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Il suicidio negli anziani

Dagli ultimi 50 anni l’età media si è allungata di una ventina d’anni. E continuiamo a guadagnare circa tre mesi ogni anno. Dagli anni Ottanta abbiamo guardato sempre solo al successo, al fascino della gioventù e del benessere, trascurando che siamo diventati il Paese più vecchio del mondo insieme al Giappone: oggi un italiano su quattro ha più di 65 anni.

Quando un quarto della popolazione è anziana entrano in gioco cambiamenti di natura demografica, sociale ed economica che interagiscono in modo complesso con la sfera individuale del soggetto.

All’aumentare dell’età, aumentano le difficoltà di carattere fisico e cognitivo, mentre si restringono le possibilità di interazione sociale.

L’aumento dei problemi di salute e della solitudine possono portare la persona a sviluppare pensieri suicidi.

Spesso quando si pensa al suicidio e a far prevenzione su questo tema ci si rivolge agli adolescenti e giovani adulti, come se fosse questa la fascia d’età più a rischio, ma secondo la rilevazione Istat “Decessi e cause di morte”, nell’anno 2010 tra i residenti in Italia si sono tolte la vita 3876 persone, di queste il 78% erano uomini. Gli over 65enni rappresentano circa un terzo di tutte le vittime di suicidio.

Sia per gli uomini che per le donne la mortalità per suicidio cresce con l’aumentare dell’età ma, mentre per le donne questo aumento è piuttosto costante, per gli uomini si evidenzia un incremento esponenziale a partire dai 65 anni. Tra gli uomini nella classe di età 65-69 anni si registra un tasso pari a circa 14 suicidi ogni 100.000 abitanti della stessa età, che aumenta progressivamente fino a raggiungere, tra gli over 95enni, un picco di circa 46 suicidi ogni 100.000.

Per gli uomini la mortalità per suicidio comincia ad aumentare in modo esponenziale proprio in coincidenza con l’età al pensionamento, che frequentemente coincide anche con la fuoriuscita dei figli dalla famiglia di origine, eventi questi che spesso si associano a una riduzione dei ruoli sociali e a un restringimento dell’ampiezza e densità delle reti di relazione. Tutto ciò, contestualmente al peggioramento dello stato di salute generale legato al naturale processo di invecchiamento, può aumentare il rischio di isolamento sociale che a sua volta concorre ad aumentare il rischio di suicidio. Tra i fattori che contribuiscono ad amplificare il rischio di isolamento sociale c’è anche la perdita del coniuge ed è stato evidenziato come l’essere vedovo sia associato a un rischio cinque volte maggiore di suicidio rispetto alla condizione di

coniugato e che l’impatto della vedovanza sul rischio di suicidio è maggiore per gli uomini che non per le donne.

Sono cifre importanti che rivelano un fenomeno di cui nessuno parla, ma il suicidio nell’anziano è un problema di sanità pubblica in quanto gli anziani rappresentano il gruppo con la più elevata prevalenza di suicidio, soprattutto se di sesso maschile.

Il 75% degli anziani muoiono al loro primo tentativo di suicidio in quanto l’atto è stato pianificato da tempo e non si configura quindi come un atto impulsivo.

Gli anziani non riportano frequentemente pensieri suicidi e non utilizzano servizi preposti quando disponibili. Quindi il suicidio è evento molto frequente, ma poco se ne parla.

Le cause sono legate alla solitudine, alla fragilità fisica e a bisogni esistenziali non soddisfatti. Il suicidio nell’anziano non sempre si verifica in presenza di un disordine mentale o psichiatrico, perché causato dal sommarsi di malattie somatiche o da eventi di vita stressanti.

Il suicidio viene compiuto prevalentemente in solitudine, e in luoghi in cui altre persone non possano intervenire; raramente è una protesta contro l’ambiente, l’aggressività è rivolta contro l’interno, al fine di eliminare le difficoltà ad accettare le tante perdite e i cambiamenti che la vecchiaia comporta.

Diventa possibile, pur nel rispetto della libertà e della autonomia dell’individuo, pensare anche un intervento di prevenzione e di aiuto, tanto più se la suicidarietà è correlata a una condizione psicopatologica o, comunque, a una sofferenza grave che ha molteplici cause e che può essere affrontata.

I farmaci soprattutto quelli antidepressivi potrebbero ridurre i pensieri suicidari e il suicidio. La depressione nell’ anziano si manifesta nel contesto di altre malattie, in associazione alla disabilità, a mutate situazioni sociali. Non deve essere confusa con la tristezza; ma non raramente la depressione è sottosoglia.

La riduzione del supporto sociale per lutto famigliare, il pensionamento, il cambio di abitazione o di setting curativo-assistenziale sono fattori di rischio da valutare adeguatamente; anche l’ insonnia è segno rilevante di depressione e richiede attenzione anche per il possibile impiego di farmaci che riducono l’ attenzione e l’equilibrio (cadute) dell’ anziano. Gli eventi stressanti devono essere rilevati durante l’ anamnesi così come la presenza di malattie come il

cancro, ictus, diabete, cardiopatia con scompenso, politerapia, dolore cronico, lutto recente, storia di ideazione suicida, ipotiroidismo, carenza di vitamina B12 e acido folico.

La prevenzione del suicidio: è possibile?

 

Si dovrebbe cercare di aumentare la resilienza delle persone anziane con esercizi di mindfulness che si contrappone a “mindlessness”, ovvero chiusura mentale, cioè essere incastrati in schemi cognitivi passati, non più funzionali nel presente; l’ obiettivo è il benessere psicofisico della persona, soprattutto anziana.

Sarebbe importante, conoscendo i fattori di rischio, fare prevenzione delle malattie croniche, attivare palestre cognitive, intervenire su situazioni di disagio sociale (solitudine) e psicologico (depressione).

E poi si dovrà aiutare ad elaborare il lutto di chi sopravvive al suicidio di un congiunto anziano.

25 Novembre – giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Confronto tra intelligenza artificiale e una donna sulla violenza di genere

“Dire omicidio ci dice solo che qualcuno è morto.

Dire femminicidio ci dice anche il perché”

Michela Murgia

 

 

Novembre 2023, 106 femminicidi.

Nel 2022 sono stati 126

nel 2021, 115 nel 2020, 128

nel 2019, 111

Si stima che almeno l’87% dei femminicidi sia commesso da un familiare, e la metà dal partner/ex.

E non ci sono solo le morti.

Le denunce per maltrattamenti sono passate dalle circa 9.700 del 2013 alle 19.900 di un 2023 che deve ancora finire.

Nello stesso decennio le denunce per atti persecutori è passata da circa 9.600 alle 13.800 di questi 11 mesi. E ricordiamoci che lo stalking è reato solo dal 2009.

Le violenze sessuali hanno registrato un incremento del 40,2% negli stessi dieci anni.

Numeri freddi e spaventosi che è bene sottolineare fanno riferimento ai soli casi denunciati, escludendo quindi quelli che sfuggono alla cronaca e tutto un sommerso che riguarda in particolare le donne più fragili come le migranti, le trans, le sex workers.

 

Il 25 novembre non deve parlare di donne, deve parlare di uomini. Agli uomini.

 

In un Paese nel quale continuano a diminuire gli omicidi, i femminicidi restano pressoché immutati e le violenze sulle donne aumentano. Questo spinge ad una riflessione obbligatoria ma ancora troppo ostracizzata: perché gli uomini uccidono le donne? Perché questa violenza sistemica che tocca trasversalmente donne di qualunque etnia, età, estrazione sociale? E’ una dinamica di potere che le vuole sottomesse. E’ PATRIARCATO.

Una parola “divisiva”, dice chi ha il privilegio di sedere dal lato dei carnefici.

“Not all men”, non tutti gli uomini, gli fanno coro altri, più preoccupati dal sentirsi (dirsi) innocenti che dal capire come recuperare una “dignità di genere” comprensibilmente e profondamente messa in discussione. Eppure nessun uomo è esonerato dal fare la propria parte per smantellare la società che lo privilegia tanto, a discapito di altri. È ora che gli uomini capiscano che possono piangere, chiedere aiuto, sentirsi fragili, che la cultura machista deve finire per la loro libertà e per la nostra sicurezza.

Gender pay gap, pinkwashing, mansplaining, catcalling, victim blaming, tone policing, un mondo di inglesismi che racconta una quotidianità fatta di differenze salariali, di molestie, di controllo economico, di uomini che zittiscono o che pretendono di spiegare alle donne per quali istanze che le riguardano dovrebbero combattere e come farlo. A voce bassa e senza disturbare troppo, grazie.

“Avete già ottenuto molto” “Un passo per volta” “Le priorità sono altre” “Gli uomini si sentono destabilizzati” “Vedete il patriarcato ovunque”

Si è addirittura coniato il termine “nazifemminismo” per dipingere le donne come invasate, violente e ottuse, come se poi si chiedesse di togliere qualcosa a qualcuno, e non di ottenere tuttə di più.

In un Paese con il 97% di CEO uomini, con una media del 13% di differenza salariale, sono sempre tavole rotonde di maschi bianchi cis etero che dettano le regole di un flebile diritto all’aborto, che osteggiano la diffusione di un italiano inclusivo tra schwa e professioni finalmente declinabili al femminile, svilendo la necessità di essere riconosciute anche per mezzo delle parole come se si trattasse di un capriccio, mentre le parole sono tutto ed è attraverso queste che esistiamo. Sono questi stessi uomini che vorrebbero decidere come intervenire per prevenire la piaga sociale che miete vittime con un cadenza media di una ogni 72 ore. Perché è di prevenzione che si deve parlare.

Di una pena più severa, una donna morta non sa che farsene.

 

Fonti:

Ministero dell’Interno, Wired, Osservatorio violenza sulle donne, Osservatorio nazione Non Una di Meno

 

Per approfondire:

Donata Columbro, giornalista, “femminista dei dati”

Ella Marcello, copywriter, insegnante, scrittrice, attivista

Lorenzo Gasparrini, filosofo femminista, scrittore

Mica Macho, community di sensibilizzazione contro la mascolinità tossica

Flavia Brevi, fondatrice e creativa di Hella Network ed esperta di comunicazione inclusiva

 

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Intervista all’Intelligenza Artificiale su violenza di genere e risposta maschile al fenomeno.

 

Intervistatore: Quali sono gli aspetti chiave che alimentano la cultura patriarcale?

IA: La cultura patriarcale si basa su stereotipi di genere, aspettative sociali e norme che favoriscono un genere a discapito dell’altro, contribuendo a disuguaglianze e comportamenti dannosi.

 

Intervistatore: Quali sono i comportamenti di violenza di genere associati alla cultura patriarcale?

IA: La violenza di genere collegata alla cultura patriarcale comprende molestie sessuali, abusi domestici, discriminazione economica, violenza simbolica e psicologica, violazione dei diritti riproduttivi e femminicidio. Ad esempio:

· Controllo e Possesso: Un partner che controlla i movimenti o il telefono dell’altro, limitando il contatto con amici e familiari.

 

· Mascolinità tossica: Un individuo che manifesta comportamenti aggressivi, in parte influenzato da una cultura che enfatizza la mascolinità aggressiva e la repressione delle emozioni.

 

· Giustificazione della Violenza: In una comunità che minimizza o giustifica la violenza contro le donne, un uomo potrebbe interpretare erroneamente atti violenti come accettabili in risposta a provocazioni percepite.

 

· Sottovalutazione delle donne: In un ambiente in cui le donne sono sottostimate, un individuo potrebbe non attribuire il giusto valore alle loro vite e opinioni.

 

Questi esempi illustrano come queste dinamiche si manifestano nella vita quotidiana, evidenziando la necessità di affrontare la cultura patriarcale per prevenire la violenza di genere, inclusi i femminicidi.

 

Intervistatore: La cultura patriarcale può quindi contribuire ai femminicidi?

IA: Sì, la cultura patriarcale può creare un ambiente in cui un femminicida si sente sostenuto o giustificato. Punti chiave includono il controllo e il possesso, la mascolinità tossica, la giustificazione della violenza e la sottovalutazione delle donne.

È importante sottolineare che non tutti coloro che crescono in una cultura patriarcale diventano femminicidi, ma la presenza di tali ideologie può alimentare la violenza di genere e contribuire alla percezione errata che alcuni uomini hanno del loro diritto di esercitare controllo estremo e violento sulle donne. Affrontare la cultura patriarcale è cruciale per prevenire la violenza di genere, inclusi i femminicidi.

 

Intervistatore: Hai citato una delle obiezioni tipiche degli uomini sulla necessità che si considerino parte del problema. Rispondi alle principali di queste?

IA:

1. Obiezione: “Not all men are like that. Non tutti gli uomini sono così” •

**Risposta: “Certamente, non si tratta di generalizzare tutti gli uomini. Tuttavia, riconoscere che alcune dinamiche culturali possono perpetuare comportamenti dannosi è fondamentale per il cambiamento.”

2. Obiezione: “Io non c’entro niente con la cultura patriarcale.” •

**Risposta: “È comprensibile sentirsi distanti da certi comportamenti, ma è importante capire come la cultura patriarcale possa influenzare indirettamente anche le persone benintenzionate. Riconoscere questo può essere il primo passo verso un cambiamento positivo.”

3. Obiezione: “Perché dovrei sentirsi in colpa per qualcosa che non ho fatto?” •

**Risposta: “Non si tratta di colpa personale, ma di responsabilità collettiva. Prendere coscienza delle dinamiche di genere e lavorare insieme per promuovere l’uguaglianza può contribuire a un cambiamento positivo senza attribuire colpe individuali.”

4. Obiezione: “Anche le donne commettono violenza.” •

**Risposta: “È vero, la violenza non ha genere. Tuttavia, concentrandoci sulla cultura patriarcale, ci stiamo concentrando su un sistema che storicamente ha favorito gli uomini. Riconoscere questo non diminuisce l’importanza di affrontare ogni forma di violenza.”

5. Obiezione: “Questo discorso genera odio verso gli uomini.” •

Risposta: “L’obiettivo non è generare odio, ma promuovere la consapevolezza e il cambiamento. Riconoscere la presenza della cultura patriarcale è il primo passo per creare una società più equa in cui uomini e donne possano vivere senza restrizioni basate sul genere.”

 

Intervistatore: Puoi fare un esempio del paradosso insito nella risposta “Not all men”?

IA: Immagina di essere in un contesto in cui qualcuno fa un commento razzista. È probabile che tu, giustamente, reagiresti e condanneresti tale comportamento, anche se personalmente non sei razzista. Potresti sentire l’importanza di intervenire contro un’ingiustizia, anche se non sei direttamente coinvolto. Ora, porta questa stessa situazione in un contesto di sessismo. Se qualcuno fa un commento sessista o compie un’azione discriminatoria basata sul genere, la risposta potrebbe essere simile: “Ma io non sono così, non lo farei mai.” Tuttavia, in questo caso, potrebbe esserci una maggiore resistenza a intervenire o a riconoscere l’urgenza di combattere la cultura patriarcale. Il paradosso sta nel fatto che, mentre entrambe le situazioni coinvolgono la condanna di comportamenti discriminatori, c’è spesso una maggiore reticenza a riconoscere l’importanza di affrontare il sessismo. La chiave sta nel comprendere che il riconoscimento e la lotta contro tutte le forme di discriminazione, compreso il sessismo, sono essenziali per costruire una società veramente equa e inclusiva. Non è sufficiente rifiutare personalmente tali comportamenti; è cruciale prendere una posizione attiva contro la cultura che li perpetua.

 

Intervistatore: Ma perché un uomo riconosce più facilmente che deve sanzionare un comportamento omofobo o razzista che uno sessista o prevaricante?

IA: Gli uomini tendono a riconoscere e condannare più facilmente comportamenti omofobi o razzisti rispetto a quelli sessisti o prevaricanti. Questo può essere attribuito alla maggiore visibilità mediatica delle discriminazioni legate all’orientamento sessuale o alla razza, a una maggiore educazione su queste questioni, al persistente stigma sociale contro chi si oppone all’omofobia o al razzismo e alla percezione di minaccia personale che la lotta contro la cultura patriarcale potrebbe rappresentare per il loro status e privilegi.

 

Intervistatore: Cosa vorresti dire alle donne che sono arrabbiate per l’ennesimo femminicidio e per il poco supporto che ricevono nel creare un cambiamento?

IA: Vorrei dire alle donne che la loro rabbia è valida e comprensibile. La frequenza dei femminicidi è sconvolgente e giustifica un’indignazione diffusa. È importante riconoscere che la vostra lotta per la giustizia e l’uguaglianza è cruciale per promuovere un cambiamento significativo. Sappiate che non siete sole e che molte persone condividono la vostra preoccupazione. La vostra voce è un motore per il cambiamento sociale. Continuate a sollevare la vostra esperienza, a chiedere responsabilità e a promuovere consapevolezza sulla violenza di genere. Insieme, possiamo lavorare verso una società più sicura e rispettosa per tutti.

 

Intervistatore: E cosa vorresti dire agli uomini che faticano ad esserci alleati?

IA: Vorrei dire agli uomini che diventare alleati nella lotta contro la violenza di genere è un passo importante verso la costruzione di una società più equa e sicura per tutti. Non si tratta di colpevolizzare individualmente, ma di riconoscere il potere collettivo nel creare un cambiamento positivo.

Ecco alcune considerazioni per essere alleati nella lotta contro la violenza di genere:

1. Ascoltare e Imparare: Ascoltare senza difensività le esperienze delle donne e educarsi sulle questioni di genere.

2. Riflettere e Riconoscere: Riflettere sulle dinamiche di genere nella propria vita e riconoscere il ruolo nella promozione dell’equità.

3. Intervenire attivamente: Non tacere di fronte a comportamenti sessisti, intervenire nelle conversazioni quotidiane per promuovere un ambiente rispettoso.

4. Promuovere l’Uguaglianza sul Luogo di Lavoro: Sostenere politiche aziendali per l’uguaglianza di genere, inclusa la parità salariale e di opportunità.

5. Essere Consapevoli del Proprio Privilegio: Comprendere i privilegi di genere e usarli per amplificare le voci delle persone emarginate.

6. Essere Aperti al Dialogo: Aprirsi al dialogo con altri uomini sulla violenza di genere e sull’importanza di essere alleati. La consapevolezza e il sostegno reciproco sono essenziali per il cambiamento collettivo. Sostenere l’uguaglianza di genere è una responsabilità di tutti, richiedendo impegno, auto-riflessione e azione continua.

 

 

Abbiamo posto le stesse domande ad una donna che si è resa disponibile a risponderci.

 

Quali sono gli aspetti chiave che alimentano la cultura patriarcale? E’ innegabile che l’assoggettazione della donna porti vantaggi agli uomini, almeno a quelli che non riescono a vedere nell’equità un valore, e che amano detenere una posizione di potere sugli altri. Il cambiamento fa paura, l’idea di perdere questa posizione di vantaggio spaventa, ed ecco che consapevolmente alcuni inconsapevolmente altri, si battono perchè questo cambiamento non avvenga e per difendere la propria posizione apicale.

John Lennon cantava “Woman is the nig*er of the world”, “La donna è il nero del mondo”, perchè è solo l’assoggettazione della donna a mettere d’accordo tutte le alterità del mondo maschile.

Anche agli uomini che vivono la discriminazione per il proprio orientamento sessuale, ceto, colore della pelle, viene riconosciuta maggiore dignità sociale della donna, la quale trasversalmente a tutte le culture, siede sullo scalino più basso della scala gerarchica.

 

Quali sono i comportamenti rientranti nella violenza di genere che possono essere ricondotti alla cultura patriarcale? A partire dalla violenza esternata pubblicamente sui social al pregiudizio sul posto di lavoro, dalla volgarità urlata per strada allo svilimento di una donna che ricopre una determinata professione, dai giornalisti che negli articoli chiamano per nome le donne e per cognome e titolo di studio gli uomini, dal contatto senza consenso al controllo dei beni materiali ed economici all’interno di una coppia, sono innumerevoli le forme

di violenza di genere che vengono esercitate in una società patriarcale che intende mantenere il controllo, il potere, sulla vita e sul corpo delle donne.

 

La cultura patriarcale può diventare terreno fertile per i femminicidi?

La cultura patriarcale rappresenta il potere, il controllo. E’facile pensare che chi sfugge a questo controllo venga in tutti i modi umiliato, assoggettato, riportato al “proprio posto”, e che nei casi più estremi possa essere eliminato. Ed è la stessa cultura patriarcale a distogliere l’attenzione da queste dinamiche raccontando che le vittime hanno portato con il loro comportamento il partner a perdere il controllo, che magari vivevano vite considerate (sempre da uomini) dissolute e ferivano l’onore e la rispettabilità del compagno, andando così a “giustificare” o comunque spiegare cosa le abbia portate a FARSI AMMAZZARE.

 

Puoi fare un esempio del paradosso insito nella risposta “not all men”?

Gli uomini incapaci di vedere cosa il loro privilegio comporta affinchè resti tale, tengono unicamente a smarcarsi da ogni responsabilità e a cercare l’assoluzione al grido di “non tutti gli uomini”. Eppure sembra pacifico che se nella quotidianità si zittisce o svilisce una donna, si dice a qualcuna che magari protesta per un’inquità che “ha ragione, ma dovrebbe dirlo in un modo diverso se vuole essere ascoltata”, si contribuisce ad alimentare il vociare sulla collega che “chissà cosa ha fatto per fare carriera”, si guarda o diffonde un video intimo anche se ricevuto da terzi, si sessualizza una donna che cammina per strada e la si giudica per cosa indossa, si dice a qualcuna che quel tale diritto dovrebbe meritarselo, come se un diritto andasse meritato, insomma ci sono mille situazioni nelle quali un uomo in vita sua ha sfruttato il patriarcato per mantenere una posizione di privilegio e quindi no, non ne è esente.

Ma soprattutto: se davvero qualcuno ritiene di non avere mai perpetrato uno degli atteggiamenti di cui sopra, avrà certamente, per una semplice questione statistica, assistito ad alcune di queste situazioni. E allora cosa ha fatto, come ha reagito? E’ intervenuto in qualche modo? E se non l’ha fatto, è stato perchè temeva di essere giudicato dai suoi congenere per non essere un sodale, per non prendere parte alla manifestazione testosteronica, per essere “poco uomo”?

La cultura patriarcale è così radicata nella nostra società da investire anche alcune donne (patriarcato interiorizzato), quindi è estremamente difficile immaginare che un uomo possa esserne al di sopra. Tra qualche generazione magari, ma sicuramente non oggi.

 

Ma perchè un uomo riconosce più facilmente che deve sanzionare un comportamento omofobo o razzista che uno sessista o prevaricante?

Il patriarcato rappresenta il potere, la posizione di privilegio che l’uomo ha in moltissimi (tutti?) i campi. Come potrebbe un uomo non consapevole di queste dinamiche e del proprio privilegio riuscire a riconoscere la violenza che sta esercitando, se la ritiene la normalità? Un bianco si sente “altro” rispetto all’uomo di colore, un uomo cis etero si sente “differente” da uno omosessuale, ma in generale l’uomo, che sia bianco, di colore, etero o omosessuale, non vedrà facilmente il controllo che esercita sulla donna poichè guardando il mondo attraverso le lenti del privilegio difficilmente vedrà tutti gli ostacoli che esistono per qualcuno che non sia lui, e che egli stesso mette.

“L’uomo si vive come universale. Si considera il rappresentante più compiuto dell’umanità” É. Badinter, XY. L’identità maschile

 

Cosa vorresti dire alle donne che sono arrabbiate per l’ennesimo femminicidio e per il poco supporto che ricevono nel creare un cambiamento?

Credo che non sia più il tempo dei minuti di silenzio ma quello per vivere la nostra paura senza vergogna, liberare la nostra rabbia e urlare, pretendere ciò che ci spetta, rialzare l’asticella della tolleranza ormai rasoterra. Alle donne vorrei dire di non arrendersi, so che è faticoso, demoralizzante, terribilmente stressante, ma ci viene chiesto ancora una volta di mostrare noi la via: facciamolo. Sensibilizziamo gli uomini che ci circondano, invitiamoli a leggere, approfondire, raccontiamo tutte le volte che siamo state seguite, molestate, spaventate, discriminate.

Quando io lo faccio mi sento rispondere “eh ma tutte a te!” come se in fondo il motivo risiedesse nel mio aspetto, nel mio look, nei posti che frequento. Non è “solo a me”, è a tutte, in mille modi diversi. Chiedete agli amici, partner, parenti di domandare alle donne che frequentano se hanno mai subito molestie, se

provano paura a camminare da sole. Ci chiedessero come ci sentiamo quando un uomo ci squadra, commenta come siamo vestite, quando un superiore a lavoro fa una battuta inopportuna e restiamo congelate perchè prese contropiede e perchè, in fondo, la verità è che non siamo nella posizione di poter rispondere.

Porgiamo una mano a chi si lascia accompagnare, al contempo non perdiamo tempo con chi erge muri. Siamo nella società di internet e delle informazioni alla portata di tutti, non siamo nè le loro madri nè le loro insegnanti, e non dobbiamo aspettare di ottenere comprensione o sostegno, sappiamo già qual è la strada da percorrere.

 

E cosa vorresti dire agli uomini che faticano ad esserci alleati?

Siamo nel pieno di una rivoluzione sociale ed è comprensibile che nessuno possa cambiare da un giorno all’altro. Io stessa mi rendo conto che negli ultimi anni ho acquisito degli strumenti che assolutamente non possedevo, e mi capita di pensare a quante volte in passato non ho saputo riconoscere o reagire a comportamenti molesti e denigratori nei miei confronti. La chiave è nella conoscenza. Leggete, parlate con noi e tra di voi, confrontatevi, approfondite, sappiatevi mettere in discussione. Affrontiamo insieme un cambiamento che non può che giovare a tuttə. Quando leggete che un padre è “un mammo”, non vi sentite umiliati? Quando sentite una donna che racconta di cambiare marciapiede se vede un gruppo di uomini, non vi sentite a disagio? Deve necessariamente capitare qualcosa ad una vostra amica/sorella/fidanzata perchè riusciate a fare un esercizio di empatia? Spoiler: probabilmente qualcosa gli è già capitato.

C’è un femminicidio ogni 72 ore, credete davvero che sia il momento per dire “io sono diverso, non siamo tutti così?”. Se volete fare la vostra parte correggete l’amico che fischia alle donne per strada, che scrive sui social di “stare zitte e andare a cucinare”, che racconta di controllare il cellulare della propria fidanzata.

E se proprio non sapete cosa dire, imparate il valore del silenzio. Adesso tocca a noi parlare..

 

Irene Murgiano

Cherofobia

Un grande contributo quello offerto della cantante Martina Attili, ai suoi esordi ai provini di Xfactor 2018, nella presentazione di un brano che ha permesso di render noto un concetto prima poco attenzionato, quello della cherofobia. La cantante ha raccontato al pubblico, attraverso il suo brano dall’omonimo titolo, le emozioni di una ragazza che sperimenta la paura di essere felice e di stare bene; recita i seguenti versi:

“ questa è la mia cherofobia, no non è negatività, questa è la mia cherofobia, fa paura la felicità, questa è la mia cherofobia”

Non si tratta tanto della paura di essere spensierati e/o allegri, ma di una vera e propria forma di ansia percepita dal soggetto in assenza di apparenti problemi specifici, ad esempio sul lavoro, sulla salute, nelle relazioni, in famiglia; ogni ambito della vita dell’individuo sembrerebbe andare per il verso giusto ma, all’improvviso compare “la paura di essere felice”. Può accadere di accorgerci di aver raggiunto ciò che abbiamo sempre desiderato e, piuttosto che sentirci felici, ci ritroviamo pieni di dubbi, perplessità, sperimentiamo la sensazione di non avere più nulla a cui aspirare ed essere contemporaneamente in preda al timore di perder tutto. Potrebbe anche accaderci di scoprire che la persona di cui siamo innamorati ricambi il nostro sentimento e, anzichè esser felici, ci scopriamo smarriti, nel panico, senza sapere come reagire. Esempi questi che possono riproporsi in svariate situazioni, con contenuti diversi: successi nel lavoro, a scuola, oppure con la realizzazione di un sogno, nella vincita di un ingente somma di denaro; il soggetto piuttosto che esperire felicità prova ansia e paura, temendo che tutto ciò che ha  costruito possa finire da un momento all’altro.

Che cosa è quindi la cherofobia? Che cosa significa? Quali sono le possibili cause e i sintomi più comuni per riconoscerla? Come superare la paura di essere felici e chi è esattamente colui che ha paura di essere felice?

Il termine cherofobia ha etimolgia greca e deriva dalla combinazione delle parole kairòs che significa “momento propizio o opportuno/rallegrarsi, essere felici” e fòbos letteralmente “paura”. Il significato della parola cherofobia  è quindi quello di “avere paura di essere felici”.  Ci si è chiesto se la cherofobia costituisse una malattia; sebbene nel manuale diagnostico dei disturbi mentali (DSM 5) non venga inserita, la cherofobia può essere assimilata e quindi pensata come una forma di ansia anticipatoria, espressa come “status” conseguente al vivere la felicità come una minaccia dalla quale difendersi. La cherofobia non è un disturbo ufficialmente riconosciuto, ma si configura piuttosto come un atteggiamento riscontrabile in una vasta gamma di disturbi mentali e di condizioni. Collegata a situazioni che si connotano di emozioni positive, o che dovrebbero recare felicità alla persona, la cherofobia viene definita dagli esperti una forma di ansia che, per chi la prova, è capace o di far loro svalutare questi sentimenti o di esporli meno frequentemente e meno intensamente alle situazioni che li scatenerebbero.

In psicologia con il termine cherofobia si vuol far riferimento ad una condizione per la quale la persona che ne soffre ha paura di essere felice, evita le emozioni positive e tutto ciò che potrebbe derivarne e innescarle per la paura di soffrire; i cherofobici hanno paura di provare emozioni positive, momento considerato da loro di estrema vulnerabilità,  perché pensano che le stesse possano costituire l’anticamera di qualcosa di brutto, a causa di una visione distorta della realtà e di come la significano. La loro reazione, pertanto, sarà quella di innescare un meccanismo di difesa, di auto-sabotaggio, pur di non essere felici, tendendo ad evitare il trigger della propria paura: la felicità, adottando uno stile di vita del tutto razionale. Il disabituarsi al provare emozioni positive ha anche un corrispettivo biologico; anche il cervello  è “come se” si dis-abituasse all’attivazione di quei circuiti neurotrasmettitoriali deputati al sentire la felicità e il benessere, non riuscendo a riconoscerli e gestirli in quanto tali . Può accadere, infatti, che vengano percepiti come minacciosi, tali da indurre il soggetto ad attivare condotte difensive, che in alcuni casi possono sfociare in attacchi di panico. La fobia è una paura forte, irrazionale e incontrollabile, che risulta poco chiara a chi ne è affetto e soprattutto difficile da controllare. La cherofobia porta la persona a isolarsi, a non prendere parte a eventi sociali, a non entrare in contatto con persone che potrebbero apportare cambiamenti positivi nella propria vita. Questo atteggiamento ha evidenti ripercussioni sulla vita lavorativa, sociale e sentimentale, costituendo un forte limite al processo di crescita, realizzazione personale e sviluppo per il soggetto che ne è affetto. La credenza patogena dei cherofobici è che i periodi gioiosi della vita possano essere immediatamente seguiti da traumi, disgrazie, o eventi negativi in generale, tanto da divenirne un dogma “se vivi una grande felicità, ti aspetta dietro l’angolo una tragedia”.  I soggetti che ne sono affetti, ad esempio, potrebbero essere spinti a cercare solo relazioni di natura più superficiale, a non impegnarsi seriamente in un rapporto di coppia, declinando tale disagio in vari aspetti della vita: dai rapporti sociali a quelli di coppia. Come recita Martini Attilli nella sua canzone:

“ E ogni volta che qualcosa va come dovrebbe andare,

penso di non potercela fare,

e cerco ogni forma di dolore

mischiata al sangue col sudore

e sento il respiro che manca

e sento l’ansia che avanza”

Da un punto di vista evolutivo le cause si potrebbero radicare in una storia infantile del soggetto per cui a momenti felici sarebbero seguiti, immediatamente dopo, eventi traumatici di tipo fisico o emotivo come punizioni, delusioni, perdite importanti, nelle quali emozioni come umiliazione, dolore, rabbia avrebbero spesso distrutto la gioia, il piacere, minando il senso di fiducia, ottimismo, sicurezza verso gli altri e l’esterno.  Il dolore suscitato da questi eventi verrebbe quindi associato alla felicità; in questo modo la persona avrebbe legato la felicità ad un’infelicità molto pronunciata, cercando di evitare la prima “come se” fosse causa della seconda. Responsabile dell’istaurarsi, in modo inconscio, dell’associazione distorta della relazione causale felicità-punizione/dolore è il frequente ripetersi di esperienze negative e/o traumatiche; associazione che continuerebbe ad essere oggetto di ri-attualizzazione nel presente dal momento che qualsivoglia emozione positiva, esperita dal soggetto, sarebbe responsabile della ri-attivazione e ri-attualizzazione del trauma originale. Tanto è vero che occorrerebbe precisare come la paura del cherofobico non sia tanto quella di essere felice ma piuttosto “in-felice, o di non essere felice”, ovvero la paura che al piacere seguiranno necessariamente conseguenze negative, come accaduto in passato. Ogni volta che il soggetto, pertanto, si trovi nella condizione di provare gioia, quello che accadrà sarà la riattivazione in memoria dell’associazione felicità-punizione/dolore, attivando l’ansia che di li a breve qualcosa di brutto possa accadere, innescando la messa in atto di condotte di evitamento. Si tratta di individui che hanno imparato a controllare le proprie emozioni e a vivere “difendendosi” dalla felicità, perché percepita come pericolosa, impossibile da raggiungere. La persona potrebbe aver sviluppato un locus of control esterno, tanto da aver appreso a pensare che un evento positivo che lo veda protagonista è solo un “colpo di fortuna” e che qualsiasi cosa faccia non si ripeterà, ritenendo erroneamente che le proprie azioni non abbiano alcun tipo di influenza sul corso degli eventi.  Ecco perché la cherofobia è assimilabile ad una sorta di meccanismo di difesa, di compensazione: l’attivarsi dell’ansia avverte il soggetto che, per evitare la sofferenza, deve evitare le situazioni divertenti/positive, per il timore che qualcosa di brutto possa accadere.

Da un punto di vista fenomenologico e /o sintomatologico ciò a cui si assiste è:

-l’attivazione dell’ansia al pensiero di prender parte a qualche evento piacevole/divertente, che pertanto viene conseguentemente rifiutato (concerti, cene, feste, serate etc..)

-il rifiuto di cogliere opportunità che possano apportare cambiamenti positivi nella propria vita per il timore che  possano far seguito conseguenze negative

– l’evitamento di tutti gli eventi sociali per ridurre la portata ansiosa da questi attivata

– il sentirsi in colpa per essere felici

– avere l’idea che essere felici possa causare l’accadere di qualcosa di negativo

-non voler essere felici e credere che provare felicità possa trasformare in persone peggiori

– pensare che perseguire la felicità sia una perdita di tempo, uno sforzo invano, un’attività priva di significato.

– avere la convinzione che mostrare felicità sia negativo di fronte agli amici, alla propria famiglia, o comunque alle persone care.

Si potrebbe ingenuamente confondere la cherofobia con la depressione; il cherofobico non è una persona triste o depressa, ma solo un individuo che ha creato per se stesso una fortezza inespugnabile. Diversamente dal depresso il cherofobico pratica un’attiva condotta di evitamento delle emozioni positive: ha paura di essere infelice perciò evita preventivamente ogni qualsivoglia stimolo che possa renderlo gioioso, temendo che l’artifizio deputato al “provare/portare felicità” possa smettere di funzionare. Non cerca dolore o sensazioni che possano generare tristezza, tenta solo di non provare felicità, cercando di restare in uno stato di costante apatia così da non essere soggetto a sbalzi di umore o repentine modifiche della proprio status quo, rendendo il proprio “ambiente” prevedibile. Questo l’atteggiamento e i pensieri alla base dei soggetti cherofobici, tali da indurli a rimanere passivi, a rifiutare situazioni quotidiane e/o occasioni di socializzazione e benessere, progetti o relazioni significative. Ad esempio la paura di essere felici in amore potrebbe condurre il soggetto a non investire nelle proprie relazioni, inducendolo ad elicitare dinamiche di contro-dipendenza affettiva, che lo portino a creare solo legami di natura superficiale, per la paura di star bene. Tipica l’espressione “Ho paura di essere felice perché ogni volta che lo sono tutto finisce”. Ciò che viene temuto, perciò, è che la felicità, una volta raggiunta, possa svanire lasciando soli, smarriti ed impreparati davanti al vuoto e alla sofferenza. Tipici tra i pensieri di un soggetto cherofobico il “ se adesso sono felice vuol dire che dopo mi accadrà qualcosa di brutto”, “ è troppo bello per essere vero, chissà quanto cara poi la pagherò questa felicità”, “manifestare la felicità è negativo sia per i tuoi amici, che per la tua famiglia”, “la felicità rende le persone peggiori”, “i disastri seguono spesso la fortuna”. La cherofobia sembrerebbe assimilabile al meccanismo definito da alcuni autori (Feldman, Joormann e Johnson 2008) come smorzamento, strumento psicologico che consisterebbe nella “tendenza a rispondere a stati d’animo positivi con strategie mentali per ridurre l’intensità e la durata dello stato d’animo positivo”. Si tratterebbe di una tendenza riscontrabile in molteplici condizioni: nel pessimista convinto che il lieto fine non esista, o nel cinico che teme la felicità per paura della rivalità o dell’invidia di altre persone, nelle personalità evitanti che fuggono dalle situazioni per timore di non sentirsi all’altezza o infine nel perfezionista patologico che vede nel piacere l’espressione di una perdita di tempo. La felicità, inoltre, viene spesso percepita dal cherofobico alla stregua di “un frutto proibito, qualcosa da non condividere, né mostrare agli altri e per cui sentirsi in colpa. Il cherofobico ritiene che l’essere felice possa renderlo un individuo peggiore e che pertanto perseguire la felicità possa essere una perdita di tempo, un’attività priva di significato; più in generale che la felicità di per se stessa sia un male per sé e per gli altri. Se da un lato tale atteggiamento può impedire al cherofobico di andare incontro ad eventuali delusioni, dall’altro però lo induce a precludersi qualunque opportunità di vivere una vita felice.

Da alcuni recenti studi, come quello pubblicato dal Journal of Cross-Cultural Psychology, è emerso come alcuni individui siano più inclini a sperimentare emozioni positive, laddove altri smorzerebbero il loro stato d’animo e gli affetti (eccitazione, felicità, gioia, piacere etc..), impegnandosi questi ultimi in attività che li renderebbero meno felici, tristi. Una delle possibili cause è il timore, per le persone, di perdere il controllo delle proprie emozioni positive o delle loro reazioni comportamentali alle stesse, configurandosi la cherofobia come un meccanismo difensivo di controllo di qualcosa (le emozioni positive) vissuto come terreno di vulnerabilità. Sempre nel medesimo studio è emerso come anche la cultura incida, influenzi il modo, l’atteggiamento con cui gli individui esperiscano le proprie emozioni positive, condizionando la regolazione emotiva e le esperienze emozionali. I risultati empirici hanno dimostrato come la felicità sia in taluni contesti culturali sfavorita o addirittura temuta, soprattutto nelle culture collettiviste in cui viene condannata l’espressione della felicità personale perché ritenuta responsabile di limitare la capacità dell’individuo nell’adempiere ai propri doveri nei confronti della collettività. La possibilità per il soggetto di provare piacere e di coltivarne l’espressione sembra quindi dipendere da una serie di meccanismi psicologici che affondano le proprie radici sia nel vissuto emotivo, sia nella storia di vita dell’individuo, ma anche nella sua cultura di riferimento, nell’educazione ricevuta.

E’ possibile concludere, riassumendo, come la cherofobia trovi espressione nella messa in atto, da parte del soggetto, di attive condotte di evitamento alla partecipazione di eventi che, percepiti come minacciosi per il proprio status quo, potrebbero causargli infelicità, procurandogli forti manifestazioni ansiose, in grado di porre forti limiti all’evoluzione della propria vita sociale, lavorativa, sentimentale. Come per ogni altra fobia, la psicoterapia può risultare molto efficace nel trattamento e, nella fattispecie, nel superamento della “paura di essere felice”. La paura di essere felici altro non è che la paura di essere e/o diventare noi stessi. Caldamente consigliata la possibilità di rivolgersi ad un professionista per l’inizio di una presa in carico di tipo psicologico; ciò  permetterebbe alla persona di riconoscere il disturbo, imparare ad accogliere tutto l’ampio spettro di emozioni, comprese quelle di natura positiva come la gioia e la felicità. Attraverso l’incoraggiamento ad elaborare i propri vissuti emotivi, la propria storia di vita, identificando gli eventi responsivi del problema in una maggiore conoscenza e consapevolezza di sé, sarà possibile comprendere le ragioni che portino la persona ad evitare le emozioni piacevoli. Il prosieguo del lavoro terapeutico verterà poi sulla costruzione di un nuovo modus operandi circa la modalità di lettura e significazione della realtà. Ciò renderà possibile un nuovo modo di pensare e agire la felicità basata su nuovi significati e interpretazioni attribuibili alle medesime esperienze positive, permettendo al soggetto di fare esperienza nel sentire e vivere autenticamente, scevro dal nutrire sensi di colpa e/o pensieri disfunzionali, il desiderio e il piacere di essere felice.

La felicità viene proposta sempre più come un obiettivo da dover raggiungere a tutti i costi, e per essere persone felici occorre anche adempiere a determinati standard; le aspettative da raggiungere sono: il successo, la carriera, una bella famiglia, un buono stipendio, dei figli perfetti. Crescere e vivere in un mondo così condizionato da elevati standard sociali non è affatto facile, ma soprattutto non è reale. Le emozioni negative, come il fallimento, i momenti di vuoto/tristezza o di solitudine, sembrano non dover più far parte delle nostre vite; in questo modo quello che ci viene propinato è un concetto di felicità che si confonde con quello di apparenza. Essere felici significa creare una condizione serena e reale intorno a sé, non fittizia, proporzionata alle proprie risorse e competenze, che permetta al soggetto di esperire un sentimento di completezza che non escluda lo spettro delle emozioni negative, facente parte dell’esistenza di ciascuno. La psicoterapia, infatti, aiuta ad accompagnare il soggetto a vivere e gestire adeguatamente le emozioni nel momento in cui si presentano, sia quelle positive che quelle negative, insegnandogli che reprimerle e/o evitarle non rappresenti una strategia difensiva funzionale e/o sana, dal momento che spariranno ora per ripresentarsi poi in una modalità ancor diversa e con un’intensità ben maggiore.

Non meno importante, in questo processo, sono l’appoggio e il supporto offerti da amici, familiari, persone care nel fornire spunti e preziosi punti di vista, attraverso i quali sia possibile apprendere come esprimere e comunicare le proprie emozioni. Esperienze ed esempi che accompagnano il soggetto in una graduale e efficace gestione dell’oggetto delle proprie paure. Teniamo a mente come non sia possibile essere sempre felici o esserlo per tutto; possiamo però godere, senza paura, di ogni momento di felicità, imparando ad accogliere, abbracciare ogni emozione per quello che è, vivendo con leggerezza e pienezza la vita.

“Tutto quello che vuoi è dall’altra parte della paura” (Jack Canfiled).

 

Dott.ssa Silvia Longo

Psicologa – Psicoterapeuta

 

SITOGRAFIA:

Cherofobia: come riconoscere e affrontare la paura di essere felici, https://www.my-personaltrainer.it/salute-benessere/cherofobia-cos-e-quali-sono-i-sintomi-e-come-curarla.html

Pastore B., Cherofobia: la paura di essere felici, https://www.unobravo.com/post/cherofobia-la-paura-di-essere-felici

Ribaldone A., Paura di essere felice. Cos’è la cherofobia?, https://www.studio-psyche.it/disturbi/paura-di-essere-felice

Pacei C., La felicità può fare paura, scopri cos’è la cherofobia e come ritornare a goderti la vita, https://style.corriere.it/benessere/salute/cherofobia-significato-origini-sintomi-cura/

Ridolfi C., Cosa vuol dire cherofobia? Ecco cos’è la paura cantata da Martina Attili, https://www.sololibri.net/cherofobia-che-vuol-dire-cos-e-canzone-martina-attili.html

Cherofobia, https://www.psiconline.it/le-parole-della-psicologia/cherofobia-2.html

Spinelli C., La paura di essere felici: descrizione, sintomi, trattamento della cherofobia, https://www.psicologospinelli.it/articoli/cherofobia-descrizione-e-trattamento/

Stentella G., Cherofobia: cos’è, cause, sintomi e cura, https://www.salutarmente.it/malattie/cherofobia

LA REALTA’ IRRAZIONALE DEI SOGNI: PERCHE’ ASCOLTARLI E PRESTARVI ATTENZIONE

Perchè sogniamo? A che cosa serve il sogno nell’economia del funzionamento umano?

Sono secoli che studiosi, filosofi, psicologi e psichiatri si interrogano su questa stessa domanda cercando di attribuire un senso a queste strane “storie” che si fanno spazio dentro di noi quando perdiamo lo stato di veglia. Il loro fascino è dato dalla loro incomprensibilità e dalla difficoltà di coglierne il senso univoco, di comprenderli in tutto e per tutto.

La prima domanda che vorrei pormi parlando dei sogni è, che cosa sono? E a cosa servono?

Prima di tutto, è necessario prendere in considerazione l’esistenza di una parte di noi non consapevole, non contattabile con la coscienza e la consapevolezza, una parte psichica inconscia di cui, non ci rendiamo conto. La gran parte della nostra vita da svegli è quella che affrontiamo attraverso la consapevolezza e la coscienza, quando dormiamo invece la consapevolezza si allenta, perde potere, ed entra in scena l’inconscio. I sogni sono una modalità attraverso la quale l’inconscio si esprime, per mandarci dei messaggi o rielaborare esperienze e vissuti che abbiamo affrontato durante lo stato di veglia.

Possiamo definire il sogno come un “fenomeno soggettivo”, osservabile esclusivamente da colui che sogna, e anche come un fenomeno involontario derivante appunto dalla minore presenza della coscienza. Il sogno è inoltre carico delle emozioni del sognatore e delle sue sensazioni visive ed involontarie, costruite in buona parte da frammenti di memorie recenti e antiche che costruiscono una storia all’interno di uno spazio e un tempo non reali.

Il primo a occuparsi di sogni è stato Sigmund Freud che, nel 1899, ha scritto il testo l’”Interpretazione dei sogni” che ha risposto a molte domande centrali riguardanti questo fenomeno appartenente non solo agli esseri umani ma anche a tutti i mammiferi. In questo testo veniva messa in evidenza la funzione del sogno come un “rebus”, un qualcosa da risolvere e da scoprire attraverso l’interpretazione delle varie immagini che lo compongono. Secondo Freud, “la nostra psiche interviene nel lavoro di formazione dei sogni con specifici meccanismi di elaborazione e camuffamento” tesi a nascondere il vero significato di ciò che stiamo vedendo e rappresentando nel sogno. È come se ciò che è presente nell’inconscio andasse raggiunto, interpretato e reso consapevole prima che faccia danni. Secondo Freud il sogno era la via “regia”, cioè principale e diretta, verso l’inconscio, cioè la parte di noi maggiormente inconsapevole.

Nei secoli, molti altri autori si sono approcciati ai sogni e hanno dato il proprio punto di vista e la propria interpretazione; nello specifico Carl Gustav Jung ha apportato delle importanti modifiche alle teorie freudiane, affermando l’importanza delle immagini e delle figure presenti nei sogni, raffiguranti dei significati e dei vissuti simbolici. Ogni immagine si esprime in modo simbolico, (cioè non esplicito, attraverso immagini) ogni significato ne esprime un altro individuale e trasformativo. “Il simbolo, invece, nella sua essenza e nella sua etimologia, fa da ponte fra i contrari, nutre entrambi i poli senza preferenze e generando così tensione, li costringe comunque a coabitare, opponendosi allo sbilanciamento univoco verso una delle due polarità”.

I sogni rappresentano una delle espressioni più personali che possano esistere, “il sogno è il sognatore, è un concentrato della sua unicità”. Non esistono infatti due sogni considerabili completamente uguali tra loro effettuati da persone diverse, ma allo stesso tempo, talvolta i sogni sembrano provenire da un mondo completamente estraneo al nostro, fuori da noi stessi. Tengono insieme molti aspetti tra loro opposti e apparentemente poco comunicabili tra loro.

Quando parliamo del sogno dobbiamo tenere a mente due parti che si mettono in azione: l’Io onirico (o Io del sogno) e l’Io narrante (o l’Io della veglia). L’Io onirico è il primo soggetto all’interno del sogno, il protagonista del sogno o colui che vi partecipa attivamente. È il primo mediatore tra noi e gli altri attori del sogno e allo stesso tempo è parte del sogno stesso: non si pone domande su ciò che succede all’interno della storia che sta vivendo e ha poca o nessuna consapevolezza di sé. Questa semplicità dell’Io onirico è pero fondamentale: permette infatti di far accadere nel sogno anche cose incredibili, assurde e poco veritiere e di catapultarci all’interno di una realtà fuori dalla realtà.

L’Io narrante (o Io della veglia) è, invece, colui che assiste ai sogni senza poterli cambiare, li riporta come ricordi e li traduce in scritti o racconti. Diventa lui il proprietario del sogno e delle immagini riportate nella narrazione e può agire su di esse dandogli una interpretazione e un senso simbolico.

È proprio l’Io narrante che racconta il sogno e che cerca di attribuirvi un significato, un senso: ha il potere di reinterpretare i significati del sogno all’interno dello stato di veglia, con la giusta distanza e lucidità. L’Io narrante non si attiva subito, non è consapevole mentre stiamo sognando, lo sarà al risveglio, o durante la reminescenza del sogno. Il suo ruolo è fondamentale per dare valore, senso e significato ai contenuti del sogno: l’interpretazione e la revisione, in chiave simbolica, delle immagini e dei contenuti del sogno gli può permettere di conoscere molte parti di sé, difficilmente contattabili in altro modo.

Perché i sogni vengono spesso raccontati in psicoterapia?

Una delle caratteristiche principali che emergono quando si tratta di sogni è che questi, specie in alcuni casi, possano essere raccontati e quindi ascoltati da un interlocutore. Lasciarne traccia scritta o avere qualcuno che possa ascoltarli e accoglierli diventa fondamentale per cercarvi un senso. Nello specifico, nel contesto psicoterapico, i sogni possono essere fondamentali per “l’incontro con ciò che veramente siamo e sono un’ottima palestra per migliorare il funzionamento della mente”.

Se consideriamo i sogni come prodotto della nostra mente sul quale interrogarci con curiosità, possiamo trovarvi dei significati ed utilizzarli come “ponti” fra la consapevolezza e l’inconscio, utili a sviluppare strumenti per pensare. Ognuno di noi sogna ogni notte e ogni sogno attinge dalle esperienze della nostra vita e dalla specificità del momento che stiamo vivendo: questo, con una adeguata interpretazione delle immagini dei sogni in chiave simbolica, ci può permettere di “oggettivare” delle emozioni autentiche attive dentro di noi, espresse nel sogno in forma immaginativa. Ci permette, inoltre, di avvicinarci a delle emozioni complesse e poco descrivibili attraverso immagini oniriche alle quali, nel contesto terapeutico, può essere dato un nome ed un significato.

La figura del terapeuta assume un ruolo centrale: “Due sono i principali soggetti ai quali dobbiamo collegare i sogni: il sognatore stesso e, nel caso si stia sottoponendo ad un trattamento psicologico, la coppia analitica. Il sogno appartiene alla vita del paziente e alla coppia analitica e per questo occorre sapersi posizionare alternativamente in entrambi questi punti di osservazione”. Il sogno infatti, spesse volte, ci parla della relazione di transfert, cioè della vita interna del paziente all’interno delle sue relazioni più importanti rivissuta e riattualizzata all’interno della relazione con lo psicologo, fondamentale strumento per il lavoro psicologico. Interpretare questa relazione all’interno dei sogni e provare a comprenderla attraverso delle domande e delle risposte fa si che si possano comprendere molte cose sul funzionamento profondo del paziente e sulla sua storia. Nella storia del sogno possono essere trovate anche delle indicazioni, della alternative, delle possibilità, per il paziente di stare meglio e di ricevere sollievo dalla condizione nella quale si trova: la giusta interpretazione, proveniente dalla condivisione con lo psicologo all’interno di una relazione significativa, consente al sognatore non solo di accedere al mondo delle proprie immagini inconsce, ma anche di approdare a nuovi significati che riguardano la propria storia e il proprio vissuto emotivo, concedendo un valore nuovo e ricco di importanti risorse individuali.

Dott.ssa Federica Ariani

Psicologa-Psicoterapeuta

LA SENSIBILITÀ: UNA RISORSA SOTTOVALUTATA

Il termine sensibile è uno dei termini che più spesso viene utilizzato con una connotazione negativa. Dietro all’uso di questa parola aleggiano due forti pregiudizi, che culturalmente ci portiamo dietro:
– “Se sei sensibile, sei debole” – “Se sei sensibile, sei strano”
Nella mia pratica psicoterapeutica sto scoprendo, con estrema sorpresa, come al mondo ci siano molte persone sensibili, anche se non si delineano mai in questi termini, ma vivono comunque un senso di inadeguatezza rispetto al mondo perchè per loro è “tutto, tanto e sempre”.
In breve, questa modalità di funzionamento, prevede la tendenza di sentire ogni cosa, di viverlo alla massima potenza e di essere continuamente attivati finchè non si va a dormire.
Ritengo che sia importante provare a fare un piccolo chiarimento quando abbiamo davanti una persona sensibile, cioè “che sente tutto”. Ma per la precisione, cosa sente?

Tutto, le cose belle e le cose brutte. Anche episodi piacevoli, come un giro al centro commerciale, un pomeriggio al lunapark, un Natale in famiglia, invitare a casa amici e cucinare per loro… tutti eventi piacevoli, per la grande maggior parte delle persone, ma che possono trasformarsi, per le persone altamente sensibili, in una fonte di stress.

Le persone altamente sensibili hanno una soglia di stress più bassa e superare questa soglia vuol dire andare in tilt più facilmente rispetto alla media e di avere, conseguentemente, bisogno di più tempo per recuperare forze e integrità, sia fisica che psichica.
Il rischio, quando si conosce questo aspetto di sè, e arrivare a proteggersi troppo: ci si isola, ci si rifugia nei nostri pensieri, ci si chiude in casa. Avere una soglia di stimolazione eccessivamente bassa per il sistema nervoso, genera di cadere nella noia o peggio nella depressione.

N. Travaini definisce questo “effetto a pendolo”: proprio come un pendolo, si oscilla tra un estremo fatto di tutto, troppo (iperattivazione neurologica) e l’altro estremo di estremamente poco (ipoattivazione).
Bisogna allenarsi a tenere questo pendolo in una zona intermedia, e con un’oscillazione media e lenta, evitando gli estremi ma rendendo le oscillazioni, tra stimolazione e ritiro, in armonia.

Ricapitolando, le persone altamente sensibili:
– reagiscono alle esperienze in modo più intenso rispetto alla media;
– tendono a passare da eccessi di attività al vuoto totale (da tutto a niente). Riuscire a gestire queste altalene emotive inciderà moltissimo sul benessere mentale;
– prediligono la strategia introspettiva e riflessiva quando sono in ambienti sociali più allargati, dove ci si sente meno a proprio agio, mentre sanno essere più reattivi e a volte esplosivi, quando si trovano in situazioni più familiari, più intime;
– in contesti in cui si sentono osservati e giudicati non riescono a dare il meglio di sè;
– sono vulnerabili a sovrastimolazioni sensoriali e sovraccarico percettivo: forti suoni, luci, odori, sapori e sensazioni fisiche possono determinare disagio e irritabilità;
– gli ambienti caotici o sovrastimolanti possono attivare in loro una sensazione di sopraffazione e di perdita di controllo;

– sono abili ad elaborare informazioni a vari livelli e amano i dettagli;
– hanno una modalità di pensiero “ramificato” e non amano seguire i pensieri logici comuni;
– tendono ad usare maggiormente l’emisfero destro, parte del cervello che viene definito analogico, corporeo, emotivo e creativo;
– percepiscono immediatamente il clima emotivo di un ambiente, riuscendo a cogliere anche tensioni o conflitti che rimangono sul fondo;
– sono fortemente empatici e sono abili ad analizzare il linguaggio non verbale, canale comunicativo attraverso il quale arrivano più informazioni emotive;
– sono emotivi e si commuovono spesso;
– vivono stress e fatica quando si trovano ad affrontare i cambiamenti;
– fin da piccoli si portano dietro la sensazione di inadeguatezza perchè ci si sente diversi dagli altri;
– fanno molta fatica a delineare dei confini e a dire di no;
– non amano i conflitti;
– hanno aspettative molto alte sugli altri e su se stessi, tendendo alla perfezione;
– hanno un’immaginazione molto spiccata;
– sono molto coscienziosi, e questo permette loro di prevedere causa-effetto di eventi;
– percepiscono molto il senso di responsabilità;
– non sono spaventati dalla solitudine, anzi viene spesso ricercata;
– prediligono gli ambienti naturali;
– sono attratti da tutto ciò che è spiritualità e crescita personale;
– hanno una propensione artistica e sono molto creativi in tutte le forme possibili;
– non tollerano le ingiustizie, arrivando anche a non proteggersi per sostenere una battaglia in cui credono.

Tutte questi tratti elencati, se non vengono allenati nella giusta direzione, possono portare le persone altamente sensibili a non vivere serenamente, subendo la sensibilità, come fardello invece di percepirla come una preziosa risorsa.
La psicoterapia con un professionista che conosce la tematica, permetterà di imparare strategie adattive che consentiranno, alla persona altamente sensibile, di vivere serenamente.

Accenniamone qualcuna:
Contenimento. È importante per le persone altamente sensibili riuscire ad apprendere questa capacità per contenere le emozioni quando diventano eccessivamente intense, fuori controllo, quando invece di guidarci ne siamo completamente in balìa. Bisogna imparare a contenere le sensazioni, quando minano completamente l’attenzione distraendo continuamente dalle azioni e contenere i pensieri quando diventano rimuginanti e non permettono di essere lucidi, comportando comportamenti inappropriati. Per apprendere questa strategia può essere d’aiuto ricordarsi che emozioni, sensazioni e pensieri fanno parte di noi, ma non sono noi.

N. Travaini scrive “Io ho un pensiero, non sono un pensiero. Io ho un’emozione, non sono quell’emozione. Io ho un dolore fisico, ma non sono totalmente invaso da quel dolore”.

Imparare a dire di NO. Nel corso dei secoli è cresciuta l’immagine sociale che dire di no è negativo, egoista e distruttivo. Iniziamo ad apprendere le modalità per dire dei No gentili: ad esempio “grazie per aver pensato a me, ma non mi è proprio possibile/ oggi ho bisogno di fare altro/ possiamo riprogrammarono per un’altra volta in cui sentirò di avere l’energia per poterlo fare”.
Le parole di Satir in questo sono significative: “dire di no significa soltanto che ciò che ti viene proposto non rientra nelle tue opzioni al momento o va contro i tuoi bisogni”.

Non evitare i conflitti. Non temiamo i conflitti, rivalutiamo l’immagine che di essi abbiamo. I conflitti non distruggono, in molti casi attivano un confronto maggiore tra le parti che porta a creare più vicinanza e comprensione invece che distanza e rottura come spesso pensiamo.

Connettiti con il tuo corpo. Quietare il corpo porta a rallentare anche il flusso di pensieri, e questo ci fa bene. Per le persone altamente sensibili, imparare a focalizzarsi sul respiro può essere utile in tutte quelle situazioni di vita quotidiana in cui ci si sente sovrastimolati da fattori ambientali che assorbono le energie.

Se nel leggere questo articolo ti sei riconosciuto per molti (o tutti!) gli aspetti fin qui citati, provo a rispondere ad una domanda che può sorgere spontanea. Ma è davvero necessario per una persona altamente sensibile, intraprendere un percorso di psicoterapia?

Si pensa erroneamente che fare psicoterapia porti a pensare di avere qualcosa di sbagliato da correggere. Non è così! E ancora di più la sensibilità non deve essere vista come una malattia o un tratto invalidante.

Psicoterapia significa prendersi cura dell’anima”.

Si fa psicoterapia per conoscersi, per ri-scoprirsi, per crescere ed evolvere. Una persona altamente sensibile, in psicoterapia, potrebbe trovare utile:
– lavorare sulle ferite di non riconoscimento del passato,
– rinforzare l’autostima,
– allenarsi per riconoscere i pensieri disturbanti,
– imparare a contenere e gestire le emozioni, sensazioni e pensieri,
– comprendere quale sia per lui/lei la soglia limite che genererebbe il crollo, – riuscire a costruire la propria zona di benessere.

Dott.ssa Sonia Allegro Psicologa – Psicoterapeuta

Bibliografia:

N. Travaini “Il dono delle persone sensibili”, Red edizioni;
D. Goleman “Intelligenza emotiva”, BUR, Milano;
C. Petitcollin “Il opere nascosto degli ipersensibili2, Sperling&Kupfler, Milano; I. Sand “Troppo sensibili”, edizioni centro studi Erickson, Trento.

LA DIFFICOLTA’ DI PERDONARE I NOSTRI GENITORI

Il vocabolario della lingua italiana suggerisce che perdonare è non tenere in considerazione il male ricevuto da altri, rinunciando  a propositi di vendetta, alla punizione, a qualsiasi rivalsa, e annullando con sé ogni risentimento verso l’autore dell’offesa o del danno.

A tutti può capitare di subire un danno e faticare a perdonare qualcuno, anche se il perdono è molto importante per superare una situazione dolorosa, rendendoci liberi di vivere al meglio la nostra vita. Altrimenti si rimane nel rancore e legati ad una situazione che fa soffrire. Bisogna sottolineare che più grande è l’affronto, più grande è il dolore, più vicina è la persona, più difficile diventa perdonare. Farlo con un padre o una madre che ci hanno fatto del male può essere un compito arduo, che costringe ad affrontare le nostre ombre.                                                                                                                                      

Il rapporto con i genitori, l’educazione da essi ricevuta, segna per sempre la vita dei figli,  il modo in cui i bambini sono trattati da piccoli influenza le loro personalità, plasmando i sogni e le paure. Nella memoria di molti è impressa la serenità e il benessere dell’essere accompagnati per tutta la vita dai genitori. Da loro si è ricevuto amore, sostegno, sono stati vicini nei momenti significativi della vita. Questo però è solo un lato della medaglia, perché anche i genitori che sono stati buoni in generale, si sono trasformati a volte in una fonte di dolore, magari a causa della loro poca disponibilità, della loro distanza fisica ed emotiva. Molte persone, pur avendo vissuto esperienze molto dolorose con il padre e con la madre, faticano a riconoscerlo e alcuni fanno addirittura di tutto per nascondere i sentimenti ambivalenti.

Anche se di solito i ricordi di infanzia assumono colorazioni cariche di calore e affetto,  non è sempre un periodo cosi roseo. Alcune modalità di rapporto famigliare possono influire decisamente nel corso della vita:                                    

L’iperprotezione genitoriale, può impedire ai figli di fare esperienze, di prendere decisioni, li spinge verso un percorso che non avrebbero scelto liberamente, influenzandoli nelle insicurezze, nelle paure e forse facendoli diventare adulti fragili.                                                                              

Alcuni genitori possono essere emotivamente instabili e possono trattare i figli in modo ingiusto, riversando su loro insoddisfazione, frustrazione e rabbia, umiliandoli o maltrattandoli fisicamente e psicologicamente.          

Molte famiglie vivono situazioni dolorose che generano grande sofferenza, soprattutto nei bambini, che sono i più vulnerabili.                                                    

Perché perdonare un padre o una madre è così difficile?

La forte impronta emotiva che generano le tematiche famigliari.                                Può essere difficile elaborare tutte esperienze dolorose di anni, per questo motivo il ricordo genera frustrazione, rabbia, risentimento e in alcuni casi odio.
Le aspettative ed illusioni.                                                                                                      
A volte, ci si aspetta ancora che quel padre o quella madre cambino e  diano l’amore, il sostegno e la comprensione che ci sono mancati così tanto. Perdonarlisignificherebbe praticamente rinunciare a quell’illusione.
Il senso di giustizia.                                                                                                          
Alcune persone pensano che perdonando i loro genitori, permettono loro di farla franca senza comprendere gli errori e senza dover rimediare ad essi.

Per maturare ed evolvere bisogna potersi allontanare dall’offesa. Non si può essere in pace con sé stessi mentre si è in guerra con il padre o con la madre. Questa consapevolezza è il primo passo per avere delle buone ragioni per iniziare un processo di perdono, che è innanzitutto unelaborazione psicologica, che presuppone anche il cambiamento di meccanismi di difesa profondi.

Imparare a tollerare l’ambivalenza nei confronti dei genitori

E’ molto difficile tollerare in noi, insieme all’amore e alla gratitudine, il risentimento e la delusione che si può provare per loro. Per amarli e perdonarli davvero ci si deve confrontare con loro per quello che sono veramente stati, con i loro meriti e le loro mancanze, facendo affiorare la varietà dei sentimenti, positivi e negativi, che si provano. Quando non si riesce a riconoscere questa complessità si rischia di non riuscire ad avere un rapporto autentico con loro, e inoltre dinamica si può rivolgere anche alle altre persone, instaurando dei meccanismi di diniego e scissione con chiunque.                                                                        

Nel diniego vi è un’esclusione involontaria ed automatica dalla propria consapevolezza rispetto ad un certo aspetto disturbante della realtà. La scissione, invece, è un meccanismo di difesa che consiste nello “scindere”, separare gli aspetti contraddittori, ma conviventi, dell’oggetto o dell’Io.                                                                                                         Amare qualcuno non significa idealizzarlo ma saper mettere insieme i suoi vari aspetti buoni e cattivi. In alcuni casi fare questo passo può essere particolarmente complicato. Immaginiamo ad esempio la difficoltà di mettere insieme nella mente  un genitore che diventa violento quando è ubriaco, ma potrebbe essere adeguato quando è sobrio.

Dopo che si sono riconosciute le parti brutte dei nostri genitori (se prima si negavano alla consapevolezza) come si può proseguire nel perdonare? Dopo che si è imparato a tollerare l’ambivalenza nella nostra immagine interiore di loro? Quando si sono abbandonati i meccanismi della scissione e il diniego, questa realtà tragica, come si può utilizzare?          

Fermarsi a comprendere la storia dei genitori, la motivazione dei loro sbagli e delle loro difficoltà, vedendosi inseriti in un quadro di trasmissione famigliare complesso, che comprende nostro padre, nostra madre e le generazioni precedenti.

Il cammino faticoso della consapevolezza passa attraverso tutti gli elementi positivi e negativi che vengono trasmessi in famiglia. Da una generazione all’altra possono passare traumi, conflitti, gravi vissuti famigliari.                                                                                  Ragionare in questo modo non annulla la responsabilità dei singoli (ad esempio non vuol dire giustificare un genitore maltrattante) ma permette di comprendere meglio il contesto in cui una persona nasce e cresce. Pensare che le sofferenze che ci hanno inferto i nostri genitori forse derivano da qualcuno che sta più a monte di loro, in una storia in cui noi e la nostra famiglia siamo immersi e partecipi.  Questa visione non annulla la rabbia, ma aiuta a guardare in modo più lucido alla situazione e a ridimensionare.

Quali sono i vantaggi del perdonare?

Non vuol dire dimenticare ma imparare a pensare meglio, nell’ottica della libertà anche di non riconciliarsi con chi ha offeso, ma bensì accettare ciò che è stato, senza che questo rappresenti una debolezza.
Perdonare è liberarsi di pesi che potrebbero gravare sulla qualità della vita
Il rancore ci sottrae l’entusiasmo, l’energia e la positività.                                                      
Il perdono è un processo, e anche se in alcuni casi può essere troppo difficoltoso perdonare del tutto l’altra persona, si può scaricare buona parte del risentimento per essere più leggeri e liberi.

Concludiamo l’articolo con le parole evocative di questa canzone, che con un’immagine forte fa riflettere sul tema del perdono e della complessità dei rapporti umani:

“Onora il padre, onora la madre e onora anche il loro bastone,                                                                       bacia la mano che ruppe il tuo naso perché le chiedevi un boccone:                                                                 quando a mio padre gli si fermò il cuore non ho provato dolore….                                                              Ma adesso che viene la sera e il buio mi toglie il dolore dagli occhi e scivola il sole al di là delle dune a violentare altre notti: io nel vedere quest’uomo che muore, madre, io provo dolore. Nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore”

(De Andrè, Il Testamento di Tito, 1970)

 

Dott.ssa Laura Rivoiro

Psicologa – Psicoterapeuta

 

Bibliografia

BORGOGNO, F. (2007), The Vancouver Interview, Borla, Roma

CERATO, M. (2003), Emozioni e Sentimenti. Curare il cuore e la mente, Effatà Editrice, Cantalupa (TO)

CERATO, M. (2019), Ti perdono (Forse!), Effatà Editrice, Cantalupa (TO)

FERRO, A. (2007), Evitare le emozioni, vivere le emozioni, Raffaello Cortina, Milano

TUTU, D. (1999), Non c’è futuro senza perdono, trad.it. Feltrinelli, Milano 2001

SECONDO LOCKDOWN E MECCANISMI DI NEGAZIONE: UNA RIFLESSIONE PSICOANALITICA

La pandemia da Covid-19, come fenomeno che ha colpito l’intera umanità, è stata un’esperienza che ha accomunato le persone a livello mondiale in termini di sensazioni, paure e vissuti. In pochi mesi ci siamo ritrovati, in qualunque parte del mondo, a porci le stesse domande, ad avere simili preoccupazioni e a condividere l’esperienza dell’attesa, dell’ignoto, del lutto e del cambiamento. La stessa terapia ha subìto diverse modifiche per adattarsi al nuovo contesto pandemico. Nello specifico, la psicoanalisi ha attraversato alcuni cambiamenti nella pratica clinica che hanno avuto un forte impatto sul setting, sull’alleanza terapeutica e sul modo di concepire la terapia. Analista e paziente, abituati alla stanza dei sogni con poltrone e lettino, si sono incontrati in una nuova veste con uno schermo a dividerli e a connetterli.

La psicoanalisi, nonostante sia nata più di cento anni fa, non è nuova alle trasformazioni e nel tempo si è modificata per adattarsi ai valori e ai bisogni attuali. Essa è diventata più flessibile, meno autoritaria, più pratica e più recettiva dei bisogni di un insieme di pazienti più ampio con origini culturali e sociali molteplici. Molti autori hanno trattato il tema delle cosiddette variazioni rispetto a una tecnica psicoanalitica classica. Fenichel (1941) scriveva “possiamo e dobbiamo sempre essere elastici nell’applicazione delle regole tecniche. Ogni cosa è ammissibile, se solo si sa perché”. Anche Anna Freud (1954) espresse l’opinione che i cambiamenti nell’applicazione delle regole e dei procedimenti tecnici sono a volte necessari quando possono essere teoricamente giustificati in relazione alla struttura di un determinato caso.

La pandemia ha avuto un forte impatto sulle terapie, sui terapeuti e sui pazienti. Il contesto così straordinario, ma allo stesso tempo comune a tutti, ha reso possibile che analista e paziente al di là dei loro ruoli e in quanto persone sperimentassero la piena condivisione di una realtà conosciuta ad entrambi perché vissuta proprio nell’hic et nunc. Il momento storico si rifletteva nelle esperienze dei pazienti così come in quelle del terapeuta. La riflessione sull’esperienza dell’essere terapeuti durante il primo e il secondo lockdown ha messo in luce delle differenze nelle due fasi e da qui è nata la curiosità di conoscere come i pazienti abbiano vissuto questi due momenti e se vi siano state delle discrepanze anche per loro.

Sicuramente ciò che è avvenuto in entrambi i momenti è stato un cambiamento radicale nel setting. La modalità da remoto, che prima non era così diffusa, è stata letteralmente sdoganata rendendo possibile confrontarsi con un nuovo modo di fare terapia sia come terapeuti, sia come pazienti. L’analista è stato chiamato quindi a modificare il suo metodo per il benessere del paziente. Questo ha portato con sé nuove riflessioni sul senso di una telefonata o di una videochiamata a seconda del tipo di trattamento che era in atto con il paziente, l’introduzione di un terzo nella relazione che era appunto lo strumento telematico (ma anche il contesto storico entro il quale ci si stava muovendo) attraverso il quale sono stati rivelati dei dettagli privati del terapeuta o del paziente che sono stati inevitabilmente condivisi (ad esempio spazi della casa, animali domestici). Anche il non presentarsi in seduta da parte del paziente si è modificato, non telefonando o non videochiamando e ciò ha sicuramente portato a un pensiero differente nel terapeuta rispetto alle assenze nel setting classico. Al ritorno in studio vi è stata inoltre l’introduzione di un aspetto medicalizzato, come l’igienizzazione delle mani e la compilazione di moduli.

Nel primo lockdown il vissuto del terapeuta è stato quello di avere la necessità di trovare una strategia, quella del fare come si può, che invece nella seconda chiusura si è tradotto nella possibilità di scegliere (ad esempio se continuare da remoto, come in alcuni casi richiesti dal paziente, oppure tornare in presenza). I contenuti delle sedute durante il primo lockdown erano focalizzati sulla pandemia, sulla paura del contagio, sul rispetto della norma. La sensazione, come terapeuta, era di essere un contenitore, ma allo stesso tempo di trovarsi letteralmente sulla stessa barca del paziente. Il secondo lockdown ha fatto emergere altri contenuti, temi e vissuti. Si è osservata una maggiore negazione della pandemia e un aumento nel non rispetto delle regole, anche in modo quasi inconsapevole. In questa fase è stato evidente come ci si sia trovati davanti alla fragilità dell’umanità, tema difficile per una società non abituata a questo ma orientata verso onnipotenza e narcisismo. Lingiardi e Giovanardi (2020) descrivono così quello che è stato il vissuto durante la seconda ondata: “Stiamo nel pieno di una nuova ondata, e il rischio di rivivere un trauma psichico è molto alto: per molti il ritorno al lockdown può accompagnarsi a paure profonde e innescare comportamenti fobici (reclusioni eccessive e preventive) e controfobici (assembramenti negazionisti, vita sociale indiscriminata). Il senso della ripetizione di un’esperienza che genera spavento e incertezza può essere molto invalidante. Colpisce nel profondo il proprio senso di continuità e la propria motivazione, ingredienti fondamentali per avere un senso di sé integrato e ben funzionante. Per una volta, invitiamo a risalire sul lettino”. Il vissuto del terapeuta è stato quasi l’opposto di quello dei pazienti: più consapevole della situazione e dei meccanismi di difesa, meno difeso e di conseguenza più sofferente e con più difficoltà nello stare vicino al paziente, nella stessa sua condizione ma con vissuti diversi.

Oltre al ruolo terapeutico in fase pandemica, la psicoanalisi è stata ingaggiata fuori dalla stanza d’analisi per spiegare alcuni fenomeni sociali. Rispetto al tema del negazionismo, della negazione e quindi del diniego a ottobre 2020 la rivista scientifica The Lancet ha pubblicato un articolo su ciò che è stato definito negli Stati Uniti d’America “un caso di non adesione ai consigli medici” unico nella storia (Ratner e Gandhi, 2020). È chiaro come la gestione della pandemia negli USA sia stata diversa da quella in Italia, tuttavia anche in Italia e nel resto del mondo si è assistito a un rafforzamento dei meccanismi di diniego, che sono emersi in modo massiccio nella seconda ondata pandemica. Gli psichiatri Austin Ratner e Nisarg Gandhi, autori dell’articolo, hanno chiesto un coinvolgimento della psicoanalisi nella gestione della situazione di negazione e della non adesione ai consigli medici legati al Covid-19. I meccanismi di negazione psicologica della malattia si legherebbero successivamente alla mancata aderenza alle raccomandazioni mediche.

Ma come può la psicoanalisi (e gli psicoanalisti) aiutare a comprendere e gestire la negazione di massa? Nello stesso modo con cui gli epidemiologi trattano i pericoli per la salute pubblica, ovvero aumentandone la consapevolezza. La psicoanalisi è chiamata a lavorare con le persone sul funzionamento dei loro meccanismi di difesa, nello specifico sottolineando come la negazione allontani dalla coscienza ciò che è intollerabile: il pericolo e l’ansia. Carl Gustav Jung (1946) invitava la psicoanalisi a “superare la profonda scissione esistente nell’uomo e nel mondo”.

In un momento delicato come quello della pandemia, il coinvolgimento della psicoanalisi è stato “un importante riconoscimento del potenziale trasformativo che la psicoanalisi può esprimere non solo come terapia individuale, ma come forza di cambiamento sociale” (Ratner e Gandhi, 2020).

Dott.ssa Tatiana Giunta

Psicologa – Psicoterapeuta

 

BIBLIOGRAFIA:

Fenichel, O. (1941). Problemi di tecnica psicoanalitica. Torino, Bollati Boringhieri, 1974.

Freud, A. The widening scope of indications for psychoanalysis discussion. Journal of the American Psychoanalytic Association, 1954.

Jung, C.G. (1946). Psicologia del transfert. Milano, Mondadori, 1985.

Lingiardi, V., Giovanardi, G. Psicoanalisi Anti negazionista. Il sole 24 ore, 02/11/2020.

Ratner, A., Gandhi, N. Psychoanalysis in combatting mass non-adherence to medical advice. The Lancet, 19/10/2020.

L’AUTOLESIONISMO E AUTODISTRUTTIVITÀ IN ADOLESCENZA

Uccido il mio corpo

poiché esso

mi uccide”

Platone

Il termine autolesionismo deriva dal greco αὐτός e dal latino laedo (danneggiare) e significa letteralmente “danneggiare sé stessi”.

Esso indica la tendenza a provocare il danneggiamento del proprio corpo attraverso lesioni autoinflitte dirette e intenzionali senza necessariamente intenzioni suicidarie, tipica di alcuni adolescenti e giovani adulti.

Le condotte autolesionistiche non hanno un senso univoco, non può esserci una causa precisa in ogni circostanza, possiamo intenderla certamente come una strategia per gestire la sofferenza psicologica talvolta inserita appunto nel quadro di una psicopatologia più complessa.

Si tratta di modalità comportamentali riscontrabili in varie categorie diagnostiche come ad esempio disturbi d’ansia, disturbi dell’umore, disturbi di personalità, abuso di sostanze, disturbi del comportamento alimentare.

Sono forme di sofferenza definite appuntoDeliberate self-harm” ovvero “Auto-danneggiamento intenzionale” che comprende un repertorio vario di comportamenti patologici, riconducibili a tre principali tipi di condotte di:

1. Auto-danno come l’abuso di sostanze psicoattive, la sex promiscua e il gioco d’azzardo;

2. Auto-avvelenamento come l’ingestione di sostanze tossiche e l’overdose di droghe;

3. Autolesive come tagli, scarnificazioni, graffi, escoriazioni, lividi (cutting); bruciature e ustioni (burning) e ancora morsi, tricotillomania, eccessiva onicofagia etc.

Parlare di autolesionismo in adolescenza è faticoso poiché è difficile accettare l’intenzionalità autodistruttiva di un adolescente nel pieno della propria vita e farsi carico della drammaticità di tutto ciò.

Per poter comprendere meglio la tematica, occorre fare un cenno all’oggetto destinatario delle dinamiche autolesionistiche ovvero il corpo e come questo viene vissuto nel periodo adolescenziale.

Il corpo in adolescenza diviene il luogo dove avviene la ridefinizione di Sé rispetto al mondo esterno, esso si pone come il ricettacolo di pensieri, attenzioni e preoccupazioni dell’adolescente nonché portavoce della sua sofferenza.

Il corpo che vive gli inaspettati, inevitabili e dirompenti cambiamenti puberali e fisiologici può essere sentito come inautentico o non rappresentativo, fuori luogo, non corrispondente a come viene esperito e di conseguenza diventare causa di vergogna e imbarazzo sociale, nonché bersaglio del malessere e aggressività.

Le condotte autolesive esprimono una ricerca disperata di modi per lenire la propria sofferenza, più nello specifico possiamo osservare i seguenti significati:

1. COMUNICAZIONE ovvero l’espressione di ciò che è impossibile mettere in parole
2. AUTOREGOLAZIONE EMOTIVA di intense emozioni sentite come eccessive (es. ansia, tristezza, impotenza, perdita, rabbia, colpa, vergogna, abbandono, rifiuto etc.).

Quando la mente è sopraffatta, la ferita reca sollievo rispetto ad un disregolato stato di arousal psicofisiologico, ingaggiando una lotta distruttiva tra sé e il proprio corpo e cercando di ripristinare uno stato mentale più tollerabile. Ciò avviene anche a livello di pensieri perché per un po’ ci si occupa solo del dolore fisico e ciò che ne consegue (es. vista del sangue, disinfettare, apporre cerotti etc.) distogliendosi dal dolore interiore.

La disregolazione emotiva è il fallimento della regolazione flessibile dell’esperienza e/o espressione emotiva, comune a molti quadri psicopatologici.

3. STRATEGIA DISADATTIVA DI COPING come modalità di fronteggiare le avversità
4. FORMA PATOLOGICA DI AUTOAIUTO E AUTOMEDICAZIONE
5. RICHIESTA DI AIUTO dalla forte potenza comunicativa ed espressiva del dolore per attivare delle risposte di accudimento

6. MODALITÀ PER CONCRETIZZARE la sofferenza in vissuti corporei, visibili, più controllabili anche perché autoprodotti. Il dolore somatico esterno simboleggia il vuoto interno.

7. MODALITÀ CATARTICA di sbarazzarsi parti non gradite di Sé (ricordi dolorosi, aspetti traumatici, cambiamenti puberali indesiderati etc.)
8. PUNIZIONE AUTOINFLITTA, specie per chi presenta elevato autocriticismo
9. COSTRUZIONE DI UNA MEMORIA DI SÉ poiché la cicatrice diviene l’autobiografia emotiva, evolutiva e identitaria dell’adolescente. Una ferita, inoltre, offerta come testimonianza, sfida, provocazione, richiesta di essere visti.
10. FUNZIONE DI UN’APPROPRIAZIONE ATTIVA del processo di vita, allontanare vissuti di passività e di dipendenza (molto temuti in adolescenza) e ridurre il senso d’impotenza oppure svolgere una FUNZIONE ANESTETIZZANTE, calmante cioè mettere ordine alle tensioni e alla confusione mentale. Ricordiamo infatti che i tagli provocano una distensione dopaminergica e di oppioidi endogeni, diventano una forma di esistenza e strumento di controllo su di sé.

L’autolesività rappresenta i modi di esternalizzare gli affetti negativi proiettati sul corpo, necessari “per sentirsi vivi” contro parti morte di sé o non attrezzate a rappresentare uno o più dolori indicibili.

Il dolore psichico è così intenso e insopportabile e il corpo è utilizzato come veicolo di sofferenza e lo stesso viene attaccato, a volte, con modalità autolesive e autodistruttive (dca, autolesionismo e tentato suicidio).

Il trattamento necessario per le condotte autolesive richiede trattamenti psicoterapeutici che si focalizzino sulla regolazione delle emozioni per affrontare la sofferenza, sulla capacità di coping funzionali e adattive nonché sull’incremento della capacità di mentalizzazione ovvero la capacità di comprendere il proprio e altrui comportamenti in termini di stati mentali.

Come professionisti della salute mentale, sconsigliamo un atteggiamento giudicante o di condanna del comportamento autolesivo ma è bene favorire una richiesta di aiuto per rivolgersi a specialisti per un’adeguata valutazione e psicoterapia.

BIBLIOGRAFIA

R. Ostuzzi, M. Pozzato, Autolesionismo e disturbi di personalità (M.D. Medicinae Doctor – Anno XVI numero 5 – 18 febbraio 2009);

– M. Lancini, L. Cirillo, T. Scodeggio, T. Zanella, L’Adolescente Psicopatologia e psicoterapia evolutiva Raffaello Cortina Editore 2020;

– M. R. Monti, A. D’agostino, L’Autolesionismo, Carocci Editore 2009;

– C. D’agostino, M. Fabi, M. Sneider, Autolesionismo. Quando la pelle è colpevole, L’asino d’oro 2016.

Dr. Ssa Maria Grazia Esposito

Psicologa Clinica Psicoterapeuta

QUANDO SI MEDITA E’ MEGLIO RESPIRARE ATTRAVERSO IL NASO O LA BOCCA?

La prima caratteristica che si evidenzia  in tutte le tecniche di respirazione, sia occidentali sia orientali, è che preferiscono il coinvolgimento della via respiratoria nasale piuttosto che quella della bocca.

Nella letteratura  indiana è riportato che “solo quando i canali nasali sono liberi è possibile controllare il Prana (l’energia vitale)” indicando che i nadi (canali energetici) delle narici sono di grande importanza per il controllo del Prana.

Anche la  letteratura scientifica occidentale ha rilevato la presenza di un meccanismo neurofisiologico presente nelle narici capace di indurre il rilassamento.

E’ stato dimostrato che sull’epitelio delle narici ci sono dei recettori in grado di rispondere alla pressione esercitata dall’aria durante il suo passaggio e che questi recettori stimolano la corteccia piriforme e orbi frontale. Ciò significa che l’inspirazione nasale migliora le prestazioni cognitive, il riconoscimento emotivo e la memoria episodica (Zelano et all). Gli studi di Herrero et all hanno dimostrato che prestare attenzione al respiro incrementa la coerenza tra respiro e attività elettrica intracranica. Queste ultime scoperte sono interessanti, perché dimostrano che le tecniche di respirazione nasale sono in grado di influenzare aree cerebrali differenti dall’elaborazione olfattiva, e che sono legate allo stato di coscienza.

Due studi svolti presso l’università di Pisa hanno dimostrato che le informazioni provenienti dall’epitelio nasale arrivavano alla corteccia orbito frontale (principale proiezione del bulbo olfattivo) e da qui si spostavano verso la corteccia cingolata posteriore (coinvolta negli stati di coscienza legati al sonno) (Piarulli et all). Ciò prova che la respirazione lenta e ritmica è in grado di modificare lo stato di coscienza.

Un secondo studio ha indagato l’effetto della tecnica di Respirazione quadrata, caratterizzata da fasi respiratorie di eguale durata, sia svolta attraverso il naso, sia attraverso la bocca. Anche questo studio ha verificato che la respirazione nasale ha effetti sulla coscienza, riducendo l’arousal, implementando l’attività immaginativa. Al contrario la respirazione attraverso la bocca non aveva effetti sulle funzioni cerebrali.

Respirare con il naso ha degli immediati effetti sulla respirazione stessa, che si fa più lenta e sull’attivazione del Sistema Parasimpatico, quello legato agli stati di calma e quiete. Inoltre portare volontariamente l’attenzione sul respiro, lasciando andare i distrattori (pensieri, immagini, sensazioni emotive e fisiche) e riorientando continuamente la propria attenzione al respiro riduce l’attività del Default mode network: un insieme di aree coinvolte nell’elaborazione autoreferenziale (Sé narrativo) e che si ritiene che sia coinvolta nelle esperienze simil mistiche.

Fonte: Meditazione, mindfulness e neurosceinze,a cura di M. Ghilardi e A. Palmieri ed Mimesis

 

Dott.ssa Luigina Pugno

Psicologa – Psicoterapeuta

LOVE BOMBING: I 5 SEGNALI PER RICONOSCERE SE SEI MANIPOLAT*

Negli ultimi anni si è diffuso sempre di più il termine love bombing.

Cos’è?

Il love bombing è un termine inglese per indicare una specifica modalità che viene messa in atto da una persona narcisista nei confronti della sua vittima: il bombardamento amoroso.

Questo “bombardamento” non ha nulla di pacifico e/o romantico perché risulta essere a tutti gli effetti una strategia di adescamento.

Di solito, il love bombing viene utilizzato all’inizio di una relazione sentimentale e questo rende più complesso identificarlo come tecnica manipolativa e quindi tossica.

Ma come inizia tutto ciò?

Chi utilizza il love bombing farà sentire unica la persona prescelta, creerà momenti indimenticabili, mai vissuti prima e conditi con emozioni che travolgono e lasciano senza respiro.

Insomma, si viene manipolati attraverso dimostrazioni di affetto, presenza e amore esagerati. Inizialmente il love bombing non viene subito percepito così dalla vittima. Questo perché il periodo in cui vengono poste queste “attenzioni speciali” è l’inizio della relazione, ovvero durante la luna di miele dove tutto è FANTASTICO.

Un altro aspetto poco riconosciuto è che inizialmente il narcisista riserva alla sua vittima delle attenzioni fuori dal comune, gioca in altre parole con le sue debolezze.

Queste modalità sono delle vere e proprie trappole emotive in cui il partner narcisista si mostra come il “principe azzurro”.

Come distinguere, però, il normale periodo iniziale di una relazione, tutto cuori e stelline, dalla manipolazione del love bombing?

Ecco cinque segnali per identificare se sei vittima di love bombing:

1) Fretta eccessiva

Il narcisista deve bruciare le tappe, entrare nel cuore del/la partner in modo subitaneo. Fa spesso promesse e proposte esagerate, si proietta e fa proiettare l’altra persona in un futuro roseo, unico e mai vissuto prima. Grazie a questa fretta e a questo bombardamento il rischio che corre la vittima è quella di sentirsi messa sotto scacco e non riuscire a scegliere quale direzione vuole dare alla relazione, sentendosi impotente e intrappolata.

Questo è il primo campanello di allarme: la relazione, così come il sentimento amoroso, ha necessità di tempo per svilupparsi. Se avviene tutto in un tempo breve è poco realistico come lo è il fatto di fare progetti futuri grandiosi senza averlo condiviso e progettato con l’altra persona (soprattutto se la vittima non ne ha mai parlato).

2) Esagerazione ed ostentazione

Regali, complimenti, manifestazioni di affetto, gesti di attenzione etc. fanno piacere a tutti e sono in una certa misura naturali all’interno di una relazione sentimentale, soprattutto nelle sue fasi iniziali. In questo quadro, però, l’aggettivo da tenere a mente è ECCESSIVO. Doni esagerati, complimenti e gesti di affetto sopra le righe sono i campanelli d’allarme che devono solleciatare attenzione.

La motivazione di questi comportamenti è quella di comprare l’amore dell’altro in modo strumentale per far cadere nella propria trappola la vittima e conquistarne più agevolmente la fiducia.

3) Anime gemelle, destino di amore eterno e amore a prima vista

Sono tutte trappole narrative per ottenere sempre e soltanto una cosa sola: confondere la vittima per ottenere fuducia, apprezzamento e controllo. Anche in questo caso la variabile da tenere a mente è la velocità con cui avviene tutto quanto.

4) Montagne russe emotive

Dalle stelle alle stalle in poco tempo. Stabilità e serenità di coppia sono soltanto apparenti e sono solamente create in modo strumentale per far sentire l’altra persone speciale e meravigliosa, ma nel giro di poco tempo verrà svalutata e umiliata.

5) Senso di colpa

La chiusura del cerchio avviene proprio facendo sentire in colpa il/la partner perché non si sente abbastanza considerat*. Vengono, così, riversati addosso al/la partner in modo smisurato e irruento rabbia, svalutazione e controllo dell’altro/a. Tutto questo per far leva sulla colpa che la vittima sente e prova per far si che non si allontani/pensi a sé ma colpi il vuoto che il/la narcisista sente.

Perché stare attenti a questi indizi?

Il/la narcisista incomincia la relazione mostrandosi come attent*, comprensiv* e affettuos* operandosi per accelerare i tempi della relazione. Riconoscere questi segnali può essere faticoso poiché la prima fase di una relazione con un/a narcisista è molto simile a quella “totalizzante” vissuta da tutti. Il segreto, come abbiamo visto, però, è riconoscere che è tutto troppo veloce e troppo bello (per essere vero).

Se ti ritrovi in questi indizi converebbe tenere gli occhi bene aperti: corri il rischio di finire in una relazione tossica. Una volta iniziata è molto più complesso tirarsene fuori.

Dott. Gilberto Kalman

Psicologo – Psicoterapeuta