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LA PIGRIZIA ESISTE?

La pigrizia andò al mercato

ed un cavolo comprò.

Mezzogiorno era suonato

quando a casa ritornò.

Mise lacqua, accese il fuoco,

si sedette e riposò.

Mentre il sole a poco a poco

dietro i monti tramontò.

Così, persa ormai la lena,

sola al buio ella restò

ed a letto senza cena

la meschina se ne andò.

E. Berni

Nel mio lavoro di psicoterapeuta, mi capita spessissimo di imbattermi nel concetto di pigrizia. Molti miei pazienti hanno la convinzione di essere pigri e che per questo loro “difetto” non riescono a stare al passo con le richieste del lavoro, della casa, della società. Si sentono perdenti nel confronto con gli altri che invece sembrano più “performanti”.

Ho sempre trovato interessante il concetto di pigrizia e il fatto che, comunemente, venga associato ad una sorta di difetto di nascita.

Lo possiamo vedere anche nelle definizioni della Treccani:

pigrìzia s. f. [dal lat. pigritia, der. di piger «pigro»]. – Il fatto d’esser pigro; la qualità, e quindi anche l’atteggiamento, il comportamento di chi è naturalmente pigro nell’agire, nell’operare, o anche soltanto nel muoversi

pigro agg. [dal lat. piger -gra -grum]. – 1. a. Di persona che, per natura, rifugge dalla fatica, dallo sforzo, dall’impegno fisico o intellettuale, e dall’azione in genere, o che agisce e opera con lentezza e senza entusiasmo

Pigri lo si è per “natura”, dunque, ma al contempo si viene biasimati per questo, come se ci si dovesse sforzare di invertire questa stortura. 

Questa visione mi ha sempre convinta poco, perché mi dava l’impressione che cozzasse con l’evoluzione della specie. Dubito che in natura ci sia spazio per un’indole pigra: l’agire umano, di solito, è teso alla sopravvivenza e la pigrizia non è funzionale. Inoltre, fin da piccolo il cucciolo d’uomo è caratterizzato dalla curiosità: il suo modo di crescere e maturare è sostanzialmente legato al fare esperienza del mondo e delle sue leggi e, se osserviamo i neonati, possiamo vedere chiaramente questa tensione verso il comprendere, il collegare, l’esperire. Così come si coglie chiaramente la soddisfazione che traggono dal saper fare e dal mostrarlo agli altri.

Dopodiché l’uomo tende anche a riposarsi, è vero, ma anche questo è funzionale alla sopravvivenza. Col riposo, assolviamo ad una serie di compiti fondamentali al nostro organismo e alla nostra mente. Non ultimo, il fatto che mentre dormiamo riorganizziamo le informazioni e le esperienze appena raccolte e le immagazziniamo, aggiungendo conoscenza ai nostri modelli del mondo. Pertanto dormire, rientra in parte nel processo di apprendimento! 

Tuttavia, quando parliamo di persona pigra, di solito non intendiamo una persona che dorme molto, piuttosto una che, come dice la Treccani, rifugge dalla fatica e dallo sforzo. 

Da psicologa tendo a interrogarmi su ciò che guida o non guida l’agire umano e dunque questo aspetto del voler fuggire da un’esperienza di frustrazione mi ha attivata e ho cominciato a chiedermi quand’è che le persone, invece, affrontano la fatica e lo sforzo con buona lena. Di solito, avviene quando sono molto motivate. Quando la motivazione è sufficientemente alta, le persone manifestano una tenacia e una resistenza notevoli, anche di fronte ad ostacoli importanti. 

È possibile dunque che la pigrizia sia più semplicemente mancanza di motivazione? E che la mancanza di motivazione porti a tralasciare o rimandare un compito percepito come frustrante? E in tal caso non potremmo allora forse, più propriamente, chiamare la pigrizia procrastinazione?

Ho fatto un po’ di ricerche per verificare questa ipotesi e ho avuto, innanzitutto, conferma del fatto che l’essere umano ha una naturale tendenza ad agire, produrre e scoprire, perché questo è funzionale alla sua crescita e alla sua sopravvivenza. A ciò si aggiunge, anche, il naturale bisogno di gratificazione e di approvazione per i risultati raggiunti. Questa spinta fa parte della Piramide dei bisogni di base di Maslow e ci ricorda che la tendenza a produrre non riguarda solo noi come individui, ma anche la nostra rete sociale perché il progresso di uno è il progresso di tutti. Forse è proprio per questo che, storicamente, la pigrizia si accompagna al biasimo sociale. 

Se ci pensiamo, il cattolicesimo l’ha inserita col termine accidia nei 7 peccati capitali, in quanto le persone accidiose rifiutano la vita, si lasciano andare alla noia, all’inerzia, al non far nulla, non mettono a frutto i propri doni. E questo era considerato un torto verso Dio e verso gli altri.

L’operosità, invece, è sempre stata ritenuta una virtù da lodare. La fatica, il lavoro, avvicinavano l’uomo a Dio e lo facevano entrare nelle sue grazie. Ci portiamo uno strascico di questa visione quando nelle società occidentali giudichiamo negativamente la moralità delle persone povere, bollandole appunto come pigre, indolenti, con poca voglia di lavorare e di elevarsi dalla loro condizione. In questo c’è molto del capitalismo, ovviamente, ma il capitalismo ha a sua volta in sé molto della morale calvinista che porta il ragionamento all’estremo: chi lavora e ha successo è stato baciato dalla benevolenza di Dio; chi è povero è fuori dalla grazia divina per i suoi peccati ed è dunque macchiato da un difetto morale, causa della sua condizione. 

Tralasciando gli aspetti religiosi, è innegabile che esser bollati come pigri risulti ancora oggi una condanna. I bambini che faticano nel fare i compiti e vengono tacciati di pigrizia, finiscono per perdere ancora più la motivazione. Se le difficoltà che sperimentano sono già frustranti, veder misconosciuto il problema o l’impegno aggrava la perdita di motivazione e così la nomea di indolente diventa una profezia che si autoavvera.

La stessa cosa succede quando siamo noi stessi a chiamarci pigri, magari perché condizionati dalla facilità con cui affibbiamo questo aggettivo anche agli altri. “Se non riesco, se faccio fatica, se non sento la spinta è perché ho un difetto di nascita: sono pigro. E dovrei sforzarmi di lottare contro questa mia natura, ma poiché sono pigro rifuggo dalla fatica e allora non posso cambiare”. Questa è una visione paralizzante per chiunque, toglie spazio a qualsiasi tensione verso un miglioramento; è una condanna alla quale non si può sfuggire. 

Quanto cambia se invece escludiamo la pigrizia dal quadro e ipotizziamo che se non riusciamo, facciamo fatica, non sentiamo la spinta forse è perché manca qualcosa? Se c’è una mancanza, c’è un bisogno. Questa è una visione che apre a delle domande: “cosa mi manca? di cosa ho bisogno? come posso colmare questo bisogno? posso colmarlo da solo o mi serve che il contesto mi venga in aiuto?” 

Ecco che si fa spazio la ricerca di risposte, che porta in sé azione, problem solving, curiosità e un ventaglio di possibilità. 

Ovviamente, talvolta la risposta è molto intuitiva e ciò che manca non è altro che l’energia per fare e progettare. In tal caso, se non si è in presenza di una condizione fisica o mentale, il bisogno da soddisfare è semplicemente quello del riposo. 

Tralasciando questo scenario, alla domanda “Cosa manca?” la psicologia ha più spesso dato la mia stessa risposta: motivazione.

Dunque, gli esseri umani da cosa traggono motivazione? Di solito, dall’avere un obiettivo, un progetto da raggiungere che vada nella direzione di soddisfare un loro bisogno. 

Sembra facile, ma non lo è! 

Capire quali sono i nostri obiettivi non è scontato e capita spesso che le persone ne scelgano alcuni che sono in realtà distanti dal loro essere o magari indotti o guidati da aspettative esterne. Soffermarsi a chiederci quale bisogno ci guida, quale bisogno stiamo cercando di soddisfare e perché, può essere una buona bussola per sfrondare gli obiettivi ingannevoli. 

Nel mondo moderno, gli obiettivi più motivanti sono solitamente legati ai bisogni di autonomia (essere indipendenti, poter dirigere la nostra vita), di padronanza (crescere e migliorarsi) e di scopo (la pulsione a servire qualcosa di più grande di noi). 

Una volta compreso quale potrebbe essere un obiettivo valido, esso va scomposto in piccoli passi. Non c’è nulla che ci faccia perdere la motivazione come trovarci di fronte ad una montagna che sembra insormontabile. Gli obiettivi devono infatti essere raggiungibili per motivarci, rientrare in quella che Vigotskij chiamava “zona di sviluppo prossimale”. Un obiettivo ci spinge all’azione se si trova appena al di fuori delle nostre competenze, della nostra zona di comfort, perché mette in moto il desiderio di migliorarci quel tanto che basta per agguantarlo. Al contrario, un fine che si trovi troppo al di là della nostra capacità di sviluppo, finirà per somministrarci dosi massicce di frustrazione quotidiana che minano il nostro senso di autoefficacia e bloccano l’iniziativa. 

Per esemplificare, possiamo dire che è utile non concentrarsi sull’intera scala, non guardare alla sua sommità, ma interessarsi solo al singolo gradino. Una vota che il progetto è tracciato, il compito va, come dicevo, scomposto nelle sue singole parti che lo rendono maneggevole, avvicinabile. Ogni parte, ogni gradino sfida ovviamente una nostra capacità, ma quel tanto che basta per permetterci di raggiungere il gradino successivo e sfruttare la spinta della gratificazione ottenuta dal piccolo successo raggiunto. Alla fine della scala avremo pian piano sviluppato tutte le competenze necessarie, che a guardar troppo in lungo ci sembravano soverchianti. 

Detto questo, per gli esseri umani non è sufficiente che l’obiettivo corrisponda ad un mero calcolo di costi-benefici/sforzi-risultati. Le ricerche hanno ben presto messo in luce che, in quanto esseri irrazionali, la gratificazione derivante dal solo raggiungimento dell’obiettivo spesso non è abbastanza per tenerci motivati, specie sul lungo periodo. Ci serve anche sentirci coinvolti nell’esperienza creativa, entrare in uno stato di flusso, perfettamente presi e immersi nell’attività che stiamo facendo, alimentati dal puro piacere di farla. Quando si raggiunge questo stato di motivazione intrinseca, lo scopo viene raggiunto senza quasi percepirne lo sforzo. Ovviamente, non tutti gli obiettivi che ci diamo possono condurci allo stato di flusso, ma sarebbe bene tenere presente che un buon obiettivo dovrebbe stimolare anche un lato di gioco e di divertimento. 

Se usiamo queste lenti per accostarci alla questione, possiamo vedere che una persona che procrastina non è una persona pigra: è una persona con dei bisogni inevasi che deve capire come colmare e spesso è anche alle prese con emozioni negative. 

Di solito, infatti, se si chiede alle persone “pigre” come si sentono all’idea di fare quel che stanno rimandando si otterranno risposte tipo:

  • Ho l’ansia 
  • Ho paura di sbagliare o di fallire 
  • Temo che gli altri possano giudicare il mio operato 
  • Non penso di farcela o di averne le capacità
  • Non so da che parte cominciare 
  • Temo che gli altri scoprano che non sono bravo come pensano 
  • Temo di scoprire che io non sono capace come penso 

Non è difficile notare che, allora, una persona che procrastina è spesso una persona che si sta autosabotando. Evitare un compito che ci spaventa o ci mette ansia è un modo di proteggerci, di evitare di mettersi in gioco pensando così di preservare la nostra autostima da una eventuale caduta. 

In realtà però, ogni volta che ci tiriamo indietro la nostra autostima si abbassa, perché essa non è alimentata solo dal successo, ma più spesso dal sapere di aver tentato. Il tentativo, inoltre, anche se imperfetto, ci regala il feedback necessario a correggere il tiro e a riprovare, alimentando la spinta a migliorare. 

È da tener presente, infine, che l’autosabotaggio può essere anche controintuitivo. Alle volte, cioè, evitiamo di metterci alla prova non perché temiamo di fallire, ma perché temiamo di scoprire che siamo capaci. A quel punto, dovremmo poi prenderci la responsabilità di mettere a frutto i nostri doni e passare all’azione, rinunciando al doloroso ma al contempo consolatorio pensiero del “SE avessi/facessi/potessi….la mia vita cambierebbe”. 

Ovviamente l’autosabotaggio non è consapevole: le persone non scelgono coscientemente di mettersi i bastoni tra le ruote! A volte, chiedersi se l’azione che si sta evitando possa essere migliorativa per la propria vita, può già essere sufficiente per approfondire cosa ci manca per metterci in moto. Altre volte, è il contesto a doversi interrogare su ciò che manca di fornire a chi non agisce. Altre volte ancora, può darsi che si abbia bisogno di un aiuto esterno per comprendere meglio quali meccanismi ci bloccano e provare a smuoverli. 

In ogni caso, la prossima volta che pensate di esser pigri provate a guardarvi con maggior benevolenza e a chiedervi, invece, di che cosa avreste bisogno per sentirvi stimolati ad agire!

 

 

Dott.ssa Valeria Lussiana 

Psicologa Psicoterapeuta

 

CEFALEA: UNA VISIONE PSICOSOMATICA

La cefalea è un dolore al capo che almeno una volta nella vita la gran parte di noi ha provato.

A seconda della forma che assume può coinvolgere la regione cranica, il cuoio capelluto, il viso o il collo. Può essere passeggera e di lieve intensità o profondamente debilitante nella sua permanenza e gravità. Può presentarsi con sintomi sgradevoli come nausea, vomito, dolori pulsanti o continui alla testa, al viso, al collo o fastidio nell’entrare in contatto con stimoli esterni (suoni, rumori e luci).

Se ha origini vascolari, osteomuscolari, ormonali, alimentari o psicoemotive viene classificata come primaria e si manifesta nelle tre forme più diffuse tra la popolazione, quali emicrania, cefalea muscolo tensiva e cefalea a grappolo. Se si presenta come sintomo di una malattia sottostante, o a seguito di un trauma fisico, viene cassificata come secondaria.

Irrompe nelle nostre vite e impedisce il normale svolgimento delle attività quotidiane. Così il lavoro, lo studio e il piacere subiscono delle violente battute d’arresto.

 

La cefalea è un disturbo talmente diffuso che anche la mitologia greca ne descrive un caso.

Zeus, prima di prendere in sposa Era, concepì alcuni dei suoi figli unendosi a  diverse figure femminili. Meti, figlia dei titani Oceano e Teti, divinità del raziocinio e del discernimento, fu una di queste.

Il re dell’Olimpo, dopo essere venuto a conoscenza della profezia secondo la quale il figlio nel grembo di Meti l’avrebbe superato in potenza sottraendogli il trono, decise di porre rimedio. Si avvicinò a Meti fingendo di baciarla, ma con l’intento di inghiottirla. Ella, capace di prevedere l’andamento delle cose, si trasformò in una goccia d’acqua e scivolò dentro a Zeus continuando ad esistere nel suo ventre, infondendo ad esso saggezza.

Zeus, ovviamente, inghiottì anche la creatura di cui Meti era gravida, che trovò come sede ideale per continuare la sua crescita la testa del padre: il luogo del pensiero.

La testa di Zeus cominciò a dolere fortemente fino alla fine della gestazione, momento in cui desiderò ardentemente che gli venisse fatto a pezzi il cranio. Chiese quindi aiuto ad Efesto, il dio che forgia i metalli, che con una scure gli aprì con maestria la testa. Emerse così una figura femminile coperta da un’armatura lucente e munita di lancia e scudo: Atena, la dea della sapienza, elevata nello spirito ed eternamente vergine. Inflessibile e determinata, sempre pronta a combattere con mente lucida, chiarezza e prudenza, disinteressata ed immune all’amore e ai sentimenti.

 

Il mito introduce sapientemente il tema simbolico che caratterizza la cefalea: uno squilibrio psicofisico innescato dal ruolo centrale ed eccessivo assunto dal pensiero, dall’analisi e dal controllo vigile a scapito di sentimenti ed istintualità. Potremmo giocare dicendo che in chi soffre con frequenza di cefalea alberghi un eccesso di Atena.

 

Nell’emicrania le arterie che portano il sangue al cervello si contraggono, impedendo alla vitalità del sangue di fluire liberamente, come a voler contenere e inibire un regno pulsionale troppo intenso e imprevedibile. Successivamente le arterie si dilatano, come se le pulsioni a seguito del tentativo di controllo prendessero il sopravvento rompendo le difese. Le emicranie possono essere innescate da situazioni fortemente emozionali, soprattutto in chi fatica ad accogliere alcune parti di sé rifiutate.

 

Nella cefalea muscolo-tensiva i muscoli del collo e delle spalle si tendono e restano contratti al di là della propria volontà, provocando dolore e senso di costrizione alla testa e agli occhi. Come se la testa ad un tratto cominciasse a pesare oltremisura, richiedendo un grande sforzo per essere sorretta.

Una testa piena di pensieri, preoccupazioni e responsabilità a cui non si riesce, non si può e non si vuole dire no. Un’eccessiva apertura e disponibilità alle richieste e compiti provenienti dall’esterno che pesano come un macigno. Studi clinici hanno osservato una forte componente ansiosa e depressiva nelle persone che soffrono di cefalea.

 

La cefalea può quindi porre le sue radici in un uso smisurato di razionalità, come strategia per prendere le distanze dalla mutevolezza sorpendente che caratterizza le emozioni. Potrebbe portare all’attenzione di chi la soffre il bisogno di difendersi da contenuti inconsci che risulterebbero destabilizzanti.

 

Come affrontare dunque la complessità di questo disturbo?

 

Attraverso pratiche di consapevolezza e tecniche di rilassamento come:

la mindfulness
lo yoga
il rilassamento progressivo di Jacobson

 

Dedicandosi ad attività espressive come:

la danza
il teatro
il canto
la pittura
qualsiasi forma d’arte in generale

 

Può essere di centrale importanza intraprendere percorsi di psicoterapia individuale o di gruppoper comprendere il proprio mondo emotivo-relazionale e accogliere con maggiore facilità i contenuti e le parti di sé che non trovano spazio espressivo nella quotidianità.  Un approccio psiche-soma integrato può sollevare il corpo dall’oneroso compito di manifestare un sintomo portatore di un messaggio che la coscienza non può sopportare.

 

 

Dott.ssa Erika Gerardi

Psicologa-Psicoterapeuta

 

Bibliografia:

Joyce McDougall (1990), Teatri del corpo. Un approccio psicoanalitico ai disturbi psicosomatici, Milano, Raffaello Cortina Editore

Agresta F. (2010), Il linguaggio del corpo in psicoterapia. Glossario di Psicosomatica, Roma, Alpes Italia

Caprioglio V., Fornari P., Marafante D., Morelli F., Parietti P. (2007), Dizionario di psicosomatica, Milano, Edizioni Riza

Fulcheri M., Barzega G. (1995), Stress, depressione e ansia in pazienti cefalalgici. Considerazioni sulla letteratura e dati sperimentali, Minerva Psichiatrica, vol.36, n.1, pagg. 179-185, 2001

 

QUANDO LA MUSICA DIVENTA CURA viaggio attraverso la nascita della musicoterapia

L’idea di utilizzare la musica in modo terapeutico ha attraversato i secoli con i loro capovolgimenti sociali, politici, culturali, scientifici e musicali e non ne è mai uscita scossa. In ogni epoca i concetti  di musica e musicoterapia sono rimasti legati a ciò che è definibile “armonia universale”. Innumerevoli sono gli scritti sulla musicoterapia provenienti da diverse culture; ne sono stati trovati dell’antichità fino ai giorni nostri e si accomunavano per gli stessi termini, gli stessi propositi e le medesime constatazioni riguardanti proprio la musica come terapia.

In tutte le culture dall’antichità, musica e medicina erano praticamente una cosa sola. I medici e gli sciamani sapevano che il mondo è costituito secondo principi musicali, che la vita del cosmo, ma anche quella dell’uomo, è dominata dal ritmo e dall’armonia; sapevano che la musica ha un potere incantatorio sulla parte irrazionale, che procura benessere e che nei casi di malattia può ricostituire l’armonia perduta.

Nell’antica grecia, Platone ed Aristotele furono, oltre che pensatori e filosofi, anche dei musicologi convinti che le arti del ritmo contribuissero a migliorare la calma interiore, la serenità e la morale. E non solo, Pitagora aveva individuato tre orientamenti musicali: adattamento (la musica deve adattarsi a musiche diverse e lontane dalla sua personalità accentandole), cambiamento (la musica può modificare lo stato d’animo profondo dell’individuo agevolandogli una maggiore accettazione di sé ed un maggiore uso delle proprie capacità) e purificazione (la musica può liberare l’anima e il corpo dalle tensioni giornaliere).

In epoca medievale la musica ha continuato ad insinuarsi nelle arti mediche tanto da essere utilizzata dai monaci, che divennero i depositari sia della scienza medica che della musica. Nella stessa epoca, gli arabi promuovevano l’uso del flauto come mezzo terapeutico per curare i disturbi mentali. Ma è nel rinascimento che viene creata la nozione di “simpatia universale”, stabilendo i rapporti di vibrazione che si creano tra i “corpi sonori”, tra i quali viene riconosciuto quello umano. In questo periodo molti medici si convinsero che imarando a suonare qualche strumento musicale, la loro capacità di ottenere guarigioni si sarebbe affinata e sviluppata.

Lo strumento musicoterapico aveva soprattuto due finalità: l’intervento catartico e l’utilizzo con finalità sedative. L’uso catartico della musica era frequente durante i baccanali tanto quanto oggi nelle discoteche e nei concerti o in certe feste tribali e in alcune meditazioni religiose. Ogni popolazione umana usa queste tecniche con il fine di provocare disinibizione, estasi o trance. Nel 1650 Kircher, musicologo e filosofo, considerava l’uso della musica per scopi sedativi, come una delle principali forme di musicoterapia.

Ma l’evoluzione dell’intervento musicoterapeutico non si ferma davanti neanche davanti ai secoli successivi che man mano sembrano perdere poesia con lo sviluppo tecnologico. Sono stati rilevati, molti altri risultati dell’intevento musicoterapico, alcune delle quali sono: il ristabilirsi di un equilibrio perduto, la stimolazione, la sedazione, la rivitalizzazione. La musica in questi casi, oltre a controllare e calmare le passioni viene prescitta anche per risvegliare le emozioni. Tra il settecento e l’ottocento si moltiplicano le osservazioni intorno ai poteri dei suoni e della musica sulla mente e sul corpo umano e sbocciano scoperte relative alla relazione tra ritmi corporei e ritmi musicali, fra pulsazioni e battute musicali, tra ritmo del respiro e ritmo musicale. Grazie a ciò nell’ottocento si propongono le prime forme di sedute di musicoterapia, consistevano nell’organizzazione di concerti o nella costituzione di corali e orchestre per pazienti. La musicoterapia prende le vesti di “terpaia di gruppo”.

Arriviamo così alla seconda metà del nostro secolo, quando questa tecnica progredisce grazie anche allo sviluppo di tecniche di registrazione e di riproduzione musicale. Ad avvalorare la musicoterapia nel ventesimo secolo sono sprattutto quelle tecniche che hanno come obiettivo lo studio del complesso suono- essere dal punto di vista fenomenologico, neuropsicologico, cognitivo e psicodinamico. Nella sua evoluzione la musicoterapia ha raggiunto un livello che le ha permesso di cominciare a sviluppare una propria metodologia, continuando ad essere in contatto con le discipline correlate.

Con la musica si cerca di mettere in contatto diversi individui. Fornisce a tutti un’opportunità di stabilire un rapporto di fiducia con il terapeuta. La musica diviene il mezzo per il raggiungimento di un fine.

La musica, con la musicoterapia perde il suo valore estetico e si fa più flessibile, si modifica per andare incontro alle esigenze e alle necessità multisensoriale del soggetto, lasciando che egli impari ad ascoltare i suoi bisogni e stimolare le sue capacità in una dimensione creativa, emotiva e relazionale. Questa terapia viene così intesa come il “prendersi cura” della persona che in difficoltà ha bisogno di tornare a rivivere “dal di dentro”. In musicoterpia le esperienze musicali ed i rapporti che si sviluppano servono come forze dinamiche del cambiamento. Si distingue dalle altre terapie per il suo affidamento alla musica vista come metodo e come modalità principale del trattamento, piuttosto che per i problemi clinici che è chiamata ad affrontare.

La musica non è semplicemente un linguaggio ma è presente in ogni linguaggio, è un’arte che va oltre la parola, un’arte di comunicazione in senso globale. Quando il linguaggio non è acquisito, quando lo sviluppo si presenta problematico, quando la relazione con l’altro è difficile, la musicoterapia rappresenta uno degli strumenti con cui poter contattare la persona e darle l’ooportunità di esprimersi attraverso un linguaggio non verbale che spesso si rileva di facile accesso; grazie alla comunicazione tramite la propria “musica interna”, si possono così rivivere vissuti personali. Partendo dal presupposto che l’individuo è parlante nella totalità dei comportamenti psico-senso-motori, la musicoterpia può rivelarsi un aiuto all’espressione, all’essere capito, al sentirsi adeguato, accompagnato e supportato nel processo dal terapeuta, che restituirà senso musicale ad ogni espressione del soggetto, armonizzandolo.

Dott. Mirco Carbonetti

Psicologo, psicoterpeuta e sessuologo clinico

 

Bibliografia:

Frova A., Fisica della musica, Zanichelli, Bologna 1999.

Mattia M, Rumore e musica, convegno internazionale Musica Urbana, 2002

Pistorio G. Scarso G., Musicoterapia, metodologie, ricerche cliniche, interventi. Centro scientifico Milano, 1998.

Vigorelli L. Esperienze emotive e cognitive in musica. Logopaedia 2 , 2004.

PERCHE’ LEGGERE FA BENE?

“Leggere fa bene, si sa!”. Fin da bambini abbiamo sentito ripetere questa frase da maestri, professori, genitori e chi più ne ha più e metta; per alcuni queste raccomandazioni hanno fatto breccia, dando il via ad una vera e propria passione che prosegue anche da adulti, per altri no.

Ma cosa si intende davvero quando si dice che leggere fa bene? Scopriamolo insieme in questo articolo:

1) Ti aiuta a tenere la mente attiva.  Leggere è una vera e propria palestra per la nostra mente, così come lo sono attività come giocare a scacchi, fare le parole crociate oppure i puzzle. La lettura è un’attività che richiede attenzione, concentrazione e ragionamento, dunque ci aiuta a tenere allenata la mente e a prevenire, o rallentare, alcune patologie neurodegenerative come l’Alzheimer o la demenza senile.

2) Migliora le capacità mnemoniche. La lettura implica un certo sforzo al livello della memoria. Se pensiamo a quando leggiamo un romanzo, è implicito che dovremmo ricordarci il nome dei personaggi, il ruolo che hanno e la loro storia, se vogliamo seguire la trama intessuta dall’autore. Allenare la memoria tutti i giorni è molto importante, soprattutto in tempi in cui è il telefono a ricordarci di fare qualunque cosa.

3) Amplia le tue conoscenze. Qualunque informazione con la quale entriamo in contatto diventa nostra e si aggiunge al bagaglio di conoscenze che amplieremo per tutta la vita. A volte ci sembra di aver dimenticato tutto e, quando meno ce lo aspettiamo, i cassetti della memoria si aprono, talvolta fornendoci soluzioni inaspettate.

4) Aumenta il tuo vocabolario. Quando leggiamo ci imbattiamo in un sacco di parole nuove che spesso entrano a far parte del nostro modo di parlare. Questo ci aiuta ad esprimerci in una maniera più chiara ed esaustiva, rendendoci anche più comprensibili agli altri.

5) Ti aiuta a scrivere meglio. Questa è una diretta conseguenza del punto 4, ovvero dell’implementazione del vocabolario. Sarà capitato a tutti di avere un pensiero o un concetto in testa e di non riuscire a trasporlo su un foglio in maniera efficace. Scrivere è un modo di comunicare con gli altri e avere più parole per farlo ci aiuta ad essere più sicuri di noi e più chiari con gli altri.

6) Migliora le capacità di analisi e di pensiero critico. Spesso leggere ci pone davanti a innumerevoli domande: che si tratti di un giallo o di un saggio di filosofia, mentre leggiamo siamo in qualche modo portati ad anticipare il pensiero dell’autore, a cercare di intuire cosa succederà nella pagina successiva e a farci un’idea di come siano andate le cose, ancor prima di averle lette. La capacità di analisi e di pensiero critico è importantissima per avere una nostra idea del mondo.

7) Riduce lo stress. Leggere ci porta in un’altra dimensione, quella immaginifica, lontana dai problemi del quotidiano; ci aiuta a staccare dopo un’intensa giornata di lavoro, a prendere una pausa dai pensieri quando viaggiamo in metropolitana, a scappare dalla noia rifugiandoci in altri mondi. Per questi ed innumerevoli altri motivi, leggere è un ottimo antistress.

8) Aumenta le capacità di concentrazione. Ormai siamo abituati a fare 10 cose insieme, anche perché i dispositivi che utilizziamo tutti i giorni ci portano ad essere multitasking. In un mondo che ci vuole veloci, la lettura ci aiuta a fermarci e a far sparire tutto quello che abbiamo intorno, anche le notifiche dello smartphone, concentrandoci su una sola attività.

9) Ci rilassa. Anche durante la lettura del thriller più inquietante, leggere ci pone in una condizione di relax fisico e mentale. I libri ci portano, in mondi nei quali il nostro capo non esiste e i nostri problemi sono troppo lontani. Questo ci permette di staccare ed entrare in una condizione di relax, che aiuta a regolare le emozioni e a ricaricarci.

10) Ci fa entrare in contatto con le emozioni. Sarà capitato a tutti di farsi trascinare nella storia di un protagonista e di vivere con lui mille avventure e mille emozioni diverse. Leggere ci dà la possibilità di entrare in contatto con le emozioni in una maniera “sicura”, coinvolgendoci ma senza farci troppo male.

Questi sono solo 10 degli innumerevoli benefici che la lettura ci regala, ma l’elenco potrebbe essere interminabile.
Esiste addirittura un approccio alla salute mentale che sfrutta il potere curativo della lettura, la biblioterapia, e può essere svolto sia individualmente sia nella dimensione gruppale.
I libri sono possono essere dei validi alleati nella ricerca di soluzioni, compagni di viaggio, un ottimo rimedio alla solitudine, ma anche tantissimo altro.
E tu leggi? In che modo i libri ti sono stati di aiuto nella tua vita?

 

Dott.ssa Rossella Totaro

Psicologa – Psicoterapeuta

 

BIBLIOGRAFIA:
– Pennebaker J.W. (2004), Scrivi cosa ti dice il cuore. Autoriflessione e crescita personale attraverso la scrittura di sé, Centro Studi Erikson, Trento.
– Rimé B. (2007), The social sharing of emotion as an interface between individual and collective processes in the costruction of emotional climates, “Journal of Social Issues”, vol. 63, n.2, pp.307-322.
– Urbano A. (2017), preScrivimi un libro. I benefici psicologici della biblioterapia, Stilo editrice, Bari.

DOPO IL GHOSTING, L’ORBITING, QUANDO IL PARTNER “TI SEGUE”, MA NON TI VEDE!

Che cos’è l’orbiting?

Il termine orbiting derivante dall’inglese to orbit, ovvero orbitare intorno a qualcosa o, come in questo caso a qualcuno, viene per la prima volta utilizzato per definire un’altra forma di legame disfunzionale del nuovo millennio social dopo il ghosting, da Anna Iovine di Man Repeller. 

Si è visto, che con il ghosting, il partner o presunto tale, a un certo punto della relazione non risponde più al telefono, ai messaggi e ai social, non lasciando più traccia di Sé come non fosse mai esistito, senza un’apparente motivazione valida, o comunque senza dare una spiegazione. 

Nell’orbiting, invece, la dinamica risulta essere leggermente diversa e se vogliamo, alle volte anche più subdola e manipolativa, perché il partner, o ex, o presunto tale, non mantiene una comunicazione diretta ma indiretta, facendosi vivo a intermittenza e solo attraverso i social, con i like su facebook piuttosto che facendo comparire il suo avatar tra le view delle Instagram stories. 

L’orbiting che si fonda su un’ambigua specie di tattica amorosa, risulta quindi essere una sorta di mancata sparizione o di ricomparsa dopo che una storia finisce o non ha inizio. 

L’orbiter diventa pertanto una presenza, in alcuni casi analogica, continuando a frequentare gli stessi posti o gli stessi amici, che digitale; una presenza però che, senza una normale comunicazione, impedisce la naturale elaborazione del lutto della fine di una relazione, piuttosto che del suo mancato inizio. Una sorta di “ci sono, ma non parlo, ti controllo e so cosa fai, ma comunque continuo a visualizzare e a non rispondere ai tuoi messaggi su whatsapp”. 

Ma anche se mascherato da innocuità virtuale, rimanendo perlopiù solo online, l’orbiting sembra proprio richiamare, sia per comportamento dell’orbiter che per effetto di quest’ultimo sulla vittima, un altro fenomeno dal termine inglese molto conosciuto: lo stalking. 

Di fatto, l’orbiter alternando presenza virtuale ad assenza strategica e mettendo il like tattico o le visualizzazioni, lascia traccia di sé e  nello stesso tempo e soprattutto controlla la sua ex partner o presunta tale, senza mai di fatto affrontare una conversazione reale in cui manifesta il suo vero interesse: manipolare, controllare o far credere interesse in una relazione che in realtà concretamente non vuole, trattenendo così a sé la vittima per puro piacere narcisistico, che, proprio come lo stalking, dopo un primo momento di lusinga per aver avuto delle attenzioni, sprofonda in uno stato di forte malessere. 

Ma vediamo un po’ più da vicino quello che potrebbe essere il profilo di un orbiter. 

Il profilo psicologico dell’orbiter

Partendo dal presupposto che chi fa orbiting spesso può risultare essere una persona immatura e irrisolta, riprendiamo i 3 profili elencati da Anna Iovine connotati di un taglio un po’ più clinico, per meglio comprendere quali siano le possibili motivazioni che spingono ad avere questo atteggiamento: 

  1. L’orbiter che ama esercitare il controllo sugli altri: in questo primo caso, la persona in questione utilizza una vera e propria strategia di manipolazione che ha l’obiettivo di controllare e spiare l’altro disinteressandosi delle conseguenze che il suo comportamento può avere sull’altro. In questo primo caso, siamo di fronte a una personalità narcisistica che attraverso il suo controllo cerca di tenere a sé l’altro solo per mantenere alta la sua autostima, senza impegnarsi concretamente nella reciprocità di una relazione. In questo caso si tratta di una vera e propria forma di abuso emotivo, in quanto crea e usa a suo vantaggio la possibile dipendenza affettiva della vittima. 
  2. L’orbiter che è inconsapevole di quello che sta facendo: in questo caso ci troviamo di fronte a una persona che spesso preso dalla noia, si comporta in questo modo, senza minimamente rendersi conto di quello che sta facendo e dell’effetto che questo suo fare, può avere sull’altra persona. 
  3. L’orbiter che non sa esattamente ciò che vuole: in questo caso la persona che abbiamo di fronte è una persona ambigua che preso da forti sentimenti di ambivalenza chiude i rapporti ma non completamente. In questo caso il tipo è identificabile come persona immatura e irrisolta, non pronto o non in grado ad impegnarsi, ma che nello stesso tempo, non vuole allontanarsi e distaccarsi completamente dall’altro per paura di un eventuale ripensamento. 

Tenendo conto di questo, in ogni caso esposto, pare che l’orbiter possa avere in qualche modo, compromessa, o comunque deficitaria, la sua capacità di amare e non godere di buona empatia, pertanto difficilmente il comportamento che mette in atto sia sinonimo di amore o interesse concreto; anzi, nel primo caso è un vero e proprio meccanismo subdolo che, per un puro tornaconto personale, non consente alla vittima di sganciarsi da questa relazione, che, spesso, assume i connotati di una relazione alquanto tossica.  

La vittima 

La vittima oggetto di orbiting, come già accennato, subisce le conseguenze di questo comportamento ambivalente e distaccato e se in un primo momento può esserne felice e lusingata, dopo un po’ può crollare nello sconforto e nel malessere. 

In una prima fase, infatti, la vittima presa dalle lusinghe si illude di poter ricominciare o iniziare una relazione e comincia a fantasticare e a investire emotivamente sull’altro che spesso viene anche idealizzato. In una seconda fase però, la vittima comprende che nonostante i like, i commenti etc nel concreto non avviene nulla e inizia ad alternare momenti di entusiasmo, quando l’orbiter si fa vivo, a momenti di sconforto, quando quest’ultimo ciclicamente sparisce. 

In questa altalena tra esserci e non esserci, i sentimenti che prova la vittima, possono passare dall’ansia, alla depressione, alla confusione mentale ed emotiva, nonché tristezza e insicurezza rispetto al fatto di non essere amati e apprezzati abbastanza, buttando giù un’autostima già di per sé fragile; e in questo turbinio di emozioni contrastanti le uniche domande, anche queste prive di risposta, che riesce a porsi è Perché? Perché quel like? Perché fa così? Etc..

Ma reinterpretando una celebre frase di un film, “vittime: non lo siamo tutti?”, la risposta potrebbe essere: non sempre! 

Ovvero, che, come nel caso dell’orbiter, possono essere diverse le motivazioni che ci portano a identificarci come vittima e quindi anche in questo caso, esserci diverse tipologie. 

Spesso la vittima è una persona emotivamente fragile che per vissuti personali irrisolti, non riesce ad essere felice, ne ha piuttosto paura e preferisce quindi accontentarsi di essere triste nell’illusione, piuttosto che essere davvero felice nella realtà.  

Altre volte la vittima conosce solo la sofferenza come schema relazionale, pertanto, ha la tendenza a legarsi a chi la fa soffrire, sempre perché, la felicità sconosciuta, viene in qualche modo temuta. 

In questi casi, molto analoghi ai precedenti, la vittima tende a legarsi a personalità tipo l’orbiter, proprio perché lei per prima non se la sente, magari a livello più inconscio, di avere una relazione concreta, in quanto ne ha paura, quindi, mentendo probabilmente in primis a sé stessa, si nasconde dietro l’illusione di una relazione parziale, ritenendosi pertanto impegnata, per non dover invece affrontare una relazione reale e concreta. 

Altre volte un’autostima minata da vissuti difficili, porta a male interpretare il comportamento altrui e vederci quell’amore tanto voluto e desiderato, quanto altrettanto temuto. 

Ad ogni modo, vediamo come anche nel caso della vittima resta un comun denominatore, che in questo caso è un sentimento di forte paura, difficile da gestire.

In conclusione, abbiamo visto come l’orbiting possa assumere i connotati di una vera e propria relazione disfunzionale e come tale forse l’unica soluzione sarebbe quella di interromperla. 

Ma spesso per la vittima questo risulta alquanto difficile, per tutto quello che spesso l’orbiter può rappresentare per quest’ultima, che va aldilà del suo atteggiamento. 

Pertanto forse l’unica soluzione possibile, se ci si sente vittime di orbiting, potrebbe essere quella di chiedere un supporto psicologico adeguato, per dare una possibilità a sé stessi che vada oltre la relazione virtuale e che veda concretizzarsi la possibilità di star bene ed essere felici. 

 

Dott.ssa Monica Iuliano

Psicologa – Psicoterapeuta

IL LUTTO COME ESPERIENZA DI VITA

Tutti noi nella vita, prima o poi, ci troviamo a fare i conti con il terribile dolore per la morte di una persona cara, a noi vicina.

Leonardo Sciascia, il celebre scrittore del Novecento, annunciava:

“La morte è terribile, non per il non esserci più, ma al contrario, per l’esserci ancora e in balìa dei mutevoli ricordi, dei mutevoli sentimenti, di mutevoli pensieri che restano”.

La tristezza, il dispiacere, il dolore per la perdita apre molti interrogativi a cui non riusciamo, sempre, a trovare una risposta: “Riuscirò a sopportare la sua assenza?”, “Mi dimenticherò di lui/lei?”, “Quanto durerà tutto questo?”, “Tornerò ad essere di nuovo felice?”.

La morte di una persona cara ci fa cadere nel triste vortice del lutto (dal latino lugere = piangere, dolersi) e non sempre sentiamo di avere i mezzi per superare un evento della vita che ci accomuna.

In cosa consiste il lutto?

 

Perdere una persona, inevitabilmente innesca un processo di cambiamento che crea una temporanea disorganizzazione dell’individuo e del sistema familiare. Chi lo vive si trova ad attraversare diverse fasi che la psichiatra Elisabeth Kubler Ross, nel 1970, ha individuato in 5.

Si parla di fasi e non di stadi proprio perché le fasi possono ripresentarsi più volte e alternarsi con varia intensità e senza un ordine preciso.

– Negazione o rifiuto —> di solito caratterizza i primi giorni, quando vengono messi in atto meccanismi di difesa di negazione. In questa fase le frasi più frequenti sono “non ci credo”, “non è possibile”.

– Rabbia —>. in questa fase si manifestano emozioni forti quali rabbia, paura che vengono orientati indistintamente a tutti (familiari, se stessi, medici, la persona cara scomparsa).

– Contrattazione o patteggiamento —> si crea una sorta di negoziazione con amici, familiari, figure religiose, o se stessi “prometto che…” “ Oh mio Dio se starò meglio farò…”. La persona inizia a riprendere il controllo della sua vita, a rivalutare le proprie risorse e a riacquistare l’esame di realtà.

– Depressione —> è la fase della disperazione e spesso coincide con il momento in cui si cerca un aiuto, anche psicologico per superare questo lutto.

– Accettazione —> quando il paziente elabora quanto è accaduto intorno a lui, avviene

un’accettazione della propria nuova condizione.

Per quanto la morte sia una certezza nelle nostre fugaci vite, non sempre l’elaborazione di essa è così naturale e serena, non sempre la rassegnazione è possibile e non sempre siamo in grado di abbracciarla con facilità.

Esistono elaborazioni del lutto complicate, definiti lutti patologici, dove il lavoro verso l’accettazione e la rassegnazione, che ci conduce a “lasciar andare” la persona cara, non è sempre così immediata.

In che modo una psicoterapia può essere d’aiuto?

In psicoterapia si usano le parole, e proprio le parole permettono di trasferire le esperienze vissute in linguaggio e consentono di rendere possibile l’integrazione di sentimenti e di pensieri. E’con le parole che diamo un senso al mondo e, di conseguenza, al nostro mondo interiore.

  

Attraverso una narrazione guidata da un professionista è possibile esprimere la perdita, mettere a fuoco le emozioni che pervadono le nostre giornate (rabbia, colpa, ansia, impotenza, tristezza).

Ovviamente perché questo possa avvenire bisognerà parlare della morte, un termine che spesso non utilizziamo, un concetto che vogliamo tenere lontano da noi perché è forte, fa paura, è un tabù sociale.

Si parlerà del passato, quando la persona defunta era ancora in vita, si scaverà nel legame che era presente tra i due, si riattiveranno i ricordi per giungere ad esplorare le proprie risorse interne come risposta a tutto ciò, come risposta alla morte.

Una condizione di lutto non deve essere subita, non siamo passivi a questo, ma deve venir “attraversata”, magari lasciandoci guidare da un professionista, ma con la consapevolezza che si può andare oltre.

 

Dott.ssa Sonia Allegro 

Psicologa – Psicoterapeuta

SELETTIVITA’ ALIMENTARE O ARFID?

A molti genitori sarà capitato, in qualche momento della crescita di loro figlio, di trovarsi di fronte al rifiuto di alcuni cibi e/o alla selettività nelle scelte e consistenze alimentari. Questo è spesso fonte di grande preoccupazione, soprattutto quando è associato a una crescita ponderale sotto i limiti della norma e a evitamenti generalizzati legati alla dinamica alimentare e conviviale. Ma quando questo può essere un campanello d’allarme e portare ad ipotizzare una diagnosi di ARFID?

Cos’è l’ARFID?

L’ARFID (sigla che sta per disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione del cibo) è un disturbo della nutrizione e dell’alimentazione inserito nel 2013 nel manuale diagnostico dei disturbi mentali DSM 5, caratterizzato da una persistente incapacità di soddisfare adeguati bisogni nutrizionali e/o energetici che portano a conseguenze clinicamente significative come:

– significativa perdita di peso o incapacità di raggiungere l’aumento di peso atteso (crescita ponderale normale dello sviluppo);

– carenza nutrizionale significativa;

– dipendenza dall’alimentazione enterale o supplementi nutrizionali orali per mantenere il peso o lo stato nutrizionale;

– marcata interferenza con il funzionamento psicosociale.

Una caratteristica importante è che la restrizione alimentare non è correlata alla preoccupazione per il peso o la forma del corpo e ciò contraddistingue l’ARFID dall’Anoressia Nervosa.

Si tratta di una diagnosi che comprende al proprio interno una grande variabilità di manifestazioni cliniche ma ciò che è certo è che, soffrire di ARFID, non significa essere schizzinosi o capricciosi.

Ad oggi, sono stati identificati tre profili che spiegano il motivo della carenza energetica e/o nutrizionale:

1- Apparente mancanza di interesse per il mangiare o per il cibo. Spesso sono presenti difficoltà emotive come preoccupazioni, ansia o tristezza che interferiscono con l’alimentazione e producono un disinteresse nei confronti del cibo.
2- Evitamento basato sulle caratteristiche sensoriali del cibo. Alcune persone, ad esempio, mangiano solo cibi con certe consistenze, colori, temperature o sono molto sensibili alle variazioni dei gusti. Evitano alcuni cibi perché, in anticipo, pensano di non tollerare certe caratteristiche di quell’alimento.
3- Preoccupazione relativa alle conseguenze negative del mangiare. La riduzione dell’apporto di cibo è dovuta ad alcune paure come: soffocare, vomitare, non riuscire a deglutire, causare diarrea, causare reazioni allergiche o causare dolori addominali o al petto.

I tre profili possono variare in termini di gravità, ma non si escludono a vicenda.

Il disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione del cibo (ARFID) può avere esordio nell’infanzia o nella prima adolescenza, ma in alcuni casi, anche in età adulta.

Che fare se ci si trova in presenza di ARFID?

Nonostante l’ARFID sia una diagnosi recentemente aggiunta, esistono già trattamenti efficaci. La psicoterapia cognitivo-comportamentale, unita al lavoro multidisciplinare che vede coinvolto medico e nutrizionista, è risultata in grado di aiutare i pazienti ad affrontare il problema, ottenendo effetti a lungo termine.

La terapia si focalizza, ad esempio, sul reinserimento dei cibi “nuovi” o “eliminati” o “fobici”, allo scopo di aumentare la varietà alimentare, parallelamente al raggiungimento di un peso stabile e a un adeguato apporto di nutrienti, in caso fosse insufficiente. Si procede, poi, a destrutturare la visione di “cibo nemico” insegnando a costruire pasti equilibrati e a reinserire gli alimenti con gradualità attraverso una desensibilizzazione e una esposizione graduale, facendo una lista degli alimenti esclusi e partendo da quelli che fanno meno paura o che creano meno problemi.

Le reintroduzioni sono inizialmente minime, in cui piccoli assaggi, adeguatamente masticati, permettono non solo di riprendere familiarità con gusti e consistenze, ormai abbandonate, ma anche di minimizzare eventuali reazioni avverse che si potrebbero presentare dopo una lunga eliminazione.

Un altro aspetto importante su cui si lavora è quello di effettuare i reinserimenti alimentari in ambienti e condizioni percepite come “sicure”, in modo da ridurre l’ansia associata al momento del pasto.

In conclusione, non tutti i comportamenti dell’infanzia legati al cibo devono destare preoccupazione, perché fanno parte del repertorio di esplorazione e crescita, ma è importante confrontarsi costantemente con il pediatra, intercettando il bambino già dalle prime manifestazioni di selettività/restrizione alimentare, soprattutto se appaiono curiose o inspiegabili: potrebbe trattarsi di ARFID e il disturbo, se trascurato, potrebbe strutturarsi nel tempo ed evolvere verso un quadro psicopatologico più severo.

Dott.ssa Giacone Giulia

Psicologa – Psicoterapeuta

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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Calugi, S. (2018). La terapia cognitivo comportamentale adattata per l’ARFID. Congresso Nazionale AIDAP 2018. Garda (VR), 9-10 novembre 2018.
Thomas, J.J., Lawson, E.A., Micali, N., Misra, M., Deckersbach, T., & Eddy, K.T. (2017). Avoidant/RestrictiveFood Intake Disorder: A Three-Dimensional Model of Neurobiology with Implications for Etiology and Treatment. Curr Psychiatry Rep., 19(8), 54.
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RIFLESSIONI SULLA CONSAPEVOLEZZA DELLA VITA E DELLA MORTE

«La morte,

il più atroce di tutti i mali,

non esiste per noi.

Quando noi viviamo,

la morte non c’è,

quando c’è lei,

non ci siamo noi». 

EPICURO

Come mai facciamo così fatica a confrontarci con l’unica certezza che abbiamo nella vita ovvero la morte?

Sigmund Freud affermava che in fondo nessuno crede alla propria morte perché nel suo inconscio ognuno è convinto della propria immortalità:

«La propria morte è irrappresentabile, e ogni volta che cerchiamo di farlo, possiamo costatare che in realtà continuiamo a essere presenti come spettatori» (“L’interpretazione dei sogni”, S. Freud, 1900).

La nostra mente in realtà sa che la morte arriverà anche per noi un giorno ma la nostra parte emotiva non riesce a concretizzare quell’idea così il meccanismo difensivo della negazione spesso viene in aiuto per tenere questo pensiero ben lontano dalla nostra attività cosciente.

Siamo informati e siamo in grado di menzionare la morte altrui ma questo non siamo attrezzati a vivere meglio o concepire la nostra idea di morte.

L’idea della propria morte è, appunto, un concetto non concepibile: essa evoca l’annientamento e la perdita dell’Io, un’esperienza che ci sovrasta.

Sembrerebbe infatti molto difficile pensare fino in fondo alla fine della struttura interiore che ci rende pensanti e consapevoli, l’Io appunto.

La propria morte porta dietro qualcosa di talmente incommensurabile che tendiamo a rimuoverne il pensiero e a delegarlo negli anfratti della mente, nonostante la vita e la morte siano profondamente intrecciate fin dalla nostra nascita.

In realtà, il pensiero della morte e l’idea della finitudine, quando riusciamo ad accoglierlaha in realtà un potere salvifico e vitale poiché è un potente regolatore di priorità e permette di comprendere il reale valore del nostro tempo.

La presenza della morte aiuta a non assolutizzare nulla e a ridimensionare le cose in vista della caducità e del fatto che “ogni cosa passa”.

Per il filosofo Michel Montaigne riflettere sul morire significa riflettere sul senso di vivere; parimenti per un altro noto filosofo, Heidegger, anticipare quotidianamente la morte aiuta a guardare all’esistenza in modo profondo e radicale, discriminando gli aspetti contingenti superficiali trascurabili da ciò che è invece essenziale e portatore di senso.

Di conseguenza vivere tenendo presente la nostra finitudine significa valorizzare e realizzare appieno la nostra vita, essere davvero presenti sapendo della futura assenza.

La consapevolezza della morte apre poi al mistero e all’interrogazione sull’assoluto, sulla possibilità che esista qualcosa che vada oltre l’immanente, ricordandoci la finitudine non solo del nostro essere ma anche del nostro controllo degli eventi.

La paura della morte può divenire quindi un sano regolatore di scelte di vita, di modalità di percepire e stare al mondo ma soprattutto grande possibilità di forte attribuzione di significato alla Vita.

Dr.ssa Maria Grazia Esposito

Psicologa Clinica – Psicoterapeuta

 

BINGE-WATCHING: UNA NUOVA DIPENDENZA?

Da qualche anno il mondo delle serie tv è diventato sempre più accattivante. Se fino a qualche tempo fa i cosiddetti telefilm ci facevano distrattamente compagnia tra il rientro da scuola e linizio dei compiti, come un piacevole sottofondo, oggi le serie tv sono diventate dei veri e propri capolavori, con tanto di cast stellari e budget di realizzazione paragonabili a quelli spesi per un colossal. Questo ha contribuito a far entrare le serie nella nostra quotidianità, a farle diventare argomento di conversazione e un passatempo prediletto per molti.

La pandemia e i vari lockdown a cui siamo stati costretti hanno convinto anche i più scettici a soffermarsi a guardare qualche puntata per passare il tempo, tanto che gli abbonamenti ai canali streaming ,negli ultimi 2 anni, hanno avuto una netta impennata.

Fin qui sembrerebbe che non ci sia niente di male o di dannoso per la salute, ma cosa succede quando le serie tv diventano una dipendenza?

Il fenomeno del binge-watching (dallinglese binge: abbuffata e watching: guardare) consiste nel guardare una puntata dopo laltra, facendone letteralmente una scorpacciata.

Jenner (2014) ha ipotizzato che si possa parlare di binge-watching quando si guardino 3 ore o più di una serie tv in una singola sessione. Quando le sessioni diventano ripetute nel tempo si parla invece di vera e propria dipendenza, con tutte le implicazioni negative che ne possono conseguire.

Alcune ricerche hanno rilevato che il binge-watching diventa una dipendenza quando allappagamento dellaver visto una puntata si sostituisce la necessità impellente di guardarne unaltra e unaltra ancora, spesso arrivando a dare priorità alla serie tv rispetto ad altri aspetti del quotidiano.

Altro fattore rilevante risulta essere lisolamento: alcuni studi hanno dimostrato che la maggior parte delle persone preferisce abbuffarsidi serie tv in solitudine. Questo, nei casi peggiori, può comportare un indebolimento della rete sociale e il diradamento dei rapporti familiari. Inoltre chi è dipendente dalle serie tv in alcuni casi arriva a mettere da parte attività importanti come il lavoro o lo studio, non riuscendo a staccarsi dallo schermo.

Ma cosa si prova quando guardare la tv diventa una dipendenza? Alcuni studi hanno preso in considerazione lumore dei soggetti mentre guardavano una puntata e al termine di essa, rilevando un netta differenza tra i due momenti presi in considerazione: se durante la puntata i soggetti apparivano appagati e soddisfatti, al temine della puntata stessa riferivano di sentirsi emotivamente appiattiti e passivi.

Eimportante sottolineare come gli studi sulle dipendenze in generale abbiano riscontrato una correlazione tra questi fenomeni e la depressione. La dipendenza da serie tv non fa eccezione, tanto che è stato rilevato un particolare stato psicofisico che prende il nome di Post binge-watching blues., ovvero la depressione da fine serie. Tale particolare condizione si presenta quando i soggetti, al termine di una serie tv, sperimentano un senso di vuoto e di abbandono, come se tutto ciò che li rendeva felici fino a quel momento non ci fosse più.

Un recente studio delluniversità del Texas, condotto su un campione di 316 soggetti tra i 18 e i 29 anni, ha evidenziato una correlazione tra solitudine e depressione e binge-watching, utilizzato come strumento per regolare emozioni negative. Nella stessa ricerca viene ipotizzata una correlazione tra dipendenza dalle serie tv e condotte nocive per la salute, quali alimentazione poco sana e assenza di attività fisica. Per quanto il binge-watching in apparenza sembri un comportamento del tutto innocuo, se ripetuto nel tempo può portare a gravi conseguenze sulla salute fisica e psicologica.

Il confine tra il piacere di guardare la nostra serie tv preferita e il diventarne dipendenti talvolta è molto sottile, per questo motivo è importante fare attenzione ad alcuni segnali che potrebbero rivelarsi dei veri e propri campanelli dallarme.

E tu quanto tempo passi davanti alle serie tv?

 

Dott.ssa Rossella Totaro

Psicologa – Psicoterapeuta

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

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  • Tukachinssky, R., Eyal, K. (2018). The psychology of marathon television viewing. Antecedents and viewer involvement. Mass Communication and Society, volume 21, numero 3, pp. 275-295.

AMI PIU’ ME O IL TUO SMARTPHONE?: LA TECNOFERENZA E IL RUOLO DEGLI SMARTPHONE NELLA RELAZIONE GENITORI E FIGLI

Da alcuni anni i genitori, specie di ragazzi adolescenti, si trovano ad affrontare una nuova sfida: la regolamentazione dell’uso dello smartphone. Molto si discute sull’uso sempre più precoce e pervasivo di smartphone e tablet tra bambini e adolescenti e sull’impatto che questi hanno sulle capacità relazionali e attentive dei giovani. Meno si parla di come, un uso non consapevole della tecnologia mobile da parte degli adulti può avere effetto sui bambini. Questo non solo nei termini di essere un cattivo esempio o impartire abitudini errate, ma dell’effetto che un uso pervasivo degli smartphone può avere sul proprio ruolo genitoriale e sulla relazione con i propri figli.

Non si vuole qui certo demonizzare la tecnologia mobile, strumento riconosciuto come utile ed a tratti indispensabile, ma porre l’attenzione su quanto possa essere un richiamo costante, che induce a rimanere “sempre connessi” con il mondo, assorbiti dall’online, che può fungere da fuga e allontanamento dal presente fisico e più prossimo.

Da decenni si sa quanto la qualità delle relazioni precoci del bambino contribuiscano allo sviluppo di un attaccamento sicuro e di un buon sviluppo emotivo e quanto la qualità delle relazioni passi attraverso la capacità di sintonizzarsi col bambino prevalentemente grazie alla reciprocità dello sguardo. Gli esseri umani infatti sono gli unici in grado di sintonizzarsi, collaborare e condividere obiettivi attraverso il coordinamento dello sguardo. Sin dai primi mesi si pensi al momento dell’allattamento lo sguardo del bambino e quello della madre “si parlano”, comunicano bisogni ed emozioni. Attraverso lo sguardo i genitori riescono a percepire i segnali che arrivano dal bambino, interpretarli correttamente e rispondere alle sue esigenze e questo contribuisce nel bambino allo sviluppo di un sistema di attaccamento sicuro. Sempre attraverso lo sguardo il bambino si rispecchia emozionalmente nel genitore, imparando a conoscere se stesso.

L’utilizzo ripetuto e continuativo dello smartphone da parte degli adulti in presenza di un bambino, anche piccolo, può determinare una diminuzione della capacità di sintonizzarsi con i suoi bisogni,proprio interrompendo il contatto visivo, la coordinazione dello sguardo e l’attenzione condivisa. Come spesso notiamo lo strumento tecnologico stesso, il suo richiamo sonoro di mail e messaggi, la prossimità continua induce facilmente una sorta di assorbimento che Gergen (2002) ha definito come “presenza assente”. McDaniel (2015) ha coniato il termine “tecnoferenza” per indicare proprio quanto le ripetute interruzioni nelle interazioni interpersonali, a causa di dispositivi tecnologici digitali, determini una interferenza relazionale e comunicativa tra caregiver e bambino, correlando ad alcuni esiti negativi sullo sviluppo precoce.

Alcuni studi osservazionali che rimandano al paradigma dello still face registrano le reazioni dei bambini nel momento in cui il caregiver cessa di interagire con loro, rivolgendo lo sguardo allo smartphone. Le reazioni sono simili a quelle che sono state registrate nelle interazioni con mamme depresse, che manifestano una mimica facciale fissa ed inespressiva, con un aumento, anche in bambini di 5/6 mesi, di reazioni negative, di stress e frustrazione anche intensi, di ritiro dell’attenzione e dell’attività di esplorazione. Da notare che, anche dopo la ripresa dell’interazione la qualità e quantità di segnali di benessere del bambino non tornavano in linea con i valori precedenti all’interruzione ed anzi i bambini sembravano acquisire una minor capacità di essere calmati e rassicurati anche dopo che l’attenzione tornava su di loro.

Le ricerche segnalano che anche bambini di età maggiore manifestano od esprimono sentimenti negativi di fronte a momenti di tecnoferenza, in particolare durante di momenti di convivialità o durante il gioco, evidenziando stress e irrequietezza e innescando talvolta veri e propri meccanismi di competizione con lo strumento tecnologico….almeno fino a quando non ne avranno uno proprio da cui lasciarsi ugualmente assorbire.

La reazione dell’adulto in risposta a comportamenti di richiamo, specie se questi sono particolarmente evidenti, è spesso di rabbia e fastidio cosa che determina nel bambino ancora più confusione e frustrazione ed un senso di fallimento di fronte ad un “avversario” contro cui teme di non poter competere.

È comprensibile e per certi aspetti doveroso che gli adulti possano ritagliarsi spazi di svago e socializzazione – perché no – anche attraverso device mobili, ma è importante che questo vada fatto in modo consapevole, coscienti che “i bambini ci guardano”, anche quando non ce ne accorgiamo, anche quando ci sembrano distratti o dediti ad altro. Altrettanto importante è preservare alcunimomenti che possono essere particolarmente significativi, come quello del gioco, dell’addormentamento, dell’allattamento ed in generale dei pasti. Tutto questo non soltanto permetterà lo sviluppo di una miglior relazione genitori/figli e di un stile di attaccamento sicuro, ma insegnerà ai futuri ragazzi un uso più attento e consapevole di smartphone e tablet, limitando – si spera – successivi conflitti in adolescenza.

Dott.ssa  Chiara Delia

Psicologa – Psicoterapeuta

Bibliografia

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