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L’IMPORTANZA DELLA PRESENZA DEI PAPA’ IN SALA PARTO: SUPPORTO, CONNESSIONE E AMORE FIN DAL PRIMO ISTANTE

*Prima di proseguire con la lettura dell’articolo, ci tengo fare una premessa perchè il termine PAPA’ non venga frainteso. L’obiettivo è discutere l’importanza della presenza dei genitori in sala parto indipendentemente da come si definiscono le famiglie, e utilizzerò il termine “papà” sebbene non ci sia l’intenzione di limitarsi ad una figura maschile tradizionale.

 

In molte famiglie, i genitori possono essere di qualsiasi genere e orientamento sessuale, e tutti meritano di essere supportati e inclusi in questo momento speciale.

La nascita di un bambino è uno dei momenti più importanti, intensi ed emotivi nella vita di una coppia. Se per molti anni il parto è stato considerato un evento esclusivamente femminile, oggi si parla molto del ruolo del papà, fin dai primi giorni della gravidanza, durante il momento del parto e nel periodo post-partum.

In questo articolo mi soffermerò, in particolare, sull’importanza della presenza del papà in sala parto e su come in quel momento si generi supporto, connessione e amore fin dal primo istante.

E’ indiscutibile, infatti, che la presenza del papà in sala parto offra vantaggi emotivi e psicologici sia per la madre che per il bambino. Vediamoli nel dettaglio:

  1. Un supporto emotivo essenziale per la madre. Durante il travaglio e il parto, le madri affrontano emozioni, paure e fatiche enormi. La presenza del partner al loro fianco può avere un effetto calmante e rassicurante, riducendo l’ansia e migliorando la gestione del dolore. Il papà diventa un riferimento emotivo, una figura che la madre conosce e di cui si fida profondamente, rendendo il momento più gestibile e meno isolante.

2. Rafforzare il legame tra padre e figlio sin dal primo istante. Quando un papà è presente alla nascita del proprio figlio, l’esperienza di assistere al primo respiro del bambino crea un legame istantaneo. Il contatto visivo e la possibilità di toccare o tenere in braccio il neonato subito dopo il parto permette al papà di sviluppare fin da subito un forte legame con il figlio, stabilendo una connessione emozionale profonda che crescerà con il tempo.

3. Un momento di crescita per la coppia. Essere presenti insieme in sala parto rafforza il legame di coppia, facendo vivere un’esperienza intensa di complicità e supporto reciproco. Superare insieme un momento di grande difficoltà e gioia, crea una base solida per affrontare le sfide future della genitorialità. Il papà non è solo un osservatore, ma un partecipante attivo nel portare il bambino al mondo.

4. Sentirsi parte della nascita del proprio bambino. Molti padri riferiscono che essere presenti durante il parto li ha fatti sentire partecipi di questo evento unico, e ha dato loro la possibilità di contribuire attivamente al benessere della loro famiglia. I papà possono dare un contributo reale anche nelle piccole cose: offrire acqua, incoraggiare, aiutare la madre a trovare posizioni più confortevoli, e, semplicemente, esserci.

5. Superare le paure e creare ricordi preziosi. La sala parto può essere un luogo carico di tensione, ma è anche l’inizio di una nuova vita e di un capitolo fondamentale per una famiglia. Per il papà, essere presente significa anche affrontare le proprie paure e vivere in prima persona una trasformazione personale. Questo momento irripetibile diventa una memoria preziosa, che rafforza il loro ruolo nella famiglia.

Vien da sè che la presenza dei papà in sala parto non è solo un supporto prezioso per la madre, ma anche un’occasione unica per il padre di creare un legame con il bambino e con la compagna. Essere presenti al parto non significa solo assistere, ma vivere e contribuire all’inizio di una nuova vita insieme.

Ovviamente tutti questi aspetti sono fondamentali se pensiamo al periodo post-partum di una donna, poichè il parto non è la fine di una condizione, ma delinea l’inizio di un nuovo ruolo per i neogenitori, che non sempre viene vissuto in modo “semplice” come spesso la società vuole far credere. 

Il periodo post-partum è una fase molto delicata per la neo-mamma, segnata da cambiamenti fisici, emozionali e psicologici profondi. La presenza del papà in sala parto, infatti, può avere un impatto significativo su come la madre affronta il post-partum e contribuisce a far crescere la fiducia, la serenità e la connessione emotiva.

Nella fase post-partum si sono delineati vantaggi negli aspetti emotivi nelle donne che hanno avuto il supporto del papà in sala parto.

  • Maggiore sicurezza e serenità. La presenza del partner durante il parto ha un effetto rassicurante che può prolungarsi nel post-partum. Le madri che hanno condiviso con il compagno l’intensità del parto tendono a sentirsi più sicure e sostenute nei giorni successivi alla nascita. Sapere che il partner è stato lì e ha vissuto l’esperienza con loro permette alle mamme di sentirsi meno sole di fronte alle sfide emotive e fisiche dei primi giorni.
  • Riduzione del rischio di depressione post-partum. Gli studi hanno evidenziato che la partecipazione attiva del partner alla nascita può aiutare a prevenire la depressione post-partum. La sensazione di essere accompagnati e comprese, unita alla certezza che il partner ha un quadro chiaro di ciò che comporta la nascita, riduce l’ansia e il senso di isolamento che spesso accompagnano le neomamme. Con un supporto empatico e presente, la madre ha maggiori probabilità di affrontare questa fase con uno stato emotivo più stabile.
  • Rafforzamento del legame di coppia e maggiore comunicazione. Affrontare insieme la sala parto permette di creare una base solida per affrontare il post-partum come una squadra. Questo si traduce spesso in una comunicazione più aperta e sincera nei giorni e nei mesi successivi, poiché entrambi i partner hanno vissuto la nascita come un evento condiviso. Quando il papà è presente, i piccoli gesti e attenzioni nel post-partum diventano anche più spontanei: può essere più propenso a condividere responsabilità come il cambio dei pannolini, l’alimentazione e il supporto notturno, rafforzando l’intesa e l’equilibrio familiare.
  • Sostegno attivo e comprensione delle esigenze fisiche e psicologiche della madre. Chi ha vissuto il travaglio al fianco della propria compagna comprende meglio le difficoltà fisiche che lei sta affrontando, come il dolore, la stanchezza, e i cambiamenti ormonali. Questo aiuta i papà a essere più presenti e consapevoli nel periodo post-partum, sia a livello pratico che emotivo. Con un supporto più empatico, la madre può sentirsi più compresa e meno in difficoltà nell’esprimere i propri bisogni.
  • Senso di gratitudine e di fiducia reciproca. L’esperienza condivisa in sala parto spesso genera un profondo senso di gratitudine e fiducia reciproca. Molte mamme si sentono emotivamente riconnesse con il partner e apprezzano la sua presenza e il sostegno dimostrato. Questo senso di fiducia facilita il dialogo e la collaborazione nel periodo post-partum, rendendo entrambi più attenti alle reciproche esigenze e alla cura del neonato.
  • Facilitazione del processo di attaccamento. Il coinvolgimento del partner dal momento della nascita aiuta la mamma a sentirsi meno “l’unica responsabile” della relazione col bambino e favorisce un attaccamento sicuro e condiviso. Sapere che il partner è emotivamente connesso e partecipe della nuova realtà familiare aiuta la mamma a dedicarsi a sé stessa e a riposare, migliorando la propria stabilità emotiva.

La presenza del papà in sala parto crea, quindi, una connessione speciale e un terreno di collaborazione emotiva che agevola la madre nel periodo post-partum. Con il sostegno emotivo del partner, molte madri si sentono più sicure, accolte e comprese, con un impatto positivo che si riflette sia sulla relazione di coppia che sull’equilibrio emotivo del nucleo familiare.

“I papà non sono accompagnatori. Quando scegliamo di andarci insieme, il papà non ci “accompagna” in sala parto: viene con noi ad accogliere il nuovo essere umano che forse avrà i suoi occhi” (Cit. Il parto positivo).

Qui di seguito riporto (in forma anonima) alcuni racconti di persone che hanno voluto condividere la loro storia e opinione.

Racconto di M.P.:

“Assistere a un parto è un’esperienza che ti cambia nel profondo. È il momento in cui il tempo sembra sospendersi, eppure ogni istante è carico di tensione, speranza e paura. La sala parto diventa uno spazio dove il mondo esterno scompare, dove esistono solo lei, con il suo corpo che si piega alla forza della natura, e tu, testimone silenzioso e impotente di qualcosa di primordiale. Lei era entrata in travaglio già da qualche ora quando io sono arrivato. Ricordo la corsa, il battito del mio cuore che si accelerava mentre attraversavo i corridoi dell’Ospedale Sant’Anna, sapendo che ogni secondo poteva essere decisivo. Quando l’ho vista, distesa sul letto della sala parto, con il viso segnato dalla fatica e dal dolore, ho capito che quelle ore sarebbero state dure. Non solo per lei, che stava affrontando una battaglia fisica e mentale, ma anche per la piccola creatura che voleva arrivare. Seduto su una sedia, guardavo, osservavo, cercavo di offrire conforto, ma il lavoro vero lo stava facendo lei. E tutto questo mi lasciava un senso di impotenza che non avevo mai provato prima. Le ore sono volate per me, ma sapevo che per lei ogni minuto era un tormento. Continuavo a chiedermi: perché una donna deve sopportare tutto questo? Viviamo in un’epoca in cui la scienza compie passi da gigante, mandiamo sonde nello spazio, esploriamo galassie lontane, eppure il parto resta un’esperienza che mette in ginocchio una donna, come se fosse rimasta ferma nel tempo, una sfida che la tecnologia non ha ancora saputo alleviare. Durante quelle ore intense in sala parto, non ho mai guardato l’orologio, né una sola volta ho preso in mano il telefonino. Il tempo sembrava essersi fermato, e non c’era nulla che potesse distogliermi da quel momento. Ero completamente immerso in ciò che stava accadendo davanti ai miei occhi, come se tutto il resto del mondo fosse sparito. Ogni respiro, ogni espressione sul suo volto, ogni movimento era qualcosa che volevo imprimere nella mia memoria per sempre. Nulla era più importante di quel momento, e non volevo che andasse perduto in distrazioni o banalità. Volevo essere presente, realmente presente, in ogni istante, perché sapevo che stavo assistendo a qualcosa di straordinario, qualcosa che avrebbe segnato per sempre la mia vita. E poi, quando il pensiero della sofferenza sembrava non avere fine, alle 18 e qualcosa, come un fulmine a ciel sereno, è arrivato lui. Minuscolo, fragile, perfetto. La sala parto, per un attimo, si è riempita di una luce diversa, una gioia immensa ha travolto tutto il resto. Non potevo crederci: dopo tutte quelle ore di fatica, di attesa, e di quel dolore che sembrava insormontabile, ecco che tra le mani c’era un piccolo miracolo. Un esserino così piccolo, ma capace di riempire tutto lo spazio che fino a quel momento era stato vuoto di senso.

In quell’istante ho capito che la vita, in tutte le sue forme e complessità, è davvero un miracolo, uno che nessuna scienza o progresso potrà mai spiegare o replicare completamente.

Assistere a quel momento mi ha lasciato una gratitudine che non riuscirò mai a esprimere a parole. Lei ha affrontato una battaglia che io non potrò mai comprendere fino in fondo, ha sopportato un dolore che sembrava quasi inumano, e lo ha fatto con una forza che mi ha lasciato senza fiato. Ho capito in quelle ore quanto sia straordinaria, quanto il suo coraggio e la sua resistenza siano qualcosa che va oltre il semplice atto del dare alla luce una nuova vita.

Ogni respiro affannato, ogni sforzo, ogni istante di dolore ha costruito quel miracolo che ho avuto la fortuna di vedere nascere. La mia gratitudine per Lei è immensa, perché ha portato nel mondo una vita nuova, e l’ha fatto nonostante tutta la sofferenza, la fatica e la paura. Ero lì, seduto su quella sedia, impotente, ma il mio cuore era pieno di riconoscenza per ciò che stava facendo.

Lei non solo ha messo al mondo nostro figlio, ma mi ha mostrato cosa significhi davvero il sacrificio, la forza, e l’amore incondizionato. Non dimenticherò mai la sua determinazione, la sua lotta silenziosa e implacabile.”

Racconto di S.A.:

“Ancora prima di rimanere incinta, sapevo che non avrei voluto, in quel momento, nessuno al mio fianco oltre a mio marito e nei 9 mesi di gravidanza non ho fatto altro che confermare, a me stessa e agli altri, questa mia consapevolezza. 

Prima figlia, pertanto tutto nuovo per me… mi sono documentata nei mesi, ho cercato di dare una nuova immagine al parto, non solo come evento di dolore e fatica, ma come un “viaggio” che mi avrebbe avvicinata sempre di più alla mia bimba… e devo dire di esserci riuscita. Mi sono vissuta il momento con molta serenità, pronta ad accogliere qualsiasi “cosa” accadesse perchè sarebbe stato un passo in più verso di lei. Mi sono completamente affidata al mio corpo, che ha sempre saputo “cosa fare” fin dal primo giorno della gravidanza (e molte volte lo sottovalutiamo), ma la presenza di mio marito ha fatto la differenza. 

Lui era li con me e per me! 

È stato sostegno emotivo, psicologico e fisico per tutto il lunghissimo travaglio e poi lo è stato anche per la mia bambina, perchè io allo stremo delle forze non me la sono sentita di prenderla in braccio nell’immediato…e questa scelta l’ho vissuta serenamente sapendo che la mia bimba era avvolta dalle braccia del suo papà.

Tutto questo ha contribuito a rafforzare il nostro rapporto e farmi sentire compresa e sostenuta anche nel periodo post partum, un periodo in cui ci si sente molto labili e vulnerabili. Sentivo che lui era nel “mio stesso team” e ho percepito la cura e le attenzioni, che mi aveva dedicato al momento del parto, ancora presenti”.

Racconto di E.T.:

“Nonostante il mio sia stato un parto meraviglioso in quanto del tutto fisiologico, rapidissimo e senza alcuna problematica/complicazione nel post, l’ho vissuto e lo ripenso ad oggi come un vero e proprio trauma. 

Per trauma intendo un momento catartico, di rottura.

È stato come se il mio corpo avesse voluto segnare con un evento forte e intenso come la fine del mio percorso di gravidanza e, allo stesso tempo,  dare risalto all’inizio del percorso di genitorialità che coinvolge in prima persona anche M.

È stata un’esperienza mistica e terrena (cit. Jovanotti) allo stesso tempo, a tratti violenta e straziante, sopratutto quando il mio corpo era al limite dello sforzo e la mia mente ha iniziato a vacillare e a perdersi in pensieri di cui ho provato immediatamente vergogna: voglio morire; toglietemi questa cosa dalla pancia;

Voglio fuggire da questa situazione; se l’avessi saputo non l’avrei mai fatto.  

La presenza di M. durante il parto per me è stata fondamentale. Senza colpevolizzarmi, lui mi ha aiutata a trasformare questi pensieri distruttivi in pensieri positivi, a tramutarli in pensieri di forza, ricordandomi costantemente che il dolore fisico sarebbe cessato e che stavo facendo un ottimo lavoro.

Il suo supporto fisico e psicologico non sono riusciti ad eliminare il dolore fisico ma hanno alleviato le mie preoccupazioni e mi hanno aiutata a sgomberare la mente, a lasciarmi andare e a sentirmi scura in un momento di grande fragilità, consapevole che, per qualunque altra cosa diversa dall’atto di “partorire”, lui avrebbe agito per me. Sebbene impotente di fronte al mio dolore corporeo, vederlo e sentirlo al mio fianco mi ricordava che l’impresa che stavo affrontando non era soltanto mia. Sento c he aver condiviso con lui un momento così intimo e speciale ci ha legati in un modo particolare per sempre.”

Racconto di S.M.:

“Avevo letto tanto sul parto, avevamo anche fatto un corso pre-parto con un’ostetrica privata. Ma la verità è che nulla ti prepara veramente a tutto ciò che ti aspetta durante il travaglio e il parto. Ore di ansia. Ma quando questa è condivisa sicuramente è più facile da sopportare. Mia moglie continua tuttora a dire che io le sia stato di grande supporto. Io mi sono sentito inutile tutto il tempo. Vedi tutta quella sofferenza e puoi fare ben poco, aumentava solo la mia frustrazione. Come può il corpo umano sopportare tutto ciò non l’ho ancora capito. Dolore atroce che ti spinge a vomitare il nulla che hai nello stomaco. Un mistero. Ed io ero lì, a guardare tutto questo. Volevo aiutarla, ci provavo. Cercavo di incoraggiarla, di farmi sentire al suo fianco, ma mi sembrava tutto inutile. Mi sentivo impotente. Quando poi é nata mia figlia, mia moglie era stremata. Ho visto mia figlia. Era blu, neanche un gemito. Ero terrorizzato ma non volevo che, dopo quello sforzo inimmaginabile, mia moglie si preoccupasse. Le dicevo: “va tutto bene…”. Intanto morivo dentro. Poi l’ho sentita. Penso sia stato il minuto più lungo della mia vita! Mi hanno poi spiegato che era solo un momento di adattamento al nuovo habitat. Tremavo di gioia. Ho avuto la fortuna di fare il contatto pelle a pelle. Non potevo credere che qualcosa di così bello potesse esistere ed era lì tra le mie braccia. Mia moglie sul lettino della sala parto e rideva con la ginecologa e le ostetriche mentre la suturavano. Ero troppo felice per riflettere. Poi a mente fredda ho pensato: “ Non riesco a spiegarmi come possa aver sopportato tutto ciò, ma addirittura ridere… é surreale…”. Credo che sia stato l’amore. L’amore batte tutto il resto.”

Dott.ssa Sonia Allegro

Psicologa – Psicoterapeuta

INTRATTENIMENTO TECNOLOGICO: ACCUDIMENTO O DIPENDENZA?

La tecnologia è un problema? I cambiamenti e gli sviluppi del campo tecnologico rappresentano qualcosa che va modificato o resettato?
Nel primo quarto di secolo degli anni duemila siamo stati sottoposti a grandi cambiamenti tecnologici e digitali, tanto da poter parlare di digital trasformation: l’invenzione di Internet, del Bluetooth, dei Clouds, di Google Maps, delle piattaforme Social Network, dei Bitcoin, degli Assistenti Digitali (…) ha completamente rivoluzionato il mondo in cui viviamo, modificando a
fondo il nostro modo di viverlo e abitarlo. Sono cambiate infatti non soltanto le cose che utilizziamo ma anche il modo in cui le usiamo e si sono trasformate profondamente anche le relazioni, le modalità in cui si costruiscono, si mantengono, si evolvono nel tempo: se prima non era pensabile che i rapporti avvenissero se non in presenza, oggi alcune relazioni vengono costruite attraverso il mezzo tecnologico e, spesso, possono essere mantenute proprio grazie a questo strumento. Le grandi possibilità che ci concede la tecnologia (per esempio di accorciare le distanze e di modificare
lo spazio -tempo) ci permettono di abitare il mondo con delle procedure completamente differenti rispetto al passato e con degli strumenti che rappresentano il nostro periodo storico, quasi più di noi stessi.
Riprendendo il discorso del filosofo e psicoanalista Umberto Galimberti: “con il termine “tecnica” intendiamo sia l’universo dei mezzi (le tecnologie) che nel loro insieme compongono l’apparato tecnico, sia la razionalità che presiede al loro impiego in termini di funzionalità ed efficienza. Con questi caratteri la tecnica è nata non come espressione dello “spirito” umano, ma come “rimedio”
alla sua insufficienza biologica 1”. Galimberti fa un confronto tra l’istinto che guida e indirizza il comportamento degli animali e l’azione che distingue e differenzia l’uomo: la tecnica rientrerebbe nel mondo delle azioni insieme all’anticipazione, all’ideazione, alla progettazione e alla libertà di
movimento ed azione. In questo senso, secondo Galimberti, “la tecnica è l’essenza dell’uomo” perché da lui costruita e da lui utilizzata per sostituirlo o porsi al suo posto: se nei tempi antichi la tecnica era uno strumento nelle mani dell’uomo utile a raggiungere uno scopo e ad organizzare la sua vita, ad oggi la tecnica rappresenta invece l’essenza, l’ambiente all’interno del quale l’uomo
vive e si è costituita con la finalità di controllare e dominare il mondo circostante, a livello locale e/o planetario. Ad oggi, infatti, abbiamo degli strumenti che ci aiutano a fare tutto: calcolare le spese, prevedere il tempo, organizzare le cose e noi stessi, migliorare il fisico, l’importo calorico, la
salute mentale, strumenti che ci aiutano a bere a sufficienza, a mangiare il giusto, a muoverci quanto necessario, a cucinare, a dormire, a svegliarci, a cambiare stile di vita o modificare il modo in cui facciamo le cose…possiamo dire che più niente è guidato essenzialmente dal nostro istinto e dalla
nostra parte animalesca, tutto ciò che è istintuale può essere potenzialmente sostituito da qualcosa di tecnico. “Infatti, finché la strumentazione tecnica disponibile era appena sufficiente per raggiungere quei fini in cui si esprimeva la soddisfazione degli umani bisogni, la tecnica era un semplice mezzo il cui significato era interamente assorbito dal fine, ma quando la tecnica aumenta
quantitativamente al punto da rendersi disponibile per la realizzazione di qualsiasi fine, allora muta qualitativamente lo scenario, perché non è più il fine a condizionare la rappresentazione, la ricerca, l’acquisizione dei mezzi tecnici, ma sarà l’accresciuta disponibilità dei mezzi tecnici a dispiegare il ventaglio di qualsivoglia fine che per loro tramite può essere raggiunto. Così la tecnica da mezzo diventa fine, non perché la tecnica si proponga qualcosa, ma perché tutti gli scopi e i fini che gli uomini si propongono non si lasciano raggiungere se non attraverso la mediazione tecnica 2”. In questo senso i nostri desideri e i nostri scopi diventano condizionati dalla tecnica e dalle infinite possibilità che questa ci propone. Sicuramente sarà difficile, andando avanti con i secoli, che i nostri bisogni non siano condizionati dalle infinite possibilità che la tecnologia ci concede e che propone.

Quale è dunque l’effetto che la tecnologia ha su di noi?
Se, prima dell’esistenza della tecnologia, costruivamo noi stessi a partire dalla risonanza individuale delle esperienze che facevamo, ad oggi, attraverso la tecnologia, l’esperienza collettiva diviene esperienza individuale: c’è infatti un veloce appiattimento della differenza tra interiorità ed esteriorità, della differenza tra superficialità e profondità e di quella tra passività ed attività. In un mondo moderno e tecnologizzato si perde il significato di queste differenze e, in qualche modo, la psicologia dell’uomo si appiattisce a causa di un sempre minore confronto con sé stesso, in cambio della funzionalità dell’apparato tecnico.
Per tornare sulle parole di Umberto Galimberti “Non dunque l’uomo che può usare la tecnica come qualcosa di neutrale rispetto alla sua natura, ma
l’uomo la cui natura si modifica in base alle modalità con cui si declina tecnicamente3”.
La strutturazione di un mondo sempre più tecnologico non fa altro ridurre la capacità umana di psicologizzare, non utilizzando doti psicologiche come quella della mentalizzazione e della immaginazione; il risultato di questa situazione è che ci si omologhi sempre più alla razionalità dell’apparato tecnico e che si perda, oltre che la dimensione dell’istinto, quella della produzione immaginifica. Secondo Galimberti la tecnica non risponde più ai bisogni degli uomini ma è finalizzata ad un proprio obiettivo (quello per esempio di creare e produrre contenuti) e contribuisce a creare un nuovo tipo di ambiente nel quale l’uomo è portato a vivere, un mondo tecnologico. In
questo senso, l’epoca della tecnica porta l’uomo a doversi adattare a questi nuovi equilibri, a modificare il proprio modo di stare in contatto con le persone e con il mondo e ad omologarsi alle novità proposte dalla tecnologia, in crescente e sempre continuo mutamento. “Un’azione è omologata quando è conforme a una norma che la prescrive, quindi quando non è un’azione, ma
una conform-azione. E “conformazioni” sono tutte le azioni che si compiono in un apparato e in funzione dell’apparato, al cui interno il “fare da sé” cessa dove incomincia il “deve essere fatto” in perfetto accordo con le altre componenti dell’apparato 4”. L’omologazione e la conformazione passano dal fatto che per vivere nel mondo è necessario utilizzare lo strumento tecnico che diventa
l’unico modo possibile di esistere e di adattarsi. Il mondo è talmente tanto governato dalla tecnica da renderci dipendenti dalle sue principali caratteristiche: senza l’interruzione dell’utilizzo continuativo della tecnica diventa per noi impossibile renderci conto di quanto la utilizziamo e di
quanto ne abbiamo bisogno. Arriviamo a mettere in atto una vera e propria dissociazione psichica, affidando gran parte del nostro appartato cognitivo e mentale a degli strumenti tecnici, senza adoperare le nostre capacità intellettive. Questo succede a prescindere dalla nostra volontà,
all’interno di un mondo tecnologico dal quale non ci è possibile sottrarci, pena l’assenza di adattamento o l’esclusione da una rappresentazione condivisa del mondo.
Se, da un lato, la tecnologia favorisce una dissociazione psichica, creando nuovi desideri al posto dell’uomo e impedendo lui di “decidere” a cosa affidarsi e cosa preferire, dall’altra ci consente però di sentirci anche al sicuro, rassicurati e compresi: il fatto che si sostituisca a noi ci consente di
delegare le nostre facoltà emotive e di sentirci, in qualche modo, capiti dalle proposte che provengono dal essa. Quando per esempio ci vengono proposti dei contenuti da parte dei social network, essi sono selezionati in base alle nostre preferenze e all’indicizzazione delle nostre precedenti visualizzazioni: il fatto che ci ritroviamo nei contenuti proposti, che sentiamo che in
qualche modo ci riguardano, favorisce una sensazione e un senso di accudimento, di gratificazione e di cura, vissuti che spostano la nostra attenzione cosciente sui contenuti proposti e non più sul
nostro mondo interno. La tecnica che anticipa e indirizza i nostri desideri, oltre a toglierci “l’impiccio” di pensare, favorisce delle sensazioni emotive gradevoli e positive, che hanno a che fare con l’accudimento.
In chiusura di questa lettura del mondo di oggi, a tratti pessimista, a tratti realistica, resta solo da rispondere alla domanda iniziale, la tecnologia è davvero un problema?

Se restiamo sulle premesse condivise più in alto, il punto potrebbe non essere questo: la tecnologia non è più un mero strumento da noi possibilmente utilizzabile ma sta diventando il mondo in cui viviamo. Diventa dunque per noi impossibile sottrarcene. Ciò che sicuramente sarà importante tenere a mente, sia nel mondo attuale che in quello futuro, sarà imparare a utilizzarla responsabilmente: ciò significa non delegare completamente ad essa tutte le funzioni mentali ed emotive, le decisioni legate alla nostra vita e alle relazioni, rendendola un po’ più strumento che
apparato psichico sostitutivo. La tecnologia ci fornisce tante possibilità ad oggi imprescindibili ma, forse, pensare di utilizzarla meno, per meno tempo al giorno, provando a riscoprire la conoscenza e la relazione attraverso altre modalità, potrebbe favorire non solo un migliore e più funzionale contatto con noi stessi e con il nostro mondo interno, ma anche un uso più consapevole ed efficiente dell’apparato tecnico che ci ritroviamo a utilizzare.

 

1Galimberti, in questo caso si riferisce a tutti gli strumenti e le innovazioni appartenenti al nostro periodo storico, noi invece all’interno di questo articolo ci riferiremo principalmente all’utilizzo di Internet e dell’intrattenimento.
2 Galimberti U., “Psiche e Techne”. Universale Economica Feltrinelli 1999, pp. 37.
3 Galimberti U., “Psiche e Techne”. Universale Economica Feltrinelli 1999, pp 47
4 Galimberti U., “Psiche e Techne”. Universale Economica Feltrinelli 1999, pp 615

Dott.ssa Federica Ariani

Psicologa-Psicoterapeuta

 

LIMERENZA: quando il desiderio diventa ossessione

Probabilmente sarà capitato a moltƏ, se non a tuttƏ, di provare un intenso attaccamento e desiderio emotivo nei confronti di qualcunƏ, che però non ci corrisponde. Ebbene, dopo un po’, insomma “ce ne siamo fattƏ una ragione”; questo non accade, o comunque avviene dopo tantissimo tempo se si soffre di limerenza.

Con questo termine si indica una condizione emotiva, ancora poco studiata, che determina un attaccamento ossessivo verso una particolare persona o un “oggetto di limerenza” con cui non si riesce ad instaurare una relaziona sana e che interferisce con il funzionamento quotidiano del soggetto.

Il termine è stato utilizzato per la prima volta dalla psicologa Dorothy Tennov nel suo libro del 1979 Love and Limerence – the Experience of Being”, tradotto poi in italiano come limerenza o ultrattaccamento. La Tennov condusse sin dagli anni ’60 studi sull’amore romantico, sul significato e sulle sensazioni associate alla sensazione di essere innamoratƏ. L’innamoramento determina, secondo la Tennoy un desiderio travolgente di attenzione e considerazione da parte di un’altra persona e la richiesta di essere corrispostƏ con pari sentimenti di ammirazione e desiderio. Talvolta però tutto questo assume dei contorni più cupi: il desiderio diventa pensiero intrusivo, la ricerca di considerazione si tramuta in ossessione e l’innamoramento diventa limerenza.

Caratteristiche della limerenza sono oltre al già citato pensiero intrusivo, l’estrema sensibilità alle azioni e ai cambiamenti dell’altrƏ che influenzano lo stato emotivo del soggetto limerente. Ad ogni minimo gesto, anche casuale o non rivolto a loro, può corrispondere una gioia immensa o un’estrema disperazione. C’è un intenso, ed appunto ossessivo, bisogno di ricevere conferme spesso ricercate in gesti o comportamenti che magari nel concreto non sono intenzionali o non sono rivolti a loro e persistenti fantasie e rimuginii riguardo alle azioni e situazioni che si possono venire a creare, in una continua spirale di gelosia e dubbio.

L’oggetto di limerenza è qualcunƏ che quasi mai corrisponde i sentimenti di idealizzazione e considerazione; sono “amori” non corrisposti che si instaurano indipendentemente dalla reale conoscenza dell’altrƏ o del tipo di rapporto instaurato. Effettivamente si evidenzia come la limerenza non sia un disturbo relazionale, ma a tutti gli effetti un disturbo affettivo; la vera relazione con l’oggetto di limerenza, infatti, è davvero marginale tanto che spesso, contrariamente da quello che succede nell’innamoramento, manca una autentica partecipazione o preoccupazione per il benessere dell’altrƏ. Anche il desiderio o l’attrazione sessuale non è presente o comunque ha un ruolo del tutto marginale, accade anche che oggetto di limerenza non sia dello stesso sesso da cui il soggetto è sessualmente attratto.

Per quanto fin qui detto, seguendo il pensiero di Wakin e Vo (2008), si possono osservare alcuni aspetti comuni tra la limerenza, il disturbo ossessivo compulsivo e quello da uso di sostanze.

Secondo i due autori tra i sintomi della limerenza si ritrovano sia i pensieri intrusivi caratteristici del DOC, che le compulsioni che si manifestano, in questo caso, con rituali legati al controllo, all’idealizzazione dell’oggetto e alla pianificazione. Così come nel DOC emerge una significativa compromissione del funzionamento del soggetto ed un elevato stato ansioso legato prevalentemente alla paura di un rifiuto da parte dell’oggetto di limerenza.

Allo stesso modo gli autori individuano alcune modalità di pensiero e comportamento simili a quanto si individua nel disturbo da uso di sostanze. Si rintracciano infatti sia il fenomeno della tolleranza, ovvero c’è sempre un maggior bisogno di reciprocità emotiva per mantenere il livello di gratificazione desiderato, che veri e propri sintomi da astinenza come dolore fisico, disturbi del sonno, irritabilità e depressione. Anche gli aspetti legati al continuo pensiero, all’iperfocalizzazione e alle fantasie legate all’oggetto ed il sottile piacere che ne deriva, sono assimilabili al cosiddetto rimuginio desiderate presente in chi usa sostanze.

Tutto questo ci porta, nonostante l’esigua letteratura in merito, a dire qualcosa anche sul possibile trattamento della limerenza. Proprio a partire infatti dai punti di contatto col DOC si può supporre che la psicoterapia cognitivo comportamentale possa essere quella maggiormente indicata (Wyant, 2021).

In un periodo come questo in cui si assiste ad un considerevole aumento di casi di dipendenza affettiva e di difficoltà relazionali è quanto mai importante incentivare gli studi clinici su questi temi oltre che prestare attenzione a situazioni di disagio emotivo che sebbene abbiano un’origine individuale, possono avere ripercussioni anche a livello relazionale e rivolgersi conseguentemente a professionisti competenti ed esperti.

Dott.ssa Chiara Delia

Psicologo – Pscoterapeuta

Perché dormire bene è fondamentale per la salute? Effetti della deprivazione di sonno e consigli pratici per migliorarlo

Il sonno è una componente essenziale della nostra vita quotidiana: se ci pensiamo, passiamo (e passeremo), all’incirca, un terzo della nostra vita a dormire. Il sonno influenza significativamente la salute mentale e fisica e, nonostante la sua importanza, molte persone trascurano il valore di un buon riposo notturno. In Italia, quasi un italiano su tre dorme un numero insufficiente di ore e uno su sette riporta una qualità insoddisfacente del proprio sonno: uno studio condotto nel 2019 dai ricercatori dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e il trend sembra stare peggiorando, anche per via del Covid. Sarebbero fino a 13,4 milioni le persone nel nostro Paese affette da disturbi del sonno. Stando all’Associazione Italiana per la Medicina del Sonno (AIMS), un adulto su quattro soffre di insonnia cronica o transitoria.

In questo articolo cercherò di approfondire tre macro-temi:

Come il sonno influisce sul benessere;
Gli effetti della deprivazione di sonno;
Qualche consiglio pratico per migliorare la qualità del sonno.

L’Importanza del Sonno per la Salute Mentale e Fisica

Dormire adeguatamente e a sufficienza è cruciale per il corretto funzionamento di corpo, mente e organismo. Durante il sonno, il cervello e il corpo svolgono diverse funzioni vitali:

1. Consolidamento della Memoria e Apprendimento: dormendo, il cervello elabora e consolida le informazioni acquisite durante il giorno, trasferendole dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine. Diversi studi hanno dimostrato che soprattutto la faseREM (Rapid Eye Movement, chiamata così proprio perché durante questa fase, sotto le palpebre chiuse, i nostri occhi si muovono molto velocemente: è questa la fase in cui sogniamo) è particolarmente importante per l’apprendimento e la memorizzazione.
2. Regolazione Emotiva: Il sonno aiuta a stabilizzare l’umore e a gestire lo stress. La mancanza di sonno è collegata a una maggiore irritabilità, ansia e rischio di depressione e disturbi dell’umore.
3. Riparazione Fisica: Durante il sonno profondo, il corpo rilascia ormoni della crescita che aiutano a riparare i tessuti e ad agire correttamente sullo sviluppo e la ripresa muscolare. Questo processo è fondamentale per la guarigione delle ferite e il recupero muscolare dopo l’attività fisica, ad esempio.
4. Sistema Immunitario: Il sonno rafforza il sistema immunitario. Durante il sonno, il corpo produce citochine, molecole proteiche essenziali per combattere infezioni e infiammazioni perché sono il canale di comunicazione tra il sistema immunitario e gli organi e i tessuti. La mancanza di sonno può indebolire la risposta immunitaria, rendendo l’individuo più suscettibile alle malattie.

Quanto ore bisognerebbe dormire?

La quantità di sonno necessaria varia a seconda dell’età e delle esigenze individuali. Tuttavia, esistono linee guida generali fornite da enti come la National Sleep Foundation:

Neonati (0-3 mesi): 14-17 ore
Infanti (4-11 mesi): 12-15 ore
Bambini (1-2 anni): 11-14 ore
Bambini in età prescolare (3-5 anni): 10-13 ore
Bambini in età scolare (6-13 anni): 9-11 ore
Adolescenti (14-17 anni): 8-10 ore
Adulti (18-64 anni): 7-9 ore
Anziani (65+ anni): 7-8 ore

Diversi studi confermano che la quantità di ore ottimali è di 7 ore e mezzo/8 ore a notte ma nonostante ciò resta comunque più importante la soggettività di ogni singolo individuo: il valore medio deve essere preso come un’indicazione generale perché bisogna sempre fare i conti con i ritmi di vita di ognuno, la genetica, le abitudini e le caratteristiche dell’ambiente. Dormire meno di quanto raccomandato può avere effetti negativi sulla salute a lungo termine.

Effetti della Deprivazione del Sonno

La deprivazione del sonno può avere conseguenze gravi e diffuse su vari aspetti della salute:

1. Diminuzione delle Funzioni Cognitive: La mancanza di sonno compromette la memoria, la concentrazione e la capacità decisionale. Le persone private del sonno mostrano una riduzione delle prestazioni cognitive e un rallentamento nei tempi di reazione.

Nel 2017 è partito uno dei più grandi studi sul sonno di sempre. A dirigerlo è Adrian Owen, un neuroscienziato britannico con sede in Ontario. La ricerca si basava sulla somministrazione di un banale test pratico (un gioco in cui bisogna cliccare sulla parola nella parte bassa dello schermo che corrisponde al colore con cui è scritta la parola nella parte alta) allo stesso individuo, per due volte: una dopo una normale nottata di sonno e una dopo una notte con sole 4 ore di sonno. Il risultato di questa ricerca, pubblicato nel 2018, ha rivelato che, in termini di capacità cognitive generali e complesse, dormire solamente 4 ore a notte può equivalere all’effetto di un invecchiamento di 8 anni.

2. Rischio di Malattie Croniche: La deprivazione cronica del sonno è associata a un aumento del rischio di diverse malattie croniche, tra cui malattie cardiovascolari, diabete di tipo 2, obesità e ipertensione. La mancanza di sonno influisce negativamente sul metabolismo e sulla regolazione della glicemia.
3. Compromissione della Salute Mentale: Il sonno insufficiente è collegato a un rischio maggiore di sviluppare disturbi dell’umore, come la depressione, e disturbi d’ansia. La deprivazione del sonno può alterare i livelli di neurotrasmettitori nel cervello, influenzando negativamente l’umore e il benessere emotivo.
4. Sistema Immunitario Debole: La mancanza di sonno riduce la produzione delle suddette citochine, aumentando la vulnerabilità a malattie come raffreddori e influenza.
5. Alterazioni Metaboliche: La deprivazione di sonno può alterare gli ormoni che regolano l’appetito, aumentando la produzione di grelina (ormone della fame) e riducendo la produzione di leptina (ormone della sazietà). Questo può portare a un aumento di peso e all’obesità.

Molto importante da tenere in considerazione è il fatto che anche solo uno di questi effetti negativi può portare ad un “effetto domino” e coinvolgere anche altri aspetti o far sviluppare altre patologie o psicopatologie: ad esempio, l’aumento considerevole di peso potrebbe portare ad un profonda tristezza e/o sensazione di inadeguatezza che potrebbe scivolare più facilmente in un disturbo dell’umore.

Consigli per Migliorare la Qualità del Sonno

Per migliorare la qualità del sonno si possono adottare delle misure pratiche e delle sane abitudini in modo da creare un ambiente favorevole al riposo:

1. Stabilisci una Routine Regolare: cerca di andare a dormire e di svegliarti alla stessa ora ogni giorno, anche nei fine settimana. Questo aiuta a regolare il ritmo circadiano del tuo corpo, ovvero il nostro “orologio biologico”.
2. Crea un Ambiente di Sonno Ottimale: Assicurati che la tua camera da letto sia buia, silenziosa e fresca. Possono essere utili tende, tappi per le orecchie, mascherine per gli occhi, ad esempio.
3. Limita l’Uso degli Schermi Prima di Dormire: L’esposizione alla luce blu degli schermi elettronici può interferire con la produzione di melatonina, l’ormone del sonno. Sarebbe opportuno diminuire l’utilizzo dei dispositivi elettronici almeno un’ora prima di coricarti.
4. Limita l’utilizzo dello smartphone/tablet e della tv/computer mentre sei nel letto: anche per una questione di una adatta associazione mentale, il letto dovrebbe essere contemplato come “l’oggetto dove si dorme”, in modo da abituare profondamente il nostro corpo e la nostra mente che quel posto serve per dormire. Può essere un semplice gesto che facilita l’addormentamento.
5. Fai Attività Fisica Regolare: L’esercizio fisico può migliorare la qualità del sonno, ma evita l’attività intensa nelle ore troppo tarde, poiché potrebbe avere l’effetto opposto.
6. Evita Caffeina e Alcol: La caffeina può rimanere nel sistema per diverse ore, quindi cerca di limitarne l’assunzione nel pomeriggio e nella sera. Anche l’alcol può interferire con il sonno, causando risvegli notturni e una riduzione della qualità del sonno REM.
7. Adotta una Routine di Rilassamento: Pratiche come la lettura, il bagno caldo o le tecniche di respirazione profonda possono aiutare a segnalare al tuo corpo che è ora di rilassarsi e prepararsi per il sonno: l’intensità delle attività dovrebbe calare man mano che ci si avvicina all’ora nella quale andremo a dormire.

Ora una digressione su quello che concerne la psicologia e, soprattutto, la psicoterapia. Il sonno è una delle funzioni che più spesso e facilmente viene primariamente “attaccata dalla nostra mente”: molti disturbi o disagi del sonno possono essere riconducibili a periodi difficili, di stress, di disadattamento a nuove situazioni di vita, di malessere psicologico in generale. La psicoterapia può aiutare ad individuare quello che si potrebbe celare dietro le difficoltà di addormentamento, l’insonnia, temporanea o cronica, il sonno disturbato, gli incubi notturni, ecc. Vale la pena tenere in considerazione l’intervento psicoterapeutico da parte di un/una professionista, in modo da agire sulle criticità nella maniera eventualmente più adatta possibile: spesso, la causa potrebbe essere anche solo psicologica, in effetti…

In conclusione, il sonno è una componente essenziale del benessere fisico e mentale e della salute del nostro organismo, per una serie di motivi, anche molto importanti, che spesso però sfuggono di mente. Adottare abitudini sane e stabili e creare un ambiente favorevole al riposo può migliorare significativamente la qualità del sonno, contribuendo a una vita più sana, rilassata, positiva e felice.

Per chi desidera approfondire ancora di più, questi due testi di stampo scientifico ma accessibili anche ai non addetti ai lavori possono essere presi come riferimento: L’arte di dormire bene” di Russell Foster e “Perché dormiamo. Poteri e segreti del sonno per una vita sana e felice” di Matthew Walker.

Dott. Riccardo Falconieri

Psicologo

 

Bibliografia:

1. National Sleep Foundation (2020), Sleep and Memory.
2. Owen A. (2018), Effetti dissociabili della durata del sonno giornaliero auto-riportata sulle capacità cognitive di alto livello.
3. National Sleep Foundation (2015), Sleep Duration Recommendations.
4. Foster R. (2023), L’arte di dormire bene.
5. Walker M. (2023), Perché dormiamo. Poteri e segreti del sonno per una vita sana e felice

BIOFILIA E TERAPIA FORESTALE

Il termine biofilia (letteralmente amore per la vita) è stato introdotto da Fromm nel 1964 inteso come tendenza psichica, intrinseca alla biologia umana, a rivolgersi istintivamente verso la natura e le altre forme di vita. Secondo questa teoria, l’uomo di fronte a paesaggi naturali subisce una forma di “fascinazione”, intesa come attenzione involontaria che, contrariamente all’attenzione diretta e sostenuta, non richiede sforzo. Questo permette alla nostra mente di riposare e rigenerarsi, riconoscendo nella natura incontaminata un ambiente familiare, in qualche modo già conosciuto e riconoscibile.

I suoni e le immagini che provengono dalla natura, ci rimandano ad una sorta di memoria ancestrale, sono stimoli che non abbiamo bisogno di elaborare ed interpretare cognitivamente con sforzo, perché i nostri sistemi sensoriali sono, a partire dall’inizio della vita dell’uomo sulla terra, strutturati ed ottimizzati per elaborare quello specifico tipo di sensazioni. Non si viene mai sorpresi, l’attenzione non è mai catturata in modo attivo, non è mai allerta e questo facilita il recupero energetico ed il benessere psicofisico.

La terapia forestale, prende origine a partire proprio dai costrutti della biofilia, ovvero dell’evidenza che il contatto con la natura, a diversi livelli (dal più indiretto a quello più immersivo) genera benessere. Lo sanno bene i giapponesi che per primi hanno adottato il Shinrin-yoku (letteralmente bagno con il bosco) come parte delle strategie di prevenzione delle malattie croniche e tutela della salute pubblica. Nel 2020 l’ONU ha riconosciuto la frequentazione degli ambienti forestali come pratica di medicina preventiva, in particolare nel contrastare gli effetti successivi alla pandemia e, in Italia, il Ministero per le politiche agricole ha indicato la terapia forestale come un servizio socio culturale nel nuovo piano per le politiche forestali

Nonostante alcune ricerche abbiano dimostrato che già l’esposizione virtuale ad ambienti forestali sia sufficiente a ridurre i livelli di ansia percepita, la terapia forestale normalmente propone attività più strutturate e immersive come camminate consapevoli, meditazione, yoga, mindfulness e semplici attività manuali, svolte in piccoli gruppi guidati da guide specializzate affiancate da operatori sanitari della salute mentale.

Gli effetti benefici sono “dose dipendente”, ovvero più tempo si trascorre in un contesto naturale incontaminato, maggiori e più duraturi sono i benefici per la salute fisica e psichica. In media si consiglia di trascorrere nell’arco di una settimana almeno 2 ore immersi in ambiente naturale per avere benefici in termini di benessere percepito.

Quello che viene proposto è di compiere una esperienza immersiva, ovvero che coinvolga tutti i 5 sensi:

LA VISTA: è stato dimostrato che anche la sola stimolazione visiva con immagini forestali proiettate su uno schermo portava benefici psicologici e fisiologici. La visione di un contesto naturale, meglio ancora se selvaggio e incontaminato, con presenza di corsi d’acqua e con diverse tipologie di alberi e arbusti, produce una significativa riduzione dei livelli di ansia percepita.

IL TATTO: con qualsiasi parte del corpo di un elemento naturale produce un effetto calmante e un aumento dell’attività parasimpatica. Il contatto, in particolare con il legno di alcune specie arboree, soprattutto conifere, induce rilassamento rilevabile a livello fisiologico. Interessante notare che questo avviene sia in ambienti naturali all’aperto che in ambienti indoor in cui siano presenti manufatti in legno.

IL GUSTO: connette ancor più profondamente all’ambiente naturale, si pensi non solo alla gratificazione nel gustare piccoli frutti selvatici, ma anche ai possibili benefici di alcune piante selvatiche.

L’UDITO: gioca, ancor più della vista, un ruolo importante nell’indurre rilassamento; il suono di un ruscello, del vento tra gli alberi da soli possono determinare una sensazione di benessere

L’OLFATTO: è il senso che viene più coinvolto negli effetti benefici derivanti dalla terapia forestale. Quando ci troviamo, in particolare in un bosco, respiriamo quello che le piante emettono, cioè, composti organici volatili biogenici (detti BVOC), ovvero biomolecole con importanti effetti benèfici; da soli, anche a basse concentrazioni, sono ad esempio in grado di ridurre la percezione di ansia.

Biomolecole diffuse da piante diverse possono avere effetti diversi: antiinfiammatori, antiossidanti, calmanti, ansiolitici, antidepressivi, benèfici rispetto ai disturbi del sonno (conifere) antimicrobici, antiinfiammatori, anti-emorragici (latifoglie), neuroprotettivi(faggio).

I BVOC sono facilmente solubili nel sangue per cui vengono assimilati molto facilmente e sono in grado di superare facilmente la barriera ematoencefalica e quindi di produrre un effetto diretto sul cervello. Effetti simili si possono avere anche in ambienti chiusi in presenza di manufatti in legno, suoi derivati o oli essenziali.

Come illustrato la terapia forestale ha effetti benefici, in grado di prevenire tutta una serie di disturbi, inserendosi quindi come utile strumento di prevenzione primaria. È in grado, infatti, di prevenire alcuni disturbi a livello circolatorio, diminuendo la frequenza cardiaca, la pressione sanguigna e i livelli di cortisolo, e migliorando l’efficienza del sistema immunitario, con una maggiore produzione di linfociti Natural Killer

Nuove evidenze si stanno raccogliendo anche rispetto alle possibilità terapeutiche della terapia forestale che si dimostra di ausilio nel trattamento di alcuni disturbi. Si è evidenziata ad esempio una riduzione della sintomatologia depressiva in particolare quando la terapia forestale si associa a pratiche meditative. Altre evidenze riguardano l’impatto della terapia forestale nel disturbo da dolore cronico, nel disturbo d’ansia e nel trattamento delle demenze in particolare nelle funzioni di attenzione e memoria. Negli ultimi anni sono diversi i filoni di ricerca che riguardano le applicazioni terapeutiche della terapia forestale; un elemento di criticità va rintracciato però nella difficoltà di indentificare protocolli standardizzati, ripetibili e controllati che permettano di strutturare protocolli terapeutici ufficiali.

In conclusione, ancora una volta si ha evidenza di come l’equilibrio mente corpo non possa prescindere dall’equilibrio con la natura e col ritrovare antichi rituali e paesaggi che ci rimettano in contatto con una dimensione naturale ancestrale dove la bellezza e l’armonia contribuiscono al nostro benessere.

Dott.ssa Chiara Delia

Bibliografia

Park et al. (2022). What Activities in Forests Are Beneficial for Human Health? A Systematic Review. International Journal of Environmental Research and Public Health, 19(5)
FAO and UNEP The State of the Worlds Forests 2020. Forests, biodiversity and people; Food and Agriculture Organization of the United Nations: Rome, 2020
White, M.P., et al, (2019). Spending at least 120minutes a week in nature is associated with good health and wellbeing. Sci Rep 9, 7730
Antonelli M et al (2020),. Forest Volatile Organic Compounds and Their Effects on Human Health: A State-of-the-Art Review. Int J Environ Res Public Health. Sep 7;17(18):6506.
Hansen MM, et al. (2017) Shinrin-Yoku (Forest Bathing) and Nature Therapy: A State-of-the-Art Review. Int J Environ Res Public Health. 2017 Jul 28;14(8):851.
Rosa C.D. et al. (2021) Forest therapy can prevent and treat depression: Evidence from meta-analyses Urban Forestry and Urban Greening
Zabini, F.; et al (2020) Comparative Study of the Restorative Effects of Forest and Urban Videos during COVID-19 Lockdown: Intrinsic and Benchmark Values. Int. J. Environ. Res. Public Health 2020, 17, 8011,

IL DOLORE COME ESPERIENZA UNICA E SOGGETTIVA. Fibromialgia e malattie psicosomatiche

Il provare una qualsiasi forma di “dolore” molto spesso è parte integrante della sofferenza psicologica, ne può effettivamente essere causa o conseguenza, oppure anche entrambe assieme.

Le persone a volte esperiscono dolori ai quali non riescono a dare delle spiegazioni e la sofferenza può risiedere anche e soprattutto nel fatto che, dopo diversi e accurati esami specialistici, neanche la medicina riesca a trovare un riscontro organico, qualcosa di “malfunzionante” all’interno dell’organismo, del corpo in generale. Di questo, ne fanno esperienza le persone che soffrono di una malattia cronica psicosomatica, appunto.

Per comprendere ciò, bisogna prima distinguere tra due tipi di dolore: quello “acuto” e quello “cronico”.

Il dolore “acuto” è occasionale, in risposta a uno stimolo inatteso e intenso, relativo allo stato attuale e reversibile, poiché ha un inizio e una fine.

Il dolore “cronico”, invece, è persistente e costante, quotidiano ed è una risposta disadattava del nostro corpo.

La International Association for the Study of Pain (IASP), nel 2020, ha definito il dolore cronico come “un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata o simile a quella associata a un danno tissutale reale o potenziale”.

La American Psychological Association, già nel 2013, sosteneva,infatti, che il punto cruciale non è il sintomo somatico in sé ma il modo in cui la persona lo presenta e lo interpreta.

Con questi interventi e queste “nuove” e aggiornate definizioni si può parlare di una effettiva rivoluzione nel considerare questo tipo di dolore derivante non solo da un malessere fisico o organico, biologico ma anche da fattori psicologici e sociali dell’individuo. Prende in considerazione la soggettività e l’unicità della persona, esattamente la sua personale esperienza.

Ne deriva, quindi, che il vissuto di  dolore dovrebbe essere sempre compreso e rispettato, dato che, inoltre, le persone apprendono il concetto di dolore attraverso le loro esperienze di vita.

Sebbene il dolore di solito abbia un ruolo adattativo, può avere effetti negativi sulla funzionalità e il benessere sociale epsicologico.

Con ciò, bisogna anche tenere in considerazione che la descrizione verbale non è l’unico modo per esprimere il dolore e che l’incapacità di comunicare non nega la possibilità che un essere umano stia provando malessere: ovvero, se non esplicito verbalmente che ho dolore, non vuol dire che sia scontato che io non ne abbia. Un po’ come “se non sto chiedendo aiuto non vuol dire per forza che non ne abbia bisogno”.

Più in generale, l’OMS, invece, definisce la malattia cronica come un “problema di salute che richiede un trattamento continuo durante un periodo di tempo che può andare da anni a decadi”.

Nonostante l’elenco sia molto lungo e si suddivida anche per categorie, prendiamo come esempi solo alcune delle malattie psicosomatiche croniche, quelle che potrebbero essere le più “conosciute”:

Gastrite
Colite spastica (sindrome del colon irritabile)
Psoriasi
Artrite reumatoide
Fibromialgia

Negli ultimi anni, l’attenzione medica e psicologica si è soffermata in particolar modo sulla fibromialgia. La fibromialgia è una sindrome dolorosa cronica caratterizzata dall’insorgere di numerosi sintomi differenti tra loro ed associata ad ulteriori disturbi come stanchezza cronica, disturbi cognitivi, problemi psichici, alterazioni del sonno e sintomi somatici.

Colpisce in Italia oltre 2 milioni di persone, corrispondenti circa al 3% dell’intera popolazione. Si tratta di una sindrome che potremmo definire «di genere» perché più dell’80% di coloro che ne sono affetti sono donne tra i 30 e i 60 anni.

Le cause della fibromialgia sono ancora da identificare. Si suppone che per comprenderle appieno bisogna centralizzare la soggettività della persona, prendendo in considerazione dunque la sua intera storia di vita: fattori psicologici, sociali, ambientali e non solo una possibile vulnerabilità biologica.

Il sintomo cardine della malattia, presente in ogni persona che ne è affetta, resta comunque il dolore cronico. Più precisamente, si parla di “dolore nociplastico”: in questa forma, non vi è un danno al sistema nervoso né al sistema tissutale ma è presente un’alterazione della nocicezione. La nocicezione è quel processo sensoriale che rileva i segnali e le sensazioni di dolore, tutto ciò tramite l’attivazione di recettori periferici (terminazioni nervose), chiamati appunto “nocicettori”. Come se fossero i “sensori del dolore” del nostro corpo: nella fibromialgia, questi sensori funzionano “male” e attivano la percezione di dolore anche laddove non è presente nessuno stimolo reale.

Tramite studi e ricerche sul tema, si è notato come esistano delle costanti negli aspetti psicologici, comuni in tutte le persone che soffrono di fibromialgia:

Uno stile di attaccamento insicuro o disorganizzato
Uno o più eventi di vita traumatici
Alessitimia (la difficoltà nel riconoscere, esprimere e distinguere le proprie emozioni e sensazioni corporee)
Bassa autostima

Per trattare la fibromialgia in maniera sufficientemente efficace e permettere alla persona di condurre una vita il più “normale” possibile, l’intervento elettivo è sicuramente quello multidisciplinare: una terapia farmacologica utile ad alleviare i sintomi della malattia e, parallelamente, la psicoterapia, utileinvece soprattutto a:

Aiutare il paziente nel differenziare sensazioni, esperienze ed emozioni;
Mantenere o rendere consapevoli dei propri vissuti e delle proprie emozioni;
Individuare nuove abitudini;
Attivare processi di consolidamento delle abitudini funzionali;
Lavorare sull’accettazione della nuova condizione;
Sostenere durante queste nuove fasi di vita.

Il paziente vive nel corpo la sua sofferenza. Il suo è un dolore soggettivo al quale si va ad aggiungere e confondere quello fisiologico della malattia; una malattia che struttura la rappresentazione di sé con la malattia stessa; una malattia che continuamente “auto-attacca” il proprio corpo.

Il dolore ha sempre un’importante accezione soggettiva e personalizzata: non tutti proviamo dolore allo stesso modo, per le stesse cose. Per questo, è sempre necessario sospendere il nostro giudizio a riguardo, comprendere il più possibile e rispettare il malessere che esso provoca nella persona che abbiamo di fronte, sia che siamo professionisti della salute oppure no. Anche questo è terapeutico.

Dott. Riccardo Falconieri

Bibliografia

“Il corpo malato. L’intervento psicologico”, a cura di Bruno G.Bara, Raffaello Cortina Editore

“Il ruolo dello psicologo nel piano nazionale cronicità”, ConsiglioNazionale Ordine Psicologi, fonte reperibile online

“Psicologia e Salute”, Antonella Delle Fave e Marta Bassi, Utet Università

LA REALTA’ IRRAZIONALE DEI SOGNI: PERCHE’ ASCOLTARLI E PRESTARVI ATTENZIONE

Perchè sogniamo? A che cosa serve il sogno nell’economia del funzionamento umano?

Sono secoli che studiosi, filosofi, psicologi e psichiatri si interrogano su questa stessa domanda cercando di attribuire un senso a queste strane “storie” che si fanno spazio dentro di noi quando perdiamo lo stato di veglia. Il loro fascino è dato dalla loro incomprensibilità e dalla difficoltà di coglierne il senso univoco, di comprenderli in tutto e per tutto.

La prima domanda che vorrei pormi parlando dei sogni è, che cosa sono? E a cosa servono?

Prima di tutto, è necessario prendere in considerazione l’esistenza di una parte di noi non consapevole, non contattabile con la coscienza e la consapevolezza, una parte psichica inconscia di cui, non ci rendiamo conto. La gran parte della nostra vita da svegli è quella che affrontiamo attraverso la consapevolezza e la coscienza, quando dormiamo invece la consapevolezza si allenta, perde potere, ed entra in scena l’inconscio. I sogni sono una modalità attraverso la quale l’inconscio si esprime, per mandarci dei messaggi o rielaborare esperienze e vissuti che abbiamo affrontato durante lo stato di veglia.

Possiamo definire il sogno come un “fenomeno soggettivo”, osservabile esclusivamente da colui che sogna, e anche come un fenomeno involontario derivante appunto dalla minore presenza della coscienza. Il sogno è inoltre carico delle emozioni del sognatore e delle sue sensazioni visive ed involontarie, costruite in buona parte da frammenti di memorie recenti e antiche che costruiscono una storia all’interno di uno spazio e un tempo non reali.

Il primo a occuparsi di sogni è stato Sigmund Freud che, nel 1899, ha scritto il testo l’”Interpretazione dei sogni” che ha risposto a molte domande centrali riguardanti questo fenomeno appartenente non solo agli esseri umani ma anche a tutti i mammiferi. In questo testo veniva messa in evidenza la funzione del sogno come un “rebus”, un qualcosa da risolvere e da scoprire attraverso l’interpretazione delle varie immagini che lo compongono. Secondo Freud, “la nostra psiche interviene nel lavoro di formazione dei sogni con specifici meccanismi di elaborazione e camuffamento” tesi a nascondere il vero significato di ciò che stiamo vedendo e rappresentando nel sogno. È come se ciò che è presente nell’inconscio andasse raggiunto, interpretato e reso consapevole prima che faccia danni. Secondo Freud il sogno era la via “regia”, cioè principale e diretta, verso l’inconscio, cioè la parte di noi maggiormente inconsapevole.

Nei secoli, molti altri autori si sono approcciati ai sogni e hanno dato il proprio punto di vista e la propria interpretazione; nello specifico Carl Gustav Jung ha apportato delle importanti modifiche alle teorie freudiane, affermando l’importanza delle immagini e delle figure presenti nei sogni, raffiguranti dei significati e dei vissuti simbolici. Ogni immagine si esprime in modo simbolico, (cioè non esplicito, attraverso immagini) ogni significato ne esprime un altro individuale e trasformativo. “Il simbolo, invece, nella sua essenza e nella sua etimologia, fa da ponte fra i contrari, nutre entrambi i poli senza preferenze e generando così tensione, li costringe comunque a coabitare, opponendosi allo sbilanciamento univoco verso una delle due polarità”.

I sogni rappresentano una delle espressioni più personali che possano esistere, “il sogno è il sognatore, è un concentrato della sua unicità”. Non esistono infatti due sogni considerabili completamente uguali tra loro effettuati da persone diverse, ma allo stesso tempo, talvolta i sogni sembrano provenire da un mondo completamente estraneo al nostro, fuori da noi stessi. Tengono insieme molti aspetti tra loro opposti e apparentemente poco comunicabili tra loro.

Quando parliamo del sogno dobbiamo tenere a mente due parti che si mettono in azione: l’Io onirico (o Io del sogno) e l’Io narrante (o l’Io della veglia). L’Io onirico è il primo soggetto all’interno del sogno, il protagonista del sogno o colui che vi partecipa attivamente. È il primo mediatore tra noi e gli altri attori del sogno e allo stesso tempo è parte del sogno stesso: non si pone domande su ciò che succede all’interno della storia che sta vivendo e ha poca o nessuna consapevolezza di sé. Questa semplicità dell’Io onirico è pero fondamentale: permette infatti di far accadere nel sogno anche cose incredibili, assurde e poco veritiere e di catapultarci all’interno di una realtà fuori dalla realtà.

L’Io narrante (o Io della veglia) è, invece, colui che assiste ai sogni senza poterli cambiare, li riporta come ricordi e li traduce in scritti o racconti. Diventa lui il proprietario del sogno e delle immagini riportate nella narrazione e può agire su di esse dandogli una interpretazione e un senso simbolico.

È proprio l’Io narrante che racconta il sogno e che cerca di attribuirvi un significato, un senso: ha il potere di reinterpretare i significati del sogno all’interno dello stato di veglia, con la giusta distanza e lucidità. L’Io narrante non si attiva subito, non è consapevole mentre stiamo sognando, lo sarà al risveglio, o durante la reminescenza del sogno. Il suo ruolo è fondamentale per dare valore, senso e significato ai contenuti del sogno: l’interpretazione e la revisione, in chiave simbolica, delle immagini e dei contenuti del sogno gli può permettere di conoscere molte parti di sé, difficilmente contattabili in altro modo.

Perché i sogni vengono spesso raccontati in psicoterapia?

Una delle caratteristiche principali che emergono quando si tratta di sogni è che questi, specie in alcuni casi, possano essere raccontati e quindi ascoltati da un interlocutore. Lasciarne traccia scritta o avere qualcuno che possa ascoltarli e accoglierli diventa fondamentale per cercarvi un senso. Nello specifico, nel contesto psicoterapico, i sogni possono essere fondamentali per “l’incontro con ciò che veramente siamo e sono un’ottima palestra per migliorare il funzionamento della mente”.

Se consideriamo i sogni come prodotto della nostra mente sul quale interrogarci con curiosità, possiamo trovarvi dei significati ed utilizzarli come “ponti” fra la consapevolezza e l’inconscio, utili a sviluppare strumenti per pensare. Ognuno di noi sogna ogni notte e ogni sogno attinge dalle esperienze della nostra vita e dalla specificità del momento che stiamo vivendo: questo, con una adeguata interpretazione delle immagini dei sogni in chiave simbolica, ci può permettere di “oggettivare” delle emozioni autentiche attive dentro di noi, espresse nel sogno in forma immaginativa. Ci permette, inoltre, di avvicinarci a delle emozioni complesse e poco descrivibili attraverso immagini oniriche alle quali, nel contesto terapeutico, può essere dato un nome ed un significato.

La figura del terapeuta assume un ruolo centrale: “Due sono i principali soggetti ai quali dobbiamo collegare i sogni: il sognatore stesso e, nel caso si stia sottoponendo ad un trattamento psicologico, la coppia analitica. Il sogno appartiene alla vita del paziente e alla coppia analitica e per questo occorre sapersi posizionare alternativamente in entrambi questi punti di osservazione”. Il sogno infatti, spesse volte, ci parla della relazione di transfert, cioè della vita interna del paziente all’interno delle sue relazioni più importanti rivissuta e riattualizzata all’interno della relazione con lo psicologo, fondamentale strumento per il lavoro psicologico. Interpretare questa relazione all’interno dei sogni e provare a comprenderla attraverso delle domande e delle risposte fa si che si possano comprendere molte cose sul funzionamento profondo del paziente e sulla sua storia. Nella storia del sogno possono essere trovate anche delle indicazioni, della alternative, delle possibilità, per il paziente di stare meglio e di ricevere sollievo dalla condizione nella quale si trova: la giusta interpretazione, proveniente dalla condivisione con lo psicologo all’interno di una relazione significativa, consente al sognatore non solo di accedere al mondo delle proprie immagini inconsce, ma anche di approdare a nuovi significati che riguardano la propria storia e il proprio vissuto emotivo, concedendo un valore nuovo e ricco di importanti risorse individuali.

Dott.ssa Federica Ariani

Psicologa-Psicoterapeuta

LA SINDROME DA BURNOUT

Il burnout è una sindrome legata ad un processo stressogeno che colpisce maggiormente tutte quelle professioni che prevedono una relazione d’aiuto in una sfera psicologica e sociale.

Per burnout intendiamo quel fenomeno che in un primo momento investe dall’interno l’individuo per poi “esplodere” e manifestarsi all’esterno. I professionisti della relazione d’aiuto sono sottoposte ad una duplice fonte di stresss: lo stress personale e quello del cliente, se non trattate cominciano a sviluppare un lento processo di “logoramento” psicofisico.

Nell’ambito delle professioni socio-assistenziali la risoluzione dei problemi dell’utente non è affatto semplice e molto spesso non ottenibile, motivazioni per cui la condizione lavorativa diviene sempre più ambigua e frustrante e lo stress cronico può logorare emotivamente l’operatore.

Pian piano può divenire uno stato di malessere e di disagio che consegue una situazione lavorativa percepita come stressante e che conduce gli operatori a divenire apatici, cinici con i proprio utenti, indifferenti e distaccati dell’ambiente di lavoro. In casi estremi tale sindrome può comportare gravi danni psicopatologici (insonnia, problemi coniugali e familiari, incremento dell’uso di alcol o farmaci), cui consegue un deterioramento della qualità delle cure o del servizio prestato e spesso assenteismo e alto turnover.

Recenti studi dimostrano il legame tra burnout lavorativo e manifestazioni sintomatologiche quali l’ansia e delle sue espressioni somatiche e modificazioni del tono dell’umore, questi sono indicatori di un disagio che tende a coinvolgere gli aspetti più generali della personalità. Ciò avviene quando la persona percepisce una discrepanza tra aspirazioni e performance effettiva.

Vengono, inoltre descritte alterazioni emozionali, comportamentali, psicosomatiche e sociali, perdita dell’efficacia lavorativa ed alterazioni lievi della vita familiare. Inoltre l’alto livello di assenteismo lavorativo si giustificherebbe inoltre tanto per problemi di salute fisica quanto psicologica, a causa della frequente insorgenza di situazioni depressive.

La dimensione psico-sociale del burnout consente di individuare alcune variabili responsabili dell’insorgenza nell’esperienza lavorativa di aspetti di affaticamento e frustrazione che a lungo andare possono dare luogo a distonie e disagi comportamentali, espresse in una gamma che si snoda dall’apatia al disturbo del controllo degli impulsi, fino ad arrivare a una vera e propria compromissione psichiatrica.

La sindrome da bornout non si manifesta in modo improvviso, è un processo graduale che si sviluppa in un tempo prolungato. Molto spesso i primi segnali vengono ignorati, considerandoli “normali”.

Troviamo 3 caratteristiche principali:

1- Distacco mentale e cinismo rispetto al proprio lavoro;

2- Sensazioni di sfinimento e mancato recupero;

3- Calo dell’efficienza lavorativa.

A queste 3 caratteristiche si associano inoltre:

Mal di testa;
disturbi del sonno
disturbi gastrointestinali;
tachicardia;
tensioni;
Stanchezza;
sfiducia in sé stessi;
maggior vulnerabilità
Elevata sensibilità allo stress;
Difficoltà relazionali;
Depressione;
Agitazione, irritabilità, nervosismo;

Cosa causa la sindrome da burnout:

Le cause sono di natura diversa e variano da individuo a individuo. Solitamente è la conseguenza di uno stress cronico e presenta fattori di rischio, quali:

Sovraccarico lavorativo;
Mobbing;
mancato riconoscimento;
Ambiente di lavoro non favorevole;
Conflitti;
Obiettivi poco chiari;
Scarsa comunicazione;
Tendenza a porsi ibiettivi irrealistici;
Abnegazione al lavoro;
Aspettative elevate;
Personalità autoritaria;
Incapacità a collaborare.

Per prevenire il burnout è importante ridurre tutte le situazioni di stress, riconoscersi come persona riconoscendo e rispettando i propri bisogni fondamentali quali sonno, cibo, attività fisica. E’ opportuno fissarsi degli obiettivi ragionevoli, non pretendendo troppo da sé stessi. Inoltre è importante un automonitoraggio rispetto ai propri sintomi, rivolgendosi ad un professionista. La tempestività nel riconoscere i primi segnali favorisce l’efficacia della psicoterapia.

 

Dott. Mirco Carbonetti

Psicologo- Psicoterapeuta

 

Bibliografia:

-Corrente A. La sindrome del burnout. Una condizione soggettiva che si trasforma in malattia professionale. Pavia: Atti della Giornata di Studio Fondazione Salvatore Maugeri, 2003.

-Ferdinando Pellegrino F. La sindrome del Burn-out Nuova edizione.  Centro Scientifico Editore. Torino, 2009

-Ripamonti, C. A., & Clerici.Psicologia e salute: introduzione alla psicologia clinica in ambito sanitario. Il mulino 2008.

 

I BENEFICI DI VIVERE CON UN ANIMALE DOMESTICO

Gli animali domestici, che siano cani, gatti, conigli o criceti, spesso e volentieri vengono considerati veri e propri membri della famiglia.

Oltre a tenerci compagnia, gli animali domestici, specie i cani e i gatti, ci regalano molti benefici psicofisici, consentendoci di avere una salute complessivamente migliore.

Ma quali sono davvero i benefici del vivere con un amico a quattro zampe?

1) Uno dei maggiori punti a favore del vivere con un animale domestico è il contrasto alla solitudine: non solo i nostri amici a quattro zampe ci fanno compagnia, ma ci costringono ad essere più attivi, riempiendo la vita anche delle persone più solitarie. Non è un caso che molti studi riportino che avere un animale domestico abbia enormi benefici su chi soffre di depressione: oltre a tenerci compagnia, i nostri animali ci costringono ad una vita più movimentata, basti solo pensare alle passeggiate quotidiane con il cane o al portare il nostro animale domestico dal veterinario, al negozio di animali, ecc. Tutte queste attività diventano spunto per una vita sociale più attiva e possono anche permetterei di stringere nuovi legami e amicizie.
2) Secondo un recente studio, la compagnia di un animale domestico è un valido alleato nellelaborazione del lutto, oltre ad essere un fattore protettivo per la depressione che spesso si sviluppa in seguito alla perdita di una persona cara. Secondo uno studio condotto da Brown nel 2011 il legame che si crea tra lumano e lanimale è assolutamente unico, tanto da poter essere paragonato ad un rapporto genitore-figlio o marito-moglie, stimolando ormoni quali lossitocina e la serotonina, responsabili del buonumore.
3) Altre evidenze scientifiche dimostrano che la vita insieme ad un animale domestico è migliore in quanto aumenta lautostima e il senso di sicurezza e diminuisce significativamente la solitudine, soprattutto tra gli adulti che vivono da soli.
4) Vivere con un animale domestico aiuta anche a ridurre ansia e stress. La sensazione di benessere data dallaccarezzare un cane o un gatto favorisce una serie di processi regolatori del sistema neurovegetativo: rallenta il battito cardiaco e regolarizza la respirazione, producendo un benessere generalizzato. Uno studio effettuato su 249 studenti universitari americani ha rilevato come i contatto quotidiano di soli 10 minuti al giorno con un animale domestico (cane o gatto) riducesse considerevolmente ansia e stress, migliorando la qualità della vita e le prestazioni accademiche.
5) Alcuni studi dimostrano che chi vive a contatto con gli animali ha un sistema immunitario più forte ed è meno soggetto a sviluppare allergie nel corso della vita.
6) Avere un animale domestico ci insegna la responsabilità di prenderci cura di qualcuno che dipende esclusivamente da noi, in tutto e per tutto. Molti studi dimostrano che questo aspetto è importante nello sviluppo dei bambini: crescere con un cane o un gatto implementa le capacità relazionali e lempatia.

Condividere la vita insieme ad un amico a quattro zampe migliora le nostre vite, ci aiuta a regolare le emozioni e ci regala anche molti benefici sulla salute, oltre a sviluppare competenze relazionali ed emotive.

E tu hai un animale domestico? Se si, in che modo ha cambiato la tua vita?

Dott.ssa Totaro Rossella

 

BIBLIOGRAFIA:

Bayram N., Bilgel N. (2008) The prevalence and socio-demographic correlations of depression, anxiety and stress among a group of  university students. Social Psychiatry and Psychiatric Epidemiology, 43 (8), 667-672.
Beetz A., Kerstin U.M., Henri J., Kotrschal K. (2012) Psychosocial and psychophysiological effects of human-animal interactions: the possible role of oxytocin, Front. Psychol., 3, 234.
Carr D.C., Taylor M.G., Gee N.R.& Sachs-Ericsson N. (2019) Psychological Health Benefits of Companion Animal Following a Social Loss. The Gerontologist. Doi:10.1093/geront/gnz1.
Pendry P., Vandagriff J.L. (2019) Animal Visitation Program (AVP) Reduces Cortisol Levels of University Students: A Randomized Controlled Trial, AERA Open, 5(2), 2332858419859.
Protopopova A. (2016) Effects of sheltering on physiology, immune function, behaviour and the welfare of dogs, Pays. Beah., 159, 95-103
Shoda T.E., Stayton L.M., Martin C.E. (2011) Friends with benefits: on the positive consequences of pet ownership, Journ. Pers. Soc. Psychol., 101(6): 1239-52
Settimo G. (2011) Gli animali che curano, Red Edizioni, Milano

L’INTESTINO “CEREBRALE” – L’importanza delle funzioni intestinali per il benessere psicofisico

È sempre più frequente sentir parlare dei cosiddetti due cervelli. Sappiamo realmente a cosa facciamo riferimento e come mai?

Quando parliamo di cervello, la nostra mente si dirige in automatico all’organo collocato nella nostra testa. Ad oggi, la teoria dei “due cervelli” sostenuta scientificamente dal neurobiologo Michael D. Gershon (1998), ci permette di porre attenzione all’importanza dell’asse intestino-cervello, individuando non uno ma ben “due cervelli”.

L’intestino è stato da sempre considerato come una struttura periferica deputata a funzioni vitali marginali come l’assorbimento di sostanze nutritive o la digestione. Le attuali ricerche scientifiche invece, sostengono e dimostrano l’importanza che tale organo avrebbe a livello del nostro sistema immunitario. A differenza di ciò che si possa pensare, l’intestino è l’unico organo, oltre il cervello, ad essere dotato di un vero e proprio sistema nervoso. Si tratta infatti, di quello che viene definito come il sistema nervoso “enterico” che agisce sia autonomamente che in connessione con il primo cervello, quello “cranico”, per intenderci.

L’importanza attribuita al nostro intestino non è legata solo al possedere un proprio sistema nervoso ma anche al fatto che, come il primo cervello, è anch’esso la sede delle nostre emozioni. Entrambi i nostri due cervelli comunicano tra di loro prevalentemente, attraverso il nervo vago, grazie a neurotrasmettitori comuni come la serotonina, nota anche come il neurotrasmettitore della felicità. Per questo motivo, i due cervelli possono influenzarsi a vicenda, sia da un punto di vista emotivo che immunologico.

Tensioni emotive, stress, abitudini di vita scorrette come sedentarietà e una cattiva alimentazione sono, non a caso, spesso associate a problemi della sfera digestiva. La letteratura scientifica internazionale evidenzia che il 20% della popolazione occidentale soffre di disturbi tra cui coliti, spasmi, gonfiore, nausea, bruciori di stomaco, sazietà precoce, distensione addominale, irregolarità della funzione intestinale. Questi sono i sintomi più frequenti associati ai disturbi intestinali che colpiscono in prevalenza la popolazione femminile rispetto a quella maschile, sia in adulti che in bambini o adolescenti e che spesso, non sono correlati a cause organiche evidenti. Tuttavia, non è da tralasciare neanche l’effetto opposto, vale a dire come un intestino in disordine possa portare a sviluppare alcune forme di ansia e di depressione. Alcuni studi recenti infatti, hanno dimostrato che il tratto gastrointestinale svolgerebbe una funzione importante nel riconoscimento di alcuni processi infiammatori. È considerato infatti, la prima barriera con il mondo esterno: il cibo che ogni giorno ingeriamo non è di certo sterile, porta con sè una carica batterica che induce una reazione da parte dei nostri globuli bianchi che sono deputati a riconoscere la presenza di infezioni all’interno del nostro organismo.

Il microbiota, detto più comunemente flora intestinale, ha proprio la funzione di intervenire in questo processo, ostacolando, ad esempio, il proliferare di agenti dannosi per la nostra salute. Inoltre, il microbiota intestinale è capace di comunicare e interagire con il primo cervello. Basti pensare che, quando mangiamo un cibo gustoso, l’intestino attiva i suoi recettori aumentando la produzione di serotonina, il neurotrasmettitore deputato alla felicità e a sensazioni di benessere. La serotonina è coinvolta infatti, in diverse funzioni biologiche fondamentali come il ciclo sonno – veglia, il desiderio sessuale, il senso di fame – sazietà e l’umore. Avere un livello basso di serotonina può infatti, comportare una serie di disturbi correlati all’umore, ansia, stati depressivi, problemi di natura sessuale, problemi del sonno e della motilità intestinale. All’interno dell’asse intestino-cervello, questo neurotrasmettitore svolge un ruolo fondamentale poiché favorisce la comunicazione e l’interazione tra questi due organi. Se pensiamo per esempio, a quando avvertiamo un calo dell’umore, cosa accade dentro ognuno di noi? È molto comune sentire un bisogno crescente di dolci, come ad esempio il cioccolato, alimento non a caso che contiene e favorisce la produzione di serotonina. Secondo lo stesso meccanismo, in presenza di un’infiammazione in sede intestinale, si attiva un enzima che è in grado di demolire la serotonina, causandone di conseguenza, un deficit a livello cerebrale e sensazioni di umore deflesso.

L’intestino inoltre, gioca un ruolo cruciale anche nelle nostre emozioni. Se per un attimo ci soffermassimo ad ascoltarle, potremmo subito notare come paura, rabbia, tristezza, felicità e disgusto abbiano una chiara risonanza nell’intestino. Basti pensare, per esempio, a quando siamo tanto arrabbiati e sentiamo lo stomaco irrigidirsi e attorcigliarsi al punto da avere la sensazione di “stomaco chiuso”, o quando la paura ci muove tutte le viscere, sconbussolandole o ancora, alla sensazione delle “farfalle nello stomaco” quando siamo innamorati. Quando si affronta un periodo di vita particolarmente stressante emotivamente, è possibile avvertire in modo chiaro, fastidi intestinali. Questo accade proprio perché i batteri intestinali possono rispondere ai segnali di stress provenienti dal primo cervello provocando sintomi somatici come bruciore di stomaco, mal di stomaco, nausea o dissenteria.

Secondo M. D. Gershon quindi, il nostro intestino proprio perché  “assimila e digerisce non solo il cibo, ma anche informazione ed emozioni che arrivano dall’esterno” necessità di maggiore ascolto, attenzione e cura.

E come prendersene cura? Uno stile di vita sano è certamente il primo passo per lenire i malesseri che ne possono derivare. Già nella medicina tradizionale, vi era l’idea che le alterazioni della flora microbica intestinale fossero strettamente legate all’insorgenza di alcune malattie e che il cibo fosse da considerare proprio come una buona medicina, come sosteneva lo stesso Ippocrate. Una sana ed equilibrata alimentazione può quindi, esserci di aiuto. È possibile inoltre, prendersi cura del proprio intestino anche praticando attività come la meditazione e lo yoga che permettono di ridurre i livelli di stress che come ormai sappiamo, incidono notevolmente sulla nostra qualità di vita ma anche sul nostro benessere psicofisico.

Dott.ssa Di Piero Antonia

Psicologa – Psicoterapeuta

 

Bibliografia


Gershon D. Michael, Il secondo cervello, titolo originale “The Second Bain: a Groundbreaking New Understanding of Nervous Disorders of the Stomach and Intestine”, UTET S.p.a., 2013

Gershon D. Michael, Serotonin and its implication for the management of irritable bowel syndrome, Rewievs in gastroenterological disorders, 2003; 3 (supp. 2): S25-S34

Giacosa, A (2018) Disturbi digestivi funzionali e stile di vita: il ruolo del sistema nervoso enterico, ovvero del “secondo cervello” in Rivista Società Italiana di Medicina Generale