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NON È UN PAESE PER MAMME

Tutti ci chiedono di fare figli, dal Papa ai governi, la natalità è a i minimi storici e per incentivarla si adottano modalità discutibili quali rendere illegale l’aborto (vedere alla voce America) o elargire 4mila euro una tantum alle mamme per convincerle a non interrompere le gravidanze (Piemonte).

Ma com’è che il viaggio della maternità è diventato così disincentivante?

Partiamo dall’inizio.

In Italia le donne fanno figli sempre più tardi, in media intorno ai 31 anni. E negli 10 ultimi anni in Europa il numero di donne che partorisce il primo figlio dopo i 40 anni è raddoppiata, con l’Italia che si piazza al secondo posto dopo la Spagna su questa classifica.

Il perché è presto detto: mancanza di occupazione, fatica a raggiungere un reddito stabile, enorme difficoltà nel potersi permettere una casa. E se questa combinazione di fattori riguarda tutti i giovani, sulle donne ha un impatto maggiore. Il tasso di occupazione femminile è fermo al 50% e i datori di lavoro hanno da sempre la tendenza ad investire meno sulla formazione e la promozione delle loro dipendenti donne che potrebbero un giorno assentarsi per maternità o per far fronte al carico famigliare che, ancora, ricade in gran parte su di loro. Ma su questo torneremo più avanti.

Alla luce di quanto detto, prima che una donna arrivi anche solo a pensare di mettere su famiglia (se lo desidera), facilmente sarà over 30. E, come è noto, la biologia non è così interessata alle umane vicende. Dunque, spesso, presenta il suo conto e allora i tempi per arrivare ad una agognata maternità possono allungarsi ancora. A volte si attraversano anni di cure psicologicamente e fisicamente provanti e, purtroppo, si può incappare in cliniche della fertilità più o meno serie che lucrano sulla sofferenza altrui.

Quando finalmente si riesce a concepire, inizia un viaggio di trasformazione fisica e mentale senz’altro potente e interessante, ma non sempre così idilliaco come viene dipinto, o almeno non per tutte.

È un aspetto di cui si comincia a parlare, ma non ancora pienamente sdoganato. C’è una sorta di ritrosia nel raccontare con schiettezza anche gli aspetti meno amabili dell’essere incinte, anche tra le amiche. L’immagine mentale della donna che nel riprodursi attraversa il momento di gioia più grande della sua vita, è dura a morire.

Stessa sorte silenziosa tocca ancora all’aborto, benché sia molto comune: basti pensare che circa 1/3 delle gravidanze termina con un aborto spontaneo. Purtroppo le pratiche ospedaliere sono ancora molto carenti nel prendersi cura di una donna dopo tale evento e la società non è affatto preparata ad essere di supporto. L’aborto viene spesso sminuito, silenziato, messo da parte con frasi crudeli e sbrigative e, troppo spesso, le madri si ritrovano anche a gestire un aleggiante senso di colpa, come fossero portatrici di qualche difetto o inidoneità. Invece, sappiamo che gli aborti spontanei avvengono per la gran parte dei casi per una selezione naturale del corpo e non per un accudimento inadeguato. In questo, il nostro termine italiano aborto (ab-ortus, allontanato dalla nascita) è più corretto dellinglese miscarriage (mal tenuto, mal contenuto).

Quando la gravidanza procede e arriva al termine, le donne affrontano il temuto momento del parto. E se il dolore non fosse sufficiente come preoccupazione, si aggiunge anche il terno al lotto della gestione ospedaliera. È importante sapere, infatti, che lItalia presenta un numero eccessivo di parti cesarei. Nel 2020 veniva fatto ricorso al cesareo nel 31% dei casi, nonostante siano state create delle linee di indirizzo per la riduzione di questa tipologia di parto, proprio perché eseguito in misura troppo frequente rispetto alla reale necessità. Il problema del ricorso eccessivo al cesareo, a onor del vero, accomuna tutta Europa e il tentativo di invertire la tendenza si sta diffondendo, anche se troppo lentamente. I paesi più virtuosi in tal senso sono Finlandia e Svezia che vi ricorrono solo nel 16% dei casi.

Un’altra pratica abusata (60% dei parti) è quella dell’episiotomia, una vera e propria chirurgia vaginale che consiste nell’effettuare un taglio nella parte bassa della vagina per aumentare lo spazio e favorire l’uscita della testa e del corpo fetale al momento del parto. L’episiotomia, nonostante la sua natura chirurgica, viene ancora troppo spesso praticata senza il consenso della madre (e talvolta senza nemmeno informarla). L’idea che diminuisca il rischio di lacerazioni è stata confutata e, anzi, oggi si sa che può provocarne un peggioramento. Inoltre, se non ben effettuata, rischia di lasciare dei danni permanenti dal punto di vista funzionale, sessuale, oltreché estetico.

L’episiotomia oggi è ritenuta una pratica da utilizzare in rari casi perché il solo fine dell’aumento di spazio può essere ragionevolmente raggiunto attendendo i fisiologici tempi (a volte molto lunghi) dell’espulsione.

A tutto questo, si aggiunge la violenza ostetrica (di cui è parte l’episiotomia non concordata, così come la manovra di Kristeller) che riguarda tutta una serie di abusi verbali e fisici subiti durante l’assistenza al parto e al post-partum, che sono lesivi dei diritti alla salute riproduttiva e dell’autonomia decisionale della donna sul proprio corpo e la propria sessualità. Inutile dire che queste pratiche impattano profondamente sulla qualità della vita della donna e non solo durante e dopo il parto. Secondo un’indagine del 2017, su un campione di 5 milioni di donne, il 21% ha subito violenza ostetrica. Numeri che fanno paura ma che smuovono poca reazione, quasi a richiamare l’idea che partorire con dolore implichi anche tacere e sopportare. L’informazione tra le future mamme rispetto a queste pratiche è ancora molto bassa, motivo per cui le donne stesse spesso non le riconoscono come violenza. Non ne hanno gli strumenti, non sono mai state informate sui propri diritti anche relativi al momento del parto e, facilmente, lì per lì non hanno la forza né la lucidità di opporsi.

Se siamo giunte fin qui e tutto quanto è andato, più o meno, liscio, arriviamo al fatidico rientro a casa e all’adattamento alla vita da neo-mamme.

Come sappiamo, nel 2021 in Italia il congedo di paternità è stato portato a 10 giorni ed è stato reso obbligatorio. Prima del 2021, solo il 40% dei papà lo richiedeva e molti non erano a conoscenza di questo diritto. Nonostante il miglioramento, il congedo di paternità in Italia resta ancora tra i più bassi d’Europa (in Spagna sono 16 settimane): ciò significa che, salvo pochi giorni, al rientro a casa le donne sono spesso sole ad affrontare la fatica e l’adattamento fisico e mentale ad una nuova vita. Il principale appoggio è ancora rappresentato dai nonni, se sono in pensione.

Questo è il periodo in cui fa capolino il rischio della depressione post-partum, che colpisce circa il 15% delle neo-mamme, mentre l’85% sperimenta il “baby blues” cioè un lieve disturbo dell’umore dovuto al rapido mutamento degli ormoni nel corpo dopo il parto. La privazione del sonno, il recupero fisico e la fatica fanno il resto.

La ricerca ha ormai concordato sull’importanza del sostegno e del supporto alle neo-mamme in questo periodo delicato. Il supporto sociale ed emotivo è fondamentale per sentirsi ascoltate, rilasciare paure e sensi di inadeguatezza e ritrovare benessere e fiducia in stesse.

È chiaro che lasciare le mamme sole in questo periodo, non sia la scelta ottimale, e 10 giorni di congedo di paternità sono una goccia nel mare. Le donne si adoperano nel creare reti con amiche e compagne di corso pre-parto o rivolgendosi ai consultori, ma non tutte e non sempre è sufficiente a scongiurare la solitudine.

A questo si aggiunge che non tutte le donne possono o vogliono fermarsi dal lavoro molto tempo dopo il parto. Ad esempio, ci sono donne che non si trovano nel ruolo di accudimento primario, ci sono donne libere professioniste che non possono permettersi una maternità lunga, ci sono donne che non possono contare sul sostegno del partner o dei nonni, ecc. Il problema è che quando un bimbo è sufficientemente grande per l’asilo nido, i posti bastano in media per 3 bambini su 10!

Questo è un fatto davvero interessante: se consideriamo che una mamma dipendente ha diritto a 5 mesi di congedo di maternità obbligatorio (pagati all80% della retribuzione e distribuiti in modo flessibile tra pre e post partum), verrebbe da pensare che intorno al 5° mese del bebè la società provveda con un servizio di assistenza e di inserimento scolastico adeguato e atto a conciliare lavoro e famiglia. Ma così non è. Il posto non c’è e i bambini andrebbero iscritti quasi prima ancora di nascere. Il nido privato, di contro, è una soluzione per pochi visto che si avvicina in media al costo di un affitto.

La cura dei cuccioli d’uomo di questa società è ancora chiaramente delegata ai nuclei famigliari (leggi mamma e nonni) nel loro privato. Si conta sulla capacità dei singoli di arrangiarsi, non sulla necessità di una società evoluta di fornire servizi ai nuovi nati che ne costituiranno il futuro. Come se la procreazione non riguardasse la collettività, insomma.

Un diritto facoltativo di cui le famiglie possono comunque avvalersi è il congedo parentale. In Italia sarebbe a disposizione di entrambi i genitori nella misura di 6 mesi ciascuno, ma con un limite di 10 mesi a famiglia (allungabili a 11 se è il padre ad astenersi dal lavoro per almeno 3 mesi) e con un’indennità pari al 30% della retribuzione. Il congedo parentale va utilizzato dalla nascita del bambino fino ai 12 anni di età, ma viene retribuito al 30% dello stipendio solo fino ai 6 anni, in seguito non è prevista indennità.

Non è una sorpresa scoprire chi ne usufruisce. La pandemia ci ha ben mostrato come l’accudimento ricada ancora in massima parte sulle spalle delle donne, facendo solo emergere un dato che è sempre rimasto costante negli anni: l80% dei congedi parentali viene richiesto dalle donne. Questo significa che quando le famiglie sono costrette a scegliere tra cura della prole e avanzamento lavorativo, sono le donne a fare un passo indietro.

Come abbiamo già detto, i datori di lavoro non trovano conveniente investire su una risorsa femminile che sarà più assente e quindi anche la possibilità di crescita professionale diminuisce. Tutto ciò perpetra un meccanismo che alimenta la disuguaglianza: quando ci si ritrova a scegliere chi nella coppia debba rinunciare al lavoro o prendere permessi per farsi carico di un lavoro di cura non retribuito, chiaramente la scelta ricadrà su chi già occupa una posizione più bassa e percepisce un salario minore.

Le tabelle dell’Inps, così, ci mostrano chiaramente come la maternità costituisca la principale fonte di discriminazione sul lavoro. Dopo la nascita di un figlio, le carriere delle donne naufragano drasticamente: a 15 anni dalla nascita i salari lordi annuali delle madri sono di 5700 euro in meno rispetto a quelli delle donne senza figli.

Per chi invece riesce, coi salti mortali, a far stare in piedi sia il lavoro che la famiglia, arrivano i vissuti di colpa e inadeguatezza. Perché viviamo in una società che, al netto delle sue mancanze, non fa sconti alle madri: chiede loro di lavorare come se non avessero figli e di accudire i figli come se non lavorassero. Tutto ciò crea un’asticella di mamma perfetta e multitasking ovviamente inarrivabile, a meno di scarificare tutte se stesse e la propria salute mentale.

Il problema è che finiamo per crederci e vivere annaspando, cercando di essere presenti come madri, tenere la casa in ordine, lavorare al meglio della nostra concentrazione e puntando in alto sennò non siamo ambiziose, cucinando manicaretti e tenendo viva la passione di coppia, nel mentre che ci alleniamo per rientrare nei canoni estetici della nostra società e dedichiamo tempo a noi stesse e alle amiche perché sennò ci trascuriamo. Tutti obiettivi valevoli e degni del nostro tempo, se solo fossero condivisi in un progetto di cura con i nostri partner (che per fortuna, soprattutto dalla generazione Millenial in avanti, stanno facendo molti passi di presenza) e con una società che si faccia vero carico delle sue mamme e dei suoi piccoli cittadini, invece di relegare i servizi all’infanzia ad una questione da risolversi in privato.

Alla luce di tutto questo, più che chiedersi perché non facciamo più figli, verrebbe da chiedersi perché mai li facciamo ancora nonostante tutto!

Per il futuro, il tanto chiacchierato PNRR fa parte del progetto chiamato Next Generation UE che, sulla carta, già dal nome, dovrebbe rappresentare un’opportunità di finanziamento per i diritti dellinfanzia e il raggiungimento della parità di genere. Insieme a questo, serve una rivoluzione culturale per rimettere al centro della politica e della società il discorso della cura e della sua condivisione.

Una madre (o un padre, n.d.r.) che sta allevando suo figlio nel modo giusto, fa per il suo paese infinitamente di più di quanto fanno tutti i governanti, Werner Braum.

Se sei una futura mamma o una mamma e ti trovi a sperimentare alcune delle situazioni descritte in questo articolo, non sei sola! La maternità può metterci in contatto con esperienze reali e psicologiche difficili da gestire in solitudine. LAssociazione Eco può aiutarti, trovi tutte le informazioni utili ai seguenti link:

https://www.ecoassociazione.it/mentre-attendo-te-mi-prendo-cura-di-me/

https://www.ecoassociazione.it/servizi/psicoterapia-low-cost/

Dott.ssa Valeria Lussiana

Psicologa Psicoterapeuta

IL DISTURBO AFFETTIVO STAGIONALE – Come le variazioni stagionali influenzano il nostro umore

A livello storico sappiamo che Ippocrate già nel 400 a.C. parlava di una specie di depressione dovuta all’andamento stagionale, avendo già allora intuito come l’umore possa essere influenzato dalle variazioni ambientali delle stagioni. Sappiamo anche che nel II secolo a.C. i medici greco-romani trattavamo le persone che provavano sentimenti di eccessiva tristezza facendole stare e osservare la luce del sole.

A livello diagnostico, iDisturbo Affettivo Stagionale (SAD) è descritto nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) come “Disturbo Depressivo Maggiore ricorrente con andamento stagionale” caratterizzato da un pattern di esordio e remissione di episodi depressivi maggiori in periodi dell’anno caratteristici, con assenza di episodi non stagionali, durante un periodo di almeno due anni (American Psychiatric Association, 2014).

Il Disturbo Affettivo Stagionale (Seasonal Affective Disorder – SAD) venne nominato e descritto per la prima volta da Norman E. Rosenthal e colleghi del National Institute of Mental Health nel 1984. Esso si configura come un’alterazione psicofisica stagionale con variazioni dell’umore (verso il polo della tristezza e della depressione) soprattutto all’inizio dell’autunno con la riduzione delle ore di luce solare (SAD invernale) e, seppur in misura minore, anche all’inizio della primavera con il risveglio della natura (SAD estiva).

La Dott.ssa Mc Mahon dell’Università di Copenaghen e altri ricercatori nel 2006 hanno rilevato una correlazione tra il disturbo affettivo stagionale e la sovrapproduzione di melatonina, l’ormone prodotto nella ghiandola pineale alla base del nostro cervello che regola biologicamente il ciclo sonno-veglia, la cui produzione è stimolata direttamente dai raggi solari.

Quest’ultimi rilevano anche una correlazione tra il SAD e una sottoproduzione di serotoninaanche questa è una molecola che riveste il ruolo di neurotrasmettitore e di ormone (noto anche come l’ormone della felicità) responsabile principalmente della stabilizzazione dell’umore.

La SAD è stata intesa da questi studiosi come un vero e proprio squilibrio biochimico nel cervello che avviene, nel caso di SAD invernale, nelle ore diurne più brevi provocando uno sfasamento del ritmo circadiano interno e di alcuni aspetti umorali che giustificherebbero il sentirsi un po’ più stanchi, tristi, assonati e/o apatici in quei giorni.

La SAD invernale è la forma più comune e presenta la sua sintomatologia depressiva durante la stagione autunnale raggiungendo il picco durante l’inverno e migliorando in primavera. Sembrerebbe colpire molto le persone in giovane età, specie donne, che si ritrovano a vivere varie condizioni come deflessione dell’umore, difficoltà di concentrazione, astenia, ansia, ipersonnia o insonnia, irritabilità, iperfagia, fatica psicofisica etc.

Inoltre, nelle persone con SAD, una minore esposizione della pelle alla luce solare (tipica del periodo invernale) con conseguente disregolazione della serotonina può causare anche un deficit di vitamina D collegato allo sviluppo di sindromi depressive.

Uno studio del 2014 ha dimostrato come la fototerapia o Light Therapy, il trattamento considerato più efficace per la cura del SAD, organizzato in misura quotidiana di almeno 30 minuti a un’intensità di 10.000 lux simulante la luce naturale, abbia risultati soddisfacenti sul disturbo affettivo stagionale. La luce catturata dalla retina, infatti, andrebbe a stimolare le aree del cervello in cui avviene la sintesi degli ormoni citati prima (Rohan, Lindsey, Roecklein & Lacy, 2004).

Essendo quindi il cambio stagione un momento delicato, ricordiamo che le alterazioni sull’organismo psicofisico a carico dell’ambiente accentuano sia disturbi preesistenti come sindromi d’ansia, depressive o di altro tipo ma anche chi presenta “solo” uno stile di vita stressante e/o irregolare.

Sebbene la SAD invernale sia più comune, alcune persone vivono una specie di lieve depressione estiva definita anche come SAD estiva o “blues estivo” dovuto al doversi nuovamente riadattare alle condizioni ambientali della stagione primaverile/estiva con sensazioni di affaticamento psicofisico.

Regolare il nostro stile di vita a livello di un’alimentazione sana ed equilibrata, regolare esercizio fisico e una vita sociale attiva può aiutare a fronteggiare sentimenti di tristezza stagionali; quando la SAD è accompagnata da altri disturbi e/o sintomatologie, se necessario, può essere gestita con l’aiuto di un professionista della salute mentale per sviluppare strategie di intervento specifiche al singolo individuo.

BIBLIOGRAFIA:

– Norman E. Rosenthal, MD and Co., (1984) Seasonal affective disorder: A description of the syndrome and preliminary findings with light therapy. Arch. Gen. Psychiat. 1984, 41: 72-80

 Mc Mahon, Brenda; Norgaard, Martin; Svarer, Claus; Andersen, Sofie B; Madsen, Martin K ;Baa, William F C ; Madsen, Jacob; Frokjaer, Vibe G ; Knudsen, Gitte M. / Seasonality-resilientindividuals downregulate their cerebral 5-HT transporter binding in winter – A longitudinalcombined C-DASB and C-SB207145 PET study. In: European Neuropsychopharmacology. 2018; Vol. 28, No. 10. pp. 1151-1160.

Rohan, K. J., Lindsey, K. T., Roecklein, K. A., & Lacy, T. J. (2004). Cognitive-behavioraltherapy, light therapy, and their combination in treating seasonal affective disorderJournal of Affective Disorders, 80(2-3), 273–283.

 Rosenthal, N. E., Mazzanti, C. M., Barnett, R. L., Hardin, T. A., Turner, E. H., Lam, G. K., Ozaki, N., & Goldman, D. (1998). Role of serotonin transporter promoter repeat length polymorphism in seasonality and seasonal affective disorderMolecular Psychiatry3(2), 175-177. 

Rosenthal N.E., MD and Co., Seasonal affective disorder: A description of the syndrome and preliminary findings with light therapy. Arch. Gen. Psychiat. 1984, 41: 72-80

– Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Quinta edizione, DSM5. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014.

 

Dott. Maria Grazia Esposito

Psicologa – Psicoterapeuta

Social Network e Sessualità

Gli scambi sui social network hanno il loro corso in un’intimità che non ha più confini.

Chi risponde sui social ad una richiesta di amicizia da parte di un utente sconosciuto, o parzialmente conosciuto, già compie un primo abbattimento di una barriera emotiva e convenzionale.

Le distanze tra individui diventano sempre meno ampie quando, prima di scambiarsi dei messaggi, si appongono delle reazioni, emoticon che identificano con quale stato d’animo la persona reagisce agli stimoli pubblici di un “amico” virtuale. Sono segnali importanti, che possono apparire nel loro ripetersi come sintomi inequivocabili di un’attenzione, carichi di sottointesi, proprio per il loro essere espliciti e sotto l’occhio di molti.

Lasciarsi contaminare dal social network produce l’immersione in un ambiente mentale ed emotivamente allettante, contiguo alla vita reale. Secondo uno studio condotto nell’Università di Chapel Hill in Nord Carolina, ogni volta che riceviamo un mi piace, il nostro organismo rilascerebbe una piccola scarica di dopamina, neurotrasmettitore che viene coinvolto nei fenomeni di ricompensa ma anche di dipendenza. Il bisogno di gratificazione da social crescerebbe nel tempo, proprio come accade ad un dipendente da sostanze e come accade in una relazione amorosa.

I social diventano così, un farmaco immersivo che dilata emotivamente chi lo usa per rappresentarsi, è un palliativo dell’ansia collettiva di allontanarsi anche momentaneamente dal quotidiano. Non è frequentato solo dai giovanissimi, ma anche da adulti che hanno sperimentato nel cambio di status un’efficace maniera per lanciare messaggi. Il potenziale seduttivo dei social network avviene sulla capacità di prolungare la propria “ombra digitale” attraverso frasi e foto postate. A creare intimità condivisa sono le immagini proprie, delle abitudini alimentari, delle ricorrenze. Ogni utente ambisce ad esporre un’immagine il più appetibile possibile di se stesso.

Se da un punto di vista esteriore il social network possa apparire “casto”, ciò che si osserva soprattutto negli ultimi anni è il sexting.

Per sexting intendiamo l’atto di inviare materiale sessualmente esplicito su dispositivi mobili o in generale nella rete. E’ un fenomeno che può trovare terreno fertile nei nuovi strumenti di social media, la cui funzione di videochiamata rappresenta una delle modalità privilegiate, soprattutto tra gli adolescenti, per esplorare le proprie fantasie e impulsi sessuali.

Il fenomeno del sexting, non risparmia nemmeno applicazioni “neutre”  come ad esempio WhatsApp. Per condividere materiale intimo o sessualmente esplicito, sempre più persone ricorrono ad applicazioni che utilizzano modalità di conversazione “end-to-end”, per le quali i messaggi scambiati hanno una visibilità ridotta nel tempo evitando il timore di eventuali ritorsioni qualora il rapporto con l’altro dovesse degenerare. Come ad esempio Telegramm e Snapchet.

L’ultimo fenomeno che lega il mondo dei social alla sessulaità è quello legato al social cruising e alle hook-up apps. In questo mondo le più famose app sono Tinder e Grindr, entrambe permettono attraverso un sistema di geolocalizzazione di individuare persone disponibili garantendo in pochissimo tempo la possibilità di mettersi in contatto con tanti potenziali partners sessuali e incontrarli di persona.

E’ importante soffermarsi e interrogarsi sugli effetti di questo mondo virtuale, potenziando la formazione, l’educazione e la prevenzione sociale, partendo dai più giovani, a volte ignari dei pericoli che si celano dietro l’utilizzo di queste app.

Dott. Mirco Carbonetti

Psicologo, Psicoterapeuta

Dovremo tutti essere femministi?

 

La parola femminismo è più antica di quanto si possa pensare. Anche se la nostra memoria la lega al secolo scorso essa è stata coniata nel 1882 da Hubertine Auclair.

Ancora prima nel 1792  Olympia de Gouges scrisse la dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina.

Le prime femministe si batterono in Francia per poter ottenere il diritto al divorzio.

Successivamente le donne, con il movimento delle suffragette, si batterono per il diritto di voto.

E’ stato a partire dagli anni sessanta del XX secolo che il femminismo si è organizzato come movimento per modificare la divisione sociale dei ruoli tra donne e uomini e mettere in discussione questa gerarchizzazione umana. I temi sono nuovi: sessualità, aborto, violenza domestica, contraccezione, parità sul posto di lavoro, abolizione del delitto d’onore.

Negli anni novanta il tema principale è l’abolizione del divario salariale ed una legislazione che protegga le donne dalle molestie sessuali sul lavoro.

Cominciano ad aderire al movimento le prime femministe islamiche e di colore.

La storia del femminismo è la storia della lotta contro uno stereotipo: che la donna è inferiore all’uomo, ma intorno ad esso ruotano tanti stereotipi. Una femminista è una che non si depila, che brucia i reggiseni, che è sempre arrabbiata, che vuole comandare lei. Stereotipi che guardano ad aspetti manifesti, perdendosi il significato dietro quegli aspetti: avere gli stessi diritti degli uomini.

Come ci ricorda la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie mille anni fa era normale che fossero gli uomini a dirigere gruppi sociali, perché il requisito per farlo era la forza e la struttura fisica. Uomini e donne hanno strutture fisiche differenti, questo è ovvio, ma al giorno d’oggi dove per dirigere dei gruppi lavorativi i requisiti sono di tipo intellettuale, creativo, e legati alle capacità di innovazione. Questi requisiti non sono legati alla forza fisica, non sono legati al genere sessuale di appartenenza, ma al fatto di essere esseri umani.

“Ci siamo evoluti, ma le nostre idee sul genere non si sono evolute molto”.

Per cambiare queste idee si deve partire dall’educazione, già in famiglia. Insegnare ai maschi che si è virili se si hanno soldi, muscoli, se non si mostrano emozioni di paura e dolore, significa ingabbiarli in uno stereotipo che renderà fragile la loro autostima.

Scrive ancora Chimamanda nel suo Dovremmo tutti essere femministi, che di riflesso educhiamo le femmine ad occuparsi dell’ego fragile degli uomini insegnando loro a non essere una minaccia per i maschi. “Sii ambiziosa, ma non troppo. Occupa la stessa posizione ma guadagna di meno.[…]  Siccome sei una donna devi aspirare al matrimonio. […] Non essere sposata è un fallimento personale”

Il problema del genere, ci ricorda Chimamanda, è che prescrive come dovremmo essere, invece di riconoscere come siamo. Saremmo più liberi senza il peso delle aspettative legate al genere.

Le femmine e i maschi sono diversi sul piano biologico, ma le altre differenze sono create a livello sociale.

Educhiamo i figli concentrandosi sulle capacità e sugli interessi, invece che sul genere.

Ma se il femminismo si occupa di diritti umani, perché chiamarlo femminismo? Si domanda questa scrittrice. La risposta è che scegliere di usare una definizione vaga come “diritti umani”, significa non tenere conto della specificità del problema del genere.

Femminista, conclude l’autrice, dovrebbe essere un uomo o una donna che riconosce che c’è un problema culturale legato al genere e che vuole fare meglio. Tutti noi, donne o uomini, dovremmo essere femministi.

Dr.ssa Luigina Pugno

Ghosting: Ovvero quando l’altr* sparisce

Ghosting è un termine che deriva dall’inglese (to ghost) e significa muoversi di soppiatto, come un fantasma appunto. Viene utilizzato da pochi anni per descrivere una strategia per concludere una relazione (sentimentale o amicale che sia).

In quale modo viene praticato?

Fare ghosting vuol dire letteralmente sparire all’improvviso da una relazione significativa. Ad esempio, per porre fine ad una frequentazione il ghoster (colui che sparisce) di punto in bianco non solo non si presenta più, ma non risponde più alle chiamate, ai messaggi e blocca qualsiasi possibile contatto su tutti i canali possibili (profili social, email, chat etc).

Non fornisce spiegazioni per questa improvvisa sparizione e lascia l’altra persona abbandonata.

Chi pratica ghosting?

Sparire, abbandonare l’altr* senza nessuna parola è un modo per tagliare la relazione che si sta vivendo ed evitare la sofferenza legata alla perdita di questa. In sostanza evaporare dalle vite degli altri consente al ghoster di non accedere ai propri aspetti emotivi connessi all’abbandono ed anche non riuscire a collegarsi alla sofferenza dell’altra persona.

Sparisco e quindi (utilizzando un pensiero magico) non affrontando la questione posso sentirmi in pace con me stesso.

La ricerca scientifica, infatti, riconosce che una buona percentuale di ghoster hanno uno stile di attaccamento evitante.

Far perdere le proprie tracce, quindi, non è casuale. Ma ha a che vedere con ciò che il ghoster ha subìto nella propria infanzia.

Una buona parte delle uscite di scena anticipate vengono attuate quando il legame viene sperimentato come troppo intenso ed anche la dipendenza che da esso deriverebbe viene sentito come inaccettabile.

La paura di essere abbandonat* è troppo alta e porta all’unica reazione pensabile: abbandonare per mantenere il controllo emotivo sulla propria sofferenza.

In aggiunta anche chi ha tratti di personalità che rientrano nelle sfere borderline e narcisistiche sono portati ad avere un comportamento che porta a chiudere le relazioni in questo modo.

Chi sparisce si difende dall’abbandono dell’altro, certamente, ma questo evitamento emotivo così massiccio blocca chi subisce questa azione, ma anche chi compie l’azione, resta confinato a ripetere sempre lo stesso schema di fuga senza poter evolvere nel proprio sviluppo individuale.

Perché fare ghosting?

Una risposta univoca probabilmente non c’è e i fattori che portano a questa modalità possono essere diversi.

Proviamo a fare alcune considerazioni.

Sparire, cioè troncare una relazione senza dare spiegazioni è facile, evita la complessità di stare a tu per tu con l’altr* in situazioni difficili e potenzialmente esplosive. E, cosa non di poco impatto, comporta meno dolore.

Inoltre, al giorno d’oggi con tutta la tecnologia a nostra disposizione è più semplice fare tutto quanto descritto. Non solo è a portata di cervello che non vuole soffrire, ma è anche a portata di pollice.

Se, invece, chi agisce questa modalità di chiusura relazionale rientra in quadri psicopatologici sopra citati (disturbo borderline e disturbo narcisistico di personalità) sarà molto frequente trovare una mancanza di sintonizzazione con il dolore dell’altra persona essendo centrati esclusivamente su se stessi, cercando di mantenere la facciata di quell* buon* e non riuscendo ad assumersi la responsabilità delle proprie scelte e del proprio agire.

Quali sono gli effetti per chi subisce?

Subire un rifiuto fa male, essere lasciati (con tutte le dovizie di particolari del perché e per come) fa ancora più male. Subire ghosting ancora di più.

Perché?

Perchè è una scelta unilaterale e, tendenzialmente, inappellabile. Inoltre, la scelta di non comunicare con l’altra persona, essendo una modalità molto aggressiva mette nelle mani di chi subisce tutta la responsabilità.

Inoltre, una possibile interpretazione di questo agito sia “tu non esisti e nemmeno la nostra relazione è mai esistita, tanto che non puoi comunicare con me”.

Chi viene lasciat* in questo modo (che è una pratica piuttosto violenta) vive per diverso tempo reazioni emotive contrastanti e confondenti:

– senso di colpa (aver fatto o detto qualcosa che abbia fatto scatenare l’altr*);

– rabbia;

– restare in sospeso (aspettare di avere delle risposte che non verranno mai date);

– disagio generalizzato.

Essere lasciati con questa modalità può facilmente portare ad avere poca fiducia nelle relazioni, verso se stessi e portare a sviluppare comportamenti paranoici e controllanti per paura che succeda nuovamente che il/la partner sparisca all’improvviso.

Sono queste le ragioni per cui subire questa violenza psicologica fa particolarmente male.

Come puoi riconoscerlo e difenderti?

La prime reazioni saranno di confusione, rabbia, incomprensione di ciò che sta accadendo. É normale, fa male, non è piacevole, ma il primo passo è l’accettazione di ciò che sta accadendo.

Prenditi cura di te stess*, scontato, banale forse, ma fondamentale.

Terza prassi vitale: non rimuginare (troppo) e cerca di fermare i pensieri autocritici, non serve a nulla cercare ossessivamente chi, invece, ti ha piantato in asso deliberatamente, come non ha molto senso pensare all’infinito cosa avresti potuto fare e dire o peggio, non fare e non dire per non “provocare” questa sparizione.

Quarto step: frequenta persone che ti facciano sentire più seren* e prenditi cura del tuo tempo per fare qualcosa che ti gratifichi e ti faccia stare bene.

Che tu faccia fatica è normale e comprensibile, attraversa queste sensazioni e vivile. È doloroso ma è questo che ti aiuta.

Non hai il controllo di tutto, anche avendo avuto una sfera magica non avesti potuto evitare ciò che ti è successo. Ciò che ti è, invece, utile è (eventualmente) comprendere che ciò che ti è capitato può essere particolarmente doloroso e potresti avere bisogno di aiuto per tornare a stare bene.

Infine, non è colpa tua quello che ti è successo, prendi contatto con questo.

Ricorda il primo passo per sentirti meglio è il riconoscimento di un problema o difficoltà.

Dott. Gilberto Kalman

Psicologo Psicoterapeuta

Bibliografia

Baxter, L. A. (1984). Trajectories of relationship disengagement. Journal of Social and Personal Relationships,1(1), 29–48.

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IL MUKBANG WATCHING: il cibo come fenomeno controverso e ricco di contraddizioni

Il Mukbang Watching è un fenomeno on line emerso nel corso dell’ultimo decennio. Si tratta di esperienze relative al consumo di cibo condivise in rete, durante le quali le persone si abbuffano durante una diretta streaming. Il protagonista (Mukbanger) mangia un’enorme quantità di cibo (in genere “cibo spazzatura”) in pochissimo tempo mentre interagisce con il proprio pubblico, ostentando piacere, orgoglio ed enfatizzando attraverso sonori versi o gemiti di piacere il vissuto della propria esperienza.

Quale finalità può avere tale tipo di esperienza web? Qual è il senso di queste sessioni?

Forse per avere una risposta, in questo spaccato di vita seppur virtuale, dobbiamo partire da un’altra domanda: perché così tante persone sono attratte da un simile show?

Dare un’univoca risposta sarebbe certamente molto complesso e necessiterebbe di studi più numerosi e approfonditi in merito, tuttavia dalle ricerche esistenti sul tema a cui possiamo attingere, emerge che da una gran parte del pubblico questo show viene vissuto come la condivisione di esperienza importante rispetto ad alcuni propri bisogni personali.

Ripercorriamo le origini: il fenomeno nasce in Corea del Sud intorno al 2010, luogo in cui il rituale del cibo ha connotazioni culturali ben diverse da quelle del nostro Paese e di molte altre parti del mondo occidentale, in cui è diffuso l’amore per il gusto, il piacere della condivisione e della convivialità, l’aggregazione. In Corea la cultura alimentare si basa principalmente su questioni legate alla salute e all’etichetta rigorosa: il Mukbang è una pratica che si discosta in modo dirompente dall’identità tradizionale.

Il fenomeno assume questo nome dalla crasi tra il termine coreano ”mokta” (mangiare) e “bangsong” (trasmettere).

Il Mukbang pertanto è diventato popolare in Corea del Sud come “punto di rottura” rispetto al sistema e circa 10 anni fa ha raggiunto una crescente popolarità anche in numerosi altri Paesi Orientali, dove un elevatissimo numero di persone accede ad Internet ogni giorno per guardare i video dei Mukbanger (Hawthorne, 2019). Questo fenomeno si è diffuso anche nei Paesi occidentali nel 2015, dopo che una popolare emittente americana ha mandato in onda un servizio televisivo in cui venivano commentati i video dei più famosi Mukbangers Sud-Coreani.

Su molti Social Network i video sono diventati virali nell’arco di poco tempo a livello globale: d’altronde è possibile guardare facilmente tali trasmissioni su piattaforme di streaming come Afreeca, Youtube e Twitch.

In Corea, l’isolamento non è soltanto un fenomeno recente causato dalla pandemia Covid, bensì un fenomeno radicato e piuttosto diffuso per questioni culturali e lavorative: per questa ragione si è ipotizzato che l’esigenza di “mangiare in compagnia”, sebbene il modello di riferimento culturale non possa assimilarsi a quello delle comunità occidentali, possa essere un segnale dell’emergere della necessità di compensare esigenze personali ed individuali di una socialità minimizzata dal modello sociale coreano (Balakrishnan e Griffiths, 2017).

Emerge da diverse ricerche internazionali come, diffusamente, le persone cerchino nell’ultimo ventennio soddisfazione alle proprie esigenze e desideri individuali all’interno della realtà virtuale, dando voce al proprio bisogno di appartenenza, di gratificazione sociale, cercando e trovando una comunità che li accolga e condivida il sentimento di diversità percepito nella vita reale, con le persone con cui trascorrono le giornate. Si cerca perciò di trovare in comunità o attività on line un senso di accoglienza e di autoefficacia per poter sostenere il calo di autostima causato dal confronto con le persone e le regole della propria vita sociale.

L’utilizzo prolungato di questa ricerca di autoaffermazione in un mondo virtuale, e non reale, può incrementare notevolmente il rischio di un graduale, ma sempre maggiore, distacco ed isolamento dalla propria realtà, con possibili conseguenze a lungo termine importanti, come stati emotivi depressivi, sintomatologia ansiosa, calo di autostima, disturbi del sonno e una sempre minore capacità di integrazione sociale (Sherlock e Wagstaff, 2019).

Non possiamo esimerci dal domandarci però perché un fenomeno apparentemente così particolare, e per alcune persone di dubbio buon gusto, non sia più circoscritto alla zona d’origine e sia diventato invece così popolare al livello mondiale. I mukbanger infatti sono personaggi con milioni di followers e le loro sessioni di abbuffate, oltre che all’ora dei canonici pasti, vengono seguite anche nel cuore della notte.

Alcuni ricercatori, Schwegler Castañer (2018), hanno studiato più accuratamente il fenomeno rilevando una molteplicità di motivazioni a seguire queste sessioni on line. In primis è emerso in molte persone un uso sociale del fenomeno: contrastare l’isolamento sociale e la sensazione di solitudine, fenomeni trasversali e presenti in tutte le società.

Spence et al. (2019) hanno condotto uno studio sulla commensalità digitale, ovvero la pratica del mangiare insieme sentendosi meno soli, confermando che il Mukbang Watching potrebbe favorire sentimenti di connessione affettiva con altri individui: sentirsi emotivamente connessi con altre persone è una sensazione di estrema importanza, legata al concetto di empatia, di condivisione emotiva provata dagli spettatori nei confronti della persona che tiene la trasmissione. E’ possibile che l’esperienza percepita sia quella di aver l’impressione di “cenare con qualcuno”.

Anche altri autori (es. Kircaburun, K et al., 2020) hanno sostenuto che il Mukbang Watching fosse un mezzo per alleviare la solitudine e che il mukbanger fosse considerato un vero e proprio compagno di pasto dagli spettatori. Secondo questa spiegazione esplicativa, il Mukbang soddisferebbe la fame fisica e sentimentale delle persone sole, creando un legame sociale e di appartenenza tra i mukbanger e gli spettatori: spesso lo spettatore si organizza per consumare il proprio pasto durante la sessione del mukbanger.

Soprattutto donne in sovrappeso si sentivano legate emotivamente ad altre donne che mangiavano enormi quantità di cibo malsano in modo disordinato e davanti ad un pubblico.

Circa il 10% degli spettatori rimane connesso dopo aver mangiato per chattare su diversi argomenti che riguardano la propria vita quotidiana e si sentono attratti dai mukbanger perché mostrano il loro lato personale interagendo con i commenti degli spettatori, interrompendo il pasto e ringraziando il pubblico per i regali ricevuti (gli spettatori a volte pagano per far sì che il mukbanger faccia determinate azioni che loro richiedono).

Song (2018), analizzando le chat, ha sostenuto che la fidelizzazione degli spettatori avviene infatti attraverso l’interazione personale con i mukbanger .

A volte, però, l’interazione tra gli spettatori può diventare incontrollata (Bruno e Chung, 2017): alcune persone, ad esempio, hanno un’interazione violenta verbalmente e veicolano insulti verso i mukbanger per il loro aspetto e la quantità di cibo consumato, con l’intenzione di danneggiare la loro reputazione e la relazione con gli altri. Questo aspetto è importante perché in grado di influenzare le reazioni di altri spettatori nei confronti di ciò che stanno guardando, modificando i toni della conversazione e utilizzando l’interazione come sfogo delle proprie emozioni negative, non più dunque con una finalità di appartenenza, ma viceversa di presa di distanza attraverso l’uso del disprezzo, come un dicostarsi da qualcosa che si percepisce come soggettivamente attrattivo e contemporaneamente spaventante.

Un altro utilizzo rilevato dall’approfondimento dello studio fenomenologico è l’utilizzo sessuale: per Schwegler Castañer (2018), il Mukbang potrebbe essere inteso come feticismo, in particolare per le donne che mangiano enormi quantità di cibo dannoso, mostrando un vergognoso appetito. Altri aspetti emersi sono la potenziale oggettivazione sessuale del corpo femminile e il rafforzamento dei valori normativi riguardanti magrezza e consumismo.

Bruno e Chung (2017) evidenziano un altro aspetto importante: alcuni spettatori vedono i mukbangers come delle prostitute che mangiano e consumano qualsiasi cosa gli si chieda in cambio di denaro. Hanno anche affermato che parte del piacere vicario degli spettatori proviene dalla performance alimentare del mukbanger: è importante che questi mangi il cibo che hanno selezionato e desiderato, mostrando gemiti di piacere nel farlo.

Donnar (2017) ha sostenuto che la maggior parte degli spettatori di donne mukbanger magre e attraenti son maschi e in sovrappeso. Essi sono attratti dal fatto che qualcuno di affascinante si trovi in uno stato privato e vulnerabile (cioè nell’atto di mangiare): le sensazioni sessuali e alimentari provate, riportate, sono le più varie: piacere, desiderio, eccitazione, brama, invidia, disgusto e vergogna.

Pereira et al. (2019) hanno notato che ci sono noti mukbanger che, oltre ad essere belli fisicamente, sono estremamente socievoli e simpatici, e questo attrae maggiormente un gran numero di spettatori.

Per un’altra percentuale del campione il Mukbang viene utilizzato come un semplice intrattenimento: Choe (2019) sostiene che gli spettatori provano gratificazione guardando i mukbangers, soprattutto per i “suoni” del cibo prodotti ad esempio bevendo, masticando, preparando i cibi, oppure per i rumori derivanti dall’apertura delle confezioni di cibo, trovandolo uno spettacolo semplicemente divertente.

Kim Hae-jin, dottoranda presso l’Università di Chosun, ha sostenuto che un altro utilizzo del Mukbang è il soddisfacimento alimentare vicario: si può soddisfare il proprio desiderio di cibo per procura, cioè attraverso l’osservazione. D’altronde i mukbanger affermano di essere gli “avatar” del pubblico e che seguiranno esattamente ciò che la gente chiede loro di fare.

A cosa ci si riferisce con l’espressione “mangiare per procura”? Qualcuno mangia al posto nostro dandoci la sensazione di soddisfazione come se avessimo mangiato realmente. Hakimey e Yazdanifard (2015) hanno sottolineato che alcuni spettatori, essendo a dieta, hanno bisogno di guardare i Mukbang per avere l’esperienza di mangiare per procura, al fine di evitare di mangiare. Bruno (2016) ha sostenuto che gli spettatori si sentivano come se stessero mangiando, come se potessero “quasi assaporare il cibo e la conseguente sensazione di sazietà”. Gallespie (2019) ha sostenuto che la fantasia alimentare (idea di mangiare quanto si desidera senza subirne le conseguenze) è stata una delle motivazioni più importanti che hanno spinto le persone a guardare Mukbang. Gli spettatori sono estremamente soddisfatti attraverso la sensazione di abbuffarsi.

Anche Choe (2019) ha sostenuto che alcune persone provano eccitazione nel vedere il mukbanger mangiare determinati cibi che loro devono evitare essendo a dieta. In questo modo chi tiene la trasmissione è in grado di soddisfare le voglie di cibo degli spettatori, dando loro un piacere vicario di mangiare tramite stimoli visivi e audio.

Quali possono essere le conseguenze della fruizione di esperienze di Mukbang?

Per alcuni spettatori le conseguenze sono identificabili in momenti di sollievo, diminuendo, come abbiamo già sottolineato, la propria condizione di isolamento e incrementando la sensazione di appartenenza ad una comunità, per altri invece le conseguenze si sono confermate meno positive instaurando alterazione delle abitudini alimentari, incrementando fattori di rischio per l’instaurarsi di disordini alimentari, consumando più cibo rispetto alle proprie abitudini, cambiando tipologia di qualità del cibo, sostituendolo con alimenti meno salutari, intraprendendo anche un comportamento alimentare privo di buone maniere e rituali conviviali ( ad esempio scartare il cibo con i denti, mangiare con le mani, emettere suoni sgradevoli durante il consumo, non sedersi a tavola, etc.) sottoposti ad un meccanismo di emulazione (Spence, 2019). Un grande tranello in cui spesso cadono gli spettatori per emulazione è la convinzione distorta che si possa mangiare un enorme quantità di “cibo spazzatura” senza avere conseguenze sull’aumento di peso: i mukbanger infatti sono molto spesso persone estremamente magre, nonostante le abbuffate messe in mostra. Questo ha creato in molti spettatori situazioni di obesità e una maggiore tendenza al binge eating.

Il cibo entra ormai diffusamente nelle nostre case, da oltre un decennio, con grande enfasi e ridondanza, attraverso moltissimi programmi televisivi e social media, riscontrando grande approvazione e seguito da parte del pubblico: il senso dell’alimentazione si è allontanato dalla finalità della nutrizione e dalla soddisfazione di un bisogno primario, per acquisire nuove valenze sociali, che hanno ben poco a vedere con l’assaporare il nutrimento, ma che invece ci dicono molto su come anche il cibo è moda, apparenza, ossessione portata all’estremo degli eccessi.

Videoricette, consigli sull’alimentazione, pubblicità: il cibo sembra essere ovunque e la fiorente industria del dimagrimento è in costante crescita, mentre cerchiamo di trovare un equilibrio tra la crescente offerta di alimenti e la voglia di essere in forma. I Social hanno cambiato il nostro modo di vivere, interagire con gli altri, ma influenzano anche il nostro modo di mangiare, anche quando non siamo spettatori del Mukbang. Basta aprire un qualsiasi Social Network per essere bombardati da messaggi continui e contrastanti riguardanti il cibo: se infatti da un lato siamo sommersi da video e foto che hanno come unico soggetto il cibo, dall’altro siamo invitati ad essere belli, scattanti, in forma e decisamente magri.

Il nostro cervello ed il nostro appetito registrano una vera e propria frustrazione e confusione continua e non tutti sono in grado di trovare un sano equilibrio per bilanciare questi elementi, motivo per cui i disturbi alimentari sono in crescita, soprattutto nelle fasce di età pre-adolescenziali e adolescenziali e poi nuovamente nella popolazione over 40.

Tornando al Mukbang, in Corea questa pratica si discosta nettamente dai principi culturali tradizionali. Visto il crescere dei disordini alimentari e la correlazione con la visione di questi video, nel luglio 2018 il governo sudcoreano ha annunciato che avrebbe regolato le linee guida dei Mukbang pubblicando “Misure globali di gestione dell’obesità” poichè questa pratica avrebbe potuto indurre ad abbuffate e danneggiare la salute pubblica. Park (2018) ha riferito che il tasso di obesità in Corea del Sud era passato dal 31,7% nel 2007 al 34,8% nel 2016, il governo avvertiva pertanto l’esigenza di monitorare questi spettacoli. I mukbangers, però, si sono opposti sostenendo che “non vi è alcuna correlazione causale tra Mukbang e abbuffate alimentari” e che “il governo sta violando la libertà individuale”. Alcuni genitori, dopo aver visto i propri figli sfidarsi a mangiare tanto quanto i mukbangers, hanno difeso il piano del governo sostenendo che il Mukbang potesse influenzare negativamente i ragazzi, soprattutto i più giovani, attraverso l’emulazione di comportamenti scorretti percepiti come socialmente accettabili.

La preoccupazione più grande di due esperti di salute, Uxshely Chotai (fondatore della Food Psychology Clinic, Regno Unito) e il Dr. Naveed Sattar (professore di medicina metabolica all’Università di Glasgow, Regno Unito), è che il Mukbang promuova l’idea che abbuffarsi di cibo sia qualcosa di cui essere orgogliosi.

Shipman (2019), ad esempio, ha menzionato un mukbanger britannico che in un video ha mangiato più di 10.000 calorie di prodotti in una sola sessione: vedere qualcuno che si abbuffa di cibi malsani potrebbe far sì che gli spettatori percepiscano l’abbuffata come un comportamento normale e innocuo.

Concludendo, le ricerche presenti ad oggi sul Mukbang Watching concordano sul suo utilizzo come compensazione dei bisogni sociali non raggiunti nella vita reale. Gli spettatori ottengono gratificazioni sociali guardando questi video e si tratta principalmente di individui soli che tentano di alleviare il loro isolamento sociale (Stafford et al., 2004).

Questo fa emergere come il bisogno primario che sembra celarsi sotto questo nuovo fenomeno sia la necessità di stare insieme e condividere esperienze ed emozioni. Quando la vita mette qualcuno di fronte all’impossibilità di soddisfare questo bisogno, le persone trovano modalità differenti per alleviare le loro emozioni di solitudine, di noia, di non accettazione che sono inevitabilmente dei fattori di rischio comune per l’instaurarsi di un disagio psicologico.

Attraverso piattaforme online è possibile creare forti amicizie e relazioni emotivamente significative perché le persone si sentono in grado di esprimersi in modi che non li fanno sentire a proprio agio nella vita reale (Cole e Griffiths, 2007).

In particolare è stato riscontrato che l’uso del Mukbang come fuga dalla realtà è praticato principalmente da pazienti ospedalieri, da coloro che hanno stili di vita frenetici e solitari, da persone che hanno un senso di colpa e stress sull’essere grassi, da coloro che sono annoiati. Inevitabilmente la situazione pandemica mondiale degli ultimi due anni, che portato necessariamente e forzatamente ad una riduzione della socialità e della convivialità e ha disposto le persone in isolamento forzato, non ha aiutato ad arginare la diffusione di questo fenomeno. La fuga dalla realtà apparentemente sembra utile ad affrontare situazioni spiacevoli a breve termine, tuttavia talvolta può allontanare così tanto le persone dal contesto reale al punto tale da non rendersi più conto dei problemi che si devono affrontare (Hong e Park, 2018).

Sebbene questo fenomeno sia diffuso da più di un decennio si conosce ancora molto poco su di esso, le ricerche sono ancora relativamente poche e localizzate ad alcune aree geografiche in cui il fenomeno ha avuto una maggiore diffusione (Corea, Stati Uniti, Regno Unito). Emerge la necessità di approfondire, studiare meglio e a fondo il fenomeno Mukbang, soprattutto per limitarne le conseguenze disastrose che sembra incentivare e per dare strumenti di prevenzione verso comportamenti alimentari e sessuali problematici conseguenti.

Rispetto alle esperienze studiate e prese in carico da professionisti, sembrerebbe che alcune strategie terapeutiche siano state utilizzate efficacemente per ridurre queste problematiche. In particolare, forme specifiche di terapia cognitivo-comportamentale sono parse efficaci per trattare disturbi alimentari sia a breve che a lungo termine (Brownley et al., 2016) e gruppi di terapia cognitivo-comportamentale sono stati introdotti e utilizzati con successo per ridurre i comportamenti compulsivi (Sadiza et al., 2011).

Dott.ssa Consuelo Aringhieri

Psicologa Psicotereapeuta

 

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Binge watching: siamo drogati di serie tv?

L’espressione inglese “Binge watching” (letteralmente “abbuffata di visione) è entrata da tempo nel nostro dizionario, almeno da quando le piattaforme di streaming sono divenute un’alternativa alla tv tradizionale.

Fa riferimento alle “maratone televisive”, ossia alla fruizione di contenuti televisivi per un periodo di tempo superiore al consueto e senza soste e nello specifico indica la visione consecutiva di puntate di una serie tv che impegna lo spettatore per molte ore.

Il fenomeno delle abbuffate televisive non è certo nuovo, ma in passato aveva connotazioni diverse: già sul finire degli anni ’80 del secolo scorso alcune emittenti televisive statunitensi proponevano maratone legate a serie tv cult quali Star Trek e negli anni ’90 lo stesso accadeva con X files, mentre con la diffusione di massa dei DVD lo spettatore acquisiva il potere di scelta, determinando tempi e modalità di fruizione dei contenuti.

La vera affermazione del fenomeno del binge watching si ebbe però intorno al 2010, con l’affermazione sul mercato di servizi di video on demand.

In Italia la piattaforma Netflix arriva nel 2015, Amazon Prime nel 2016, mentre Sky era già operativa da diversi anni. A queste poi si aggiungono tutte le altre piattaforme che hanno contribuito all’ampliamento smisurato dei contenuti fruibili dagli utenti e che innegabilmente hanno reso il fenomeno delle abbuffate molto più diffuso di quanto probabilmente non si pensi.

Stando ai dati rilasciati da Netflix relativi ad uno studio commissionato dalla stessa piattaforma, su un campione di 1500 consumatori di serie TV via streaming, il 61% dichiara di praticare il binge watching almeno una volta alla settimana, mentre il 73% degli intervistati dichiara di associare “sensazioni positive” a questa pratica. Secondo YouGov, società di ricerche di mercato, il 58% degli americani è dedito al binge watching, motivando questo comportamento con il desiderio di vedere tutta la serie in un’unica soluzione, oppure perché si riconosce impaziente di aspettare una settimana per guardare l’episodio successivo o, ancora, per paura degli spoiler.

Il periodo del lockdown ha ulteriormente contribuito ad accentuare il fenomeno, anche in Italia ovviamente, rendendo necessaria una riflessione su una pratica solo apparentemente priva di controindicazioni.

Se infatti il concetto di dipendenza è talvolta applicato in maniera generalista e declinato in modo inappropriato in riferimento a molti comportamenti che oggi vediamo intorno a noi, è pur vero che il binge watching rappresenta per alcuni soggetti una dipendenza comportamentale, non ancora classificata ufficialmente, ma che soddisfa i criteri clinici per definirla come tale: tolleranza, astinenza, compromissione della attività sociali, lavorative o scolastiche.

Ciò che vale per tutte le forme di dipendenza può valere anche, quindi, per il binge watching ed il rapporto causa-effetto potrebbe essere letto in ottica circolare piuttosto che lineare. Già nel 2015 un gruppo di ricercatori dell’Università del Texas ha evidenziato come il binge watching sia correlato ad ansia, depressione, solitudine e difficoltà relazionali. Non è tuttora chiaro però se siano gli stati emotivi a produrre il comportamento di abbuffate tv oppure se, al contrario, siano le abbuffate ad indurre cambiamenti negativi nello stato umorale e nelle risposte comportamentali degli utenti

Prescindendo dal concetto di dipendenza, inoltre, il ripetersi sistematico di abbuffate televisive può avere serie ripercussioni sulla qualità di vita dello spettatore: disturbi del sonno, relazioni conflittuali, rinuncia alle proprie attività quotidiane sono alcune esse.

A queste se ne aggiungono altre, quali disturbi visivi, perdita della cognizione temporale, sedentarietà e aumento di peso e talvolta senso di vuoto e angoscia di separazione legato alla fine della serie tv, con possibile sviluppo di sintomi depressivi (“post-binge watching blues”, ovvero depressione da fine serie). A tal riguardo sono attivi gruppi on line di supporto con l’intento di aiutare gli spettatori ormai orfani dei loro personaggi preferiti protagonisti di serie tv.

Eccessivo? Forse, ma così è. Il passo successivo potrebbe essere innamorarsi di un’altra storia e ricominciare tutto daccapo.

È tuttavia necessario specificare che il binge watching può rivelarsi pericoloso solo se protratto nel tempo e praticato abitualmente per tempi molto lunghi, nel qual caso, a fronte delle condizioni descritte precedentemente, può essere utile un consulto specialistico in stile “In Treatment”

Dott. Stefano Lagona

Psicologo Psicoterapeuta

 

Effetto Dunning Kruger – Quando la fiducia (eccessiva) in te stess* ti può riservare brutte sorprese

Hai mai sentito parlare dell’effetto Dunning-Kruger?

Si tratta di un errore cognitivo (possiamo chiamarlo Overconfidence bias) della nostra mente che porta ad avere una fiducia smisurata in se stessi.

Quando potresti esserne vittima?

Ad esempio, quando guardi la tua squadra del cuore giocare e pensi che tu, proprio tu che non hai mai giocato da professionista, quella punizione, quella schiacciata o quel tiro a canestro l’avresti tirata/o meglio.

Oppure quando stai guidando e ignori volutamente il navigatore convint* di conoscere strada e percorso meglio di un aggeggino collegato ai satelliti. Ritrovandoti poi a far ricalcolare varie volte la strada al tuo navigatore e accumulare minuti e minuti di ritardo.

O ancora, quando critichi il capo di stato di turno, esperto virologo, ingegnere che siano convinto che tu, al posto loro, pur non avendo i loro titoli e le loro competenze avresti fatto meglio.

Ecco, questi sono solo alcuni degli errori cognitivi legati all’effetto Dunning-Kruger.

Perché ci crediamo così superiori agli altri, in tante o poche occasioni, tanto da non riuscire a riconoscere l’errore e il fallimento a portata di mano?

Per capire meglio di cosa si tratti questo effetto Dunning-Kruger dobbiamo fare un passo indietro e tornare nel 1995 a Pittsburgh, USA.

Tutto parte con McArthur Wheeler, uomo di mezza età che rapina due banche nello stesso giorno a volto scoperto.

Questo improvvisato rapinatore, che si credeva, invece, furbo, si era fatto persuadere da un conoscente che gli aveva detto che se si fosse spalmato in faccia del succo di limone questo lo avrebbe reso invisibile alle telecamere di sorveglianza.

Questa (falsa) credenza derivava da un “trucco di magia” che questo conoscente gli mostrò: intinse un pennino (uno stuzzicadente, un pennello etc) nel succo di limone e scrisse su un foglio di carta alcune cose.

Per “magia” il foglio non venne ricoperto di scritte, ma rimase pulito. Appena il foglio venne avvicinato ad una fonte di calore (ad esempio una candela) ecco che comparirono le scritte.

McArthur Wheeler, però, non si credeva di certo uno sprovveduto, voleva giustamente verificare con i suoi occhi che tutto ciò fosse vero.

Cosa pensò di fare? Si cosparse la faccia di succo di limone e si scattò una fotografia con una polaroid. La foto che venne fuori confermò al mal capitato rapinatore la correttezza della sua teoria, la foto, in effetti, ritraeva solamente uno sfondo bianco e nessuna traccia del futuro ladro!

Lui non lo capì, ma cospargersi il viso (occhi inclusi) di succo di limone non gli permise di vedere bene e scattando la foto mosse la macchina fotografica che puntò dritto al soffitto!

Confermata la teoria, ora nessuno può fermare una mente tanto brillante, quanto criminale.

O forse no.

Dopo poche ore dalle due rapine McArthur Wheeler venne rintracciato e arrestato a casa sua con il bottino in bella vista. McArthur rimase incredulo dichiarando, infatti, stupito ai polizioti che lui si era ricoperto di succo!

Come ha fatto la polizia a scoprirlo? Il succo di limone lo aveva passato su ogni centimetro quadrato della sua faccia, aveva accuratamente evitato le fonti di calore nel corso delle rapine e fatto le prove con la polaroid.

Eppure…

Questa notizia arrivò a due psicologi, David Dunning e Justin Kruger, che lavoravano per il dipartimento di psicologia sociale della Cornell University.

I due ricercatori ipotizzarono che una persona che non è in grado di riconoscere la propria ignoranza spesso sovrastima le sue capacità e abilità.

Per testare la loro ipotesi fecero un esperimento: ad un campione di persone venne chiesto quale fosse la loro competenza in tre diverse aree (umorismo, grammatica e logica). Queste persone furono successivamente valutati nelle tre aree per verificare quali fossero le loro reali abilità.

I risultati mostrarono che i partecipanti che si erano definiti molto competenti, in realtà avevano preso punteggi molto bassi; chi, invece, aveva sottostimato le proprie abilità si aggiudicò buoni risultati.

Questa ricerca e quelle che seguirono convalidarono l’ipotesi dei due ricercatori: chi pensa di sapere ed è impreparato sovrastima la propria abilità e competenza; al contrario, chi crede di non sapere è convinto di non avere buone abilità o poche competenze in merito ad una data questione anche se, invece, i loro risultati sono migliori.

Da queste ricerche prende il nome di “Effetto Dunning-Kruger” e altro non è che il pregiudizio cognitivo dell’illusione della competenza: alcune persone stimano le loro abilità e competenze più alte di quelle che sono in realtà.

Pensala in questo modo, la conoscenza è come una nuvola, mentre quello che non conosci (ciò che ignori, quindi di cui non hai conoscenza) è il cielo. Puoi apprendere nuove cose e così aumentare la grandezza della tua nuvola, ma il cielo resterà comunque sempre più grande di quello che puoi sapere. La tua nuvola non potrà mai coprire l’intero cielo.

La stessa questione fu espressa da Confucio secoli fa: “La vera conoscenza risiede nel conoscere l’estensione della propria ignoranza”.

Ci sarà sempre, di conseguenza, qualcosa che non sapremo. Il punto è poterlo riconoscere.

Come superare allora l’effetto Dunning-Kruger?

Tutti siamo, più o meno, vittime in alcune situazioni di questa distorsione cognitiva.

Secondo gli psicologi Dunning e Kruger le possibilità che abbiamo sono quelle di auto-valutarci in modo più oggettivo possibile, non smettere mai di apprendere (il tuo sapere sarà sempre più piccolo delle conoscenze presenti nel mondo) e metterci in costante discussione rispetto a noi stessi e alle nostre conoscenze.

“Il problema dell’umanità è che gli stupidi sono strasicuri, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi.” Bertrand Russell

Dott. Kalman Gilberto

Psicologo Psicoterapeuta

Bibliografia

Kruger J., Dunning D., Unskilled and unaware of it: how difficulties in recognizing one’s own incompetence lead to inflated self-assessments, J Pers Soc Psychol. 1999 Dec;77(6):1121-34

Kruger J, Dunning D.J, Unskilled and unware but why? A reply to Krueger and Muller, Pers Soc Psychol. 2002 Feb; 82 (2): 189-192

Burson KA, Larrick RP, Klayman J., Skilled or unskilled, but still unware of it: how perceptions of difficulty drive miscalibration in relative comparisons, J Pers Soc Psychol. 2006 Jan; 90 (1): 60-77

Critcher CR, Dunning D., How chronic self-views influence (and mislead) self-assessments of task performance: self-views shape bottom-up experiences with the task, J Pers Soc Psychol. 2009 Dec; 97 (6): 931-945

Furnham A., Chamorro-Premuzic T., Estimating one’s own and one’s relatives’ multimple intelligence: a study from Argentina, Span J Psychol. 2005 May; 8 (1): 12-20

Strappare lungo i bordi come metafora dell’adolescenza. Riflessione personale in un’ottica psicodinamica

!   Non adatto a chi non ha ancora visto la serie perché potrebbe contenere spoiler.

Nel mio lavoro di psicoterapeuta mi è capitato di parlare in seduta di Strappare lungo i bordi e, come sempre, una delle cose che mi piace delle mie giornate è poter cogliere come le persone captino ed elaborino gli stimoli in modo diverso, soggettivo, e spesso in relazione al proprio mondo interno.

C’è chi si è riconosciuto in un male di vivere diffuso, chi ha colto le citazioni e i dettagli studiati al millimetro in ogni scena, chi non lo ha apprezzato, chi si è commosso, chi avrebbe voluto sapere di più.

Poiché lavoro con una fascia di età variegata, ho colto che le persone, a seconda della fase di vita in cui si trovavano, si sono identificate e sintonizzate con alcuni degli aspetti che vengono trattati o solo sfiorati.

Ho deciso di scrivere questo breve articolo per cogliere una sfumatura relativa all’adolescenza e al processo, a volte doloroso, di costruzione della propria identità in relazione ai contenuti di questa serie. Chiaramente, e con mio dispiacere, non posso sapere se l’autore sarà d’accordo con questa personale lettura ed interpretazione, ma, come i miei pazienti, decido di sintonizzarmi su una sfaccettura tra mille, senza pretendere che sia l’unica possibile o quella corretta.

Il titolo in primis mi ha colpito e rimandata alle immagini, alla forma delle forbici, delle forme preconfezionate e alle guide; poi il mio pensiero è volato all’ideale dell’Io e alla definizione di Winnicott di Vero e Falso Sé nei termini che seguono.

L’Ideale dell’Io si riferisce a quell’istanza della personalità in cui convergono il narcisismo, inteso come idealizzazione dell’Io, le identificazioni con i genitori e gli ideali collettivi; esso rappresenta un ideale verso il quale il soggetto tende. L’ideale dell’Io è una formazione psichica parzialmente indipendente che rappresenta un punto di riferimento per l’Io. Quest’ultimo valuta, misura e modula le proprie realizzazioni proprio a partire da questo e proietta in avanti il proprio ideale sostituendo il narcisismo dell’infanzia in cui egli stesso era il proprio ideale.

Secondo Winnicott il Vero Sé è il “gesto spontaneo”, l’idea personale, il sentirsi reale e creativo mentre il Falso Sé è una protezione nei confronti di un ambiente che si è rivelato inadeguato ad anticipare e soddisfare il bisogno del bambino causando frustrazione.

In condizioni ottimali, l’infanzia è caratterizzata da sicurezza, il mondo del bambino è stabile, prevedibile, le figure di riferimento come genitori e insegnati costanti e affidabili, ma, sotto le spinte della crescita e la nascita delle nuove istanze, questo paradigma può subire dei violenti stravolgimenti. In condizioni sfavorevoli, il bambino prima e l’adolescente poi, si trova a dover rinunciare all’autenticità in favore di un adattamento che tuttavia, sotto le spinte della crescita, rischia di crollare originando uno stallo e, forse, un break down. La sensazione di stallo e quindi di arresto evolutivo può generare un profondo dolore, i compiti evolutivi che erano stati messi all’ordine del giorno non sono soddisfatti e il futuro, prima idealizzato e pensato roseo, non esiste più.

Il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, infatti, può essere turbolento: crolla l’onnipotenza infantile, si incontra la caducità propria e del mondo, si scopre che i genitori e gli adulti significativi non sono supereroi, ma donne e uomini fallibili, che non conoscono tutto, ma che si arrabattano anche loro nel miglior modo possibile. Venute meno le certezze esterne, lo sguardo si volge al Sé e sorgono le domande: “Chi sono? Se non sono il bambino prodigio che avevano decantato mamma e papà, se non sono lo studente preferito della maestra, se non sono l’atleta che mi avevano promesso che sarei diventato, allora chi sono?”.

Zerocalcare sembra parlare della fatica delle proiezioni che provengono dall’esterno, degli stereotipi sociali che si abbattono sul singolo e che possono far sentire inadeguati e a volte “rotti”. Se si dà voce alla parte autentica di sé, cosa resta?

Lo psicoterapeuta Charmet sottolinea quanto l’adolescente senta di avere dei compiti evolutivi da svolgere. Questo significa che sente l’esigenza di dover fare, pensare o realizzare qualcosa di importante per sé, qualcosa di così significativo ed irreversibile tale da dare una svolta alla propria vita e che le dia importanza. La finalità è quella di sentire di aver fatto un salto di qualità, ma cosa accade se il processo si blocca? Se non si ha una direzione specifica, se le risorse si rivelano insufficienti e se l’angoscia diventa opprimente? Trovare la propria strada può diventare un compito difficile e accidentato.

Spesso, infatti, gli adolescenti sentono su di sè lo sguardo di ritorno colmo di domande in merito alla propria identità e valore e sentono la pressante richiesta sociale in merito alla necessità di sbrigarsi nel capire chi siano, quale siano i loro talenti e che si assumano responsabilità. Ma se dentro di sé esiste l’ipotesi e la paura di non essere altro che quel ragazzo annoiato, violento, “addormentato” allora il dolore non può che aumentare soprattutto nel momento in cui si prende consapevolezza che tutte queste voci, che si pensava provenissero dall’esterno, nascono in realtà dall’interno.

E allora noi andavamo lenti perché pensavamo che la vita funzionasse così, che bastava strappare lungo i bordi, piano piano, seguire la linea tratteggiata di ciò a cui eravamo destinati e tutto avrebbe preso la forma che doveva avere. Perché c’avevamo diciassette anni e tutto il tempo del mondo.

Se l’adulto nevrotico soffre per il “passato” e le ferite che esso ha comportato, l’adolescente spesso soffre a causa della mancanza di futuro e per il lutto di quella promessa non mantenuta. E qui “strappare lungo i bordi non è più possibile: bisogna fare il lutto di quella promessa, di quel futuro immaginato che non può più realizzarsi, di quel sé futuro non raggiungibile. Crescere significa allora costruire la propria linea tratteggiata, essere pronti ad aggiustarla quando le cose non vanno come desiderate e immaginarsene una nuova, magari non proprio identica a quella idealizzata. E forse quell’ideale dell’Io promosso dai genitori, dall’ambiente e da se stessi non può funzionare, quella sagoma deve essere personale, nuova, creativa. Qui può trovare spazio il desiderio, la speranza per la costruzione di sé, non solo intrisa di aspettative, ma frutto di un percorso personale e intimo a volte accidentato.

Zerocalcare parla anche della paura di crescere e dell’errore, quindi dello scacco evolutivo in cui i ragazzi a volte si trovano. Capita infatti che i ragazzi si ritirino, che decidano di non partecipare più alla vita, né scolastica né sociale/relazionale.

Per un sacco di tempo ho pensato che se non strappavo più un cazzo, se tenevo tutte le bocce ferme immobili, almeno non facevo altri danni.

Ma si tratta di una chimera: il tempo scorrerà lo stesso e la vita con esso infatti:

pure se non lo strappi quello si ciancica.

È un processo che non si può arrestare. Fare e non fare sono comunque due azioni, sono scelte che porteranno a delle conseguenze; il tempo scorre e subentra la consapevolezza della morte. Emerge così un forte dolore e la sensazione di inadeguatezza, della paura di presentarsi al mondo e dell’entrata nel mondo degli adulti cupi, grigi e privi di speranza o spessore.

Personaggio chiave e controverso è Secco, l’amico che tutti dovremmo avere. A prima vista sembra superficiale, ma quel gelato che offre come panacea di tutti i mali può forse rappresentare la cura dell’amico, la sua vicinanza e sintonizzazione silenziosa. Quello che propone non è solo passare oltre il dolore, ma introdurre un elemento consolatorio. Secco si dimostra l’amico sempre presente, forse afflitto anche lui dell’assenza di un posto nel mondo e di un futuro, si barcamena nell’oggi e offre una spalla a chi gliela chiede. Secco gioca a poker, scommette sul fatto che le cose andranno bene, in qualche modo scommette sul futuro, pensa che potranno capitargli buone carte e allora riscattarsi. Amico silenzioso e riservato conosce i pensieri e i segreti di tutti: davanti al gelato gli amici si aprono, forse in qualche modo si sentono consolati e accettati; senza pressioni ci si confida. Secco non offre solo l’oggetto, ma l’occasione dell’esperienza della condivisione.

L’uscita dall’adolescenza e l’entrata nel mondo degli adulti è rappresentata come un percorso tragicomico in cui leggerezza e profondità si mescolano. La morte, silenzioso filo conduttore che attraversa gli episodi, compare prepotentemente con tutto il suo dolore solo alla fine (non tratterò in questo articolo il tema del suicidio perché merita una riflessione a parte). La morte, simbolo e metafora del lutto per ciò che non è più possibile, lascia cicatrici visibili ed eterne e al tempo stesso lascia spazio per la guarigione della ferita (forse anche di quella narcisistica) che consente di proseguire il percorso senza dimenticare.

Dott.ssa Debora Tonello

Psicologa – Psicoterapeuta

 

BIBLIOGRAFIA

Lancini M., Cirillo L., Scodeggio T., Zanella T. L’adolescente. Psicopatologia e psicoterapia evolutiva. Raffaello Cortina editore 2020
Pietropolli Charmet G. Fragile e spavaldo. Ritratto dell’adolescente di oggi. Editori Laterza 2008.
Pietropolli Charmet G., Bignamini S., Comazzi D. Psicoterapia evolutiva dell’adolescente. FrancoAngeli 201
S. Freud, Totem e tabù e altri scritti 1912-1914, OSF, Torino, Bollati Boringhieri, 2000
Winnicott D. W. (1960). Sviluppo affettivo e ambiente. Armando: Roma.
Winnicott D. W. (1975). Dalla pediatria alla psicoanalisi. Feltrinelli: Firenze
Zerocalcare. Strappare lungo i bordi

Cambiamento climatico e ansia

Eco-ansia. È con questo termine che ci si riferisce alla sintomatologia ansiosa sperimentata in risposta al cambiamento climatico. Negli ultimi anni i media hanno puntato i riflettori sugli effetti del riscaldamento globale indotto dalla condotta dell’uomo sul pianeta. E tali effetti sono osservabili: aumento delle temperature, cambiamento delle rotte dei venti e della distribuzione delle piogge, estinzione di alcune specie animali, difficoltà negli approvvigionamenti di cibo, distruzione di ecosistemi e, in un futuro non troppo lontano, migrazioni climatiche.

L’incremento della consapevolezza circa il cambiamento climatico, dunque, unito alla preoccupazione per il futuro e al senso di impotenza costruisce le basi per l’eco-ansia. Essa può essere caratterizzata anche da paura e panico, rabbia, sensazione di svuotamento, stanchezza, senso di colpa, fino a includere disperazione e vere e proprie fobie.

Alcuni autori considerano l’eco-ansia una specie di disturbo pre-traumatico da stress, poiché le conseguenze dell’evento traumatico vengono sperimentate ancor prima che se ne abbia esperienza diretta.

Il malessere connesso al cambiamento climatico include anche il lutto ecologico, riferito alla perdita di ecosistemi, paesaggi, abitudini, etc. e la solastalgia intesa, quest’ultima, come la sofferenza che ci pervade quando l’ambiente che ci circonda viene violato.

Bambini e adolescenti sono maggiormente esposti a questo genere di disturbi e questo perché, a differenza delle generazioni precedenti, sono cresciuti in un contesto in cui lo spettro del cambiamento climatico è costantemente in agguato e, sotto questo punto di vista, non si sono mai sentiti protetti e al sicuro. Inoltre è possibile che gli effetti del riscaldamento globale influiscano sullo sviluppo già dal concepimento.

Non è un caso che gli scioperi per il clima (es.: Fridays for Future) coinvolgano proprio i più giovani: sono loro a sentire maggiormente il peso e l’ineluttabilità dei cambiamenti climatici ed è a loro che bisogna guardare per la costruzione di buone prassi collettive che li vedano protagonisti.

Ma come si può gestire l’eco-ansia? Si tratta di un ambito di ricerca del tutto nuovo, perciò non è possibile identificare strumenti indubbiamente efficaci nel trattamento di questo malessere del Ventunesimo secolo. Chi se ne occupa, però, lo fa agendo su due fronti:

individuale, offrendo la possibilità, a chi chiede aiuto, di riscoprire le proprie risorse personali mettendole al servizio dei valori che intende perseguire, limitando la tendenza a catastrofizzare e riscoprendo le sfumature di un mondo che non è solo in bianco e nero grazie anche a pratiche di mindfulness e gratitudine oltreché all’instaurazione di routine salutari;
collettivo, mettendo in contatto individui con bisogni simili, promuovendo programmi di educazione ambientale e incentivando azioni di gruppo volte alla salvaguardia del pianeta.

L’eco-ansia, il lutto ecologico e la solastalgia, pur procurando sofferenza e disagio, possono in fin dei conti rappresentare anche un importante motore per il passaggio all’azione. Le istituzioni e i professionisti devono perciò mettersi al servizio di questo malessere che, di fatto, è connesso a un bisogno fondamentale: prendersi cura del pianeta per sopravvivere!

 

Dott.ssa Arianna Calabrese
Psicologa- Psicoterapeuta

Riferimenti bibliografici

Baudon, P., & Jachens, L. (2021). A Scoping Review of Interventions for the Treatment of Eco-Anxiety. International journal of environmental research and public health, 18(18), 9636.
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Comtesse, H., Ertl, V., Hengst, S., Rosner, R., & Smid, G. E. (2021). Ecological Grief as a Response to Environmental Change: A Mental Health Risk or Functional Response?. International journal of environmental research and public health, 18(2), 734.
Gislason, M. K., Kennedy, A. M., & Witham, S. M. (2021). The Interplay between Social and Ecological Determinants of Mental Health for Children and Youth in the Climate Crisis. International journal of environmental research and public health, 18(9), 4573.