delle persone,  e che oggi finalmente non viene più considerato un difetto ma una diversità dalla quale derivano alcune proprietà e abilità.

Il cervello umano è diviso in 2 emisferi:

emisfero destro responsabile delle funzioni visuo-spaziali (immaginazione, creatività e pensiero intuittivo-sintetico)
emisfero sinistro responsabile delle funzioni logico-linguistiche (scrittura, linguaggio e pensiero lineare).

Essere mancini significa non solo usare prevalentemente la mano sinistra rispetto alla destra in tutte le attività che richiedono l’utilizzo di una sola mano per volta, ma avere anche una diversa distribuzione delle funzioni celebrali dei due emisferi. Mentre nei destrorsi il linguaggio è governato dall’emisfero sinistro, nei mancini queste funzioni sono controllate prevalentemente dall’emisfero destro oppure vedono la collaborazione di entrambi gli emisferi.

Mancini si nasce o si diventa?

Il processo che conduce alla lateralità manuale (LM), ovvero all’uso preferenziale di una mano rispetto all’altra (e quindi anche della mano sinistra rispetto alla destra), sembra essere influenzato da diversi fattori: genetici, prenatali, cerebrali e ambientali. Le ricerche effettuate confrontando gemelli che condividono lo stesso genoma e gemelli eterozigoti, hanno evidenziato che circa il 25% della varianza fenotipica della lateralità manuale ha anche una componente genetica. La suddetta componente però non è predominante come può esserlo per esempio rispetto alla ereditabilità di un tratto come l’altezza che si aggira intorno all’80%. Inoltre,  gli studi condotti sul genoma (GWAS),  ci dicono che la lateralità manuale sembra essere un fenotipo complesso influenzato da molteplici varianti genetiche piuttosto che da un singolo gene.

La domanda “Mancini si nasce?” è difficilmente liquidabile con una risposta binaria (sì/no), ciò che sappiamo è che la maggioranza degli individui mostra una preferenza per l’uso della mano destra e che questa asimmetria tra i due lati del nostro corpo si può già rintracciare nel primo periodo di gestazione, come afferma uno studio condotto dall’Università della Ruhr, in Germania. Lo studio evidenzia come già dalla decima settimana di gravidanza, circa il 90% dei feti tenderebbe a muovere maggiormente l’arto superiore destro e soltanto il 10% prediligerebbe il movimento di quello sinistro.

Considerando però che un feto di 10 settimane non presenta ancora il collegamento tra cervello e midollo spinale, i ricercatori ipotizzano che l’origine del mancinismo non sia tanto legata al cervello quanto al midollo spinale stesso.

In parole povere, sembrerebbe che il bambino inizi a preferire una mano piuttosto che l’altra ancora prima che il cervello governi interamente il resto del corpo.

Da un punto di vista neurologico ci sono differenze?

Il fenomeno della lateralizzazione emisferica, un principio fondamentale dell’organizzazione cerebrale della nostra specie, rimane a tratti oscuro. Dal punto di vista funzionale,  la preferenza manuale destra sembra essere associata ad una più marcata lateralizzazione emisferica per funzioni cognitive come il linguaggio e l’attenzione spaziale. Nei mancini invece, a parità di compito vi è un coinvolgimento  di aree cerebrali maggiormente distribuito e bilaterale. In parole semplici nei mancini i due emisferi operano in modo più integrato rispetto ai soggetti destrimani, con  livelli più efficienti di comunicazione interemisferica.

L’uso di tecniche di neuroimmagine hanno osservato che, nei mancini, il corpo calloso ha dimensioni maggiori.

Questa struttura è un fascio di fibre neuronali che si occupa di mettere in comunicazione emisfero destro e sinistro, un compito fondamentale nelle attività che richiedono la comunicazione e integrazione tra diverse strutture cerebrali. Da qui deriva il luogo comune che forse avrai sentito anche tu, secondo il quale i mancini sarebbero più coordinati e più efficienti nello svolgimento di determinate attività che richiedono coordinazione.

Inoltre, è stato possibile osservare alcune differenze anche relativamente al senso di rotazione e di direzionalità: quando viene richiesto di ruotare un determinato oggetto, un mancino lo farà principalmente in senso orario.

In più, i mancini elaborano le informazioni grafiche da destra a sinistra e riescono ad astrarre con maggior semplicità gli oggetti tridimensionali e a sviluppare abilità visuo-spaziali più precise.

E’ possibile ipotizzare che una lateralizzazione meno marcata nei soggetti mancini potrebbe derivare, anche dal fattore ambientale, ovvero dalla pressione esercitata da un’architettura ambientale a misura di destrorsi. I continui adattamenti producono maggiori abilità psicomotorie, migliorando ulteriormente le connessioni tra emisfero destro e sinistro e facilitando l’apprendimento di informazioni nuove.

Ecco spiegato un altro luogo comune secondo il quale i mancini sarebbero migliori nello sport.

Tutta questa adattabilità incrementa anche la flessibilità cognitiva e rende le persone mancine più abili in quei compiti che richiedono abilità multitasking.

Quando possiamo affermare che un bambino è mancino?

Il processo di lateralizzazione, sviluppo di una maggiore forza e maggiore quantità di energia (tono) in uno dei due lati del nostro corpo,  inizia intorno ai 3-4 anni e si conclude  verso i 7-8 anni con l’acquisizione dello schema corporeo e la consapevolezza della propria lateralità.

Per capire in quale direzione (destra/sinistra) sta andando il processo di lateralizzazione nei bambini dobbiamo porci le seguenti domande:

con quale mano afferra un oggetto in arrivo?
con quale piede inizia una scalinata?
con quale gamba tira calci?
con quale mano conta fino a 5?
quale braccio è più forte?

Fino a relativamente poco tempo fa, succedeva spesso che i genitori o gli insegnanti a scuola costringessero i bambini mancini a usare la mano destra.

Uno studio in Germania del 2010 ha analizzato il cervello di persone adulte che erano state costrette a cambiare mano. Se paragonata con quella di persone rimaste mancine, la loro attività cerebrale era più simile a quella di persone destre. Ma se comparata a quella di persone destre, somigliava di più a quella di persone mancine. Sulla base di ciò, Willems sostiene che l’allenamento non può cambiare completamente l’inclinazione naturale verso la mano sinistra.

Essere mancini nella vita quotidiana.

Il mondo in cui viviamo è maggiormente progettato per persone che usano di preferenza la mano destra, i mancini non hanno ancora una vita facile in alcune azioni quotidiane. Basti pensare all’utilizzo di un paio di forbici, o a quello di un mouse per pc, alle sedie da conferenza con tavolino ribaltabile, all’apriscatole, tutti oggetti progettati principalmente per le persone destrorse.

Senza considerare attività come la scrittura che, a causa della convenzione di scrivere da sinistra verso destra, impedisce alle persone mancine di vedere correttamente che cosa stanno scrivendo con tanto di sbavature che la mano crea sul foglio e i segni dell’inchiostro sulla pelle. Anche a tavola, le posate vengono sistemate a sinistra del piatto, nonostante poi ciascuna persona trovi il suo personale modo per utilizzarle in maniera funzionale.

Infine, molti abiti presentano i bottoni sul lato destro e le asole sul sinistro, dunque anche il semplice atto di vestirsi per un mancino può apparire un po’ più complicato. Per fortuna, oggi esistono molti articoli studiati per essere utilizzati in modo agevole anche dai mancini.

Dal 1992 il Club “Lefthanders International” ha istituito la giornata internazionale dei mancini che ricade annualmente il 13 agosto: scopo della ricorrenza è quello di aumentare la consapevolezza presso l’opinione pubblica sulle implicazioni del mancinismo, incluse le sue difficoltà e i suoi punti di forza. A tale proposito secondo uno studio condotto dall’Università di Toledo, le persone mancine sembrerebbero avvantaggiate nella memoria episodica, ovvero quella che si occupa di immagazzinare a lungo termine gli avvenimenti della vita di tutti i giorni.

Anche l’abilità oratoria è un’altra particolarità nei mancini, che pare siano più abili nei discorsi articolati e fluidi. Infine, i mancini sembrano più bravi anche in tutte le attività artistiche.

Dott.ssa Angela Pia Gianpalmo

 

 

Bibliografia

Cuellar-Partida, G., Tung, J. Y., Eriksson, N., Albrecht, E., Aliev, F., Andreassen, O. A., … & Medland, S. E. (2021). Genome-wide association study identifies 48 common genetic variants associated with handedness. Nature human behaviour5(1), 59-70.
Hepper, P. G. (2013). The developmental origins of laterality: Fetal handedness. Developmental Psychobiology55(6), 588-595.
Klöppel, S., Mangin, J. F., Vongerichten, A., Frackowiak, R. S., & Siebner, H. R. (2010). Nurture versus nature: long-term impact of forced right-handedness on structure of pericentral cortex and basal ganglia. Journal of Neuroscience30(9), 3271-3275.
Vallortigara, G., Rogers, L. J., & Bisazza, A. (1999). Possible evolutionary origins of cognitive brain lateralization. Brain Research Reviews30(2), 164-175.

LA REALTÀ VIRTUALE… NON E’ SOLO UN GIOCO

La realtà virtuale (VR) è una tecnologia che permette agli utenti di interagire con un ambiente digitale e tridimensionale in maniera immersiva e realistica. Questo ambiente viene creato utilizzando computer e software che generano una simulazione del mondo reale. Gli utenti possono interagire con questo ambiente utilizzando dispositivi come visori VR, guanti sensoriali e controller. Questi dispositivi consentono di manipolare gli oggetti dell’ambiente virtuale, muoversi attraverso lo spazio e comunicare in tempo reale con altri utenti.

Il concetto di realtà virtuale ha radici negli anni ’60 e ’70, ma è diventato “popolare” negli ultimi anni.

Grazie ai rapidi progressi tecnologici, la realtà virtuale sta diventando sempre più accessibile ed utilizzata in diversi campi, dai videogiochi all’addestramento militare, dall’architettura alla psicoterapia.

Le neuroscienze possono fornire importanti chiavi di lettura per comprendere come il nostro cervello reagisce alla realtà virtuale. Studi recenti hanno dimostrato che l’esperienza della reltà virtuale può attivare le stesse aree cerebrali coinvolte nella percezione e nell’elaborazione delle informazioni provenienti dall’ambiente esterno.

Ciò significa che il nostro cervello interpreta le esperienze virtuali in modo simile a come interpreta le esperienze reali, anche se sono generate dal computer.

Questo fenomeno, noto come “presenza”, è fondamentale per il successo della realtà virtuale. La sensazione di essere immersi in un ambiente virtuale, di interagire con oggetti e persone come se fossero reali, ha un impatto significativo sul nostro benessere emotivo e psicologico.

Studi condotti in ambito terapeutico hanno dimostrato come l’uso della realtà virtuale può avere effetti positivi sul trattamento di disturbi come fobie, traumi psicologici e disturbi dell’umore.

Ad esempio, la realtà virtuale può essere utilizzata per esporre in modo graduale e controllato i pazienti alle situazioni temute, permettendo loro di affrontare le proprie paure in un ambiente sicuro e controllato. Questo approccio, noto come terapia dell’esposizione in realtà virtuale, è particolarmente efficace nel trattamento di fobie specifiche, come paura degli insetti, del volo e degli spazi chiusi.

Inoltre, può essere utilizzata per ricreare ambienti virtuali che favoriscono il rilassamento e la riduzione dello stress. Attraverso l’uso dei dispositivi è possibile immergersi in scenari naturali, come boschi, spiagge o cascate che favoriscono la calma e la tranquillità.

Al di là delle implicazioni terapeutiche, la realta virtuale può avere importanti risvolti negativi sulla nostra salute mentale.

L’uso eccessivo della realtà virtuale può portare ad un distacco dalla realtà, causando isolamento sociale e problemi di dipendenza. Alcuni studi hanno evidenziato come l’abuso di videogiochi di realtà virtuale possa causare sintomi simili a quelli dell’abuso da sostanze come irritabilità, ansia e depressione.

L’immersione continua in ambienti virtuali può alterare la percezione della realtà, portando alcune persone a confondere ciò che è reale da ciò che è virtuale. Questo fenomeno, noto come sindrome da realtà virtuale, può avere conseguenze negative sulla salute mentale e sul benessere psicologico, portando con sé perdita del senso di identità e di controllo sulla propria vita.

E’ fondamentale trovare un equilibrio tra l’uso della realtà virtuale per fini terapeutici e ricreativi, e l’eccessivo utilizzo che può portare a conseguenze negative.

In conclusione, la realtà virtuale è una tecnologia che offre importanti opportunità di sviluppo e di crescita in diversi settori, dalle neuroscienze alla psicologia.

Tuttavia, è fondamentale essere consapevoli dei risvolti psicologici e adottare misure preventive per prevenire l’insorgere di problemi legati all’abuso.

Solo attraverso un uso consapevole e responsabile possiamo sfruttare il suo potenziale e beneficiare dei numerosi vantaggi che può offrire.

 

Dott. Mirco Carbonetti

Psicologo – Psicoterapeuta

 

 

Bibliografia

Morganti F. Riva G., 2006, Conoscenza comunicazione e tecnologia, aspetti cognitivi della realtà virtuale. Milano.

Vincelli, Rira, Molinari, 2007, La realtà virtuale in psicologia clinica. Milano, McGraw Hill.

Wallece, 2017, La psicologia di internet, Milano, Cortina.

​​TU CHIAMALE SE VUOI, EMOZIONI… 2.0: Inside out 2 e l’avvento delle emozioni secondarie in Adolescenza.

Nel nuovo sequel della pixar Inside out 2, ritroviamo la giovane protagonista Ryle, ormai 13enne alle prese con nuove emozioni che proprio caratterizzano l’avvento dell’adolescenza: Ansia, Imbarazzo, Invidia, Noia/Ennuie Nostalgia.

Nel primo film, Inside out, avevamo lasciato la protagonista 12enne che, a seguito del traumatico evento del trasferimento in una nuova città, aveva dovuto fare i conti con tutte le emozioni primarie: Gioia, Paura, Disgusto, Rabbia e soprattutto Tristezza.

Si è visto, dunque, in Inside Out, che solo accettando la tristezza per la separazione da ciò che non aveva più e che era nel passato, che la giovane Ryle, ha potuto accogliere la gioia per tutto quanto di nuovo stava capitando nella sua vita, nel presente; è solo accettando il cambiamento, il passaggio dall’infanzia alla preadolescenza; accettando l’importanza di ogni emozione, che ha potuto riequilibrarle, ed essere di nuovo serena, d’altronde, come abbiamo ben visto: “Non c’è Gioia senza Tristezza”!

Nel sequel della Pixar, ritroviamo Ryle, alle prese con l’ormai imminente adolescenza e con il caos e la confusione che quest’ultima comporta, momento, che per l’età in cui avviene, si congiunge con un altro momento di transizione decisamente importante che è la fine del sicuro contesto delle scuole medie e l’inizio dell’incerto e sconosciuto periodo delle scuole superiori.

Vediamo, dunque, la protagonista alle prese con l’insidioso periodo definito Pubertà, che racchiude un momento di cambiamento, crescita e ridefinizione del senso di Sé che spesso può risultare davvero “cringe”.

La parola cardine di Inside out 2, sembra allora proprio essere Crescita, ed è proprio con la crescita e la confusione del periodo puberale che fanno l’avvento nella consolle amigdaliana altre emozioni quali appunto l’Ansia, l’Imbarazzo, l’Invidia e l’Ennui/Noia, e qualche comparsa qui e là di Nostalgia, definite anche emozioni secondarie.

Come sappiamo dagli studi di Ekman (2008) le emozioni si dividono in primarie e secondarie: sono emozioni primarie quelle che si esprimono con la stessa espressione facciale in qualsiasi popolazione e definite, pertanto, innate e universali: paura, rabbia, tristezza, gioia, disgusto e sorpresa (come appunto visto anche in Inside out).

Le emozioni secondarie, invece, sono quelle che originano dalla combinazione delle emozioni primarie e si sviluppano con la crescita dell’individuo e con l’interazione sociale.

 A quanto pare, però, per quanto riguarda queste ultime, la nostra varietà emotiva sarebbe molto più ampia di quello che aveva riscontrato Ekman (2008) con i suoi studi sulle espressioni facciali; infatti, un recente studio della University of California, diretto da Alan S. Cowen e Dacher  Keltner (2017) e pubblicato su Pnas, aggiorna e amplia le emozioni fondamentali nell’essere umano, aggiungendo alle classiche  6 tipologie di emozioni, altre 21, per un totale di 27 tipologie distinte di emozioni: ammirazione, adorazione, apprezzamento estetico, divertimento, ansia, soggezione, imbarazzo, noia, calma, confusione, desiderio, disgusto, dolore empatico, estasi, invidia, eccitazione, paura, orrore, interessamento, gioia, nostalgia, amore, tristezza, soddisfazione, desiderio sessuale, simpatia, trionfo.

Si può comprendere, dunque, perché con una varietà così ampia di emozioni, nel periodo adolescenziale, ci si possa sentire in qualche modo confusi e turbati, e vada a modificarsi quello che finora era stato il Senso di Sé, mettendo in discussione molti valori che fino a quel momento erano stati di riferimento: la famiglia, gli amici, i progetti, i desideri; vengono stravolti e ridimensionati, concentrandosi solo su quella spasmodica ricerca del senso di Sé smarrito, che spesso può far risultare l’adolescente egoista e concentrato solo su sé stesso.

Ma, in realtà è un periodo, come ben espresso in Inside out 2, in cui, in questo sentiero smarrito della pubertà, l’Ansia prende il sopravvento sulle altre emozioni al punto da chiuderle in una teca, e relegarle negli sperduti meandri dell’inconscio.

Così, come Ryle nel weekend in cui dovrà mostrare tutto il suo valore sul campo per farsi accettare dalla nuova squadra di Hockey del liceo, l’adolescente, tra una storia su Instagram, un Tiktok e un BeReal, cerca di farsi accettare e mostrarsi più forte di quanto non sia; cerca dunque di nascondere la sua fragilità provando a reprimere le emozioni.

Ma, come diceva Freud (1886-1899) : “le emozioni inespresse non moriranno mai, restano sepolte vive e usciranno più tardi in un modo peggiore”!

Ed è qui che, infatti, come ben colto dalla Pixar, subentra lui, il famoso “Attacco di Panico”, dove tutte le emozioni cercano di prendere il sopravvento nella costruzione del senso di Sé, facendo sentire chi lo vive come in un vortice senza via di fuga.

Ma la via d’uscita c’è, e di fatto è solo nel momento in cui ogni emozione si placa per dare spazio all’altra che riescono ad equilibrarsi e l’attacco di panico va esaurendosi.

Ovviamente c’è dell’altro dietro all’attacco di panico, legato ai vissuti individuali, così come quello che Ryle vive in weekend, nella realtà dura anni, ma ben semplifica quanto accade in adolescenza e soprattutto negli adolescenti dell’attuale generazione Z che sembrano ben identificarsi in Ryle.

Un aspetto forse un po’ trascurato, In Inside Out 2 è il tipico rapporto conflittuale con i genitori che è molto importante, insieme al rapporto con i pari e la società nell’edificare quel famoso Senso di Sé e la futura personalità dell’adolescente che poi diviene un giovane adulto.

È importante, infatti, soprattutto in questa fase della vita, che l’adolescente possa avere la possibilità di essere accompagnato, con una distanza sufficientemente buona, da adulti che lo guidino e lo aiutino a leggere e capire cosa sta provando.

Questo perché come abbiamo visto, le emozioni vanno espresse, ma soprattutto vanno riconosciute, perché è solo attraverso il loro riconoscimento che siamo in grado di affrontarle e di gestirle: non è possibile gestire ciò che non si conosce.

È solo quindi attraverso un percorso di conoscenza di sé che è possibile vivere in armonia ed equilibrare le nostre emozioni.

Inside Out 2, come il primo film, offre una rappresentazione semplice ma efficace del complesso mondo emotivo degli adolescenti. Aiuta a comprendere l’importanza di riconoscere e accettare tutte le emozioni per vivere in armonia.

Questo è un messaggio fondamentale per psicoterapeuti, genitori e insegnanti, poiché il supporto emotivo e la guida sono essenziali per aiutare gli adolescenti a navigare in questo periodo di transizione.

 

Dott.ssa Monica Iuliano

Psicologa – Psicoterapeuta

 

Bibliografia

 Ekman, P. (2008). Emotions Revealed: Recognizing Faces and Feelings to Improve Communication and Emotional Life. Henry Holt and Company.

 Cowen, A. S., & Keltner, D. (2017). Self-report captures 27 distinct categories of emotion bridged by continuous gradients. Proceedings of the National Academy of Sciences, 114(38), E7900-E7909.

 Freud, S. Citazione da: The Standard Edition of the Complete Psychological Works of Sigmund Freud.

L’IMPATTO DEI SOCIAL MEDIA SULLA SALUTE MENTALE

I social media hanno rivoluzionato il nostro modo di comunicare, informarci e
relazionarci. Sebbene offrano numerosi vantaggi, come la connessione globale e l’accesso immediato alle informazioni, i loro effetti sulla salute mentale sono oggetto di crescente dibattito e preoccupazione.

Numerosi studi hanno esaminato sia gli effetti positivi sia quelli negativi dei social media sul benessere mentale. È fondamentale sottolineare che i social media, di per sé, non sono né intrinsecamente buoni né cattivi: il loro impatto dipende dall’uso che ne viene fatto.

Analizziamo in dettaglio come questi strumenti influenzano il nostro benessere psicologico.
Le piattaforme sociali hanno introdotto un’era di condivisione globale, inizialmente vista come una rivoluzione positiva capace di diffondere un’elevata quantità di informazioni rapidamente. Tuttavia, con il tempo, le aspettative di un cyber-villaggio globale prospero e sicuro si sono scontrate con una realtà più complessa, probabilmente di pari passo con una progressiva regressione involutiva della società. Il lato oscuro della Rete è emerso, portando a effetti collaterali significativi che hanno portato ad una profonda metamorfosi negativa dei social media. Secondo il Report Digital del 2022 di We Are Social, gli utenti dei social media hanno raggiunto 462 miliardi, rappresentando circa il 58,4% della popolazione mondiale, un aumento
considerevole rispetto ai 148 miliardi di utenti rilevati nel 2012. Questo incremento costante richiede una riflessione approfondita sul loro effettivo impatto nella vita delle persone e sulla loro salute psicologica.

I giovani, specialmente gli adolescenti e i giovani adulti, sono tra i principali utilizzatori dei social media. Diversi studi indicano che l’uso intensivo di queste piattaforme può avere sia effetti positivi che negativi sulla salute mentale. Infatti, queste nuove tecnologie creano connessione sociale: permettono di mantenere i contatti con amici e familiari, specialmente durante periodi di isolamento o distanza fisica. Danno loro la possibilità anche di creare una rete di persone, di mantenerla viva e solida nel tempo, attraverso lo scambio assiduo di immagini, video, giochi, audio e messaggi, alimentando il senso di appartenenza a qualcosa.
A livello psicologico l’avvento e l’aumento dei contatti online ha dato vita a quello che viene definito Digital Emotion Regulation , ovvero l’atto di regolare le proprie emozioni grazie alla tecnologia, attraverso gli ambienti digitali.        Le piattaforme come Instagram, Youtube, Facebook o Twitch offrono spazi liberi dove i giovani possono condividere le loro esperienze, ricevere supporto emotivo, aumentare il loro livello di autostima personale e professionale. E’ indubbio che il filtro del “non dal vivo” permette anche alle persone con più difficoltà sociali di intraprendere azioni più comunicative con altri utenti, innalzando così il livello di benessere psicologico. Infine, non possiamo non
renderci conto che l’uso corretto dei social permette di restare aggiornati, informarsi velocemente sulle notizie del mondo, stimolare la creatività, imparare cose nuove in modo gratuito e pratico, lavorare in modo più fluido, anche con altri Paesi.
Pur senza dimenticare del tutto i progressi e i benefici esistenti con l’avvento di
Internet e dei social media, stanno proliferando con sempre maggiore frequenza studi finalizzati a elaborare tecniche in grado di analizzare le variazioni che l’uso dei social media provoca sull’umore e sulle emozioni delle persone. L’effetto “tossico” delle piattaforme sociali si manifesta attraverso la stimolazione della dopamina, che come “una sostanza chimica” funge da neurotrasmettitore per creare una dipendenza continua (addirittura paragonabile a quella provocata da alcol e sigarette). Ne
consegue che, oltre all’incremento esponenziale dei comuni sintomi di ansia,
depressione e senso di inadeguatezza, talvolta si manifestano anche più violenti atteggiamenti di aggressività o offensività nei contenuti condivisi online, che portano spesso al cyber-bullismo, frutto di una percezione distopica di immagini modificate dai numerosi filtri in grado di alterare la realtà rispetto alla fittizia apparenza della rete. C’è un desiderio di attenzione continua, una sorta di “gratificazione sociale” misurata
mediante la visualizzazione del numero di “likes” e di commenti ricevuti; questa dimensione mantiene sempre in condizioni di elevata ipereccitazione e porta le persone ad aggiornare continuamente i propri profili.
Altro aspetto da sottolineare, sulla base di quanto affermato dall’MIT e rispetto all’utilizzo generalizzato e pervasivo dei social media, esiste un rilevante problema strutturale alimentato dal cosiddetto “contagio emotivo ” che tali piattaforme generano sull’umore degli utenti, mutevole “a seconda della versione del prodotto cui sono esposti”. Lo scopo dei gestori è quello di massimizzare il tempo trascorso online e catalizzare un costante coinvolgimento interattivo, spesso a costo di creare dipendenza
psicologica. Il dilagante fenomeno emulativo di atti di autolesionismo che ha persino portato a casi di suicidio, ne è un esempio.
Sono questi, dunque, i tratti preoccupanti del lato oscuro della rete che sembrano delineare una vera e propria sindrome patologica da paura di essere disconnessi e di perdersi online (cd. “Fear of Missing Out” – acronimo FOMO) strettamente connessa all’inedito paradigma “Digito ergo sum”, come nuova dipendenza configurabile nell’ambito dei disturbi comportamentali e cognitivi provocati dall’uso eccessivo di Internet (cd. “Internet Addiction Disorder”) declinabile anche come “Smartphone Addiction”. L’obiettivo degli studi e delle ricerche sul campo è quello di limitare, o almeno provare ad arginare gli effetti negativi dell’uso errato dei social, al fine di
valorizzarne le potenzialità e le opportunità. Per fare questo è necessario che vi sia un controllo, fa parte dei più grandi nei confronti dei più piccoli, che nascono già bombardati da mille informazioni e schermi. Stabilire limiti di tempo per l’uso dei social media può aiutare a ridurre la componente di dipendenza, nonché migliorare la qualità del sonno e della salute psicofisica; senza escludere a propri le connessioni online è importante sensibilizzare e investire anche su relazioni “dal vivo”, al fine di mitigare l’effetto di isolamento sociale. La mission di tutti noi dovrebbe essere quella di promuovere un uso consapevole e critico dei social media, delle connessioni e della Rete in generale, perché può contribuire a migliorare il benessere complessivo degli
individui, e di traverso della società che è sempre più digital ed pericolosa.

 

Dott.ssa Caterina Marini

Psicologa – Psicoterapeuta

OSSESSIONE TRUE CRIME: PERCHE’ SIAMO COSI’ ATTRATTI DAI CRIMINI?

Il genere true crime, che narra crimini realmente accaduti in forma narrativa e letteraria, ha origini lontane. Nasce in Gran Bretagna tra il 1550 e il 1700 con resoconti di omicidi stampati su fascicoletti e ballate che raccontavano storie di criminali famosi destinate a intrattenere la borghesia.

Nell’Ottocento, con l’aumento dell’alfabetizzazione, anche le persone comuni iniziarono a leggere storie vere di crimini sui giornali. Autori come Charles Dickens e Thomas De Quincey si interessarono al genere, storie sensazionalistiche venivano vendute a puntate e uscirono i primi romanzi polizieschi. Nel 1966 Truman Capote scrisse “A sangue freddo” raccontando il massacro di una famiglia in Kansas e il processo agli assassini. Il libro rivoluzionò il true crime, facendolo entrare di fatto nella letteratura, e insistendo molto sul punto di vista dei presunti criminali. Autori come James Ellroy e Emmanuel Carrère seguirono le sue orme, narrando casi di cronaca nera con uno stile letterario.

In Italia, il true crime è presente in riviste come Cronaca Vera e programmi televisivi come Storie Maledette di Franca Leosini. Carlo Lucarelli, Giancarlo De Cataldo e Roberto Saviano hanno raccontato storie criminali in libri e programmi TV, contribuendo a diffondere il genere anche nel nostro paese, fino ad arrivare al podcast Elisa True Crime, il più ascoltato in Italia nel 2023.

 

Ma cos’è esattamente il true crime e perché ne siamo così affascinati?

Prima di tutto, il true crime si riferisce a storie reali di crimini, investigazioni e processi giudiziari. Queste storie sono spesso ricche di suspense e mistero, due elementi che ci attraggono profondamente. Chi di noi non ama un buon mistero da risolvere? Le storie di crimini veri ci portano in un mondo oscuro e complesso, dove possiamo esplorare le profondità della mente umana e le dinamiche che portano a comportamenti estremi.

Un altro motivo per cui siamo così attratti dal true crime è la nostra curiosità innata per la psicologia umana: vogliamo capire cosa spinge una persona a commettere un crimine. Che cosa succede nella mente di un criminale? Quali sono le circostanze che portano una persona apparentemente normale a fare qualcosa di terribile?

Questa curiosità non è solo una semplice fascinazione morbosa; è un desiderio profondo di comprendere le complessità del comportamento umano. La psicologia criminale ci permette di esplorare concetti come la moralità, il bene e il male, e come fattori come l’infanzia, le esperienze traumatiche e i disturbi mentali possano influenzare le azioni di una persona. Attraverso le storie di true crime, possiamo anche riflettere su noi stessi e sui nostri comportamenti, ponendoci domande difficili: “Cosa avrei fatto io in quella situazione?” o “Potrebbe succedere anche a me?”

Un’altra dimensione del nostro interesse per il true crime è il senso di controllo che queste storie possono offrire. Viviamo in un mondo che spesso può sembrare caotico e imprevedibile. Le storie di crimini reali ci permettono di vedere il funzionamento del sistema giudiziario, come vengono risolti i crimini e come i colpevoli vengono puniti. Questo processo può darci un senso di ordine e giustizia.

Infine, sapere come e perché si verificano certi crimini può aiutarci a sentirci più preparati e meno vulnerabili. È come se, attraverso la comprensione dei meccanismi del crimine, potessimo proteggere meglio noi stessi e i nostri cari. Questo senso di controllo, anche se parziale, può essere rassicurante.

 

Negli ultimi anni, però, l’avvento dei media digitali ha amplificato enormemente la nostra esposizione al true crime. Oggi, con pochi clic, possiamo accedere a una vasta gamma di contenuti: dai documentari sui principali servizi di streaming, ai podcast che raccontano in dettaglio casi famosi e meno conosciuti, fino ai libri digitali che possiamo leggere ovunque ci troviamo. Questa accessibilità ha reso il true crime una parte integrante della nostra cultura popolare.

Nel mentre, la qualità delle produzioni moderne è cresciuta tantissimo: i documentari e i podcast di oggi sono spesso ben scritti, accuratamente ricercati e presentati in modo coinvolgente. Gli autori e i produttori sanno come tenere alta la nostra attenzione, raccontando storie in modo che risultino non solo informative, ma anche emozionanti.

 

Implicazioni Psicologiche

 

Proprio considerando il grande successo che il true crime sta raccogliendo, dobbiamo essere consapevoli delle possibili implicazioni psicologiche di un’eccessiva esposizione ad esso.

Alcuni studi suggeriscono che guardare o ascoltare troppe storie di crimini violenti può aumentare i livelli di ansia e paura. Potremmo iniziare a vedere il mondo come un luogo più pericoloso di quanto non sia realmente. Questo fenomeno è noto come la “sindrome del mondo cattivo”, espressione coniata dal ricercatore di comunicazione George Gerbner.

Il concetto è parte della sua “teoria della coltivazione”, che esplora gli effetti a lungo termine dell’esposizione ai media, in particolare alla televisione. La sindrome del mondo cattivo si riferisce alla percezione distorta della realtà che può svilupparsi in persone che sono esposte a un alto volume di contenuti violenti nei media.

Secondo Gerbner, le persone che guardano molta televisione tendono a vedere il mondo come più pericoloso e violento di quanto non sia realmente. La costante esposizione a contenuti violenti, sia attraverso notizie, serie TV o film, può portarci a sovrastimare la prevalenza della criminalità e della violenza nella vita reale. Questo fenomeno influisce sul nostro comportamento e sulle nostre decisioni quotidiane, rendendoci più diffidenti, timorosi e inclini a percepire situazioni innocue come potenzialmente pericolose.

Ma fin dove possono arrivare i sintomi di una sovraesposizione al true crime?

Alcuni dei sintomi includono:

Ansia aumentata: la costante esposizione a storie di violenza e crimine può farci sentire più ansiosi riguardo alla nostra sicurezza personale e a quella dei nostri cari.
Disturbi del sonno: pensare continuamente a storie di crimini violenti può interferire con la nostra capacità di rilassarci e dormire bene.
Desensibilizzazione: con il tempo, potremmo diventare meno sensibili alla violenza e alla sofferenza delle vittime, vedendo la violenza come qualcosa di normale o inevitabile.
Ossessione: potremmo sviluppare un interesse ossessivo per i dettagli di casi criminali, dedicando un tempo eccessivo alla ricerca di informazioni, arrivando a trascurare altre attività importanti della nostra vita.
Paura generalizzata: un’esposizione prolungata può portarci a vedere pericoli ovunque, limitando la nostra capacità di godere delle attività quotidiane e riducendo la nostra qualità di vita.

Allora, come possiamo bilanciare il nostro interesse per il truecrime con la nostra salute mentale? La chiave è il consumo consapevole. Dobbiamo essere attenti ai segnali del nostro corpo e della nostra mente. Se ci sentiamo sopraffatti o ansiosi, potrebbe essere il momento di fare una pausa. È utile alternare i contenuti di true crime con altri generi che possono rilassarci o ispirarci, come commedie, documentari sulla natura o programmi di auto-aiuto.

In conclusione, il nostro interesse per il true crime può dirci molto su noi stessi: sulla nostra curiosità, sul nostro desiderio di capire il mondo e sulla nostra ricerca di storie che ci affascinano e ci coinvolgono. Ma, come per tutte le cose, è essenziale consumare questi contenuti in modo responsabile, prestando attenzione alla nostra salute mentale e benessere emotivo.

 

Dott.ssa Valeria Lussiana

Psicologa Psicoterapeuta

 

 

NOMOFOBIA: LA PAURA DI ESSERE “DISCONNESSI”

Nel corso degli ultimi 20 anni i telefoni cellulari sono diventati una presenza sempre più importante nella vita di ciascuno di noi. Se negli anni 2000 i cellulari ci permettevano unicamente di telefonare e scambiare qualche sms, ad oggi sono dei veri e propri computer in cui ognuno di noi racchiude la propria vita. Sullo smartphone abbiamo l’agenda, la carta di credito, la mail e, non ultimi i social, tanto che sembra diventato impossibile farne a meno. Per tutti i motivi sopraelencati, sarà capitato a chiunque di sentire una vena di paura all’idea di non trovare il cellulare, con conseguente apertura di scenari sulla perdita, o magari il furto, di dati, contatti, account, ecc.

Quando però questa paura diventa qualcosa di più profondo, prende il nome di nomofobia (No Mobile Phobia). Recentemente questo termine è stato aggiunto anche al dizionario della lingua italiana Zingarelli, ad indicare che tale fenomeno è in grande espansione.

Ma come si riconosce la nomofobia? Questo termine indica una vera e propria dipendenza da smartphone e si caratterizza con sintomi simili a quelli dell’attacco di panico ogni qualvolta il soggetto non ha a disposizione il cellulare, oppure non ha credito o la possibilità di accedere ad internet. Le manifestazioni sintomatiche possono comprendere:

tachicardia

affanno

mancanza di respiro

sudorazione

tremori

nausea

dolore toracico.

Le persone affette da nomofobia vivono in uno stato di costante allerta e, per evitare di non avere il telefono a disposizione, mettono in atto una serie di comportamenti compensativi, come controllare continuamente lo stato della batteria, il credito e la disponibilità di dati, portare con sé caricabatterie o powerbank o girare con un telefono “di scorta”; se ci pensiamo questo atteggiamento ricorda ad esempio quello di un fumatore incallito, che farà sempre attenzione a non restare senza sigarette onde evitare di sperimentare una forte ansia.

In chi soffre di nomofobia si possono inoltre riscontrare le seguenti caratteristiche comportamentali:

Utilizzo dello smartphone in luoghi o momenti poco appropriati;
Passare una quantità eccessiva di tempo al telefono (social, video, giochi, ecc.);
Monitoraggio costante del telefono per controllare l’arrivo di eventuali notifiche;
Andare a dormire col telefono o il tablet;
Tenere lo smartphone acceso 24/24 h;
Tenere sempre sotto controllo il credito e lo stato della batteria.

In definitiva, la nomofobia si caratterizza per il terrore di essere disconnessi.

Per quanto tale fenomeno possa sembrare recentissimo, già nel 2008 uno studio commissionato dal governo britannico tra i cittadini in possesso di un telefono cellulare rilevava dati allarmanti: circa il 58% degli uomini e il 47% delle donne manifestavano una forte ansia all’idea di essere “disconnessi” dai propri dispositivi.

Nonostante tale dipendenza sia ormai dilagante, attualmente non esistono molti trattamenti specifici e i pochi a disposizione comprendono la psicoterapia ad orientamento cognitivo comportamentale e, in casi gravi, il ricorso a terapie farmacologiche.

L’obiettivo dei trattamenti è specificamente il riavvicinare il soggetto alla vita reale e ai contatti faccia a faccia, distogliendo per quanto possibile l’attenzione dalla realtà virtuale in cui il soggetto è costantemente immerso.

Le persone affette da nomofobia dovrebbero dedicare tempo, ogni giorno, ad attività che non richiedano l’uso di supporti tecnologici, come leggere un libro o fare attività fisica. E’ importante che ci siano dei momenti della giornata in cui non è concesso l’uso del cellulare, come l’orario dei pasti o prima di andare a dormire.

Può essere utile disattivare le notifiche delle applicazioni meno importanti, così da limitare lo stato di allerta e l’ansia da mancata risposta.

Dott.ssa Rossella Totaro

Psicologa e Psicoterapeuta

SINDROME DELL’IMPOSTORE Quando accettare il proprio valore personale diventa impossibile

La sindrome dell’impostore è stata teorizzata per la prima volta negli anni ’70 dalle psicologhe Pauline Clance e Suzanne Imes. Alcuni studi rilevano che il 70% della popolazione, sia maschile sia femminile, almeno una volta nella vita ha sperimentato questa condizione e si pensa che addirittura Albert Einstein ne soffrisse.

E’ importante rilevare che, anche se le psicologhe hanno attribuito il nome “sindrome” a questo fenomeno, non si tratta di una malattia e, di conseguenza, non lo troviamo tra le patologie inserite nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM).

Ma se non è una malattia, cos’è la sindrome dell’impostore? Si tratta di un fenomeno psicologico a causa del quale il soggetto non riesce ad attribuirsi il merito dei propri successi. Potrebbe dunque pensare di aver ottenuto un determinato traguardo, come per esempio il superamento di un esame universitario o una promozione sul lavoro, grazie alla fortuna (“le domande che mi hanno fatto erano facili!”) o all’aver ingannato gli altri (“il mio capo crede che sia competente, ma presto scoprirà che non è così!”).

La condizione di chi soffre della sindrome dell’impostore non necessariamente è legata alla psicopatologia, dunque non è detto che chi ne è vittima sia affetto, ad esempio, da ansia o depressione. Piuttosto tale fenomeno è legato ad una combinazione di condizioni ambientali e caratteristiche personali.

Tra le cause possiamo trovare:

Essere cresciuto in un contesto familiare con una o più persone che hanno ottenuto successo o che si sono sempre distinte;
Essere particolarmente sensibili;
Aver ricevuto in famiglia sempre e solo complimenti, anche quando i risultati ottenuti non erano eccellenti;
Avere (o aver avuto) poche possibilità di esprimere liberamente le proprie emozioni;
Appartenere ad una minoranza oggetto di discriminazione sociale;
Affrontare nuove sfide (es. nuovo ambiente di lavoro).

La sindrome dell’impostore è strettamente legata all’autostima, al valore personale e all’idea che abbiamo di noi stessi e dei traguardi che immaginiamo di dover raggiungere per essere “accettabili” al livello sociale. Non a caso, è una condizione che spesso colpisce persone che ricoprono cariche importanti. Un aspetto che spesso non viene considerato è quello delle relazioni sociali. Infatti la sindrome dell’impostore non riguarda solo le capacità lavorative o accademiche, ma spesso colpisce anche l’ambito relazionale. Una persona potrebbe pensare di risultare simpatica o interessante solo perché gli altri non la conoscono abbastanza, e non si sono ancora accorti di quanto riesca a fingere di essere ciò che non è.

Essere colpiti dalla sindrome dell’impostore genera sofferenza e insicurezza e spesso dà origine ad una serie di pensieri negativi su di sé. Eccone alcuni esempi:

Sentirsi inadeguati rispetto al proprio ruolo professionale o sociale;
Convinzione di ingannare le persone rispetto al proprio valore;
Sentirsi in colpa per i traguardi raggiunti e pensare di non meritarli;
Paura di esporsi e di essere giudicati;
Paura di essere smascherati e di essere considerati degli impostori;
Accettare con difficoltà elogi e complimenti;
Essere convinti che i propri successi derivino unicamente dalla fortuna.

Ma quali sono i fattori che contribuiscono al mantenimento della sindrome dell’impostore? Ne sono stati rilevati principalmente due: il perfezionismo e la bassa autostima.

Il perfezionismo consiste nella consuetudine di pretendere da se stessi dei risultati di livello superiore a quelli richiesti dalla situazione. Questo porta il soggetto a diventare ipercritico rispetto alle proprie prestazioni (sociali, lavorative, accademiche, ecc.), portandolo a porre a se stesso standard sempre più elevati e spesso irraggiungibili. Qualunque risultato ottenuto ritenuto inferiore all’obiettivo preposto viene percepito come insoddisfacente e come diretta conseguenza dello scarso valore della persona. Il perfezionismo dà dunque origine ad un circolo vizioso, da cui diventa spesso difficile uscire. Ogni risultato “non perfetto” sarà considerato dal soggetto come la conferma di essere incompetente e, nel caso della sindrome dell’impostore, confermerà a convinzione di aver raggiunto traguardi e riconoscimenti di cui in realtà non è meritevole.

La bassa autostima è strettamente correlata al perfezionismo. Chi ne soffre ha la costante sensazione di essere inadeguato e di non valere abbastanza. Riconosce a se stesso uno scarso valore personale ed è afflitto dalla paura di sbagliare in qualunque situazione. Spesso chi ha bassa autostima è convinto di non poter essere amato e apprezzato per ciò che è. Il perfezionismo e l’impossibilità di raggiungere risultati impensabili vanno a riconfermare la scarsa percezione che la persona ha di sé.

Come superare la sindrome dell’impostore? Questo implica certamente un lavoro su se stessi, in particolare se questa è una condizione frequente o addirittura cronica. Per far fronte alla sindrome dell’impostore è importante imparare ad avere uno sguardo più oggettivo su se stessi, ad apprezzare i traguardi raggiunti e a fare i conti con i propri limiti: in poche parole bisogna imparare ad apprezzarsi e ad amarsi per ciò che si è. Porsi degli obiettivi raggiungibili e apprezzare i risultati ottenuti, imparare ad accettare i complimenti, accogliere con gioia i riconoscimenti, lasciando da parte l’ipercritica, è ciò che può aiutare a vivere al meglio la vita lavorativa e sociale.

A volte però sapere cosa dovremmo fare per stare meglio non è sufficiente a cambiare le cose. Fare ricorso alla psicoterapia potrebbe aiutare a uscire dalla dolorosa sensazione di essere degli impostori e imparare ad accettarsi per ciò che si è.

Dott.ssa Rossella Totaro

Psicologa e Psicoterapeuta

STRESS, ANSIA E CONCENTRAZIONE: SAI CHE I GIOCHI SENSORIALI POSSONO AIUTARTI?

Hai mai avuto bisogno di calmarti manipolando un oggetto, come una pallina antistress o un pop it? Gli stimming toys, ormai diffusi tra adulti e bambini, non sono semplicemente giochi, ma veri alleati per il benessere emotivo e sensoriale. Questi strumenti si stanno facendo strada anche nella psicoterapia, dimostrandosi utili in situazioni di stress, ansia e difficoltà di concentrazione. Ma cosa sono esattamente e perché funzionano così bene?

Cosa sono gli Stimming Toys?

Gli stimming toys sono dispositivi progettati per stimolare i sensi attraverso il movimento, il tatto o il suono. Tra i più noti troviamo:

fidget spinner, pop it e cubi antistress,
palline sensoriali, slime o pasta modellabile,
oggetti con texture particolari, come tappetini tattili o tessuti.

Il termine “stimming” deriva da “self-stimulatory behavior” (comportamento auto-stimolatorio) ed è stato originariamente associato all’autismo. Oggi, il loro utilizzo si è esteso anche a persone neurotipiche per affrontare momenti di stress, ansia o difficoltà di concentrazione.

Perché funzionano?

Gli stimming toys aiutano a:

1. Ridurre stress e ansia, offrendo uno sfogo fisico per l’energia nervosa.
2. Migliorare la concentrazione, mantenendo l’attenzione su uno stimolo leggero e costante.
3. Favorire il grounding (ancoraggio al presente), aiutando a rimanere nel “qui e ora” attraverso stimoli concreti e sensoriali.

Ma cosa rende questi strumenti così efficaci? La loro azione si basa su meccanismi neurologici profondi che influenzano il nostro stato emotivo.

I Meccanismi Neurologici
1. Attivazione del Sistema Somatosensoriale:
La manipolazione di oggetti tattili stimola il sistema somatosensoriale, che aiuta il cervello a rilasciare serotonina e dopamina, neurotrasmettitori legati al benessere. Questo tipo di stimolazione riduce l’attivazione del sistema nervoso simpatico (responsabile della risposta “attacco o fuga”) e promuove il rilassamento.
2. Grounding sensoriale:
Stimoli concreti e prevedibili, come la sensazione di pressione o movimento, ancorano la mente al presente. Questo processo coinvolge il talamo, che filtra le informazioni sensoriali, distogliendo l’attenzione da pensieri intrusivi o stati dissociativi.
3. Regolazione del Sistema Limbico:
Gli stimoli ripetitivi degli stimming toys riducono l’attività dell’amigdala, il centro delle emozioni, spesso iperattiva in stati di stress, ansia o emozioni intense come rabbia e frustrazione. Questo effetto calmante può aiutare a modulare anche impulsi legati a comportamenti disfunzionali, come la fame emotiva. L’ancoraggio al presente, inoltre, stimola l’ippocampo, favorendo un migliore equilibrio cognitivo ed emotivo, contribuendo a gestire sensazioni di tristezza o sopraffazione.
4. Stimolazione del Cervelletto e del Sistema Vestibolare:
Movimenti ritmici o compressivi attivano il cervelletto e il sistema vestibolare, migliorando il senso di equilibrio interno ed esterno e favorendo una sensazione di calma e stabilità.
5. Attivazione dei Circuiti Dopaminergici:
Gli stimming toys attivano i circuiti della dopamina, offrendo una gratificazione immediata che migliora l’umore e aumenta il senso di controllo.
6. Modulazione del Nervo Vago:
Attraverso la stimolazione tattile, gli stimming toys agiscono sul nervo vago, promuovendo rilassamento, sicurezza e un ritmo respiratorio regolare.
Utilizzo in Psicoterapia

Gli stimming toys possono essere integrati in diversi modi nel setting terapeutico, ad esempio come:

Strumento di autoregolazione: durante una seduta, un paziente in preda ad una forte emozione come ansia, agitazione, rabbia, tristezza ecc. può manipolare un oggetto per calmarsi e sentirsi più a proprio agio.
Promozione del grounding: in momenti di intensa attivazione emotiva, toccare o manipolare un oggetto può aiutare il paziente a rientrare in contatto con il presente.
Facilitazione del dialogo: spesso, il semplice gesto di manipolare un oggetto durante una conversazione può abbassare le difese e favorire un dialogo più aperto e spontaneo.
Per chi sono indicati?
Adulti e bambini con difficoltà di regolazione emotiva: persone con ansia, ADHD, o difficoltà di gestione dello stress possono trovare grande beneficio.
Persone in terapia per trauma: gli stimming toys possono aiutare a gestire flashback o stati di dissociazione.
Chiunque cerchi uno strumento pratico per rilassarsi: gli stimming toys non hanno controindicazioni e sono facilmente accessibili!

In conclusione, gli stimming toys non sono solo giochi: sono strumenti semplici ma potenti per migliorare la qualità della vita, aiutandoci a gestire momenti di difficoltà e a riconnetterci con il presente. Esplorarli significa scoprire un nuovo modo di prendersi cura di sé, trovando il proprio equilibrio con un gesto tanto piccolo quanto efficace.

Dott.ssa Valeria Lussiana

Psicologa Psicoterapeuta

Bibliografia
1. Brand, B. L., Schielke, H. J., & Lanius, R. A. (2022). Finding Solid Ground: Overcoming Obstacles in Trauma Treatment. Oxford University Press.
2. Schaaf, R. C., & Davies, P. L. (2010). Evolution of the Sensory Integration Frame of Reference. American Journal of Occupational Therapy, 64(3), 363-367.
3. Porges, S. W. (2011). The Polyvagal Theory: Neurophysiological Foundations of Emotions, Attachment, Communication, and Self-regulation. W.W. Norton & Company.
4. Cozolino, L. (2014). The Neuroscience of Human Relationships: Attachment and the Developing Social Brain. W.W. Norton & Company.
5. Siegel, D. J. (2012). The Developing Mind: How Relationships and the Brain Interact to Shape Who We Are. Guilford Press.