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Famiglie omogenitoriali ne parliamo con Daniela Vassallo (Famiglie Arcobaleno)

Ho letto la storia tua e di tua moglie, che avete in qualche modo precorso i tempi. Hai voglia di raccontarcela?

Un pochino, ma c’è stato chi prima di noi l’ha fatto. Rispetto alla step child adoption, noi ci eravamo ispirate a quello che stava avvenendo a Roma dove c’erano stati una serie di casi di adozioni in casi particolari, abbiamo quindi tentato di fare anche noi a Torino la stessa cosa. La mancanza di definizioni certe, come succede spesso in giurisprudenza, ci permetteva di avere quello spiraglio attraverso cui provare a passare anche se a noi non è andata bene subito. In prima istanza abbiamo avuto un diniego e poi in appello siamo riuscite ad ottenere l’adozione incrociata perché noi abbiamo partorito, ciascuna di noi, una bimba e abbiamo chiesto di poterle adottare in maniera incrociata.

Tutto l’iter quanto è durato?

Un paio di anni e parecchi soldi. Nonostante le richieste di adozioni in casi particolari possano essere fatte di per sé compilando dei moduli, noi abbiamo dovuto, toccando un ambito così particolare, affidarci a dei legali preparati in materia ed è costato abbastanza, considerando i due gradi di giudizio. Diventa davvero elitaria come procedura.

Da un punto di vista relazionale e simbolico è cambiato qualcosa all’interno del vostro nucleo familiare?

Rispetto alle nostre dinamiche, no. Perché noi per come abbiamo impostato, vissuto e progettato le nostre maternità, eravamo già entrambe madri da subito, da prima ancora che nascessero le bimbe. Certamente però ci ha rasserenato, nel senso che ricordo precisamente il giorno in cui ci diedero l’annuncio; poco dopo vidi mia moglie e la piccola andare via, mano nella mano, le guardai dalle finestra e pensai, finalmente qualsiasi cosa accada da adesso in avanti sono tutelate, adesso forse posso stare un po’ più tranquilla.

A scuola ad esempio noi non abbiamo mai avuto problemi, però il fatto di presentare documenti in cui erano già presenti entrambi i cognomi e non dover pregare per partecipare ai consigli, insomma…un po’ di fatica te la toglie.

 In Italia la legge 40 non riconosce ancora alle coppie omosessuali la possibilità di accedere allo PMA. Qual è l’iter che devono compiere?

Tutte le coppie cercano una clinica all’estero che sia consona all’immaginario o al tipo di percorso che vogliono fare. Che sia più o meno medicalizzata o che risponda ad esigenze di lingua o affinità culturali particolari, ci si rivolge quindi ad un paese piuttosto che ad un altro. Però ti devi comunque mettere nell’ordine di idee di dover andare all’estero, di doverti spostare, di dover calcolare il viaggio in relazione ad i tuoi tempi di fertilità e non ad altre esigenze e che non potrai programmarlo con largo anticipo.

E quali sono le fatiche emotive che le coppie devono affrontare?

Per noi, personalmente è stato poco faticoso, siamo sempre state molto unite, facendo tutto assieme. Dai ritorni che ho da altre coppie la grande fatica è quella ad esempio di voler accompagnare laa tua compagna durante i trattamenti, ma non riuscire a prendere ad esempio le ferie all’ultimo momento. In generale però le fatiche sono tantissime… è vero che quasi tutte le cliniche, sicuramente in Danimarca e Spagna, sono organizzate con ostetriche e dottori che parlano italiano, per cui quando tu vai lì e affronti un percorso così particolare ti puoi affidare a qualcuno che se non altro parla la tua lingua. Però sei comunque in un contesto estraneo, non sei a casa, ti devi sottoporre ad un intervento, e non sei a casa tua, sei un po’ sradicata, non puoi avere vicino la famiglia.

Sono davvero tantissime le fatiche, anche emotive che si sommano a quelle fisiche e all’impatto dei trattamenti sul corpo.

Rispetto al percorso decisionale di avere un figlio quali sono secondo te le difficoltà principali? Penso ad esempio ad aspetti omofobici interiorizzati

Ovviamente ogni coppia e ogni persona è un mondo a sé, per le donne in generale si gioca un aspetto, che è quello del materno che entra in maniera potente in un immaginario di realizzazione esistenziale che devi cercare di combinare con la tua condizione di coppia omosessuale. Questo non sempre è semplice, anche per una omofobia interiorizzata. Rispetto al materno poi lo scontro culturale è, specie in Italia, che si considera che “di mamma ce n’è una sola” per cui spesso al termine del percorso le “madri sociali” fanno fatica a farsi spazio, perché la “madre biologica” fa fatica a lasciare spazio o perché spesso anche le famiglie si inseriscono in queste dinamiche. La famiglia della madre che partorisce riconosce il bambino come il “loro” bambino, mentre l’altra famiglia fa sempre un po’ più fatica, spesso lo definisce “il figlio della tua compagna”. Per raggiungere una situazione di bilanciamento di potere e per sentirsi ugualmente genitore, ci va un grosso lavoro su di sé ed una grossa consapevolezza. Da questo sbilanciamento di potere nascono poi spesso le crisi di coppia che portano a separazioni dolorosissime, spesso violente e per giunta, per le questioni legali di cui parlavamo, con la possibilità di escludere legalmente un genitore oppure di sottrarsi alle proprie responsabilità per l’altro.

In questo si evidenzia il vuoto legislativo che permette il riconoscimento alla nascita di un bambino nato da coppia omosessuale, solo con un atto amministrativo e solo in alcuni Comuni. A Torino, con l’attuale giunta, questo è possibile e nel resto del Piemonte?

Ci sono altri piccoli e grandi Comuni dove questo è possibile, dipende sempre dalla volontà del Sindaco di esporsi sia politicamente che a livello di responsabilità giuridica, perché ci sono state delle sentenze che ad un certo punto hanno un po’ frenato in tutta Italia i Sindaci più intenzionati ad aprire a questa possibilità. Ciononostante alcuni continuano.

 In Piemonte quante sono le famiglie omogenitoriali?

Quelle iscritte a Famiglie Arcobaleno in Piemonte, ma è un dato parziale, sono al momento 150, per la maggior parte donne. Meno di un terzo di questo numero sono di uomini. In realtà, la rappresentatività di questo dato è parziale, la stragrande maggioranza delle famiglie omogenitoriali sono fuori da Famiglie Arcobaleno.

Davvero?

Si, assolutamente. A me capita continuamente di incontrare gente al parco o nei contesti più diversi e scoprire che ho davanti due mamme con figli. Questo mi restituisce, in maniera molto empirica, la dimensione che è un fenomeno ben più ampio.

Una volta nato il bambino, anche in relazione, alla difficoltà di un effettivo riconoscimento del neonato, quali sono le difficoltà che le famiglie riportano?

Dove ci sono Sindaci come la Appendino, quasi nessuno. La difficoltà maggiore l’ha incontrata la prima coppia quando hanno chiesto che venisse riconosciuto il consenso informato firmato nella clinica in Danimarca. Come per le coppie eterosessuali volevano venisse validato il documento dove si assumevano la responsabilità genitoriale nell’affrontare eventuali eventi avversi. Loro volevano far valere questo diritto e sono arrivate, trascorsi 10 giorni, al limite per la riconoscibilità, rischiavano di trasformare loro figlio in apolide, finchè l’ultimo giorno possibile la Appendino è riuscita a trovare il modo amministrativo per far valere questo diritto. Sono stati giorni per Micaela e Chiara di estrema stanchezza e paura, ma anche di profonda determinazione a portare fino in fondo questa battaglia. La più grossa fatica per le coppie è non sapere se il tuo Sindaco ti riconoscerà questa opportunità,

Dalla tua esperienza vengono riportate, se ci sono, delle difficoltà per i bambini?

Per l’esperienza che ho io sia a livello piemontese che nazionale, molto poche, quasi non ne ho sentore. La scuola, che è uno dei contesti che fa più paura a noi grandi, spesso è un contesto in cui le insegnanti stesse si attivano per conoscere, per avere formazione e strumenti per compiere quello che è il loro mandato. Negli ultimi anni questo aspetto positivo della scuola pubblica è stato un po’ inficiato da battaglie politiche che si fanno sulla scuola, per cui è più difficile portare contenuti su cui far lavorare il corpo insegnante e le classi, nel caso di studenti più grandi. Questo però almeno al momento non arriva, non ha ripercussioni sui bambini, anche se è chiaro che se la rappresentazione rimarrà statica e univoca questo avrò delle ripercussioni. Al momento comunque non ho sentore di insegnanti che rifiutano il fatto di trovarsi di fronte ad una famiglia omogenitoriale o di parlare con entrambe le madri o i padri.

Talvolta una delle paure riportate dagli adulti è nel confronto tra pari, che i figli passano essere discriminati dagli altri bambini.

Io penso sia più la cattiveria degli adulti che parla attraverso i bambini. Nella nostra esperienza gli amici e le amiche delle mie figlie al massimo sono stati curiosi. In prima elementare un bambino disse e mia figlia, “ma non è possibile che tu abbia due mamme!”, lei un po’ stupita disse “quando vedi mia mamma prova a chiederglielo”. Lui alla prima festa di compleanno venne a chiedermelo ed io ho spiegato, come potevo ad un bambino di 6 anni, sperando di non urtare la sensibilità dei genitori, come era stata possibile la cosa.

Il problema è anche che per gli adulti ci sono dei temi che sono tabù. Anche se non sono così contrari alle famiglie omogenitoriali, parlare di questo argomento significa anche parlare della riproduzione, della sessualità o di come sono fatti gli esseri umani ed in questo vedo gli adulti tanto spaventati.

Prima parlavi di consapevolezza, dal tuo punto di vista se e in che modo può essere utile alle coppie uno spazio di elaborazione e sostegno emotivo?

Durante il percorso, tantissimo anche per gli sbilanciamenti di cui parlavamo prima. Non c’è solo un modo per essere genitori o di esserlo insieme. Guadagnare consapevolezza attraverso un percorso psicologico farebbe solo bene e poi forse anche dopo il parto, proprio come sostegno familiare. Le famiglie omogenitoriali, purtroppo raramente si sentono sicure nell’andare a chiedere aiuto, anche nelle strutture pubbliche, per paura di trovarsi di fronte a persone con pregiudizi o non preparate alla loro realtà. Per cui alla fine proprio che avrebbe bisogno di un aiuto di qualsiasi tipo spesso non si rivolge ad uno specialista si trova a dover fare tutto da solo.

Credo che anche in questo ambito si inserisca l’attività di Famiglie Arcobaleno, nel non lasciare sole le famiglie.

Famiglie Arcobaleno cerca di dare un sostegno nel fare comunità, anche se non siamo strutturati per fornire servizi di supporto psicologico. Il fare comunità si crea in relazione spesso all’età dei figli; è chiaro che figli di età diverse hanno esigenze diverse e i genitori di conseguenza, anche. Mi ricordo soprattutto quando le bimbe erano piccole c’era bisogno di un rispecchiamento, sia per far vedere alle bambine che non erano le uniche ad avere due madri, ma per sentirci noi meno sole, meno marziane. Vedo che anche adesso le richieste che arrivano in associazione sono di fare comunità, di confrontarsi sulle difficoltà che si incontrano, di condividere le esperienze.

Ti chiedo infine il tuo parere sul DDL Zan e sull’ostracismo che incontra. Che idea ti sei fatta?

Beh, da alcune forze politiche me lo aspetto, per motivazioni più politiche che ideologiche. Ci sono equilibri politici, interessi e questi sono argomenti che servono a smuovere quegli interessi. Per pochissimi penso sia una questione ideologica, come in fondo è successo con la legge sulle unioni civili.

Questo può voler dire che le persone, cosiddette comuni, sono più pronte a parlare di omogenitorialità rispetto alla politica?

Io le persone comuni in generale le trovo molto più pronte, anche soltanto a confrontarsi. È vero che ci sono persone che hanno da un punto di vista valoriale delle resistenze, però si può trovare uno spazio di confronto. È trovarsi di fronte alla complessità della vita reale e imparare a gestirla insieme anche attraverso la relazione e la conoscenza reciproca.

D. Vassallo – Vice Presidente Famiglie Arcobaleno

Dott.ssa Chiara Delia – Psicologa Psicoterapeuta

Flash Technique Sfiorare i ricordi traumatici per elaborarli

La Flash Technique (FT) è una tecnica recente utilizzata per facilitare l’elaborazione di esperienze di vita traumatiche o estremamente dolorose. Inserita all’interno di un percorso di psicoterapia, la FT permette di accedere in modo graduale a quei ricordi che al solo ripensarci, riattivano la stessa
intensità emotiva vissuta al momento del trauma, generando quell’angoscia che si cerca in tutti i modi di allontanare.
La FT si può utilizzare con qualsiasi tipo di pazienti, a prescindere dall’età. È breve e risulta efficace per disturbi come ansia, disturbo ossessivo-compulsivo, dissociazione lieve e depressione (Manfield et al. 2017). La caratteristica distintiva di questa tecnica è mettere il paziente nella condizione di poter elaborare un ricordo altamente disturbante riducendo l’intensità emotiva che tale ricordo genera. Si tratta di “sfiorare” il ricordo senza doverci pensare in modo consapevole.
La FT nasce grazie al tentativo di Philip Manfield di trovare una strategia da inserire nella fase di preparazione dell’EMDR (Eye Movment Desensitization and Reprocessing) vale a dire, all’interno di quel trattamento riconosciuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come efficace per
l’elaborazione di eventi di vita traumatici. L’idea di Manfield era trovare un modo per permettere ai pazienti, durante l’EMDR, di elaborare le proprie memorie traumatiche senza bloccarsi o esserne sopraffatti (Manfield et al. 2017). Per fare questo, P. Manfield si è ispirato alla tecnica della
“Titolazione Abbinata” di Krystyna Kinowski (2003) adattamento a sua volta, dell’esercizio della Pendolazione di Peter Levine. La tecnica della “Titolazione Abbinata” permetteva al paziente di individuare un’immagine positiva (risorsa) per aiutarlo a sentirsi più resiliente, e limitare
l’esposizione al materiale traumatico. Nel protocollo della Kinowski, i pazienti erano invitati a spostarsi ripetutamente dalla risorsa al materiale traumatico e viceversa valutando, se ogni contatto con il ricordo fosse troppo intenso e verificando se il paziente riportava difficoltà nel ritornare
all’immagine-risorsa. Questo movimento veniva eseguito proprio come un pendolo. L’idea di base era quella di “titolare” i ricordi altamente disturbanti, vale a dire avvicinarsi gentilmente, “goccia a goccia” all’esperienza traumatica, per ridurre e contenere l’attivazione emotiva, acquisendo un maggiore senso di efficacia e controllo (P. Levine, 1997).
Con il passare del tempo, P. Manfield osservò che questo tipo di tecnica, associata a delle esposizioni molto brevi ai ricordi traumatici, sembrava accelerare in modo significativo l’elaborazione degli stessi ricordi, riducendone il disturbo. Questa osservazione è ciò che ha poi, determinato il nome stesso della tecnica: “Flash Technique.”
Dagli studi condotti per testare tale ipotesi, P. Manfield ha ipotizzato che i risultati rapidi ottenuti potessero dipendere da tre possibili fenomeni:
1. un’elaborazione “non verbalizzabile” (subliminale) 2. una modificazione del processo di riconsolidamento della memoria 3. essere l’osservatore dell’esperienza Per comprendere meglio l’ipotesi dell’elaborazione “non verbalizzabile”, Manfield ha utilizzato gli studi condotti da P. Siegel dal 2009 sino al 2018 sugli “stimoli non riferibili”.
Dalle ricerche condotte su soggetti aracnofobici, Siegel aveva rilevato che l’esposizione rapida a immagini di ragni, portava ad una diminuzione della risposta di paura. L’essere esposti ad uno stimolo in modo molto rapido infatti, sembrerebbe indurre chi guarda a credere di non aver visto
nulla. Questo tipo di esperienza, rende difficile verbalizzare l’accaduto in quanto non si è pienamente consapevoli. Siegel ha chiamato questa sensazione “osservazione non verbalizzabile”.
Per suffragare tale idea, studi successivi con la risonanza magnetica funzionale, hanno permesso di rilevare che l’amigdala di quei soggetti a cui era stata proiettata l’immagine del ragno così rapidamente, non si era attivata, non mostrando alcuna risposta. L’amigdala è quella parte del nostro
cervello che svolge un ruolo cruciale nella formazione e memorizzazione dei ricordi associati a stati emotivi, elabora le nostre emozioni e le nostre risposte istintive. L’amgidala inoltre, è il nostro rilevatore rapido di pericolo. Ci avverte della presenza di un’eventuale minaccia alla nostra
sopravvivenza. A volte, può capitare che si attivi anche dinanzi ad un pericolo non reale ma a farlo sembrare tale, diventa una sensazione, un’emozione, un pensiero o uno stesso ricordo. Quando l’attivazione diventa intensa può arrivare a disconnettere le nostre funzioni cognitivi. La sede di tali funzioni quindi, dei nostri pensieri, è la corteccia prefrontale che gioca un ruolo importante durante i processi di elaborazione dei ricordi traumatici se particolarmente attiva. Durante l’elaborazione di un evento traumatico, le aree della corteccia prefrontale vengono alterate dall’intensità emotiva generata dal ricordo rievocato, causando sofferenza. Con la FT le aree del cervello che elaborano il trauma possono essere attive senza che il paziente provi alcun disturbo perché esposto al ricordo in modo subliminale. Non essendo consapevole dell’esposizione al ricordo, non riuscirà a riferire ciò che ha visto o sentito e di conseguenza, a non attivarsi particolarmente a livello emotivo. L’obiettivo della FT è far in modo che il paziente acceda al ricordo così velocemente da non consentirgli di riportare un’esperienza verbalizzabile (Manfield et al., 2017).
Per rendere questo possibile, è stato introdotto un aspetto significativo del protocollo di lavoro ovvero, la metafora del “battito d’occhio”, il battito di ciglia, il “Flash”. Durante la fase di preparazione alla FT, quella in cui si spiega al paziente il modo in cui si procederà, il flash viene paragonato ad un dito che passa attraverso una fiamma di una candela. Se fatto rapidamente, non dovrebbe causare alcun dolore (Manfield et al., 2017).
Per avvalorare la FT, Manfield ha utilizzato oltre, all’elaborazione “non verbalizzabile”, anche le teorie del riconsolidamento della memoria vale a dire, la capacità del nostro cervello di modificare specifici apprendimenti emotivi, immagazzinati nella memoria a lungo termine, attraverso una ricodifica (D.J. Wallin, 2007). Ogni volta che pensiamo ad un evento del nostro passato infatti, il ricordo, dopo essere stata rievocato, viene riposizionamento all’interno di uno dei cassetti della nostra mente. Solitamente, un ricordo normale è instabile e viene modificato ad ogni recupero perché influenzato dal contesto e dagli stati emotivi. Questo non è il caso dei ricordi traumatici. Il ricordo traumatico infatti, rimane bloccato nelle reti neurali poiché contrassegnato dal cervello come un ricordo legato alla sopravvivenza e il nostro cervello è programmato per tenere traccia di questo genere di ricordi. Fino agli anni ’80 si riteneva impossibile poter modificare un ricordo traumtico. Oggi sappiamo che non è così grazie proprio alla scoperta di F. Shapiro che è riuscita a dimostrare che con l’EMDR, è possibile elaborare un ricordo traumatico. In questo modo, è possibile lasciare nel passato il passato quindi, sensazioni fisiche spiacevoli, emozioni disturbanti e credenze di sé negative legate al momento del trauma. Questo tipo di elaborazione è stata definita da Bruce Ecker come “cambiamento transformazionale” (Ecker, 2012) .
Secondo B. Ecker e colleghi se l’attenzione viene distolta dall’intensità emotiva generata da quel ricordo specifico, nel momemto in cui tale ricordo verrà riposizionato nella nostra memoria (riconsolidato) non porterà più con sé l’intensità emotiva iniziale. Con molta probabilità, sarà
inferiore all’originale e quindi, meno disturbante (Scarito, 2021).
Ecker et al. (2012) e Lee (2009) inoltre, hanno sottolineato che per rendere efficace un processo di riconsolidamento della memoria è necessario che sia presente un’esperienza contraddittoria ovvero, venga rilevato il cosiddetto “errore di previsione” (Manfield). Per comprendere meglio questo
concetto, immaginiamo una persona che cammina nei boschi e ad un certo punto viene assalita da un lupo. Molto probabilmente si spaventerà. La paura è l’emozione che ci avvisa che siamo di fronte ad un pericolo e serve per attivarci in modo da garantirci la sopravvivenza attraverso la fuga, la
lotta, il freezing o la finta morte. Scampato al pericolo, la sua mente registrerà tale esperienza e di conseguenza, ogni volta che entrerà in un bosco, il suo sistema di allerta sarà attivato in modo da garantirgli la sopravvivenza. Tuttavia, se camminando nei boschi e sentendo dei rumori tra gli alberi
non si spaventerà come la prima volta, il cervello si troverà a dover rivedere il ricordo precedentemente immagazzinato e ricodificarlo a causa di questa incongruenza o meglio, a causa di questo errore di previsione. Con la FT la persona rievoca il ricordo senza essere attivata e questo
rappresenta “un grande errore di previsione” (Menfield).
Infine, l’ultimo fenomeno utilizzato da Manfield, per spiegare i risultati ottenuti con la FT, è quello della posizione dell’osservatore. L’ideatrice dell’EMDR, F. Shapiro ha sostenuto che se si permette al paziente di assumere la posizione dell’osservatore nei confronti del ricordo traumatico, vale a dire rimanere orientato nel presente, si aumenta la sua prospettiva adattiva, e di conseguenza, la sua consapevolezza. Questo tipo di ancoramento aiuta ad evitare di rivivere l’esperienza dolorosa legata all’evento traumatico in quanto, esperienza legata al passato e non più correlata al presente. Il
modello di Shapiro (2019) applicato alla FT rende possibile l’instaurarsi di nuove associazioni tra il ricordo traumatico e l’esperienza adattiva di rielaborazione (Manfield et al. 2017).
Tuttavia, come ogni nuova tecnica, esistono dei limiti. Nonostante la FT sembri ridurre il disturbo, le ricerche hanno evidenziato che potrebbe non elaborare in modo completo i ricordi o non
eliminare del tutto il disturbo correlato al ricordo traumatico. Inoltre, non essendoci una fase di assessment prima di iniziare con l’elaborazione, non è possibile identificare eventuali ricordi generatori che potrebbero bloccare l’elaborazione o potrebbero esserci delle distorsioni cognitive
che, non essendo state identificate in precedenza, non possono essere chiarite. Infine, pazienti altamente dissociativi che hanno bisogno di un maggiore sostegno prima di focalizzarsi sul materiale disturbante, per poter raggiungere uno stato di calma e sicurezza, potrebbero trovare
questa tecnica non efficace (Manfield et al., 2017).
Negli ultimi decenni, si è assistito ad un aumento esponenziale della ricerca nel campo del trauma e dei trattamenti correlati. Ad oggi, nonostante il trattamento per eccellenza, riconosciuto dalla stessa Organizzazione Mondiale della Sanità, resti l’EMDR, l’idea che possano esserci delle tecniche
aggiuntive che possano mettere il paziente nella condizione di rendere più tollerabile e gestibile quello che un’esperienza di vita impattante come il trauma possa avere, è senza dubbio un bene per la collettività clinica che ha come obiettivo l’interesse e la salute dei suoi pazienti.

Dott.ssa Antonia Di Pierro
Psicologa e Psicoterapeuta

Bibliografia
Ecker, B., Ticic, R., Hulley, L. (2012). Sbloccare il cervello emotivo. Eliminare i sintomi alla radice
utilizzando il riconsolidamento della memoria. Franco Angeli.
Kinowski, K. (2003). Put your best foot forward: An EMDRrelated protocol for empowerment using somatosensory and
visual priming of resource experiences.
Lee, J. L. (2009). Reconsolidation: Maintaining memory relevance. Trends in Neurosciences,
Manfield P., Lovet J., Engel L., Manfield D. (2017). Utilizzo della Flash Technique con la Terapia EMDR: Quattro
Casi Clinici
Levine, P. (1997) The Body as Healer; Trasformare il trauma. (tradotto e pubblicato da Macro Edizioni nell’ott. 2002
col titolo “Traumi e shock emotivi).
Scarito, P. (2021). Il riconsolidamento della memoria. Verso un modello unificato di cambiamento in psicoterapia.
Phenomena Journal.
Shapiro, F. (2019). EMDR: il manuale. Principi fondamentali, protocolli e procedure (nuova edizione). Cortino
Raffaello.
Wallin, D.J. (2007). Psicoterapia e teoria dell’attaccamento. Il Mulino.

Fobia dei clown? Non c’è niente da ridere!

Il termine coulrofobia deriva dal greco e fa riferimento alla paura per coloro che camminano su trampoli, anche se oggi è utilizzata tipicamente per descrivere la paura dei pagliacci. Nonostante il pagliaccio sia un personaggio che dovrebbe risultare simpatico, soprattutto ai più piccoli, per taluni invece rappresenta un’entità indefinita e ambigua e, pertanto, in grado di creare turbamento.

Pensare che ci siano persone fobiche rispetto ai clown potrebbe far sorridere qualcuno, tuttavia questa fobia pare avere una certa diffusione tra la popolazione, soprattutto americana e canadese. La maggior parte dei casi registrati riguarda la popolazione in età evolutiva, anche se si registrano casi anche tra adolescenti e giovani adulti.

Del resto, il nostro immaginario letterario e cinematografico è ricco di pagliacci terrificanti e malvagi, che hanno occupato i nostri incubi e si sono nutriti delle nostre inquietudini. Ma da qui si potrebbe aprire una riflessione sull’arte e su come essa inneschi le nostre paure o, al contrario, su come invece le nostre paure siano ispirate dalla realtà e trovino nel racconto artistico una propria rappresentazione.

A tal proposito cito la storia di Jean-Gaspard Deburau (1796-1846), attore teatrale e mimo francese che impersonò Pierrot a partire dal 1826 al Théâtre des Funambules di Parigi. Nel 1836 Deburau uccise con il suo bastone da passeggio un ragazzo che lo aveva insultato per strada: nel processo venne dichiarato innocente, ma l’idea di omicidio iniziò a legarsi alla figura del clown.

Ancora più inquietante è la storia di John Wayne Gacy, pagliaccio intrattenitore in feste per bambini conosciuto come Pogo il clown, che tra il 1972 ed il 1978 uccise 33 ragazzi e fu condannato alla pena di morte.

Le persone che soffrono di coulrofobia fanno fatica a relazionarsi con i clown e talvolta anche soltanto a guardarli, avvertendo una sensazione di angoscia che può sfociare nel panico e che fa da innesco a comportamenti difensivi di fuga da una minaccia percepita. Solitamente tali comportamenti vengono vissuti con vergogna dalla persona, che teme che la sua paura possa venire ridicolizzata dagli altri.

In riferimento al perché la figura del clown sia vissuta in termini così negativi da alcuni soggetti, pare che la coulrofobia derivi dal fatto che non è possibile sapere esattamente cosa c’è sotto il trucco colorato, elemento quindi che produrrebbe incertezza e apprensione nei courlofobici.

Si è inoltre ipotizzato che alla base della fobia ci sia il fenomeno dell’uncanny valley (“valle perturbante”), ossia una condizione emotiva negativa che si presenta quando ci imbattiamo in un soggetto che è quasi, ma non del tutto, umano. Tale fenomeno, descritto inizialmente in riferimento ai robot con sembianze umane, pare essere applicabile anche alle bambole e, appunto, ai clown.

Inoltre, i pagliacci sono nascosti dietro maschere, trucco e costumi e hanno un sorriso perenne che nasconde un’emotività distorta (si può sorridere sempre, anche quando si commettono azioni negative?); di conseguenza, l’origine della fobia può essere trovata nel rifiuto di un personaggio che potrebbe nascondere le sue reali intenzioni.

La courlofobia, al pari delle altre fobie, può essere trattata al fine di ridurre o eliminare l’ansia che il soggetto prova ed impedire che i meccanismi difensivi di fuga vengano agiti. Prima di intervenire sarà necessaria una valutazione psicologica che tenga in conto la presenza di un eventuale trauma che ha interessato il soggetto. Sarà poi lo specialista a proporre il trattamento psicoterapeutico che ritiene più appropriato.

 

Dott. Stefano Lagona – Psicologo Psicoterapeuta

Un affare di famiglia: il viaggio del giovane adulto alla ricerca del proprio posto nel mondo.

royalties free

 

“I tuoi figli non sono figli tuoi, sono i figli e le figlie della vita stessa.

Tu li metti al mondo, ma non li crei.

Sono vicino a te, ma non sono cosa tua.

 Puoi dar loro tutto il tuo amore, ma non le tue idee.

 Tu puoi dare  dimora al loro corpo, ma non alla loro anima, perché la loro anima abita nella casa dell’avvenire dove a te non è dato entrare

 neppure con il sogno….

Tu sei l’arco che lancia i figli verso il domani.”

(Kahlil Gibran, Il Profeta)

 

Ci sono momenti della vita nei quali percorsi personali, formativi ed emotivi sembrano convergere ed entrare in risonanza, fino a scuotere quella “pallida identità” in cui ci rifugiamo. E’ quello che tendenzialmente accade nell’arco temporale che va dai 17 anni ai 30 anni, in questo periodo l’immagine di sé sembra decomporsi come un puzzle, per poi andare incontro ad una nuova riconfigurazione, a volte inconsapevole, a volte travagliata, che conduce ad una nuova forma nella direzione dell’autonomia. Questo salto maturativo non riguarda solo il singolo, ma l’intero sistema familiare e sarà proprio quest’ultimo a traghettare oppure al contrario, ad ostacolare questo cambiamento.

 

Negli anni ‘70, Haley ha definito “ciclo di vita della famiglia”, il percorso naturale per tappe che ciascuna famiglia segue nel corso della sua esistenza, individuando le seguenti tappe: dalla coppia al matrimonio, dalla nascita dei figli alla crescita, dallo svincolo all’invecchiamento [1]. Il passaggio alla tappa successiva comporta grande stress per l’individuo e il sistema; proprio in questi “scalini evolutivi” possono quindi crearsi ostacoli che impediscono la crescita e lo sviluppo, portando alla comparsa di sintomi,  e difficoltà, sia personali che relazionali che nella società odierna trovano espressione nello stereotipo culturale del giovane adulto disinteressato e svogliato che preferisce non lasciare il nido familiare.

Ma siamo davvero sicuri che dipenda tutto dai nostri giovani?

Da un punto di vista psicologico, il momento evolutivo caratterizzato da una maggiore criticità è il passaggio di individuazione e svincolo dalla famiglia d’origine; soprattutto oggi in cui i cambiamenti della società, hanno portato ad allungare i tempi (tanto che si parla di “post-adolescenza”e di “famiglia lunga del giovane adulto”) e a rendere ancora più lento e complicato un passaggio, prima veloce e spontaneo [2]. Non tutte le famiglie trovano da sole le risorse per far fronte a un periodo critico di grande cambiamento come  lo svincolo dei figli dal sistema familiare, spesso nelle famiglie più rigide, poco comunicative e con grandi difficoltà di separazione, il processo si interrompe e il sistema si blocca. Come dice Canevaro,  “la mancanza di armonia tra le generazioni e la presenza di certi blocchi evolutivi, impediscono la trasmissione dei sistemi di valori attraverso le persone” [3].

Nella fase di svincolo, può accadere che i genitori non riescano a favorire l’evoluzione naturale di questa fase e, piuttosto che riorganizzarsi per facilitare la crescita e l’autonomia dei propri figli, accettando di rimanere da soli e di dedicare del tempo a se stessi e al coniuge, vivono con fatica questo periodo di transizione.

Haley scrive: “Ogni famiglia può attraversare un periodo piuttosto critico quando i figli iniziano ad andarsene e le conseguenze che ne derivano possono essere diverse. Quando i figli se ne vanno o si accingono a farlo, i genitori devono ristabilire un rapporto a due, risolvere adeguatamente i loro conflitti e comportarsi in modo tale da consentirgli di avere un proprio  partner, una propria professione e una propria indipendenza. In questo periodo possono emergere difficoltà coniugali legate al fatto che i genitori si accorgono di non avere più niente da dirsi e di non avere più niente in comune perché per anni non si sono parlati di altro che della loro prole” [1].

L’appartenenza, l’autonomia, l’identità, il soddisfacimento dei bisogni e la protezione sono i  principali compiti che una famiglia ha  nei confronti dei propri figli, a questi compiti Minuchin ne aggiunge uno, forse  il più importante: la capacità dei genitori di “lasciar andare” il proprio figlio nel mondo senza aver  paura di perderlo [4].

È Proprio questa  paura di “perdita” che si riflette negli occhi dei giovani-adulti in attesa di compiere il salto finale, rendendo questa stagione della vita ancora più mutevole ed imprevedibile. Come “chi non è più, ma non è ancora”, si concentrano sugli snodi più significativi dell’esperienza umana: il dramma della scelta, la necessità di cambiare, la paura di farlo [5] in attesa di intraprendere insieme ai genitori, questo  lungo e complesso processo di separazione e individuazione. Lasciar andare i figli, probabilmente, porta molti genitori a fare i conti con alcuni aspetti della coppia coniugale, lasciati da molto tempo in sospeso, questo genera la comparsa del sintomo tendenzialmente nel giovane-adulto e rende l’autonomia ancora più difficile. L’adattamento ai bisogni dei genitori conduce spesso, ma non sempre, allo sviluppo della personalità “come se” e il vero sé non può formarsi né svilupparsi, perchè non può essere vissuto. Haley, ci ricorda come, nell’adolescente -giovane adulto, il sintomo in sé ha una doppia valenza: da una parte afferma l’autonomia e dall’altra lo porta a rimanere in casa con i genitori, quindi da un lato aumenta la dipendenza e dall’altro favorisce l’evitamento della sindrome del nido vuoto [6].

Affinché lo svincolo avvenga, i figli hanno bisogno di vedere con i propri occhi che mamma e papà si fidano di lui e lo lasciano andare. Per Bowlby “la possibilità di esperire dei genitori incoraggianti, supportivi e cooperativi, fornisce al ragazzo un senso del proprio valore personale, una fiducia nelle disponibilità degli altri e un modello adeguato su cui costruire le relazioni future. Inoltre, la possibilità di esplorare l’ambiente esterno con fiducia, ed interagire efficacemente con esso, facilita lo sviluppo di un senso di competenza” [7].  Il nuovo nido che si andrà a costruire, ha bisogno di ancorarsi saldamente sul vecchio per  accogliere il nuovo e  per poter resistere alle intemperie della vita.

Ad oggi sono aumentate le possibilità di sperimentarsi da soli, molto spesso i figli scelgono di intraprendere il percorso universitario lontano da casa, di convivere con la persona amata,  oppure di trasferirsi lontano per lavoro, un tempo, il matrimonio sanciva lo svincolo dalla famiglia d’origine.

I processi di trasformazione del nostro sistema sociale evidenziano ormai la difficoltà ad utilizzare le fasi del ciclo di vita pensate da Haley senza rivederne alcuni dei punti teorici di base. Nel 2013, Bertin sostituisce la visione lineare di sviluppo dell’esistenza, pensiamo al trentenne di qualche decennio fa (per lui era abbastanza scontato uscire di casa, trovare un lavoro, sposarsi, avere figli e andare in pensione a 60 anni), con una visione di tipo “ricorsivo”. Le difficoltà di evoluzione del sistema, non sono più specifiche delle singole fasi della vita, vedi la fase di svincolo, ma legati ad eventi critici che possono essere ricorsivi e ripresentarsi più volte lungo il corso della vita (ad esempio il quarantenne che perde il lavoro e torna a vivere con i genitori, dovendo ricontrattare spazi di convivenza e autonomia tipici della fase dello svincolo) [8]. In quest’ottica le dinamiche familiari presentano un processo a spirale nel quale i “momenti” che ne segnano i cambiamenti (la nascita della coppia, i figli, la loro uscita, la separazione..) si possono presentare più volte nella vita di una persona, implicando la costruzione di nuovi e differenti legami.

 

Dr.ssa Angela Giampalmo

BIBLIOGRAFIA

  1. Haley J. Terapie non comuni. Tecniche ipnotiche e terapia della famiglia. Roma: Astrolabio, 1973.
  2. Scabini E, Donati P. La famiglia “lunga” del giovane adulto. Studi interdisciplinari sulla famiglia 1988.
  3. Canevaro A. Quando volano i cormorani. Roma: Edizioni Borla, 2010.
  4. Minuchin S, Rosman BL, Baker L. Famiglie psicosomatiche. Roma: Astrolabio 1980.
  5. Petrone L, Troiano M. Adolescenza e disagio. Roma:Editori Riuniti, 2001.
  6. Haley J. Il distacco dalla famiglia. Roma: Astrolabio, 1983.
  7. Bowlby J,. Attaccamento e perdita, vol 3: La perdita della madre. Torino:Boringhieri 1983.
  8. Bertin, G. Welfare regionale in Italia. Politiche sociali: studi e ricerche, 2013.

Depressione: l’altro lato che non ci aspettiamo

Tristezza, malinconia, senso di vuoto, mancanza di energie, apatia, sono solo alcuni dei sintomi tradizionalmente associati alla depressione.

Senza banalizzare o semplificare l’argomento, e senza alcuna pretesa di esaustività, mi piacerebbe portare una riflessione su una differente prospettiva da cui guardare alla depressione.

Innanzitutto, è bene precisare che per ragioni di brevità e chiarezza espositiva, non saranno qui menzionati e differenziati i diversi disturbi depressivi come descritti nel DSMV, che si presentano con caratteristiche diagnostiche specifiche, ma si parlerà della sofferenza depressiva cosi come è generalmente intesa e che fa riferimento al Disturbo Depressivo Maggiore.

Nella sua accezione classica e tradizionale, il disturbo depressivo è concepito in termini sostanzialmente negativi, comprensibilmente peraltro, vista la sintomatologia con cui si presenta e attraverso cui viene diagnosticato: umore depresso, perdita di interesse e piacere per la maggior parte delle attività, stanchezza e mancanza di energia, sentimenti di autosvalutazione, diminuita capacità di concentrazione, ricadute negative sull’alimentazione e sul sonno, pensieri negativi, ecc… Un dolore che va a intaccare spesso la stessa voglia di vivere….La persona che soffre di depressione è una persona che prova una sofferenza profonda, un malessere subdolo e invalidante, che limita e si ripercuote negativamente sulla capacità della persona di vivere la sua vita, le sue relazioni, il suo lavoro, la sua quotidianità. La stessa etimologia della parola Depressione, che deriva dal latino deprimère, (de-premo, premere, schiacciare), ossia “premere verso il basso”, “schiacciare a terra”, rimanda a qualcosa che opprime, abbatte, schiaccia…

A partire dalle precedenti considerazioni, e senza minimizzare la sofferenza vissuta dalla persona, esiste la possibilità di guardare alla depressione da un punto di vista diverso e complementare? Una prospettiva altra che non tolga riconoscimento, dignità e rispetto ai vissuti individuali e strettamente soggettivi, ma che cerchi invece di dar loro un senso e un significato più profondo e complesso e che possa, infine, rivelarsi, utile strumento di comprensione e forse di via d’uscita?

Innanzitutto, è opportuno distinguere tra stato d’animo o umore temporaneamente negativo e depressione: la tristezza o un umore basso fanno parte della vita di tutti i giorni, solo se divengono persistenti nel tempo e limitanti la vita quotidiana e le capacità di funzionamento dell’individuo possono far pensare ad uno stato depressivo.

Un’adeguata riflessione sul tema deve inoltre partire dal considerare che non esiste un unico tipo di depressione, né tutte le forme di depressione sono equivalenti, per cui si può impostare un trattamento analogo per tutti: questo è un aspetto da rilevare ogniqualvolta ci troviamo di fronte a un disagio, fisico o psicologico. Ogni persona è unica, unico è il vissuto e quindi unica e specifica dovrebbe essere la presa in carico. Non si deve dimenticare che ciò che fa la differenza è l’esperienza, umana, della persona che abbiamo di fronte.

Ho trovato molto significativo, a tal proposito, il contributo di Luigi Cancrini, noto psichiatra e psicoterapeuta di formazione psicoanalitica e sistemica. Egli sostiene che la depressione è un sintomo, non una malattia, il cui significato va ricercato ed esplorato prima di “curarlo” ed eliminarlo (Cancrini, 2003).

Questo concetto si collega, se vogliamo, alla più ampia riflessione sulle emozioni e sul loro significato: ogni emozione ha diritto di cittadinanza, anche quelle che siamo soliti definire emozioni “negative”c’’è una validissima ragione se proviamo quello che proviamo in una data situazione, e questo vale anche per la tristezza, così pesantemente presente in chi soffre di depressione. Da un certo punto di vista, la tristezza stimola la capacità riflessiva, una sorta di “chiusura” in se stessi, allo scopo di riflettere, sebbene faticosamente, sugli eventi accaduti, su ciò che ci manca e per noi è importante; un ripiegamento che consente di preservare e recuperare energie, aiuta a comprendere che c’è qualcosa che non va e ci spinge a ricercare la vicinanza con l’altro significativo.

E nella depressione accade che lo sguardo della persona viene rivolto all’interiorità, prendendo quasi le distanze dall’esterno, per portare l’attenzione dentro di sé, nella profondità del proprio mondo interiore, per liberarci da ciò che ci imprigiona, per ri-costruire e re-inventare se stessi, come sostiene James Hillman: “…Eppure è attraverso la depressione che entriamo nelle profondità, e nelle profondità troviamo l’anima. La depressione è essenziale al senso tragico della vita […]. (Essa) Dà rifugio, confini, centro, gravità, peso e umile impotenza […].La vera rivoluzione comincia nell’individuo che sa essere fedele alla propria depressione. Che non si dibatte per uscirne, […], ma che scopre invece la coscienza e le profondità di cui essa ha bisogno. Così ha inizio la rivoluzione per il bene dell’anima.”. (Hillmann, 1992).

Cancrini sostiene che la depressione è sempre una reazione patologica ad un lutto non elaborato, laddove per lutto non s’intende esclusivamente la perdita di una persona cara, ma un accadimento che ha comportato la perdita di qualcosa di valore per la persona: un lavoro, una relazione sentimentale, un progetto, un ruolo, o parte della propria identità, un cambiamento significativo. Un dolore non raccontato, non espresso in una relazione significativa, che dunque non ha trovato ascolto, accoglienza, comprensione. E che sovente si accompagna ad altri sentimenti, come lo sconcerto e la rabbia. (Cancrini, 2003).

Sempre lo stesso autore, infatti, riportando la sua esperienza clinica, ci dice che molto spesso la depressione diventa una sorta di maschera dietro cui si nascondono altri vissuti, in particolare di rabbia e aggressività, che se lasciati emergere, nel momento in cui vengono espressi  e gradualmente significati, consentono alla depressione stessa di andare pian piano sullo sfondo ( Cancrini, 2003).

Entro certi limiti, la depressione può dunque essere intesa come una reazione sana, se spinge a riflettere sugli eventi, a ricercare le possibili cause scatenanti: un ripiegamento su di sé utile per recuperare forze e risorse, per domandarsi cosa non sta funzionando, e dunque cosa si può fare per trovare sollievo al proprio dolore. Questa considerazione, tra l’altro, permette anche di contrastare la visione della depressione come  un disturbo cronico. Secondo Cancrini la cronicità è legata all’intervento solo sintomatico, avulso da un’esplorazione più complessa e profonda del significato, anche relazionale, della depressione.

E qui, dunque, troviamo un  punto molto importante nell’approccio alla depressione, vale a dire individuare i possibili aspetti scatenanti la sofferenza, prendere coscienza di ciò che è accaduto, dargli voce e riconoscimento: quali sono gli eventi drammatici accaduti? Quali sentimenti hanno generato? E che relazione c’è con il contesto relazionale significativo della persona?

Spesse volte poi in terapia sono le stesse persone che raccontano come durante  i momenti bui, emergano domande profonde, quali “Cosa non mi piace della mia vita? Se mi guardo intorno, cosa non mi soddisfa?”: e queste domande rappresentano un utile punto di partenza per indagare e approfondire le radici della sofferenza, i nodi drammatici che si sono verificati, e per far gradualmente emergere i vissuti sottostanti e nascosti,  insieme forse a nuovi desideri e possibilità.  Questo è un processo che va realizzato all’interno di un “luogo sicuro”, qual è il contesto terapeutico, in cui il terapeuta accompagna la persona nell’esplorazione di quei contenuti profondi, spesso nascosti alla coscienza, supportando al contempo l’espressione delle emozioni e dei vissuti dolorosi, e lasciando emergere il possibile risvolto e significato ‘adattivo’ della situazione.

 

Dr.ssa Katia Querin

Bibliografia

Cancrini L., “Date parole al dolore”, Frassinelli 2003.

Hillman J., “Re-visione della psicologia”, Adelphi 1992.

 

Circolo della Sicurezza – Parenting (COS-P® ): programma online di sostegno alla genitorialità

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Il Circolo della Sicurezza – Parenting (COS-P®) è un programma esperienziale di sostegno alla genitorialità che ha come obiettivo quello di aiutare e sostenere i genitori nella relazione con i propri figli.

Vivere comporta affrontare sfide e rispondere a richieste: fisiche, emotive e di performance proprie e altrui. Diventare genitori comporta una sfide non indifferente in una società dove la coppia genitoriale tende ad essere l’unica a rispondere alle esigenze del proprio figlio. Talvolta i nonni e gli zii sono lontani, o non disponibili perché occupati lavorativamente o nelle loro famiglie. Le recenti ricerche rilevano come le famiglie abbiano sperimentato e continuino a sperimentare fatica e difficoltà nella gestione dei propri figli, non solo da un punto di vista comportamentale ma anche emotivo. La sensazione di sentirsi persi, di fronte a comportamenti sentiti come problematici, è sempre più frequente.

Il Circolo della Sicurezza – Parenting si basa su oltre cinquant’anni di ricerche volte a sostenere e rafforzare le relazioni sicure fra genitori e figli, promuovendo una lettura che vada al di là dei soli comportamenti manifesti. Si tratta della possibilità di leggere con nuove lenti, quei bisogni e quelle emozioni che a volte, bambini e/o adolescenti “urlano” nei modi più impensabili.

 

A chi è rivolto?

Il programma COS-P® è indicato per tutti coloro che vogliono capire meglio i bisogni dei propri figli per rispondervi in modo adeguato. È pensato per genitori in coppia, single, adottivi e affidatari.

 

Cosa aspettarsi?

Il COS-P®  è  un programma di psicoeducazione di tipo esperienziale, condotto da un terapeuta appositamente formato nel modello del Circolo della Sicurezza – Parenting e da un facilitatore.

Grazie all’utilizzo di video e schede di osservazione, i partecipanti verranno aiutati a identificare le emozioni più critiche che i propri figli possono provare in alcuni momenti e come queste, se non adeguatamente riconosciute, possono interferire nel rapporto con loro. L’obiettivo è quello di promuovere e sostenere una buona capacità di osservazione che li aiuti a comprendere, con nuove lenti,  tutti quei comportamenti che, il più delle volte, possono apparire tanto incomprensibili quanto “strani” o “problematici”, ma che in realtà nascondono un bisogno specifico più profondo.

I partecipanti avranno inoltre, l’occasione di riflettere su se stessi, per diventare maggiormente consapevoli delle proprie modalità di essere genitore e di come queste possono influire nel modo di essere in relazione con i propri figli. Avranno anche la possibilità di riflettere su quello che per loro risulta essere più critico e di come riconoscere le “rotture” all’interno del rapporto, per poterle “riparare”.

L’obiettivo finale è quindi, quello di valorizzare e rafforzare le competenze genitoriali di accudimento in modo da  promuovere una relazione genitore-figlio il più possibile sicura e armoniosa.

Quando si svolgerà il corso?

Il programma COS-P® prevede 8 incontri di gruppo della durata ciascuno di 90 minuti che si terranno in modalità telematica e a cadenza settimanale. Gli incontri saranno il giovedì dalle 18-30 alle 20 a partire dal 22 aprile fino al 17 giugno.

Gli incontri saranno online su piattaforma Zoom

È previsto un incontro gratuito di presentazione il 15 aprile alle 18.30 . Per partecipare bisogna prenotarsi inviando una mail a ecoassociazione@gmail.com

Partecipanti:

Massimo 4 coppie per un totale di 8 partecipanti.

A seguito dell’incontro di presentazione e delle adesioni pervenute, si cercherà di creare un gruppo che tenga conto dell’età dei propri figli, in modo da renderlo il più omogeneo possibile.

 Costo

Il costo per l’intero corso (12 ore) è di 150 euro per un genitore, 250 euro per la coppia genitoriale, a cui vanno aggiunti 10 euro a testa per le spese di segreteria

 

Per informazioni e iscrizioni:

Dott.ssa Antonia Di Pierro cell. 3665069361

ecoassociazione@gmail.com

LA DIPENDENZA AFFETTIVA Caratteristiche e una possibile distinzione tra legami sani e disfunzionali

Nella vita c’è molta sofferenza,

e forse l’unica sofferenza che si può evitare è

la sofferenza di cercare di evitare la sofferenza

(Ronald David Laing)

 

Ai giorni d’oggi, si sente spesso parlare di “Dipendenza Affettiva” ma sappiamo bene cosa indica questo termine? È l’amore irrefrenabile e romantico “con qualche spiacevole imprevisto”? Quali esperienze di una persona provocano maggiormente il rischio di sviluppare una dipendenza affettiva?

La Dipendenza Affettiva viene classificata tra le “New Addiction” ovvero tra le nuove dipendenze comportamentali che non hanno come destinatario una sostanza chimica esterna al soggetto ma hanno un oggetto o persona con cui viene stabilita una dinamica psicopatologica di esclusività di legame come ad esempio la dipendenza da internet, la dipendenza sessuale, il gioco d’azzardo patologico, la dipendenza dallo sport, shopping compulsivo e la dipendenza dal lavoro.

La Dipendenza affettiva sembra essere il risultato di un irrigidimento pervasivo e disfunzionale delle caratteristiche naturali di una relazione amorosa, caratterizzato da: desiderio compulsivo, impegno ossessivo e una certa perseveranza di comportamenti problematici, caratteristiche generalmente presenti nelle dipendenze comportamentali.

Essa è definibile quindi come uno stato patologico in cui la relazione di coppia è vissuta come condizione unica, indispensabile e necessaria per la propria esistenza nonostante causi del malessere psicologico e/o fisico.

Esaminando il concetto di dipendenza, è importante dire che una certa quota di dipendenza è inevitabile in ogni singolo essere umano, sarebbe impossibile il contrario poiché siamo inevitabilmente dipendenti dai nostri familiari, da eventi esterni e da tutto ciò che non possiamo controllare e che in vario modo influenza la conduzione della nostra esistenza.

Ancor più in una relazione sentimentale ovvero in una storia d’amore, un certo grado di dipendenza sana dal partner diviene parte integrante della relazione stessa, specie nelle prime fasi dell’innamoramento caratterizzate non solo da intensi sentimenti di simbiosi, euforia, condivisione intima, intensa affiliazione verso il partner ma anche da un certo grado di idealizzazione (il partner è visto come “perfetto e infallibile”). Il desiderio di dipendenza, nelle relazioni ideali, viene meno con lo stabilizzarsi del rapporto e viene in gran parte sostituito nei partner da una piacevole percezione di autonomia.

Ci si potrebbe chiedere allora qual è lo spartiacque tra una relazione affettiva-sentimentale sana e una rigida-disfunzionale? Come poter capire se la quota di dipendenza presente nella coppia risponde ad un bisogno sano e psicofisiologico della stessa oppure ad un bisogno autoreferenziale e malsano da eccessivo potere e controllo sull’altro?

Un possibile e generico criterio per individuare un legame patologico, qual è la dipendenza affettiva, potrebbe essere rappresentato proprio dall’eccessiva rigidità e pervasività degli aspetti di dipendenza spesso presenti assieme alla connotazione di assoluta necessità e impellenza degli stessi, per i quali non sembra poter esserci nessun tipo di compromesso o via di mezzo.

In una relazione disfunzionale l’individualità di ogni partner viene annullata dai bisogni e desideri dell’altro facendo venir meno la capacità di percepirsi e di conseguenza rispettarsi come individui separati e autonomi ovvero di conservare la propria individualità riconoscendo l’altro nella sua diversità, configurando quella che definiamo appunto una Dipendenza affettiva o Love Addiction.

Essa ha origini nell’infanzia poiché le persone dipendenti spesso compensano un senso di vuoto esistenziale che deriva dall’aver esperito spiacevolmente la separazione nell’infanzia seguita da un pervasivo senso di impotenza non elaborato nelle fasi di sviluppo successive (Caretti, La Barbera, 2009).

Il passaggio da una relazione sana ad una relazione disfunzionale (premesso che ci sia e che la relazione patologica non nasca a volte come tale in origine) ha in realtà una genesi multifattoriale poiché sono innumerevoli le variabili che ritroviamo come un legame di attaccamento nell’infanzia con il caregiver di tipo insicuro-ambivalente ovvero figure di riferimento presenti ma in modo intermittente e scostante con, a volte, un’inversione dei ruoli tra bambino adultizzato e un genitore-bambino (Borgioni, 2015).

Di conseguenza, da adulti imparano che per poter ricevere l’amore dell’altro (idealizzato), è necessario controllarlo in modo ossessivo e instaurare con lui una simbiosi emotiva che permetta di sopravvivere psichicamente, simbiosi nella quale l’idea dell’abbandono è terrorizzante.

Proprio la paura dell’abbandono di conseguenza starebbe alla base delle azioni di controllo del partner attraverso la richiesta di comportamenti di sacrificalità, eccessivo accudimento e nel pensiero (a volte quasi ossessivo) che la relazione rimanga stabile e duratura.

Robin Norwood in “Donne che amano troppo” (1985), sottolinea i fattori emotivi e le modalità tipiche di pensiero in comune delle donne dipendenti: la trascuratezza emotiva durante l’infanzia, la mancanza di un affetto stabile e sicuro a cui fare riferimento nei momenti di difficoltà e soprattutto la tendenza a ri-attribuirsi nella propria vita di coppia un ruolo simile a quello vissuto con i genitori in passato.

Spesso si ritrovano sensazioni di inadeguatezza, di non amabilità ovvero la mancanza di dignità nel ricevere amore, la tendenza a colpevolizzarsi e a leggere il comportamento del partner come informazioni su se stessi (<<Mi tratta così perché ho sbagliato>>) e non sull’altro (<<Mi tratta così perché lui è sgarbato/aggressivo…>>) nonché una certa consapevolezza cognitiva (ma non emotiva) delle conseguenze negative.

Questa relazione è priva di mutualità dal punto di vista affettivo (poiché sono i bisogni dell’altro ad essere centrali) e vedono spesso come partner del “dipendente affettivo” personalità egocentriche e anaffettive (spesso narcisisti) che pongono richieste affettive esagerate e tendono poi a confermare, nell’altro partner, la credenza di non essere degni d’amore.

Ricordiamo che la Dipendenza Affettiva riguarda appunto una dinamica duale e non di un singolo individuo, benché possa partire ed essere maggiormente alimentata da un solo partner.

Se hai riscontrato in te e/o nella tua situazione passata o attuale qualche aspetto descritto nell’articolo, non esitare a contattare l’Associazione Eco per poter intraprendere un percorso psicoterapeutico nel quale fare maggior chiarezza sulla propria relazione sentimentale e sul grado di soddisfazione della stessa.

Il trattamento psicoterapeutico in questi casi può incrementare:

  • Un processo di comprensione delle motivazioni sottostanti la dipendenza;
  • La rielaborazione delle esperienze negative permettendo la creazione di nuovi legami affettivi più costruttivi;
  • Migliorare la propria competenza assertiva e di autodeterminazione per apprendere come esprimere i propri bisogni senza timore e di conseguenza avere una maggiore consapevolezza, autostima e auto-efficacia.

Dr. ssa Maria Grazia Esposito Psicologa Psicoterapeuta

 

BIBLIOGRAFIA:

– Borgioni, M. (2015). Dipendenza e contro-dipendenza affettiva. Roma Alpes Italia.
– Caretti, La Barbera (2009), Le nuove dipendenze. Diagnosi e clinica. Carocci editore.

– Robin Norwood (1985), Donne che amano troppo. Feltrinelli.

 

TRADIMENTO: UNA FERITA CHE PUO’ GUARIRE

“Un tradimento uccide soltanto gli amori già morti.

Quelli che non uccide a volte diventano immortali.”

MASSIMO GRAMELLINI

 

 

 

 

Il concetto di “tradimento” era già presente nella lingua latina del XII secolo e con tale termine s’intende l’atto e il fatto di venir meno a un dovere o un impegno morale o giuridico di fedeltà e di lealtà.

Da sempre il mondo ha visto alternarsi traditori e traditi, e di questo la storia insegna, ma quando si parla di tradimento all’interno di relazioni affettive ci si sente sempre disarmati e vulnerabili.

Per quanto si tratti di un’esperienza molto comune è altrettanto temuta e mette a dura prova relazioni e matrimoni, determinando spesso conseguenze devastanti.

Quando diventiamo uditori di storie di tradimenti, inevitabilmente attiviamo una comprensione, una vicinanza emotiva verso la “vittima”, e il traditore diventa bersaglio di sguardi (e spesso anche di critiche) di disapprovazione, di disgusto e di disprezzo.

È facile “sintonizzarsi” con chi ha subito un atto di questo tipo e lasciamo in ombra l’altro partner, ignorando  la sua sofferenza.

Proviamo ad addentrarci meglio in queste delicate dinamiche, ma per farlo proviamo a sospendere il giudizio. Teniamo ben presente che il tradimento non avviene mai per caso, non compare dal nulla. Sebbene  da molti viene definito come “un fulmine a ciel sereno” o una “doccia fredda”, portando uno sguardo analitico alle relazioni è possibile cogliere segnali che lo anticipano.

Tra questi sicuramente si delinea la scarsa capacità dei coniugi di gestire i conflitti generando liti sempre più furiose o silenzi sempre più strazianti. Entrambe le modalità contribuiscono ad aumentare la distanza tra i partner e, confrontandosi sempre meno su ciò che pensano, si trovano negli anni ad essere estranei, a non sapere più cosa l’altro pensi.

Oltre la distanza emotiva si verifica una perdita di quegli apprezzamenti che tengono viva la relazione, per lasciare spazio, invece, alle critiche che nel tempo diventano sempre più pungenti: il partner viene messo sempre più nell’ombra, aumentano i confronti con gli altri e, come un cancro, l’intimità ne viene colpita fino a venirne distrutta completamente.

Chi viene tradito porta su di sé una profonda ferita e il tipo di sofferenza può venir paragonato, a tutti gli effetti, a quella di chi soffre di un disturbo da stress post-traumatico (PTSD). Chi viene tradito risulta essere iper vigilante, sospettoso e controllante. La loro mente viene invasa da pensieri e immagini del partner con l’amante (flashback) e appaiono emotivamente instabili, alternando rabbia, dolore e panico che aprono le porte a momenti depressivi.

E quando il partner tradito decide di voler andare oltre al tradimento e rimettere in piedi la relazione, ecco che si innesca un percorso ancora più faticoso: la fase dell’espiazione.

Le scuse che il traditore può rivolgere al partner spesso non bastano, c’è bisogno che vengano ripetute più e più volte, richiedendo anche settimane o mesi. É necessario ricostruire la fiducia che è venuta a mancare e per poterlo fare occorre trasparenza: il partner tradito ha l’esigenza di ricevere risposte alle innumerevoli domande che si hanno sulla relazione extraconiugale e il traditore deve garantire sincerità.

In questa fase è necessario però evitare qualsiasi dettaglio sui rapporti sessuali avvenuti tra il partner e l’amante per non alimentare nel partner tradito l’immaginazione visiva che lo bloccherebbe nel suo PTSD. D’altro canto il partner tradito dovrebbe evitare critiche e disprezzo verso il coniuge poiché andrebbe a minacciare la possibilità di venire ascoltato.

La rabbia è lecita, ma deve venir comunicata evitando attacchi diretti.

La fase dell’espiazione è una fase molto delicata: le scuse se vengono espresse prematuramente rischiano di essere inefficaci; c’è la necessità che il dolore del partner tradito debba venir accolto e compreso dal coniuge che ha tradito per riuscire ad andare oltre.

La seconda fase prende il nome di sintonizzazione e può prendere il via solo quando le domande del partner tradito sono esaurite, quando ci si sente di non aver più nulla da chiedere. Questa è la fase che permette di andare oltre il tradimento e di focalizzarsi sui problemi presenti all’interno della relazione. Ovviamente si tratta di problemi che erano già presenti nella relazione.

È proprio questo il momento in cui ci si accorge che “ci vogliono due persone perché il matrimonio entri in crisi” (J. S. Gottman n e J. M. Gottman).

In questa fase è necessario aprire le porte alla possibilità di “un secondo matrimonio”, di una relazione con nuovi presupposti. L’obiettivo infatti è aiutare i partner a sintonizzarsi con i bisogni dell’altro, ad accogliere in modo empatico i vissuti e i sentimenti altrui.

Quando la gestione dei conflitti tra i coniugi migliora, riprendendo a conoscersi meglio e condividendo nuovi modi di entrare in contatto, è possibile passare, allora, alla terza fase: l’attaccamento.

In quest’ultima fase deve far ritorno anche un’intimità fisica, probabilmente annullata quando il tradimento aveva  distrutto la fiducia nell’altro.

Se la Psicoterapia ti permette di “toccare con mano” il cambiamento, tutto questo appare ancora più evidente quando si lavora con le coppie.

“Le persone impegnate in una relazione possono cambiare. Talvolta hanno bisogno di venire a conoscenza di possibili alternative alle proprie antiche pratiche distruttive” (J. S. Gottman n e J. M. Gottman).

 

 

Bibliografia:

“Dieci principi per una terapia di coppia efficace” di J. S. Gottman n e J. M. Gottman, Raffaello Cortina Editore, 2019

Dr.ssa Sonia Allegro

So cosa fai, so dove sei e so cosa provi.

Il titolo di questo articolo potrebbe sembrare una minaccia personale, o il sottotitolo di una serie tv inquietante, ma invece parleremo dei neuroni specchio.

Spesso le scoperte sono frutto di un lungo e lento lavoro di ricerca, altre volte della casualità, come fu per la scoperta  della penicillina da parte di Fleming e dei neuroni specchio, appunto.

All’inizio degli anni novanta alcuni esperimenti effettuati all’Università di Parma diedero risultati sorprendenti. ISi scoprì che i micro elettrodi (sono elettrodi che monitorano l’attività anche di singoli neuroni) impiantati nel cervello di una scimmia si attivavano in zone diverse del cervello anche se l’attività svolta era la stessa: prendere qualcosa. Altre volte lo stesso neurone si attivava invece per movimenti di muscoli differenti. Si cominciò ad intravedere una logica quando si capì che a determinare l’attivazioni dei neuroni era lo scopo dell’azione. Per esempio posso afferrare un anello per vederlo meglio, o per grattarmi: l’azione è la stessa, ma lo scopo differente, quindi si attivano neuroni differenti.

In un laboratorio i micro elettrodi impiantati nel cervello di una scimmia, che si attivavano quando essa portava il cibo alla bocca, cominciarono ad emettere il suono corrispondente a questa azione anche quando la scimmia era ferma. Come spiegare questo evento visto che non c’era nessun mal funzionamento degli elettrodi, o del software? I neuroni che si attivavano quando essa mangiava, si attivavano anche quando stava ferma, ma vedeva un altro individuo compiere quell’azione!

Data la capacità di questi neuroni di attivarsi quando “riflettevano” le azioni di altri vennero chiamati neuroni specchio.

Studiando il cervello umano si è visto che i neuroni specchio sono presenti anche in esso. C’è però un’importante differenza tra esseri umani e primati non umani: le azioni intransitive (senza uso di oggetti, ma mimate) attivano i neuroni specchio solo negli esseri umani. I gesti simbolici infatti (per esempio fare il gesto ok con le dita) fanno parte soprattutto del nostro repertorio motorio. Ma questi neuroni si accendono anche quando si sente descrivere un’azione, o si legge di essa.

Gli scienziati si sono chiesti come mai la capacità di comprendere le azioni altrui si è affermata nel corso dell’evoluzione. La risposta è che comprendere perché gli altri agiscono in un certo modo può fare la differenza tra il sopravvivere, o il diventare il pasto di un predatore.

Questi neuroni non solo ci dicono cosa l’altro sta facendo, ma anche perché lo sta facendo, grazie alla capacità di elaborare informazioni spaziali, cioè sanno dove siamo e dove sono gli altri (persone o oggetti).

Una persona che ci osserva muoverci riesce quindi a sapere cosa stiamo facendo, perché lo stiamo facendo, dove lo stiamo facendo e anche cosa stiamo provando mente lo facciamo.

Il modo in cui si fa una cosa: velocità dell’azione, fluidità, precisione, forza, traiettoria ed altro, ci danno informazioni su cosa la persona sta provando. Lavare una tazza lentamente e con precisione, piuttosto che velocemente e sbattendola sul ripiano dà al nostro cervello informazioni sullo stato emotivo, che possiamo riconoscere se anche noi ci siamo sentiti così nella vita.

Il funzionamento dei neuroni specchio sono alla base quindi dell’empatia.

Essi sono coinvolti anche nell’apprendimento per imitazione e del linguaggio? Come si è evoluto il linguaggio?

Per avere queste risposte e per approfondire le scoperte inerenti questi neuroni potete leggere Nella mente degli altri, neuroni specchio e comportamento sociale di Rizzolatti e Vozza, edito da Zanichelli. Un libro denso di informazioni, ma semplice e scorrevole da leggere, cosa che distingue i libri della collana Chiavi di lettura di Zanichelli.

Dr.ssa Luigina Pugno

LA PANDEMIA HA RESO I NOSTRI RAGAZZI HIKIKOMORI?

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Questo termine, derivante dalla lingua giapponese, si sta diffondendo negli ultimi mesi in modo spesso improprio e sommario per descrivere l’atteggiamento di ritiro sociale e attaccamento alla rete che i nostri adolescenti stanno manifestando a seguito dei forzati lockdown e della didattica a distanza, resasi indispensabile per contenere la pandemia.

Ma l’accostamento del termine “hikikomori” a questa descrizione situazionale crea confusione sul reale significato di questa parola e sul fenomeno che descrive.

Qual è dunque il reale significato di questo termine?

"Hikikomori" è un termine giapponese che significa letteralmente "stare in disparte" e viene utilizzato clinicamente per descrivere il comportamento di chi decide di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi (da alcuni mesi fino a diversi anni), rinchiudendosi nella propria abitazione, senza aver nessun tipo di contatto diretto con il mondo esterno, talvolta nemmeno con i propri genitori.

Inizialmente, quando negli anni ‘90 lo psichiatra Tamaki Saito (1998) iniziò ad indagare in modo più approfondito il fenomeno, sembrava essere una sindrome culturale esclusivamente giapponese, tuttavia con il passare del tempo ci si è resi conto che il fenomeno sembra più vicino ad un disagio adattivo sociale che riguarda tutti i paesi economicamente sviluppati del mondo.

Si è infatti rapidamente diffuso anche in Corea e Cina ed è approdato negli Stati Uniti intorno all’inizio del nuovo millennio (Block, 2008).

E’ un comportamento che insorge frequentemente nella fascia di età tra i 14 e i 25 anni, anche se, negli ultimi anni, sta coinvolgendo un crescente numero anche di giovani adulti. In Giappone il fenomeno ha contato nel 2018 circa 1 milione di casi.

Il termine Hikikomori è stato tradotto in modo più internazionale, sempre da Saito, in “Social withdrawal”, una condizione sociale più ad ampio spettro, caratterizzata prevalentemente da sentimenti di solitudine, isolamento, ritiro dalla società e dalle relazioni interpersonali. Un mettersi in disparte sostituendo il tempo della relazione con un tempo trascorso in isolamento totale, concedendosi soltanto l’utilizzo di internet, di fumetti o video giochi: è un ritiro dalla società, è un rifugiarsi nella solitudine. Tuttavia, paradossalmente, questi giovani interagiscono virtualmente in modo molto attivo con l’esterno: attraverso un apparente rifiuto della vita reale essi compiono il loro atto di difesa dal mondo che sta fuori, facendo diventare la propria stanza l’unico spazio di realtà vivibile, inaccessibile a chiunque, come rappresentazione di un riparo da difendere a tutti i costi.

Spesso tendono ad invertire il ritmo giorno-notte, ad addormentarsi al mattino dopo ore trascorse a guardare la tv, a leggere, a giocare ai videogames o a chattare on line durante la notte.

Ma perché a un certo punto del loro percorso di sviluppo alcuni ragazzi decidono di ritirarsi dalla vita sociale e scelgono una modalità di silenziosa sopravvivenza virtuale?

Diversi psicoterapeuti descrivono alcune emozioni riscontrate in modo ricorrente durante i colloqui con i giovani Hikikomori: paura, ansiarabbia e vergogna.

Questi ragazzi riportano vissuti di continua inadeguatezza, che li spinge a ritirarsi dal confronto con gli altri, per evitare di sperimentare costantemente un senso di frustrazione e di sconfitta.

Il Giappone è sicuramente, attualmente, il paese più colpito in assoluto e la ragione principale va ricercata nell’alta competizione che pervade tutti i suoi contesti sociali, da quelli scolastici a quelli lavorativi, e nella tolleranza di fenomeni come il bullismo, dove essere esclusi dal gruppo non viene letto come una vittimizzazione, bensì con il significato di aver fallito socialmente poiché  la cooperazione e l’adesione a norme condivise rimangono un valore aggiunto in una società collettivistica come quella giapponese. Al bullismo infatti, non viene attribuito affatto il significato di un’ingiustizia subita dalla persona, anzi, viene interpretato piuttosto come un mostrarsi outsider rispetto al gruppo dei pari, per via della propria non conformità, accrescendo il proprio senso di inadeguatezza.

Ed è proprio nel senso di fallimento sociale che sono da rintracciare le cause profonde di questo fenomeno: dove si crea un gap tra il proprio sé ideale e la realtà si insinuano le paure di fallire, di deludere gli altri, di perdere tempo e, come conseguenza, un forte senso di vergogna di sé.

Molti adolescenti, nella società moderna occidentale si  trovano oggi a fare i conti con idee grandiose rispetto al proprio sé, con aspettative enormi ed ideali di perfezione, che in parte la società propone come modelli a cui aspirare, in parte le famiglie d’origine sostengono come ambizioni da perseguire, proprio per questa ragione il fenomeno hikikomori ha varcato i confini dell’Arcipelago.

Inoltre, entrando più nello specifico, dai numerosi studi che sono stati condotti in Giappone per comprendere se esistesse una multifattorialità di cause all’origine del manifestarsi di questo protratto rifiuto sociale, oltre ad una cultura sociale di ipercompetitività, sono emersi diversi aspetti significativi. Da un punto di vista psicologico, si sono studiate innanzitutto le variabili familiari legate a relazioni disfunzionali di tipo invischiato e la copresenza nelle figure di attaccamento di disturbi psicopatologici associati, come ad esempio la depressione o disturbi d’ansia. Questi ragazzi sono in genere figli unici di sistemi familiari in cui risulta carente la presenza emotiva del padre e un attaccamento molto invischiato con la figura materna. Hanno genitori che, in modo differente, faticano a relazionarsi con il figlio, il quale spesso rifiuta qualsiasi tipo di aiuto.

Sono ragazzi con una particolare sensibilità: questa caratteristica, spesso non identificata come una risorsa, e di conseguenza non declinata come una competenza,  rappresenta per loro una fragilità, in quanto crea difficoltà nell'instaurare relazioni soddisfacenti e durature, li rende impreparati ad affrontare con efficacia le inevitabili difficoltà e delusioni che la vita riserva. Per questa ragione diventano inibiti socialmente, seppur dotati di una estrema intelligenza.

Da un punto di vista sociologico, invece, si sono indagati soprattutto i fattori legati al particolare sistema culturale giapponese, basato sul confucianesimo, e all’avere un atteggiamento di anomia sociale e di rifiuto verso le severe regole morali e sociali su cui si basa la tradizione giapponese. L’ipotesi che ne è scaturita ha confermato quindi che questi giovani, pressati dai valori sociali basati sull’estremo perfezionismo e sulla tendenza a voler sempre primeggiare sia a scuola che al lavoro, non si sentano all’altezza degli standard loro richiesti e preferiscano privarsi della libertà pur di evitare di affrontare una realtà quotidiana che avvertono come opprimente.

La compresenza di più fattori di rischio aumenta in genere il numero di ambiti in cui il ragazzo riscontra difficoltà, portandolo ad una  crescente demotivazione nel confrontarsi con la vita sociale, fino a un vero e proprio rifiuto della stessa. Viene messo in atto un meccanismo di evitamento, un rifiuto ad affrontare le problematiche e un conseguente ritiro in un luogo che trasmette protezione: la casa, nello specifico la propria stanza: questi ragazzi nei casi più gravi non si recano neanche più in cucina per consumare i pasti ed escono dalla propria stanza da letto giusto per recarsi in bagno e mantenere una minima igiene personale.
La reclusione appare l’unica soluzione, l’unico strumento per manifestare il proprio dissenso o il proprio disagio rispetto ad un gruppo e alle sue norme. 

Tale interpretazione sembrerebbe confermata anche dalle testimonianze di tanti giovani ex Hikikomori che, in genere, dichiarano di essere nauseati da tutto, soprattutto dal fatto che il loro modo di vedere le cose e la società non corrisponde alle attese, tanto da sentire di non avere altra scelta oltre al “rinchiudersi” (Secher, 2002).

La letteratura ci insegna come l’identità dell’adolescente si struttura grazie a diversi elementi, tra cui fondamentale importanza assumono l’adesione o la critica di norme sociali e regole dettate dalla famiglia e dalla società e il rispecchiamento e l’identificazione nel gruppo dei pari. Gli adolescenti Hikikomori, interrompendo questo legame con la società e con il gruppo, è come se si chiamassero fuori dal percorso adolescenziale, indispensabile però per il passaggio alla vita adulta. E’ molto complicato pertanto per questi ragazzi riuscire a strutturare una propria identità e spesso preferiscono adeguarsi ad identificarsi con l’”etichetta” che la società gli fornisce, descrivendo il loro fenomeno esistenziale, seppur in termini negativi.

Sovente viene anche erroneamente attribuita loro una dipendenza da internet, indicata come una delle principali cause scatenanti del fenomeno, essa invece rappresenta più una possibile conseguenza dell'isolamento che una causa: utilizzare la rete è l’unico mezzo con cui questi ragazzi possono restare in contatto con il mondo esterno ed è anche una delle poche attività praticabili nel tempo libero chiusi nelle quattro mura della propria cameretta. Il fenomeno è infatti scoppiato in Giappone ben prima della diffusione del personal computer e della rete. Questo significa che prima che esistesse internet l'isolamento degli hikikomori era totale. Da questo punto di vista, l'utilizzo del web può essere interpretato come un fattore positivo, in quanto consente ai ragazzi di continuare a coltivare delle relazioni sociali e interessi che altrimenti sarebbero loro preclusi.
Il fenomeno va pertanto distinto dall’abuso tecnologico o da altre forme patologiche, anche se, dobbiamo evidenziarne un elemento comune: si sceglie una vita virtuale che sostituisce in pieno il reale ( L.T. Pedata, M. Interlandi, 2012). Il senso di vergogna sperimentato nel contatto con l’altro, in rete viene placato, anche se non completamente. La dimensione del gruppo sulla piattaforma virtuale crea un senso di appartenenza e di accettazione immediata che non sembra essere caratterizzato dai tempi e dalle regole più severe a cui sottostanno i gruppi nella realtà quotidiana  (Lavenia 2012).

Quello che la letteratura ci suggerisce pertanto è che i ragazzi hikikomori, seppur in una situazione di fragilità emotiva, scelgono di evitare il mondo e di ritirarsi, motivo per cui siamo portati a propendere per il fatto che sia errato assimilare la situazione dei nostri adolescenti durante la pandemia a questo fenomeno. Gli adolescenti in questi mesi, in tutto il mondo, si sono trovati costretti ad adeguare la loro relazionalità all’impossibilità di uscire di casa e di frequentare la scuola. E’ possibile che alcuni ragazzi, già precedentemente all’insorgere della pandemia, avessero delle fragilità relazionali e che la costrizione a restare a casa sia stata vissuta come un sollievo anziché un obbligo da rispettare, ma per la maggior parte dei ragazzi la rete è stata vissuta come la risorsa indispensabile per mantenere un minimo di socialità e normalità. Possiamo concludere che sarà opportuno occuparsi di queste fragilità se in qualche ragazzo l’isolamento perdurerà anche con il terminare dell’emergenza sanitaria, quando la nostra socialità e la nostra relazionalità potranno tornare ad essere fatte di realtà non virtuale.

Dottoressa Consuelo Aringhieri