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Binge watching: siamo drogati di serie tv?

L’espressione inglese “Binge watching” (letteralmente “abbuffata di visione) è entrata da tempo nel nostro dizionario, almeno da quando le piattaforme di streaming sono divenute un’alternativa alla tv tradizionale.

Fa riferimento alle “maratone televisive”, ossia alla fruizione di contenuti televisivi per un periodo di tempo superiore al consueto e senza soste e nello specifico indica la visione consecutiva di puntate di una serie tv che impegna lo spettatore per molte ore.

Il fenomeno delle abbuffate televisive non è certo nuovo, ma in passato aveva connotazioni diverse: già sul finire degli anni ’80 del secolo scorso alcune emittenti televisive statunitensi proponevano maratone legate a serie tv cult quali Star Trek e negli anni ’90 lo stesso accadeva con X files, mentre con la diffusione di massa dei DVD lo spettatore acquisiva il potere di scelta, determinando tempi e modalità di fruizione dei contenuti.

La vera affermazione del fenomeno del binge watching si ebbe però intorno al 2010, con l’affermazione sul mercato di servizi di video on demand.

In Italia la piattaforma Netflix arriva nel 2015, Amazon Prime nel 2016, mentre Sky era già operativa da diversi anni. A queste poi si aggiungono tutte le altre piattaforme che hanno contribuito all’ampliamento smisurato dei contenuti fruibili dagli utenti e che innegabilmente hanno reso il fenomeno delle abbuffate molto più diffuso di quanto probabilmente non si pensi.

Stando ai dati rilasciati da Netflix relativi ad uno studio commissionato dalla stessa piattaforma, su un campione di 1500 consumatori di serie TV via streaming, il 61% dichiara di praticare il binge watching almeno una volta alla settimana, mentre il 73% degli intervistati dichiara di associare “sensazioni positive” a questa pratica. Secondo YouGov, società di ricerche di mercato, il 58% degli americani è dedito al binge watching, motivando questo comportamento con il desiderio di vedere tutta la serie in un’unica soluzione, oppure perché si riconosce impaziente di aspettare una settimana per guardare l’episodio successivo o, ancora, per paura degli spoiler.

Il periodo del lockdown ha ulteriormente contribuito ad accentuare il fenomeno, anche in Italia ovviamente, rendendo necessaria una riflessione su una pratica solo apparentemente priva di controindicazioni.

Se infatti il concetto di dipendenza è talvolta applicato in maniera generalista e declinato in modo inappropriato in riferimento a molti comportamenti che oggi vediamo intorno a noi, è pur vero che il binge watching rappresenta per alcuni soggetti una dipendenza comportamentale, non ancora classificata ufficialmente, ma che soddisfa i criteri clinici per definirla come tale: tolleranza, astinenza, compromissione della attività sociali, lavorative o scolastiche.

Ciò che vale per tutte le forme di dipendenza può valere anche, quindi, per il binge watching ed il rapporto causa-effetto potrebbe essere letto in ottica circolare piuttosto che lineare. Già nel 2015 un gruppo di ricercatori dell’Università del Texas ha evidenziato come il binge watching sia correlato ad ansia, depressione, solitudine e difficoltà relazionali. Non è tuttora chiaro però se siano gli stati emotivi a produrre il comportamento di abbuffate tv oppure se, al contrario, siano le abbuffate ad indurre cambiamenti negativi nello stato umorale e nelle risposte comportamentali degli utenti

Prescindendo dal concetto di dipendenza, inoltre, il ripetersi sistematico di abbuffate televisive può avere serie ripercussioni sulla qualità di vita dello spettatore: disturbi del sonno, relazioni conflittuali, rinuncia alle proprie attività quotidiane sono alcune esse.

A queste se ne aggiungono altre, quali disturbi visivi, perdita della cognizione temporale, sedentarietà e aumento di peso e talvolta senso di vuoto e angoscia di separazione legato alla fine della serie tv, con possibile sviluppo di sintomi depressivi (“post-binge watching blues”, ovvero depressione da fine serie). A tal riguardo sono attivi gruppi on line di supporto con l’intento di aiutare gli spettatori ormai orfani dei loro personaggi preferiti protagonisti di serie tv.

Eccessivo? Forse, ma così è. Il passo successivo potrebbe essere innamorarsi di un’altra storia e ricominciare tutto daccapo.

È tuttavia necessario specificare che il binge watching può rivelarsi pericoloso solo se protratto nel tempo e praticato abitualmente per tempi molto lunghi, nel qual caso, a fronte delle condizioni descritte precedentemente, può essere utile un consulto specialistico in stile “In Treatment”

Dott. Stefano Lagona

Psicologo Psicoterapeuta

 

Effetto Dunning Kruger – Quando la fiducia (eccessiva) in te stess* ti può riservare brutte sorprese

Hai mai sentito parlare dell’effetto Dunning-Kruger?

Si tratta di un errore cognitivo (possiamo chiamarlo Overconfidence bias) della nostra mente che porta ad avere una fiducia smisurata in se stessi.

Quando potresti esserne vittima?

Ad esempio, quando guardi la tua squadra del cuore giocare e pensi che tu, proprio tu che non hai mai giocato da professionista, quella punizione, quella schiacciata o quel tiro a canestro l’avresti tirata/o meglio.

Oppure quando stai guidando e ignori volutamente il navigatore convint* di conoscere strada e percorso meglio di un aggeggino collegato ai satelliti. Ritrovandoti poi a far ricalcolare varie volte la strada al tuo navigatore e accumulare minuti e minuti di ritardo.

O ancora, quando critichi il capo di stato di turno, esperto virologo, ingegnere che siano convinto che tu, al posto loro, pur non avendo i loro titoli e le loro competenze avresti fatto meglio.

Ecco, questi sono solo alcuni degli errori cognitivi legati all’effetto Dunning-Kruger.

Perché ci crediamo così superiori agli altri, in tante o poche occasioni, tanto da non riuscire a riconoscere l’errore e il fallimento a portata di mano?

Per capire meglio di cosa si tratti questo effetto Dunning-Kruger dobbiamo fare un passo indietro e tornare nel 1995 a Pittsburgh, USA.

Tutto parte con McArthur Wheeler, uomo di mezza età che rapina due banche nello stesso giorno a volto scoperto.

Questo improvvisato rapinatore, che si credeva, invece, furbo, si era fatto persuadere da un conoscente che gli aveva detto che se si fosse spalmato in faccia del succo di limone questo lo avrebbe reso invisibile alle telecamere di sorveglianza.

Questa (falsa) credenza derivava da un “trucco di magia” che questo conoscente gli mostrò: intinse un pennino (uno stuzzicadente, un pennello etc) nel succo di limone e scrisse su un foglio di carta alcune cose.

Per “magia” il foglio non venne ricoperto di scritte, ma rimase pulito. Appena il foglio venne avvicinato ad una fonte di calore (ad esempio una candela) ecco che comparirono le scritte.

McArthur Wheeler, però, non si credeva di certo uno sprovveduto, voleva giustamente verificare con i suoi occhi che tutto ciò fosse vero.

Cosa pensò di fare? Si cosparse la faccia di succo di limone e si scattò una fotografia con una polaroid. La foto che venne fuori confermò al mal capitato rapinatore la correttezza della sua teoria, la foto, in effetti, ritraeva solamente uno sfondo bianco e nessuna traccia del futuro ladro!

Lui non lo capì, ma cospargersi il viso (occhi inclusi) di succo di limone non gli permise di vedere bene e scattando la foto mosse la macchina fotografica che puntò dritto al soffitto!

Confermata la teoria, ora nessuno può fermare una mente tanto brillante, quanto criminale.

O forse no.

Dopo poche ore dalle due rapine McArthur Wheeler venne rintracciato e arrestato a casa sua con il bottino in bella vista. McArthur rimase incredulo dichiarando, infatti, stupito ai polizioti che lui si era ricoperto di succo!

Come ha fatto la polizia a scoprirlo? Il succo di limone lo aveva passato su ogni centimetro quadrato della sua faccia, aveva accuratamente evitato le fonti di calore nel corso delle rapine e fatto le prove con la polaroid.

Eppure…

Questa notizia arrivò a due psicologi, David Dunning e Justin Kruger, che lavoravano per il dipartimento di psicologia sociale della Cornell University.

I due ricercatori ipotizzarono che una persona che non è in grado di riconoscere la propria ignoranza spesso sovrastima le sue capacità e abilità.

Per testare la loro ipotesi fecero un esperimento: ad un campione di persone venne chiesto quale fosse la loro competenza in tre diverse aree (umorismo, grammatica e logica). Queste persone furono successivamente valutati nelle tre aree per verificare quali fossero le loro reali abilità.

I risultati mostrarono che i partecipanti che si erano definiti molto competenti, in realtà avevano preso punteggi molto bassi; chi, invece, aveva sottostimato le proprie abilità si aggiudicò buoni risultati.

Questa ricerca e quelle che seguirono convalidarono l’ipotesi dei due ricercatori: chi pensa di sapere ed è impreparato sovrastima la propria abilità e competenza; al contrario, chi crede di non sapere è convinto di non avere buone abilità o poche competenze in merito ad una data questione anche se, invece, i loro risultati sono migliori.

Da queste ricerche prende il nome di “Effetto Dunning-Kruger” e altro non è che il pregiudizio cognitivo dell’illusione della competenza: alcune persone stimano le loro abilità e competenze più alte di quelle che sono in realtà.

Pensala in questo modo, la conoscenza è come una nuvola, mentre quello che non conosci (ciò che ignori, quindi di cui non hai conoscenza) è il cielo. Puoi apprendere nuove cose e così aumentare la grandezza della tua nuvola, ma il cielo resterà comunque sempre più grande di quello che puoi sapere. La tua nuvola non potrà mai coprire l’intero cielo.

La stessa questione fu espressa da Confucio secoli fa: “La vera conoscenza risiede nel conoscere l’estensione della propria ignoranza”.

Ci sarà sempre, di conseguenza, qualcosa che non sapremo. Il punto è poterlo riconoscere.

Come superare allora l’effetto Dunning-Kruger?

Tutti siamo, più o meno, vittime in alcune situazioni di questa distorsione cognitiva.

Secondo gli psicologi Dunning e Kruger le possibilità che abbiamo sono quelle di auto-valutarci in modo più oggettivo possibile, non smettere mai di apprendere (il tuo sapere sarà sempre più piccolo delle conoscenze presenti nel mondo) e metterci in costante discussione rispetto a noi stessi e alle nostre conoscenze.

“Il problema dell’umanità è che gli stupidi sono strasicuri, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi.” Bertrand Russell

Dott. Kalman Gilberto

Psicologo Psicoterapeuta

Bibliografia

Kruger J., Dunning D., Unskilled and unaware of it: how difficulties in recognizing one’s own incompetence lead to inflated self-assessments, J Pers Soc Psychol. 1999 Dec;77(6):1121-34

Kruger J, Dunning D.J, Unskilled and unware but why? A reply to Krueger and Muller, Pers Soc Psychol. 2002 Feb; 82 (2): 189-192

Burson KA, Larrick RP, Klayman J., Skilled or unskilled, but still unware of it: how perceptions of difficulty drive miscalibration in relative comparisons, J Pers Soc Psychol. 2006 Jan; 90 (1): 60-77

Critcher CR, Dunning D., How chronic self-views influence (and mislead) self-assessments of task performance: self-views shape bottom-up experiences with the task, J Pers Soc Psychol. 2009 Dec; 97 (6): 931-945

Furnham A., Chamorro-Premuzic T., Estimating one’s own and one’s relatives’ multimple intelligence: a study from Argentina, Span J Psychol. 2005 May; 8 (1): 12-20

Strappare lungo i bordi come metafora dell’adolescenza. Riflessione personale in un’ottica psicodinamica

!   Non adatto a chi non ha ancora visto la serie perché potrebbe contenere spoiler.

Nel mio lavoro di psicoterapeuta mi è capitato di parlare in seduta di Strappare lungo i bordi e, come sempre, una delle cose che mi piace delle mie giornate è poter cogliere come le persone captino ed elaborino gli stimoli in modo diverso, soggettivo, e spesso in relazione al proprio mondo interno.

C’è chi si è riconosciuto in un male di vivere diffuso, chi ha colto le citazioni e i dettagli studiati al millimetro in ogni scena, chi non lo ha apprezzato, chi si è commosso, chi avrebbe voluto sapere di più.

Poiché lavoro con una fascia di età variegata, ho colto che le persone, a seconda della fase di vita in cui si trovavano, si sono identificate e sintonizzate con alcuni degli aspetti che vengono trattati o solo sfiorati.

Ho deciso di scrivere questo breve articolo per cogliere una sfumatura relativa all’adolescenza e al processo, a volte doloroso, di costruzione della propria identità in relazione ai contenuti di questa serie. Chiaramente, e con mio dispiacere, non posso sapere se l’autore sarà d’accordo con questa personale lettura ed interpretazione, ma, come i miei pazienti, decido di sintonizzarmi su una sfaccettura tra mille, senza pretendere che sia l’unica possibile o quella corretta.

Il titolo in primis mi ha colpito e rimandata alle immagini, alla forma delle forbici, delle forme preconfezionate e alle guide; poi il mio pensiero è volato all’ideale dell’Io e alla definizione di Winnicott di Vero e Falso Sé nei termini che seguono.

L’Ideale dell’Io si riferisce a quell’istanza della personalità in cui convergono il narcisismo, inteso come idealizzazione dell’Io, le identificazioni con i genitori e gli ideali collettivi; esso rappresenta un ideale verso il quale il soggetto tende. L’ideale dell’Io è una formazione psichica parzialmente indipendente che rappresenta un punto di riferimento per l’Io. Quest’ultimo valuta, misura e modula le proprie realizzazioni proprio a partire da questo e proietta in avanti il proprio ideale sostituendo il narcisismo dell’infanzia in cui egli stesso era il proprio ideale.

Secondo Winnicott il Vero Sé è il “gesto spontaneo”, l’idea personale, il sentirsi reale e creativo mentre il Falso Sé è una protezione nei confronti di un ambiente che si è rivelato inadeguato ad anticipare e soddisfare il bisogno del bambino causando frustrazione.

In condizioni ottimali, l’infanzia è caratterizzata da sicurezza, il mondo del bambino è stabile, prevedibile, le figure di riferimento come genitori e insegnati costanti e affidabili, ma, sotto le spinte della crescita e la nascita delle nuove istanze, questo paradigma può subire dei violenti stravolgimenti. In condizioni sfavorevoli, il bambino prima e l’adolescente poi, si trova a dover rinunciare all’autenticità in favore di un adattamento che tuttavia, sotto le spinte della crescita, rischia di crollare originando uno stallo e, forse, un break down. La sensazione di stallo e quindi di arresto evolutivo può generare un profondo dolore, i compiti evolutivi che erano stati messi all’ordine del giorno non sono soddisfatti e il futuro, prima idealizzato e pensato roseo, non esiste più.

Il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, infatti, può essere turbolento: crolla l’onnipotenza infantile, si incontra la caducità propria e del mondo, si scopre che i genitori e gli adulti significativi non sono supereroi, ma donne e uomini fallibili, che non conoscono tutto, ma che si arrabattano anche loro nel miglior modo possibile. Venute meno le certezze esterne, lo sguardo si volge al Sé e sorgono le domande: “Chi sono? Se non sono il bambino prodigio che avevano decantato mamma e papà, se non sono lo studente preferito della maestra, se non sono l’atleta che mi avevano promesso che sarei diventato, allora chi sono?”.

Zerocalcare sembra parlare della fatica delle proiezioni che provengono dall’esterno, degli stereotipi sociali che si abbattono sul singolo e che possono far sentire inadeguati e a volte “rotti”. Se si dà voce alla parte autentica di sé, cosa resta?

Lo psicoterapeuta Charmet sottolinea quanto l’adolescente senta di avere dei compiti evolutivi da svolgere. Questo significa che sente l’esigenza di dover fare, pensare o realizzare qualcosa di importante per sé, qualcosa di così significativo ed irreversibile tale da dare una svolta alla propria vita e che le dia importanza. La finalità è quella di sentire di aver fatto un salto di qualità, ma cosa accade se il processo si blocca? Se non si ha una direzione specifica, se le risorse si rivelano insufficienti e se l’angoscia diventa opprimente? Trovare la propria strada può diventare un compito difficile e accidentato.

Spesso, infatti, gli adolescenti sentono su di sè lo sguardo di ritorno colmo di domande in merito alla propria identità e valore e sentono la pressante richiesta sociale in merito alla necessità di sbrigarsi nel capire chi siano, quale siano i loro talenti e che si assumano responsabilità. Ma se dentro di sé esiste l’ipotesi e la paura di non essere altro che quel ragazzo annoiato, violento, “addormentato” allora il dolore non può che aumentare soprattutto nel momento in cui si prende consapevolezza che tutte queste voci, che si pensava provenissero dall’esterno, nascono in realtà dall’interno.

E allora noi andavamo lenti perché pensavamo che la vita funzionasse così, che bastava strappare lungo i bordi, piano piano, seguire la linea tratteggiata di ciò a cui eravamo destinati e tutto avrebbe preso la forma che doveva avere. Perché c’avevamo diciassette anni e tutto il tempo del mondo.

Se l’adulto nevrotico soffre per il “passato” e le ferite che esso ha comportato, l’adolescente spesso soffre a causa della mancanza di futuro e per il lutto di quella promessa non mantenuta. E qui “strappare lungo i bordi non è più possibile: bisogna fare il lutto di quella promessa, di quel futuro immaginato che non può più realizzarsi, di quel sé futuro non raggiungibile. Crescere significa allora costruire la propria linea tratteggiata, essere pronti ad aggiustarla quando le cose non vanno come desiderate e immaginarsene una nuova, magari non proprio identica a quella idealizzata. E forse quell’ideale dell’Io promosso dai genitori, dall’ambiente e da se stessi non può funzionare, quella sagoma deve essere personale, nuova, creativa. Qui può trovare spazio il desiderio, la speranza per la costruzione di sé, non solo intrisa di aspettative, ma frutto di un percorso personale e intimo a volte accidentato.

Zerocalcare parla anche della paura di crescere e dell’errore, quindi dello scacco evolutivo in cui i ragazzi a volte si trovano. Capita infatti che i ragazzi si ritirino, che decidano di non partecipare più alla vita, né scolastica né sociale/relazionale.

Per un sacco di tempo ho pensato che se non strappavo più un cazzo, se tenevo tutte le bocce ferme immobili, almeno non facevo altri danni.

Ma si tratta di una chimera: il tempo scorrerà lo stesso e la vita con esso infatti:

pure se non lo strappi quello si ciancica.

È un processo che non si può arrestare. Fare e non fare sono comunque due azioni, sono scelte che porteranno a delle conseguenze; il tempo scorre e subentra la consapevolezza della morte. Emerge così un forte dolore e la sensazione di inadeguatezza, della paura di presentarsi al mondo e dell’entrata nel mondo degli adulti cupi, grigi e privi di speranza o spessore.

Personaggio chiave e controverso è Secco, l’amico che tutti dovremmo avere. A prima vista sembra superficiale, ma quel gelato che offre come panacea di tutti i mali può forse rappresentare la cura dell’amico, la sua vicinanza e sintonizzazione silenziosa. Quello che propone non è solo passare oltre il dolore, ma introdurre un elemento consolatorio. Secco si dimostra l’amico sempre presente, forse afflitto anche lui dell’assenza di un posto nel mondo e di un futuro, si barcamena nell’oggi e offre una spalla a chi gliela chiede. Secco gioca a poker, scommette sul fatto che le cose andranno bene, in qualche modo scommette sul futuro, pensa che potranno capitargli buone carte e allora riscattarsi. Amico silenzioso e riservato conosce i pensieri e i segreti di tutti: davanti al gelato gli amici si aprono, forse in qualche modo si sentono consolati e accettati; senza pressioni ci si confida. Secco non offre solo l’oggetto, ma l’occasione dell’esperienza della condivisione.

L’uscita dall’adolescenza e l’entrata nel mondo degli adulti è rappresentata come un percorso tragicomico in cui leggerezza e profondità si mescolano. La morte, silenzioso filo conduttore che attraversa gli episodi, compare prepotentemente con tutto il suo dolore solo alla fine (non tratterò in questo articolo il tema del suicidio perché merita una riflessione a parte). La morte, simbolo e metafora del lutto per ciò che non è più possibile, lascia cicatrici visibili ed eterne e al tempo stesso lascia spazio per la guarigione della ferita (forse anche di quella narcisistica) che consente di proseguire il percorso senza dimenticare.

Dott.ssa Debora Tonello

Psicologa – Psicoterapeuta

 

BIBLIOGRAFIA

Lancini M., Cirillo L., Scodeggio T., Zanella T. L’adolescente. Psicopatologia e psicoterapia evolutiva. Raffaello Cortina editore 2020
Pietropolli Charmet G. Fragile e spavaldo. Ritratto dell’adolescente di oggi. Editori Laterza 2008.
Pietropolli Charmet G., Bignamini S., Comazzi D. Psicoterapia evolutiva dell’adolescente. FrancoAngeli 201
S. Freud, Totem e tabù e altri scritti 1912-1914, OSF, Torino, Bollati Boringhieri, 2000
Winnicott D. W. (1960). Sviluppo affettivo e ambiente. Armando: Roma.
Winnicott D. W. (1975). Dalla pediatria alla psicoanalisi. Feltrinelli: Firenze
Zerocalcare. Strappare lungo i bordi

Cambiamento climatico e ansia

Eco-ansia. È con questo termine che ci si riferisce alla sintomatologia ansiosa sperimentata in risposta al cambiamento climatico. Negli ultimi anni i media hanno puntato i riflettori sugli effetti del riscaldamento globale indotto dalla condotta dell’uomo sul pianeta. E tali effetti sono osservabili: aumento delle temperature, cambiamento delle rotte dei venti e della distribuzione delle piogge, estinzione di alcune specie animali, difficoltà negli approvvigionamenti di cibo, distruzione di ecosistemi e, in un futuro non troppo lontano, migrazioni climatiche.

L’incremento della consapevolezza circa il cambiamento climatico, dunque, unito alla preoccupazione per il futuro e al senso di impotenza costruisce le basi per l’eco-ansia. Essa può essere caratterizzata anche da paura e panico, rabbia, sensazione di svuotamento, stanchezza, senso di colpa, fino a includere disperazione e vere e proprie fobie.

Alcuni autori considerano l’eco-ansia una specie di disturbo pre-traumatico da stress, poiché le conseguenze dell’evento traumatico vengono sperimentate ancor prima che se ne abbia esperienza diretta.

Il malessere connesso al cambiamento climatico include anche il lutto ecologico, riferito alla perdita di ecosistemi, paesaggi, abitudini, etc. e la solastalgia intesa, quest’ultima, come la sofferenza che ci pervade quando l’ambiente che ci circonda viene violato.

Bambini e adolescenti sono maggiormente esposti a questo genere di disturbi e questo perché, a differenza delle generazioni precedenti, sono cresciuti in un contesto in cui lo spettro del cambiamento climatico è costantemente in agguato e, sotto questo punto di vista, non si sono mai sentiti protetti e al sicuro. Inoltre è possibile che gli effetti del riscaldamento globale influiscano sullo sviluppo già dal concepimento.

Non è un caso che gli scioperi per il clima (es.: Fridays for Future) coinvolgano proprio i più giovani: sono loro a sentire maggiormente il peso e l’ineluttabilità dei cambiamenti climatici ed è a loro che bisogna guardare per la costruzione di buone prassi collettive che li vedano protagonisti.

Ma come si può gestire l’eco-ansia? Si tratta di un ambito di ricerca del tutto nuovo, perciò non è possibile identificare strumenti indubbiamente efficaci nel trattamento di questo malessere del Ventunesimo secolo. Chi se ne occupa, però, lo fa agendo su due fronti:

individuale, offrendo la possibilità, a chi chiede aiuto, di riscoprire le proprie risorse personali mettendole al servizio dei valori che intende perseguire, limitando la tendenza a catastrofizzare e riscoprendo le sfumature di un mondo che non è solo in bianco e nero grazie anche a pratiche di mindfulness e gratitudine oltreché all’instaurazione di routine salutari;
collettivo, mettendo in contatto individui con bisogni simili, promuovendo programmi di educazione ambientale e incentivando azioni di gruppo volte alla salvaguardia del pianeta.

L’eco-ansia, il lutto ecologico e la solastalgia, pur procurando sofferenza e disagio, possono in fin dei conti rappresentare anche un importante motore per il passaggio all’azione. Le istituzioni e i professionisti devono perciò mettersi al servizio di questo malessere che, di fatto, è connesso a un bisogno fondamentale: prendersi cura del pianeta per sopravvivere!

 

Dott.ssa Arianna Calabrese
Psicologa- Psicoterapeuta

Riferimenti bibliografici

Baudon, P., & Jachens, L. (2021). A Scoping Review of Interventions for the Treatment of Eco-Anxiety. International journal of environmental research and public health, 18(18), 9636.
Benoit, L., Thomas, I., & Martin, A. (2021). Review: Ecological awareness, anxiety, and actions among youth and their parents – a qualitative study of newspaper narratives. Child and adolescent mental health, 10.1111/camh.12514.
Comtesse, H., Ertl, V., Hengst, S., Rosner, R., & Smid, G. E. (2021). Ecological Grief as a Response to Environmental Change: A Mental Health Risk or Functional Response?. International journal of environmental research and public health, 18(2), 734.
Gislason, M. K., Kennedy, A. M., & Witham, S. M. (2021). The Interplay between Social and Ecological Determinants of Mental Health for Children and Youth in the Climate Crisis. International journal of environmental research and public health, 18(9), 4573.

Psicologia positiva e comunicazione non violenta (CNV)

 

Ciao Io sono il lupo e sono il simbolo della comunicazione violenta, quella comunicazione che giudica, paragona, valuta, e usa tutto ciò che rende la comunicazione pesante, difficile. Quando ho le orecchie rivolte verso l’altro lo sto giudicando, svalutando ecc. Quando ho le orecchie rivolte indietro lo sto facendo con me stesso.

 

 

Ciao io sono la giraffa e sono il simbolo della comunicazione non violenta, perché sono Il mammifero terrestre con il cuore più grande e con il mio lungo collo posso avere una visuale più ampia. Con la comunicazione non violenta si è più capaci di comunicare, di gestire i conflitti e di empatizzare con sé e gli altri. L’empatia è la base della comunicazione non violenta. Quando ho le orecchie rivolte verso l’altro sto cercando di capire i suoi bisogni e motivazioni ecc. Quando ho le orecchie rivolte indietro lo sto facendo con me stessa.

 

Questi due simboli sono stati scelti fin dal 1960 da Rosenberg per insegnare alle persone, ai gruppi di lavoro, scolastici e alle famiglie come comunicare senza giudizi e in modo efficace. Senza giudizi la comunicazione non si chiude, ma si apre, perché si impara a comunicare i bisogni in maniera non violenta.
Durante la comunicazione violenta si entra in un sistema comportamentale agonistico in cui c’è un aggressore e una persona che viene aggredita. Di fronte ad un’aggressione la mente può scegliere tra tre comportamenti: aggredire a sua volta, difendersi anche attraverso la fuga, oppure bloccarsi, non riuscire né a contrattaccare, né a sottrarsi.
Il nostro cervello funziona in modo per cui più intensa è l’emozione più le capacità di pensiero e associative vengono bloccate. Questo comportamento è importante perché l’obiettivo è quello di far sopravvivere la persona.

Facciamo un esempio: se io mi trovo nella giungla e compare una tigre non devo trovarmi a pensare quanto è bella la tigre, che belli che sono i colori del suo mantello e altre cose su di lei, questa capacità di pensiero si deve spegnere in favore della mia capacità di sopravvivere e quindi devo provare intensa paura e di conseguenza scappare.
Tutte le volte in cui durante una comunicazione le emozioni che passano sono intense la capacità della neocorteccia di far funzionare le aree riflessive e associative viene compromessa, di conseguenza la persona non pone più la sua attenzione sul contenuto della comunicazione ma sulla modalità con cui la cosa viene comunicata e se questa modalità viene percepita come un’aggressione non penserà al contenuto che le viene comunicato ma ad un modo per potersi sottrarre all’aggressione.
Se invece utilizzo la comunicazione non violenta posso far sapere al mio interlocutore che sono arrabbiato, i motivi per cui lo sono e che cosa vorrei invece che accadesse di diverso. In questo modo l’emozione non sarà intensa e non comprometterà il funzionamento delle aree associative del cervello, diventerà quindi possibile confrontarsi su quello che sta accadendo e sul contenuto della comunicazione.
La CNV oltre a favorire una comunicazione interpersonale efficace permette di sviluppare empatia.
Nel momento in cui si comincia ad utilizzare la CNV si abbassano i livelli di aggressività, la comunicazione diventa più rilassata e c’è un maggior benessere percepito.
Rosenberg, dopo aver studiato con Carl Rogers il creatore della psicologia umanistica, ha creato un protocollo semplice composto da 4 fasi per poter parlare in modo non violento.
Le fasi sono: osservazione, sentimento, bisogno e richiesta.
Spesso le comunicazioni interpersonali non funzionano, diceva Rosenberg, perché cerchiamo soluzioni e facciamo richieste saltando la connessione con l’emozionante e i bisogni.
Questo fa sì che le persone non si sentano viste e riconosciute nel loro sentire e nei loro bisogni.
Con la CNV si impara prima di tutto a osservare, descrivere e riportare cosa è successo, successivamente a riconoscere le proprie emozioni e i propri bisogni, ed infine a fare richieste e trovare soluzioni congrue ad essi.

La CNV si inserisce all’interno della psicologia positiva che ha come suo obiettivo principale la promozione della salute attraverso due percorsi. Il primo lo fa a livello individuale promuovendo lo sviluppo e il rafforzamento dei punti di forza individuali come: l’ottimismo, la speranza, la resilienza, il coraggio, il senso di autoefficacia, la perseveranza, la competenza, l’empatia, il perdono e la saggezza, che costituiscono un “capitale psicologico”, che aiuta ad accrescere il proprio benessere. Il secondo a livello sociale promuovendo relazioni interpersonali caratterizzate da cooperazione, partecipazione attiva, senso di appartenenza.

Partendo dal presupposto che il potenziamento del benessere e il suo mantenimento nella varie fasi della vita, possa rivelarsi più efficace se è oggetto di interventi mirati partendo dall’infanzia, abbiamo ideato creato un libro, che stimolerà lavoro individuale e di gruppo su due abilità molto importanti nelle relazioni interpersonali: litigare in modo costruttivo e saper perdonare.

Per fare questo useremo una semplice storia che vede come protagonisti Volpino Martino, i suoi amici e due litiganti.

Applicando le fasi della comunicazione non violenta (CNV) e del perdono Martino e i suoi amici creeranno il circolo del pensiero in grado di favorire la comunicazione e la condivisione delle emozioni, delle difficoltà e delle soluzioni, fino ad utilizzare lo strumento del perdono per riparare le ferite emotive e lasciarle nel passato.

Qualunque sia la tua età: bambino o adulto, qualunque sia il tuo ruolo: genitore, educatore, insegnante, o lettore, questo libro ti prenderà per mano per aiutarti, divertendoti, ad acquisire gli strumenti necessari a comunicare in modo efficace e a perdonare.

Scopri di più su Le avventure di Volpino Martino e dei suoi amici nel bosco Fan Fan. Strumenti per imparare a litigare e perdonare.

 

Dr..sa Luigina Pugno

Vaccini: il contributo della psicologia del rischio

“…é lecito esporre un uomo a minor pericolo di morire, per salvarlo da un altro senza paragone maggiore? Niun dirà, cred’io di no; troppo sarebbe irragionevole”     

Genovesi, 1765

 

Da qualche mese assistiamo ad un dibattito sempre più acceso tra “si vax” e “no vax”. I rappresentanti delle due posizioni si incontrano, sempre più spesso si scontrano, quasi mai si capiscono.

Il risultato è che il dibattito diventa qualcosa di più simile a quello tra tifoserie.

Consapevoli che non è possibile esaurire nello spazio di un articolo un problema così complesso, vogliamo cercare di capire quali sono alcuni degli aspetti psicologici che sostengono la diffidenza e sfiducia, fino ad una vera e propria fobia, nei confronti dei vaccini.

I primi movimenti di scetticismo/ostilità nei confronti dei vaccini sono sorti già ad inizio ‘800, pochi anni dopo la loro scoperta. Questo avveniva prima dei Big Pharma, quando la realizzazione dei vaccini prevedeva anni di studi e sperimentazioni, prima dell’esistenza dei social network, quando il termine autismo ancora nemmeno esisteva. Questo ci può forse far ipotizzare che ci siano delle resistenze che esulano dal contesto specifico e fanno riferimento a variabili più emotive e cognitive.

Come spesso accade come reazione di fronte ad un rischio temuto, insorge forte il bisogno di una normalizzazione, di ritrovare sicurezze che si temevano perdute. Questo in parte spiega la radicalizzazione di certe opinioni: se da un lato c’è chi invoca il vaccino come strumento per poter ripartire in “totale” sicurezza, dall’altro c’è chi, proprio in reazione al senso di smarrimento ed insicurezza, attiva procedimenti cognitivi che, se da un lato rassicurano, semplificando la realtà dall’altro possono condurre a conclusioni fallaci, fino a chi a forza di doversi difendere da un nemico microscopico, finisce per vedere nemici dappertutto.

L’atteggiamento critico nei confronti dei vaccini si dispone su un continuum di intensità che va da posizioni più radicali ed assolute ad altre non necessariamente contrarie ai vaccini in sé, ma più dubbiose e preoccupate. Diverse quindi sono le posizioni rispetto ai vaccini così come diverse sono i possibili processi psicologici e sociali che ne stanno alla base. La psicologia del rischio ha evidenziato come, quando dobbiamo prendere decisioni percepite come rischiose, tendiamo a farlo non sempre su base razionale, ma su processi più automatici che semplificano la realtà; questo ci porta involontariamente a sovrastimare il rischio di alcuni comportamenti (prendere un aereo) e a sottostimarne altri (fumare). Non sempre alla fine fa più paura quello che è realmente più rischioso.

Sono proprio questi bias cognitivi che possono portare a ritenere più pericoloso un evento nuovo, che conosciamo poco, rispetto ad uno, magari statisticamente più rischioso, ma al quale siamo già abituati o a ritenere meno tollerabili rischi derivanti da una azione volontaria, quale il vaccinarsi ad esempio, piuttosto che quelli dovuti a un evento casuale o ancora dalla conseguenza di una mancata azione, quali ad esempio l’insorgere di una malattia o rischi legati al non essersi vaccinati. Un po’ come se ci fosse il pensiero di fondo di “essersela andata a cercare” che altera la valutazione oggettiva del rischio.

Altro bias cognitivo che influenza la percezione dei rischi è quello sintetizzato dalla locuzione “post hoc, ergo propter hoc”, che porta a confondere la causalità con la consequenzialità temporale, ovvero che tende a considerare un evento accaduto dopo un altro come sicuramente ed inevitabilmente da questo causato. Anche il cosiddetto effetto Dunning-Kruger porta ad una distorsione cognitiva, inducendo, almeno in un primo momento, a sovrastimare le proprie conoscenze in modo inversamente proporzionale alle reali competenze. Nel momento quindi in cui, “da profano” mi accosto ad un certo argomento, posso sopravvalutare la mia competenza, sottovalutando quella di studiosi più esperti e non riuscendo correttamente a discernere la validità effettiva delle fonti da cui traggo informazioni.

Si aggiungono variabili sociali e di personalità. Hornsey et al. fanno riferimento ad “attitudini profonde” inconsapevoli che sostengono atteggiamenti di ostilità e scetticismo nei confronti di evidenze scientifiche. Non può essere infatti, secondo gli autori, solo la mancanza di informazioni o una non corretta elaborazione di queste, che può determinare una tale resistenza ad assimilare e comprendere messaggi evidence based.

Sono state evidenziate persistenti credenze in teorie cospirative o complottiste, una tendenza individuale ad immaginare che vi siano reti di interessi che, per trarre benefici propri, sono disposti a creare danni, scatenare epidemie, manipolare le informazioni, mantenere soggiogata la popolazione generale. A questo si lega una tendenza ad avere sfiducia nelle istituzioni sanitarie e scientifiche e contemporaneamente un elevato livello di reattanza psicologica. Con questo si intende la resistenza a eseguire ordini che provengono sia da persone vicine che da organismi che possano esercitare una qualunque forma di controllo o norma, anche a scapito del proprio stesso interesse.

Si viene quindi a creare una narrazione di sé e del gruppo a cui si sente di appartenere, come detentore di un pensiero libero, indipendente anticonformista, non manipolato né manipolabile. Questa modalità di pensiero sostiene una certa tendenza all’individualismo, ovvero a ritenere che sia preferibile prendere decisioni per se stessi e che qualunque provvedimento derivi da un governo o da altra autorità sia eccessivamente intrusiva ed errata. Si collega a questo il pensiero di non poter essere efficacemente coinvolti nel percorso di cura, né essere parte di un contesto più ampio in cui essere attori di prevenzione e tutela della comunità.

Gli autori si riferiscono poi ad aspetti riconducibili a tematiche ansiose e inerenti al controllo. La fobia o anche solo il timore nei confronti di aghi, ospedali o sangue può determinare strategie di evitamento tra cui potrebbe esserci un atteggiamento contrario al vaccino. Va aggiunto anche che, nel caso specifico, i vaccini possono generare un’opposizione ancor più forte sia perché implicano letteralmente una penetrazione forzata nel corpo che perché possono attivare fantasie di contaminazione con l’idea che si “introduca” una malattia in un corpo sano.

Queste considerazioni portano a ritenere che un approccio simmetrico, intransigente nei confronti dei cosiddetti “no vax”, non solo non permette un confronto né un’azione trasformativa, ma anzi attiva meccanismi di reattanza, sostenendo la credenza di essere parte di una piccola nicchia di persone che coltivano il libero pensiero e incrementando tematiche ansiose e vissuti di isolamento.

Al contrario l’ascolto empatico di quelle che possono essere le motivazioni profonde che sostengono atteggiamenti più rigidamente avversi ai vaccini può aiutare sia la comunicazione che le relazioni, contribuendo poi, salvo contesti più francamente patologici, a limitare atteggiamenti più inflessibili e intransigenti.

Lo stesso può accadere anche in riferimento a coloro che hanno profondamente creduto nei vaccini come opportunità per uscire dalla fase di incertezza e isolamento scatenate dalla pandemia. L’atteggiamento favorevole al vaccino, può essere sì in linea con il sapere scientifico, ma talvolta fondare le radici in credenze non necessariamente logiche e razionali. Può essere primariamente una risposta all’ansia derivante dalla possibilità di ammalarsi e in generale dal bisogno di controllo e sicurezza. Anche in questo caso ci si trova di fronte a credenze immodificabili, che mal si adattano ad esempio al cambiamento di direzione dato dall’indicazione alla terza dose che potrebbe davvero “far crollare le certezze” che si avevano finora.

Vediamo quindi come ogniqualvolta ci troviamo di fronte a pensieri o comportamenti rigidi e pervasivi, di qualunque natura e direzione, può valere la pena domandarsi se derivano da bias cognitivi o da paure irrazionali che ci condizionano e guidano ed eventualmente rivolgerci ad uno psicoterapeuta che ci può aiutare ad affrontarli. Perché alcune volte è il nostro stesso inconscio che ci influenza più di qualunque possibile “dittatura sanitaria”.

Dott.ssa Chiara Delia – Psicologa Psicoterapeuta

Biografia

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La gratitudine per fronteggiare le insidie della vita

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Il dizionario Treccani definisce la gratitudine come un sentimento che comporta affetto verso chi ci ha fatto del bene, ricordo del beneficio ricevuto e desiderio di poterlo ricambiare. Le ricerche focalizzate sul benessere psicologico considerano però che tale disposizione d’animo non sia rivolta esclusivamente alla riconoscenza verso l’altro ma che riguardi anche l’abitudine di rivolgere il proprio sguardo alle piccole cose belle della vita.

La gratitudine può dunque essere considerata un’emozione quando implica uno stato temporaneo nei confronti di situazioni/risultati in cui il successo sperimentato è vissuto come non dipendente da noi, ad esempio la vicinanza di una persona amata o l’apprezzamento di un gesto altruistico nei nostri confronti. Essa rappresenta invece un tratto di personalità più stabile quando fa riferimento alla predisposizione a notare “il lato positivo”.

In quest’ultima accezione, assume una certa rilevanza se connessa al concetto di resilienza, in quanto la tendenza alla gratitudine potrebbe rappresentare un punto di forza nel fronteggiamento di eventi di vita avversi e in ultima istanza un fattore protettivo rispetto alla vulnerabilità a patologie mentali.

Studi di neuroimmagine hanno portato a descrivere la gratitudine come un fenomeno determinato dalla collaborazione di più aree cerebrali coinvolte in riconoscimento, interpretazione, valutazione e risposta a stimoli emozionali o cognitivi, sia interni che esterni. Alcuni autori hanno poi osservato come esercizi di gratitudine modifichino l’attivazione del circuito della ricompensa.

Date queste premesse, negli ultimi anni molte ricerche si sono focalizzate sull’analisi dei benefici apportati da percorsi focalizzati sulla gratitudine in popolazioni cliniche e non.

Alcuni studi hanno dimostrato l’efficacia di interventi basati sulla gratitudine in individui a rischio suicidario e in pazienti oncologici nella riduzione della sintomatologia ansiosa e depressiva. Altri si sono concentrati sugli effetti di questi training nella popolazione generale. Sebbene la ricerca in questo ambito sia ancora a uno stato embrionale, i primi risultati appaiono promettenti.

Allenarsi alla gratitudine può, come si diceva prima, potenziare la capacità di affrontare piccole e grandi sfide ampliando le risorse psicologiche e sociali, riducendo i livelli di attivazione fisiologica e di ansia, incrementando la fiducia in se stessi e la sensazione di ”potercela fare” (autoefficacia percepita). In caso di insuccesso, può inoltre offrire la possibilità di normalizzare l’accaduto, lasciando poco spazio a distorsioni cognitive come la catastrofizzazione (“Non ne uscirò mai più!”) o il pensiero tutto-o-nulla (“Ho commesso un errore, sono un fallito!”).

Ma come allenarsi ad essere grati, dunque?

La strategia più nota riguarda la compilazione giornaliera di un diario della gratitudine in cui annotare, a fine giornata, da 3 a 5 cose per cui ci si sente grati in quel giorno. Inizialmente potrebbe apparire artificioso, ma concedersi il tempo di osservare le piccole cose belle quotidiane offre la possibilità di notare con sempre maggiore naturalezza (grazie all’allenamento!) come, affianco ai problemi e agli impegni giornalieri, trovino spazio anche piccoli momenti di gioia che spesso diamo per scontati (fare colazione con i nostri biscotti preferiti, incontrare un autista che vedendoci correre incontro all’autobus, decide di attenderci prima di ripartire, etc.). La nostra testa è allenata a scovare problemi, individuare soluzioni e garantirci così la sopravvivenza, ma affiancare al problem solving momenti di gratitudine potrebbe alleggerire la nostra quota di stress.

Un altro strumento per allenare la gratitudine è quello della lettera a un proprio caro. Si tratta di concedersi dieci-quindici minuti per scrivere a qualcuno le ragioni per cui gli siamo riconoscenti. Decidere di consegnare la lettera potrebbe implicare un rischio perché non è detto che le aspettative che inevitabilmente si creano rispetto a questa condivisione verranno soddisfatte ed è per questo che il diario rappresenta la scelta più popolare quando si tratta di esercizi di gratitudine.

Il “training di gratitudine” presenta però anche delle controindicazioni: in alcune popolazioni non appare efficace (es.: in individui che abbiano una dipendenza dall’alcol) ed è stato descritto come, specie in una fase iniziale, potrebbe indurre le persone a sperimentare sentimenti di colpa e vergogna e a sentirsi in debito nei confronti di ciò o di coloro verso i quali sono grati. Nonostante questo, allenarsi a riconoscere le piccole “grazie” quotidiane potrebbe avere ricadute positive sul benessere psicologico e sociale, sulla gestione di emozioni, pensieri ed eventi negativi e sull’abilità di coltivare i valori su cui si intende basare la propria vita.

Dr,ssa Arianna Calabrese

Bibliografia e sitografia

  • https://www.treccani.it
  • Cunha, L.F., Pellanda, L.C., Reppold, C.T. (2019) Positive Psychology and Gratitude Interventions: A Randomized Clinical Trial. Frontiers in Psychology. 21, 10:584.
  • Davis, D.E., Choe, E., Meyers, J., Wade, N., Varjas, K., Gifford, A., Quinn, A., Hook, J.N., Van Tongeren, D.R., Griffin, B.J., Worthington, E.L. (2016). Thankful for the little things: A meta-analysis of gratitude interventions. Journal of Counseling Psychology. 63(1), 20-31.
  • Ducasse, D., Dassa, D., Courtet, P., Brand-Arpon, V., Walter, A., Guillaume, S., Jaussent, I., Olié, E. (2019). Gratitude diary for the management of suicidal inpatients: A randomized controlled trial. Depression and Anxiety, 36(5), 400-411.
  • Harris, R. (2011). Act made simple. (Miselli, G., Zucchi, G., trans.) Oakland: New Harbinger Publications (original work published in 2009).
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  • Tala, A. (2019). Thanks for everything: a review on gratitude from neurobiology to clinic. Revista Médica de Chile. 147(6), 755-761.

LA RIBELLIONE DEL COSTUME

Le proteste delle atlete olimpioniche norvegesi che si sono opposte ad indossare divise succinte durante la competizione di Handball e la scelta di una tuta lunga da parte delle ginnaste tedesche mi hanno permesso di approfondire alcuni temi, come ad esempio: la storia delle donne alle Olimpiadi; la storia dell’abbigliamento sportivo attraverso i secoli; i regolamenti circa le divise sportive; il body shaming nello sport; il drop-out sportivo in adolescenza.

Com’è noto, le Olimpiadi antiche (svolte dal 776 a.C. al 393 d.C.) così come quelle moderne (dal 1896 ad oggi) sono state e sono la cartina al tornasole del costume della società del tempo. Con il termine costume ci si riferisce al modo consueto di agire, di pensare, di comportarsi di una persona; pertanto i giochi olimpici hanno risentito della cultura del secolo in cui si sono disputati, sono stati teatro di avvenimenti simbolici che hanno fornito occasione di riflessione, confronto e cambiamento.

In origine le donne non potevano partecipare alle Olimpiadi, nemmeno come spettatrici, pena la morte. Si deve allo scrittore Pausania il Periegeta la prima documentazione di una gara femminile, infatti nel VI secolo a.C. si era tenuta la prima edizione dei Giochi Ereidi, ovvero gare di atletica femminile. Generalmente gli uomini gareggiavano nudi, le donne indossavano il chitone, cioè una tunica lunga fino al ginocchio che lasciava scoperti la spalla ed il seno destro. Questo era un abito maschile usato o durante l’estate o per svolgere lavori di fatica. Solo le donne spartane erano incoraggiate ad essere atlete, poichè si riteneva che donne forti avrebbero generato uomini forti, si trattava di ragazze nubili che gareggiavano nude e agli uomini era consentito assistere.

Il barone Pierre de Coubertin è riconosciuto come il padre delle Olimpiadi moderne, ma si deve al lavoro e alla tenacia di Alice Milliat l’apertura delle Olimpiadi alle donne. Sebbene già nel 1900 alcune donne avessero partecipato alle Olimpiadi in maniera non ufficiale per tennis, croquet e vela, e nel 1912 in gare di tiro con l’arco, pattinaggio, vela, tennis e competizioni con imbarcazioni a motore, fu necessario attendere il 1920 affinché potessero gareggiare in maniera ufficiale. Nel 1922 Milliat inaugurò l’Olimpiade delle donne, ella fu la prima a dire a gran voce che lo sport aveva benefici psico-fisici, aiutava a prendere coraggio e coscienza del proprio corpo: pensiero assai innovativo per l’epoca in cui le donne erano escluse dalla vita politica, erano ritenute incapaci di agire secondo ragione, erano sottoposte alla potestà del marito e non godevano degli stessi diritti degli uomini né in famiglia nè all’interno della società. A inizio ‘900, le donne che praticavano sport erano considerate delle fanatiche e delle selvagge, a volte “malate di mente”; e lo stesso barone sbeffeggiava la presenza femminile e ridicolizzava il lavoro di Milliat, le Coubertin dichiarava: “La partecipazione femminile sarebbe poco pratica, priva di interesse, scorretta e antiestetica”. Il vero cambiamento avvenne tra il 1926 e il 1936 quando finalmente si aggiunsero gare femminili per le principali discipline olimpiche.

All’epoca non esisteva un adeguato abbigliamento sportivo femminile e per non dar adito a maldicenze e per non suscitare “scandali”, le donne erano costrette ad indossare vestiti lunghi, con maniche lunghe e collo alto, e gonne ingombranti: erano tenute a mantenere il decoro, era impensabile vedere i loro capelli spettinati, il viso arrossato ed era ritenuto scandaloso il corpo che compiva gesti atletici. Gli uomini, invece, indossavano maglie in cotone e shorts.

A cavallo tra gli anni ’20 e ’30 iniziò il connubio tra moda e sport, nomi come Elsa Schiaparelli e Coco Chanel, che introdusse la moda à la garçonne, contribuirono a rendere l’abbigliamento sportivo femminile più adatto alla pratica; e la tennista Suzanne Lenglen, per prima, si presentò in campo con una gonna leggera sopra il polpaccio, destando scalpore. Le Olimpiadi del 1936 introdussero un abbigliamento sportivo più casual: si iniziano a utilizzare tessuti traspiranti e jersey, tute, top e canotte diventano i capi più utilizzati.

Leggendo il IX Regolamento di Gioco redatto dalla International Handball Federation del 2014 nella sezione dedicata alle divise si legge: “Le uniformi e gli accessori contribuiscono ad aiutare gli atleti a migliorare le proprie prestazioni e a rimanere coerenti con l’immagine accattivante dello sportivo e dello sport”; e poi: “[…]La Canotta degli uomini deve essere senza maniche, attillata e rispettare lo spazio per le stampature richieste. Il Top delle donne (un costume da bagno modello 2 pezzi) deve essere molto aderente, con profonda apertura giromanica sul retro, sempre però rispettando lo spazio per le stampature richieste. Non sono consentite T-shirt da indossare sotto La Canotta o Top ufficiale della squadra”.

Facendo riferimento al dizionario della Treccani ecco il significato di alcune parole:

Accattivante: Attraente, che suscita interesse e simpatia

Attraente: Seducente

Sport: Attività intesa a sviluppare le capacità fisiche e insieme psichiche, e il complesso degli esercizi e delle manifestazioni, soprattutto agonistiche, in cui tale attività si realizza, praticati nel rispetto di regole codificate da appositi enti, sia per spirito competitivo (accompagnandosi o differenziandosi, così, dal gioco in senso proprio), sia, fin dalle origini, per divertimento, senza quindi il carattere di necessità, di obbligo, proprio di ogni attività lavorativa

L’azione delle atlete norvegesi quindi va a muovere un tassello importante che pone l’accento sullo sport e non sulla sessualizzazione del corpo, la loro scelta infatti non ha penalizzato la praticità, ma forse l’ha promossa permettendo alle atlete di sentirsi a proprio agio.

Anche il ritiro della nuotatrice M. Groves, per denunciare gli atteggiamenti e le azioni indiscrete e abusanti di cui è stata vittima, è stato un altro passo importante che ha messo in luce quanto possa essere complessa, anche sotto questo punto di vista, la vita delle atlete.

Le condizioni sopra descritte possono contribuire all’oggettivizzazione sessuale della donna. Con questo termine, coniato da I. Kant, ci si riferisce al considerare una persona solo come mezzo di soddisfacimento del piacere sessuale di un altro soggetto. Fredrikson e Roberts nel 1977 introdussero la “Teoria dell’oggettivazione sessuale” in ambito psicologico e ne discussero le conseguenze.

Una recente ricerca ha evidenziato che il 24% dei commenti sui social riferito ad un’atleta donna è inerente al suo aspetto fisico piuttosto che alla performance, mentre per gli uomini il 9%.

Il body shaming, cioè la derisione per l’aspetto fisico, è oggi un tema scottante soprattutto tra gli adolescenti. Da una recente ricerca, condotta da Nutrimente Onlus, è emerso che il 94% delle ragazze, riferisce di essere stata vittima di tale fenomeno, ed il 65% dei ragazzi di essere stato umiliato pubblicamente per la stessa ragione.

Questo è un tassello importante che porta al tema del drop-out sportivo, soprattutto femminile, in adolescenza. Infatti il 40% degli adolescenti di età compresa tra i 13 e 14 anni non pratica nessuna attività sportiva ed il 57% sono ragazze.

L’adolescenza è un periodo di trasformazione fisica e mentale, spesso ci si trova a contatto con un corpo nuovo, che cambia e si trasforma, talvolta in modo imprevedibile. Può succedere che gli adolescenti sentano la necessità di mascherare questi cambiamenti, anche solo temporaneamente come per prenderne confidenza, talvolta però il disagio può trasformarsi in una sofferenza importante che può richiedere un percorso psicoterapeutico. Quindi, a volte, fare sport e indossare indumenti troppo aderenti o con i quali non ci si sente a proprio agio può essere uno dei fattori che fa allontanare dall’attività.

Inoltre, i potenti stereotipi culturali in merito alla bellezza promossi dai media, e non solo, penalizzano i fisici delle agoniste promuovendo invece un’estetica vittoriana.

Le ginnaste olimpioniche tedesche, decidendo di indossare divise dai pantaloni lunghi (detti accademici), hanno ribadito un importante messaggio, già lanciato in precedenza da altre ginnaste, per ribellarsi alla sessualizzazione dei corpi delle atlete; oltretutto questa scelta le tutela da eventuali spiacevoli incidenti che potrebbero causare loro imbarazzo, dal momento aggiustare il body durante la gara comporta delle penalità. La promozione di un abbigliamento che faccia sentire a proprio agio ha anche l’obiettivo di avvicinare le giovani alla pratica sportiva contrastando anche il fenomeno del drop-out.

Cambiare costume si può ed è responsabilità di ciascuno di noi.

Dr.ssa Debora Tonello

Bibliografia e sitografia

  • Paola Carbone (2010): L’adolescente prende corpo. Il pensiero scientifico editore.
  • Elena Riva (2009) Adolescenza e anoressia. Corpo, genere, soggetto. Raffaello Cortina Editore
  • Giuseppe Vercelli (2016). Vincere con la mente. Come si diventa campioni: lo stato della massima prestazione. Ponte alle Grazie
  • Eva Cantarella, Ettore Miraglia (2021). Le protagoniste. L’emancipazione femminile attraverso lo sport. Feltrinelli
  • Piano Nazionale per la Promozione dell’Attività Sportiva, Tangos (Tavolo Nazionale per la Promozione nello Sport) settembre 2012
  • Indagine annuale “Aspetti dela Vita Quotidiana”, Istat anni 2012 e 2011
  • Educazione Fisica e sport a scuola in Europa, Eurydice (Commissione Europea) 2013
  • nutrimente.org
  • treccani.it

 

 

 

 

 

I disturbi del desiderio sessuale

Oggigiorno, la nostra società è bombardata da un modello basato essenzialmente sull’apparenza, la bellezza, il denaro, modelli che risultano sempre più difficili da raggiungere. In ambito sessuale, l’attenzione ormai viene data principalmente alla prestazione dimenticandosi dell’origine dell’atto sessuale; il toccare, l’entrare in sintonia con l’altro, il focalizzarsi sul vissuto soggettivo del piacere. Le disfunzioni sessuali, soprattutto nelle relazioni di coppia, diventano sempre più sintomo di incomunicabilità tra i partner.

Nella vita sessuale dell’uomo, a differenza di quella degli animali, troviamo implicata tutta la sfera affettiva dell’individuo, ed è proprio questo che permette di cogliere tutta la complessità delle funzioni che vi sono alla base, cioè quelle funzioni di riproduzione e di piacere.

Si può osservare come nell’animale questi sistemi interagiscono sinergicamente tra di loro in un comportamento stereotipato e istintivo, mentre nell’uomo intervengono anche componenti psicologiche, norme sociali e culturali che andranno a influire in maniere diversa sul vissuto che l’individuo avrà della propria esperienza sessuale. La complessità dell’uomo porta inevitabilmente a un’indubbia risonanza nella dimensione patologica.

Il desiderio sessuale è l’espressione di una funzione associativa complessa; questa fase è attivata da stimoli che possono essere sia endogeni che esogeni, che non faranno altro che indurre l’individuo al comportamento sessuale. Degli stimoli endogeni, fanno parte l’immaginario erotico, le fantasie sessuali spontanee e volontarie e le emozioni. Mentre, gli stimoli esogeni sono segnali veicolati attraverso gli organi di senso che possono essere percepiti dall’individuo come attraenti.

La fase del desiderio è un processo multidimensionale, infatti sono importanti i fattori motivazionali, affettivi, cognitivi e stimoli biologici e istintuali che fanno parte del bagaglio evolutivo dell’uomo.

Quindi si può definire il desiderio sessuale come la risultante di fattori biologici, psicologici e relazionali. Rappresenta importanti significati affettivi e relazionali, come espressione di amore e passione, è un vero e proprio termometro della qualità della relazione. Il desiderio è un processo che varia lungo un continuum che parte dalla passione, all’interesse, al bisogno.

Sia negli uomini che nelle donne declina con l’età con una valenza maggiore nelle donne che va a coincidere con la menopausa. Nell’uomo continua in maniera relativamente costante dall’adolescenza alla tarda maturità per poi trovare un graduale declino.

La mancanza di interesse verso il sesso è uno dei più frequenti problemi sessuali presenti sia nel sesso maschile che in quello femminile. Recenti studi affermano come il disturbo da desiderio sessuale coinvolga maggiormente il sesso femminile. Mancanza di desiderio sessuale può essere associato anche ad altri problemi sessuali, infatti può rappresentare il sintomo principale, ma anche

 

come conseguenza del disagio emotivo derivante da altri disturbi sessuali. Individui che presentano questo disagio, possono avere problemi nella costruzione di relazioni sessuali stabili, in quanto il partner interpreta, molto spesso, la mancanza di desiderio come un disinteresse nei suoi confronti.

Tra i disturbi del desiderio troviamo:

  • Disturbo del desiderio sessuale ipoattivo;
  • Disturbo da avversione

 

Il disturbo del desiderio sessuale ipoattivo è definito come una persistente e ricorrente carenza di fantasie sessuali o recettività per l’attività sessuale, che provoca stress personale. Uno scarso desiderio sessuale può essere globale e includere tutte le forme di espressione sessuale o può essere situazionale e limitato a un partner o a un’attività sessuale specifica. Nell’individuo, si assiste a una mancanza di motivazione a cercare gli stimoli, la frustrazione diminuisce quando manca la possibilità di avvicinarsi all’esperienza sessuale. E’ importante nel lavoro clinico, prendere in considerazione la coppia infatti, lo scarso desiderio sessuale in un partner può riflettere un eccessivo bisogno di espressione sessuale da parte dell’altro partner.

Il disturbo da avversione sessuale è caratterizzato prevalentemente da avversione, evitamento attivo del contatto sessuale con un partner. I soggetti riportano ansia, timore o disgusto quando si trovano a vivere l’esperienza sessuale.

L’avversione, però, può anche essere circoscritta a un particolare aspetto dell’esperienza sessuale come ad esempio le secrezioni genitali, la penetrazione e così via. Altri riportano una repulsione generalizzata verso lo un qualsiasi stimolo sessuale come i baci, le carezze, l’intimità. In risposta a questi stimoli, l’individuo può provare un’ansia moderata con mancanza di piacere fino ad arrivare ad un’estrema sofferenza psicologica.

L’individuo che non è a suo agio con un livello più o meno elevato di desiderio, può porsi delle domande, di come ciò accada. A volte è possibile che nasca in associazione a fattori contestuali (figli, lavoro, assenza di privacy), lavorando su questi aspetti è possibile che la problematica sessuale sparisca. Se il disagio persiste è possibile che il problema abbia un’origine più profonda data dalla propria storia di vita. In alcuni casi, infine, il disagio vissuto è collegato solo apparentemente al disturbo del desiderio e che in realtà è la conseguenza della presenza di un altro disturbo sessuale, portando la persona ad evitare la sessualità per evitare le difficoltà associate.

 

Dott. Mirco Carbonetti

Psicologo Psicoterapeuta e Sessuologo clinico

 

Bibliografia:

 

APA. (American Psychiatric Association) (2014). DSM-V, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Cortina, Milano.

Boncinelli, Rossetto, Veglia (2018), Sessuologia Clinica, modelli di intervento, diagnosi e terapie integrate, Erickson.

Giddens,(1994) La trasformazione dell’intimità,Il Mulino, Milano.

Giusti, Mariani, Salerno, (2012) Terapia del desiderio. Maschile e femminile, Sovera edizioni.

Leiblum S.R., Rosen R.,(2004b). Principi e pratica di terapia sessuale. CIC Edizioni Internazionali, Roma. Master W.H., Johnson V.E.,(1987). Il sesso e i rapporti amorosi, Cortina, Milano.

Pridal C.G., LoPiccolo J.,(2004). Trattamento multimodale dei disturbi del desiderio: Integrazione della terapia cognitiva, comportamentale e sistemica. In e a cura di Graziottin A., Principi e pratica di terapia sessuale, CIC Edizioni internazionali, Roma.

Veglia F.,(2006). I disturbi sessuali, in B.Bara, Manuale di psicoterapia cognitiva, Bollati Boringhieri.

ZONA BIANCA E LIBERA USCITA: CHE APPROCCIO CON I NOSTRI RAGAZZI? Disregolazione Emotiva in adolescenza e post lock down. Facciamo il punto.

Finalmente in zona bianca, più tempo per condividere e fare, le tanto agognate vacanze si avvicinano, via alle mascherine all’aperto e…non c’è più il coprifuoco! Tutto meraviglioso, fino a quando non ti ritrovi nuovamente a discutere con tuo figlio adolescente sugli orari, sui limiti, sui comportamenti a rischio fuori casa, sul “Che palle ma’”. E ti chiedi: “Forse era meglio quando potevo controllarlo a casa, certo, stava sempre in camera e al cellulare ma almeno sapevo dov’era?”

È opinione comune, dimostrata dalle molte ricerche in merito, che la lunga chiusura forzata, dovuta alle restrizioni del lock down, abbia causato effetti devastanti su un periodo già di per sé complesso come quello adolescenziale, ma, restituire con gli interessi libertà e concessioni mai avute, sarà troppo? Esiste un labile confine tra la cura della socialità dei nostri figli ed un eccesso di permissivismo? Per non parlare dei rischi che un genitore può o meno assumersi nel corso di una crisi sanitaria tutt’altro che vicina ad un epilogo.

Quindi occorre fare un passo indietro, perché quello della gestione adolescenziale, è sempre stato un aspetto complesso, ben prima del Covid – che come sappiamo, ha acutizzato queste ed altre problematiche.

Analizziamo un attimo la situazione: l’adolescenza è una fase di vita straordinaria ma allo stesso tempo disorientante, sia per quanto riguarda il vissuto degli adolescenti, sia per il vissuto di coloro che degli adolescenti devono prendersi cura. In questa fase di costruzione identitaria (corporea, sessuale, sociale), è fondamentale per l’adolescente la possibilità di esplorare il mondo esterno e di mettersi alla prova, confrontandosi con il gruppo dei pari. L’adolescente tende a ricercare maggiore indipendenza, mettendo in discussione l’autorità genitoriale e testandone e trasgredendone, frequentemente, limiti e confini.

Sappiamo che i cambiamenti che avvengono a livello cerebrale nei primi anni dell’adolescenza predispongono alla comparsa di caratteristiche mentali specifiche come ricerca di novità, coinvolgimento sociale, maggiore intensità emotiva ed esplorazione creativa e come tutto questo possa portare a disregolazione emotiva. Di cosa si tratta?

La regolazione delle emozioni è quel processo di generazione, monitoraggio, valutazione e modifica delle reazioni emotive al fine del raggiungimento di un obiettivo (Thompson, 1994). Una regolazione delle emozioni pienamente funzionale richiede la capacità di riconoscere il significato emotivo degli stimoli percepiti, di attivare un processo regolativo e di scegliere e attuare una strategia appropriata, processo che richiede il coordinamento di processi cerebrali multipli ad alto livello, e le competenze cognitive sociali, come la capacità di comprendere e considerare il punto di vista dell’altro e dove anche il ruolo genitoriale gioca un ruolo fondamentale (Sheppes et al., 2015).

Su quest’ultimo fondamentale punto, si teorizza, come lo sviluppo di un attaccamento sicuro nei confronti di persone significative nella prima infanzia sia essenziale per lo sviluppo di una regolazione emotiva. Un danneggiamento nella formazione di una rappresentazione interiore sicura può compromettere sostanzialmente l’acquisizione delle capacità di regolazione emotiva nell’infanzia e portare a uno scarso adattamento sociale più avanti. Già Bowlby, il padre della teoria dell’attaccamento, sottolineava come la caratteristica più importante nell’essere genitore sia il fornire una base sicura da cui partire per affacciarsi nel mondo esterno e a cui tornare sapendo che si sarà il benvenuto, nutrito sul piano fisico ed emotivo, confortato se triste, rassicurato se spaventato (Bowlby, 1989).

Capiamo, quindi, come in questo processo di maturazione sia possibile incontrare stati di disregolazione emotiva nell’adolescente, in cui il comportamento espresso traduce l’incapacità di regolare i propri stati emotivi interni, organizzare l’esperienza e le risposte comportamentali in modo funzionale; le emozioni possono essere vissute in modo eccessivo, con livelli di attivazione al di sopra dei limiti della finestra di tolleranza – “iperattivazione” oppure al di sotto dei limiti della finestra di tolleranza – “ipoattivazione” (con finestra di tolleranza si intende il range di intensità emotiva che ognuno di noi è in grado di tollerare senza interrompere la funzionalità del nostro sistema, per un approfondimento, Siegel, 2013).

In tutto questo già complesso quadro, l’attuale emergenza sanitaria ha implicato un contesto fisico, sociale e culturale che ha reso ancor più difficile fronteggiare questo delicato momento evolutivo. Lo stravolgimento delle abitudini di vita, il distanziamento sociale, il senso di incertezza e precarietà, il maggior tempo trascorso davanti agli schermi, la ridotta attività fisica, sono alcuni degli elementi che hanno ostacolato la possibilità e la necessità di sperimentare ed esplorare tipica di questa fase evolutiva. Vari studi recenti hanno messo in luce come vi sia stata una correlazione tra l’isolamento protratto e il rischio di incorrere in disturbi depressivi, soprattutto nel genere femminile (Loaded at al, 2020), e come la percezione di solitudine sia correlata a maggiore stress attivando una cascata neurobiologica con effetti nefasti sul piano fisico e psicologico (Park, et al., 2020).

Quindi, se tuo figlio adolescente, soprattutto dopo il lock down e le varie restrizioni che ha comportato, non vede l’ora di uscire, protesta rispetto alle regole e all’autorità genitoriale, è impulsivo, ha frequenti sbalzi d’umore e non ha interesse nel confrontarsi con te… benissimo, segnale positivo che ci troviamo nel regolare processo! Ed è anche assolutamente normale che tu genitore abbia questa ambivalenza nel dare limiti, dopo un periodo così complicato, trovandoti di fatto ad oscillare tra uno stile genitoriale molto rigoroso, e una modalità indulgente, che tende a minimizzare regole, aspettative e richieste. Quindi, come muoversi in tutto questo?

L’obiettivo da porsi è quello di trovare un equilibrio “tra clemenza e rigore”. In che modo? Bilanciando il supporto e la guida, quando è necessario o i ragazzi lo richiedono, concedendo al tempo stesso spazi di libertà per aiutare il ragazzo a diventare indipendente; ponendo dei limiti ma offrendo possibilità di scelta, in un mix di fermezza e gentilezza, per cui scegliere le priorità non negoziabili nel rapporto genitori-figli; fornendo le radici dell’appartenenza e le ali per esplorare e conoscere la vita da sé (Harvey & Rathbone, 2021).

Possiamo, inoltre, sforzarci di non giudicare direttamente i comportamenti dei nostri ragazzi come buoni o cattivi in sé, ma come espressione di bisogni che si esprimono nella relazione di attaccamento. Provando a mettere da parte temporaneamente i nostri pensieri e emozioni, possiamo ascoltare empaticamente quelli dei nostri ragazzi, comprendendo come il conflitto faccia parte dell’attaccamento e sia costruttivo. Nel conflitto, infatti, gli adolescenti cercano di bilanciare i loro bisogni di indipendenza con quelli di connessione.

Nel far questo, occorre che il genitore non dimentichi che l’unico modo per avere energie e risorse sufficienti a prendersi cura del proprio figlio adolescente sia prendersi cura di sé stessi. Come già sosteneva la Lihenan nel 1993, insegnare a sé stessi come calmarsi, distrarsi e consolarsi in circostanze difficili e dolorose è fondamentale per ridurre l’intensità delle emozioni e superare il momento di crisi senza peggiorare le cose.

In sostanza: prova a fare un passo indietro prima di reagire al comportamento, respira, ascolta, mettiti nei panni e confrontati empaticamente con tuo figlio, senza dimenticarti il tuo ruolo di autorità genitoriale in grado di imporre regole e limiti anche non concordi al desiderio di tuo figlio ma agite al fine ultimo del suo benessere e tutela. Una crescita sana passa anche attraverso la rottura di equilibri in un costante tiro alla fune con il genitore, chiamato a lasciar liberi i figli, dar loro fiducia, accettarne le scelte – contenendo le proprie naturali ansie, come gli inevitabili disaccordi – ma anche a porre limiti, regole e confini, e a fare da “base sicura” a cui poter fare ritorno nei momenti di bisogno.

 

Dott.ssa Giacone Giulia

 

Riferimenti bibliografici:

Bowlby, J. (1989). Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento. Raffaello Cortina Editore, Milano.

Harvey, P., & Rathbone, B. H. (2021). Adolescenti con emozioni intense: Come gestire con la DBT le sfide emotive e comportamentali di tuo figlio. FrancoAngeli Editore, Milano.

Linehan, M. (1993). Skills training manual for treating borderline personality disorder (Vol. 29). New York: Guilford press. Trad.it. DBT Skills Training. Manuale-schede e fogli di lavoro. Con USB card. (2015). Raffaello Cortina Editore, Milano.

Loades, M. E., Chatburn, E., Higson-Sweeney, N., Reynolds, S., Shafran, R., et al., (2020). Rapid Systematic Review: The Impact of Social Isolation and Loneliness on the Mental Health of Children and Adolescents in the Context of COVID-19. J Am Acad Child Adolesc Psychiatry, 59(11):1218–1239.

Park, C., Majeed, A., Gill, H., Tamura, J., Ho, R.C., Mansur, R.B., Nasri, F., Lee, et al. (2020). The Effect of Loneliness on Distinct Health Outcomes: A Comprehensive Review and Meta-Analysis. Psychiatry Research, 294:113514.

Sheppes, G., Suri, G., Gross, J.J. (2015). Emotion regulation and psychopathology. Annu. Review of Clinical Psychology. 11, 379–405.

Siegel, D. J. (2013). La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale. Raffaello Cortina Editore, Milano.

Thompson, R.A. (1994). Emotion regulation: a theme in search of definition. Monographs of the Society for Research in Child Development Society for Research in Child Development. 59, 25–52.