Categoria: <span>Uncategorized</span>

So cosa fai, so dove sei e so cosa provi.

Il titolo di questo articolo potrebbe sembrare una minaccia personale, o il sottotitolo di una serie tv inquietante, ma invece parleremo dei neuroni specchio.

Spesso le scoperte sono frutto di un lungo e lento lavoro di ricerca, altre volte della casualità, come fu per la scoperta  della penicillina da parte di Fleming e dei neuroni specchio, appunto.

All’inizio degli anni novanta alcuni esperimenti effettuati all’Università di Parma diedero risultati sorprendenti. ISi scoprì che i micro elettrodi (sono elettrodi che monitorano l’attività anche di singoli neuroni) impiantati nel cervello di una scimmia si attivavano in zone diverse del cervello anche se l’attività svolta era la stessa: prendere qualcosa. Altre volte lo stesso neurone si attivava invece per movimenti di muscoli differenti. Si cominciò ad intravedere una logica quando si capì che a determinare l’attivazioni dei neuroni era lo scopo dell’azione. Per esempio posso afferrare un anello per vederlo meglio, o per grattarmi: l’azione è la stessa, ma lo scopo differente, quindi si attivano neuroni differenti.

In un laboratorio i micro elettrodi impiantati nel cervello di una scimmia, che si attivavano quando essa portava il cibo alla bocca, cominciarono ad emettere il suono corrispondente a questa azione anche quando la scimmia era ferma. Come spiegare questo evento visto che non c’era nessun mal funzionamento degli elettrodi, o del software? I neuroni che si attivavano quando essa mangiava, si attivavano anche quando stava ferma, ma vedeva un altro individuo compiere quell’azione!

Data la capacità di questi neuroni di attivarsi quando “riflettevano” le azioni di altri vennero chiamati neuroni specchio.

Studiando il cervello umano si è visto che i neuroni specchio sono presenti anche in esso. C’è però un’importante differenza tra esseri umani e primati non umani: le azioni intransitive (senza uso di oggetti, ma mimate) attivano i neuroni specchio solo negli esseri umani. I gesti simbolici infatti (per esempio fare il gesto ok con le dita) fanno parte soprattutto del nostro repertorio motorio. Ma questi neuroni si accendono anche quando si sente descrivere un’azione, o si legge di essa.

Gli scienziati si sono chiesti come mai la capacità di comprendere le azioni altrui si è affermata nel corso dell’evoluzione. La risposta è che comprendere perché gli altri agiscono in un certo modo può fare la differenza tra il sopravvivere, o il diventare il pasto di un predatore.

Questi neuroni non solo ci dicono cosa l’altro sta facendo, ma anche perché lo sta facendo, grazie alla capacità di elaborare informazioni spaziali, cioè sanno dove siamo e dove sono gli altri (persone o oggetti).

Una persona che ci osserva muoverci riesce quindi a sapere cosa stiamo facendo, perché lo stiamo facendo, dove lo stiamo facendo e anche cosa stiamo provando mente lo facciamo.

Il modo in cui si fa una cosa: velocità dell’azione, fluidità, precisione, forza, traiettoria ed altro, ci danno informazioni su cosa la persona sta provando. Lavare una tazza lentamente e con precisione, piuttosto che velocemente e sbattendola sul ripiano dà al nostro cervello informazioni sullo stato emotivo, che possiamo riconoscere se anche noi ci siamo sentiti così nella vita.

Il funzionamento dei neuroni specchio sono alla base quindi dell’empatia.

Essi sono coinvolti anche nell’apprendimento per imitazione e del linguaggio? Come si è evoluto il linguaggio?

Per avere queste risposte e per approfondire le scoperte inerenti questi neuroni potete leggere Nella mente degli altri, neuroni specchio e comportamento sociale di Rizzolatti e Vozza, edito da Zanichelli. Un libro denso di informazioni, ma semplice e scorrevole da leggere, cosa che distingue i libri della collana Chiavi di lettura di Zanichelli.

Dr.ssa Luigina Pugno

LA PANDEMIA HA RESO I NOSTRI RAGAZZI HIKIKOMORI?

photo royalties free

Questo termine, derivante dalla lingua giapponese, si sta diffondendo negli ultimi mesi in modo spesso improprio e sommario per descrivere l’atteggiamento di ritiro sociale e attaccamento alla rete che i nostri adolescenti stanno manifestando a seguito dei forzati lockdown e della didattica a distanza, resasi indispensabile per contenere la pandemia.

Ma l’accostamento del termine “hikikomori” a questa descrizione situazionale crea confusione sul reale significato di questa parola e sul fenomeno che descrive.

Qual è dunque il reale significato di questo termine?

"Hikikomori" è un termine giapponese che significa letteralmente "stare in disparte" e viene utilizzato clinicamente per descrivere il comportamento di chi decide di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi (da alcuni mesi fino a diversi anni), rinchiudendosi nella propria abitazione, senza aver nessun tipo di contatto diretto con il mondo esterno, talvolta nemmeno con i propri genitori.

Inizialmente, quando negli anni ‘90 lo psichiatra Tamaki Saito (1998) iniziò ad indagare in modo più approfondito il fenomeno, sembrava essere una sindrome culturale esclusivamente giapponese, tuttavia con il passare del tempo ci si è resi conto che il fenomeno sembra più vicino ad un disagio adattivo sociale che riguarda tutti i paesi economicamente sviluppati del mondo.

Si è infatti rapidamente diffuso anche in Corea e Cina ed è approdato negli Stati Uniti intorno all’inizio del nuovo millennio (Block, 2008).

E’ un comportamento che insorge frequentemente nella fascia di età tra i 14 e i 25 anni, anche se, negli ultimi anni, sta coinvolgendo un crescente numero anche di giovani adulti. In Giappone il fenomeno ha contato nel 2018 circa 1 milione di casi.

Il termine Hikikomori è stato tradotto in modo più internazionale, sempre da Saito, in “Social withdrawal”, una condizione sociale più ad ampio spettro, caratterizzata prevalentemente da sentimenti di solitudine, isolamento, ritiro dalla società e dalle relazioni interpersonali. Un mettersi in disparte sostituendo il tempo della relazione con un tempo trascorso in isolamento totale, concedendosi soltanto l’utilizzo di internet, di fumetti o video giochi: è un ritiro dalla società, è un rifugiarsi nella solitudine. Tuttavia, paradossalmente, questi giovani interagiscono virtualmente in modo molto attivo con l’esterno: attraverso un apparente rifiuto della vita reale essi compiono il loro atto di difesa dal mondo che sta fuori, facendo diventare la propria stanza l’unico spazio di realtà vivibile, inaccessibile a chiunque, come rappresentazione di un riparo da difendere a tutti i costi.

Spesso tendono ad invertire il ritmo giorno-notte, ad addormentarsi al mattino dopo ore trascorse a guardare la tv, a leggere, a giocare ai videogames o a chattare on line durante la notte.

Ma perché a un certo punto del loro percorso di sviluppo alcuni ragazzi decidono di ritirarsi dalla vita sociale e scelgono una modalità di silenziosa sopravvivenza virtuale?

Diversi psicoterapeuti descrivono alcune emozioni riscontrate in modo ricorrente durante i colloqui con i giovani Hikikomori: paura, ansiarabbia e vergogna.

Questi ragazzi riportano vissuti di continua inadeguatezza, che li spinge a ritirarsi dal confronto con gli altri, per evitare di sperimentare costantemente un senso di frustrazione e di sconfitta.

Il Giappone è sicuramente, attualmente, il paese più colpito in assoluto e la ragione principale va ricercata nell’alta competizione che pervade tutti i suoi contesti sociali, da quelli scolastici a quelli lavorativi, e nella tolleranza di fenomeni come il bullismo, dove essere esclusi dal gruppo non viene letto come una vittimizzazione, bensì con il significato di aver fallito socialmente poiché  la cooperazione e l’adesione a norme condivise rimangono un valore aggiunto in una società collettivistica come quella giapponese. Al bullismo infatti, non viene attribuito affatto il significato di un’ingiustizia subita dalla persona, anzi, viene interpretato piuttosto come un mostrarsi outsider rispetto al gruppo dei pari, per via della propria non conformità, accrescendo il proprio senso di inadeguatezza.

Ed è proprio nel senso di fallimento sociale che sono da rintracciare le cause profonde di questo fenomeno: dove si crea un gap tra il proprio sé ideale e la realtà si insinuano le paure di fallire, di deludere gli altri, di perdere tempo e, come conseguenza, un forte senso di vergogna di sé.

Molti adolescenti, nella società moderna occidentale si  trovano oggi a fare i conti con idee grandiose rispetto al proprio sé, con aspettative enormi ed ideali di perfezione, che in parte la società propone come modelli a cui aspirare, in parte le famiglie d’origine sostengono come ambizioni da perseguire, proprio per questa ragione il fenomeno hikikomori ha varcato i confini dell’Arcipelago.

Inoltre, entrando più nello specifico, dai numerosi studi che sono stati condotti in Giappone per comprendere se esistesse una multifattorialità di cause all’origine del manifestarsi di questo protratto rifiuto sociale, oltre ad una cultura sociale di ipercompetitività, sono emersi diversi aspetti significativi. Da un punto di vista psicologico, si sono studiate innanzitutto le variabili familiari legate a relazioni disfunzionali di tipo invischiato e la copresenza nelle figure di attaccamento di disturbi psicopatologici associati, come ad esempio la depressione o disturbi d’ansia. Questi ragazzi sono in genere figli unici di sistemi familiari in cui risulta carente la presenza emotiva del padre e un attaccamento molto invischiato con la figura materna. Hanno genitori che, in modo differente, faticano a relazionarsi con il figlio, il quale spesso rifiuta qualsiasi tipo di aiuto.

Sono ragazzi con una particolare sensibilità: questa caratteristica, spesso non identificata come una risorsa, e di conseguenza non declinata come una competenza,  rappresenta per loro una fragilità, in quanto crea difficoltà nell'instaurare relazioni soddisfacenti e durature, li rende impreparati ad affrontare con efficacia le inevitabili difficoltà e delusioni che la vita riserva. Per questa ragione diventano inibiti socialmente, seppur dotati di una estrema intelligenza.

Da un punto di vista sociologico, invece, si sono indagati soprattutto i fattori legati al particolare sistema culturale giapponese, basato sul confucianesimo, e all’avere un atteggiamento di anomia sociale e di rifiuto verso le severe regole morali e sociali su cui si basa la tradizione giapponese. L’ipotesi che ne è scaturita ha confermato quindi che questi giovani, pressati dai valori sociali basati sull’estremo perfezionismo e sulla tendenza a voler sempre primeggiare sia a scuola che al lavoro, non si sentano all’altezza degli standard loro richiesti e preferiscano privarsi della libertà pur di evitare di affrontare una realtà quotidiana che avvertono come opprimente.

La compresenza di più fattori di rischio aumenta in genere il numero di ambiti in cui il ragazzo riscontra difficoltà, portandolo ad una  crescente demotivazione nel confrontarsi con la vita sociale, fino a un vero e proprio rifiuto della stessa. Viene messo in atto un meccanismo di evitamento, un rifiuto ad affrontare le problematiche e un conseguente ritiro in un luogo che trasmette protezione: la casa, nello specifico la propria stanza: questi ragazzi nei casi più gravi non si recano neanche più in cucina per consumare i pasti ed escono dalla propria stanza da letto giusto per recarsi in bagno e mantenere una minima igiene personale.
La reclusione appare l’unica soluzione, l’unico strumento per manifestare il proprio dissenso o il proprio disagio rispetto ad un gruppo e alle sue norme. 

Tale interpretazione sembrerebbe confermata anche dalle testimonianze di tanti giovani ex Hikikomori che, in genere, dichiarano di essere nauseati da tutto, soprattutto dal fatto che il loro modo di vedere le cose e la società non corrisponde alle attese, tanto da sentire di non avere altra scelta oltre al “rinchiudersi” (Secher, 2002).

La letteratura ci insegna come l’identità dell’adolescente si struttura grazie a diversi elementi, tra cui fondamentale importanza assumono l’adesione o la critica di norme sociali e regole dettate dalla famiglia e dalla società e il rispecchiamento e l’identificazione nel gruppo dei pari. Gli adolescenti Hikikomori, interrompendo questo legame con la società e con il gruppo, è come se si chiamassero fuori dal percorso adolescenziale, indispensabile però per il passaggio alla vita adulta. E’ molto complicato pertanto per questi ragazzi riuscire a strutturare una propria identità e spesso preferiscono adeguarsi ad identificarsi con l’”etichetta” che la società gli fornisce, descrivendo il loro fenomeno esistenziale, seppur in termini negativi.

Sovente viene anche erroneamente attribuita loro una dipendenza da internet, indicata come una delle principali cause scatenanti del fenomeno, essa invece rappresenta più una possibile conseguenza dell'isolamento che una causa: utilizzare la rete è l’unico mezzo con cui questi ragazzi possono restare in contatto con il mondo esterno ed è anche una delle poche attività praticabili nel tempo libero chiusi nelle quattro mura della propria cameretta. Il fenomeno è infatti scoppiato in Giappone ben prima della diffusione del personal computer e della rete. Questo significa che prima che esistesse internet l'isolamento degli hikikomori era totale. Da questo punto di vista, l'utilizzo del web può essere interpretato come un fattore positivo, in quanto consente ai ragazzi di continuare a coltivare delle relazioni sociali e interessi che altrimenti sarebbero loro preclusi.
Il fenomeno va pertanto distinto dall’abuso tecnologico o da altre forme patologiche, anche se, dobbiamo evidenziarne un elemento comune: si sceglie una vita virtuale che sostituisce in pieno il reale ( L.T. Pedata, M. Interlandi, 2012). Il senso di vergogna sperimentato nel contatto con l’altro, in rete viene placato, anche se non completamente. La dimensione del gruppo sulla piattaforma virtuale crea un senso di appartenenza e di accettazione immediata che non sembra essere caratterizzato dai tempi e dalle regole più severe a cui sottostanno i gruppi nella realtà quotidiana  (Lavenia 2012).

Quello che la letteratura ci suggerisce pertanto è che i ragazzi hikikomori, seppur in una situazione di fragilità emotiva, scelgono di evitare il mondo e di ritirarsi, motivo per cui siamo portati a propendere per il fatto che sia errato assimilare la situazione dei nostri adolescenti durante la pandemia a questo fenomeno. Gli adolescenti in questi mesi, in tutto il mondo, si sono trovati costretti ad adeguare la loro relazionalità all’impossibilità di uscire di casa e di frequentare la scuola. E’ possibile che alcuni ragazzi, già precedentemente all’insorgere della pandemia, avessero delle fragilità relazionali e che la costrizione a restare a casa sia stata vissuta come un sollievo anziché un obbligo da rispettare, ma per la maggior parte dei ragazzi la rete è stata vissuta come la risorsa indispensabile per mantenere un minimo di socialità e normalità. Possiamo concludere che sarà opportuno occuparsi di queste fragilità se in qualche ragazzo l’isolamento perdurerà anche con il terminare dell’emergenza sanitaria, quando la nostra socialità e la nostra relazionalità potranno tornare ad essere fatte di realtà non virtuale.

Dottoressa Consuelo Aringhieri

Quando il passato ritorna prepotente nel nostro presente: la solitudine come patto di lealtà

“Non esiste nessuno a cui piaccia la solitudine. E’ solo che odio le delusioni” 

Haruki Murakami

Le ricerche sull’attaccamento e sulla relazione madre-bambino, dimostrano quanto, per ciascuno di noi, sia importante creare relazioni con gli altri. Fondamentalmente è la relazione con l’altro a determinare la nostra identità (Bowlby, 1989; Bartels & Zeki, 2004).

Il processo di individualizzazione si fonda sul bisogno di appartenenza e di differenziazione.

L’appartenenza è il bisogno del bambino di appartenere e riconoscersi nella sua famiglia d’origine.  Con la crescita, il ragazzo prima e l’adulto poi, sentirà la necessità di appartenere non solo al suo nucleo d’origine, ma anche di appartenere al contesto sociale in cui vive (Bateson,1977). L’uomo, costruendo la propria rete di relazioni interpersonali, riuscirà a definire così, il proprio sé e l’altro da sé.

Per Hawkly e Cacioppo (2010), il bisogno di appartenenza è coinvolto nello sviluppo dell’intersoggettività: “il senso di connessione sociale funziona come un’impalcatura per il sé; se si  danneggia l’impalcatura, il sé inizierà crollare”.

Il bisogno di differenziazione permette il raggiungimento della propria individualità.  La ricerca di relazioni interpersonali appaganti e durature all’interno di un contesto sociale più ampio, porterà  ciascuno di noi a sentirci parte integrante di un tutto e contemporaneamente a mantenere la nostra indipendenza e individualità.

Appartenenza e differenziazione pur assolvendo a funzioni differenti sono la spinta motivazionale a creare relazioni, orientando così il nostro comportamento, le nostre emozioni e i nostri pensieri (Liotti & Farina, 2011). 

Perché ci sentiamo soli? Innanzitutto, è importante distinguere tra solitudine e isolamento.

La solitudine è infelicità, può rappresentare un tratto distintivo della persona o essere  una risposta transitoria a circostanze esterne come lutti, rotture o cambiamenti. Non richiede un necessario isolamento fisico ma piuttosto un’assenza di vicinanza, di contatto, un grado di intimità desiderata che non sempre si è in grado di raggiungere nonostante il contesto sia favorevole.

Non tutti sono stati accompagnati in modo stabile dalla solitudine, ma più o meno tutti da posizioni e prospettive diverse hanno dimostrato una particolare sensibilità nel percepire “muri e ostacoli” tra le persone, sensazioni di isolamento e invisibilità.

La solitudine è l’esperienza di sentirsi separato dagli altri, di non appartenenza e  non condivisione, è sinonimo di insicurezza e auto-svalutazione. Fin da piccoli, quando sperimentiamo un disagio, sia esso emotivo (tristezza, paura, ansia) o fisico (dolore, stanchezza..), sentiamo il bisogno di ricevere affetto dalla nostra figura di accudimento, generalmente la mamma. Il bambino cercherà la vicinanza e protezione dell’altro gridando e piangendo. Quando otterrà una risposta amorevole e accogliente, riuscirà a calmare la sua attivazione fisiologica, disinnescando la risposta alla minaccia. 

Cancrini ha evidenziato come questa relazione di tipo filiale/genitoriale vada oltre il legame di sangue diretto, sostituendo il suddetto termine con legame degli affetti. Tutti quei legami che assumono grande importanza per lo sviluppo degli individui ma che possono non essere naturali: “ figlio o figlia ti è, penso, colui o colei a cui hai dato e da cui hai preso, in una posizione di cura, nello scambio continuo da cui si concreta la vita di relazione, elementi costitutivi della sua identità” (Cancrini, 2020).

I legami, dunque, ci aiutano a sviluppare le nostre capacità di regolazione emotiva. In età adulta, le relazioni, pur orientandosi verso una maggiore reciprocità continueranno ad avere un ruolo fondamentale per il mantenimento del nostro benessere. Anche da grandi avvertiremo il bisogno di sentirci visti, compresi e di poter contare sul supporto di persone per noi importanti. Il bambino che avrà fatto esperienza di un attaccamento sicuro, sarà un adulto capace di tollerare la solitudine e la conseguente sensazione di disorientamento, mantenendo la propria identità integra anche in assenza di una figura di riferimento benevola e protettrice. Seguendo le acquisizioni più recenti della neurobiologia, “la mente si forma nell’ambito delle interazioni fra processi  neurofisiologici interni ed esperienze interpersonali e i collegamenti umani plasmano lo sviluppo delle connessioni nervose che sono alla base del nostro cervello” (Mucci, 2014). Se la felicità degli esseri umani è legata al vivere con gli altri, per cui i fattori decisivi del successo riproduttivo dell’uomo si fondano sull’empatia, sulla cooperazione e sui legami sociali (Cacioppo 2009),  allora la solitudine è una condizione patologizzante, che trasforma il bisogno insoddisfatto dell’altro in sensazioni, pensieri e comportamenti ostili.

Il sentirsi soli non è necessariamente sinonimo di essere soli e isolati. Ciascuno di noi si è sentito solo, per tempi più o meno prolungati, per propria scelta o a causa di condizioni esterne. Il senso di solitudine bussa alla nostra porta quando vorremmo ricevere amore, contenimento, compagnia, ma sembra difficile riuscirci. Si torna così al tempo iniziale della vita e dello sviluppo emotivo, quando il bambino ha fatto esperienza di sentirsi solo in una situazione di bisogno, vivendo una condizione familiare di forte precarietà affettiva ed emotiva. Oppure si torna al tempo adolescenziale o adulto, quando un evento o un problema, porteranno la persona a confrontarsi con le proprie fragilità, per cui il sentirsi soli si trasformerà nel sentimento della solitudine. L’impatto emotivo che le interazioni dell’infanzia hanno sullo sviluppo della personalità di ciascuno di noi, evidenzia il complesso rapporto tra essere soli, sentirsi soli, e la solitudine nel processo del divenire se stessi (Benjamin). In questi  casi, l’altro diventa per noi imprevedibile, la paura di essere ignorati e abbandonati in qualsiasi momento pietrifica anche la nascita dell’amore, in alcuni casi la sensazione di disconnessione-vuoto dagli altri  è così forte che qualsiasi azione dell’altro non riesce a colmare il nostro bisogno di attenzione e amore. Boon, Steel e Van der Hart (2013) parlano di fobia della perdita dell’attaccamento.

In questi casi si instaurano relazioni complesse caratterizzate da:

  • comportamenti altamente richiestivi verso l’altro, si pretende sempre maggiore vicinanza, attenzioni e risposte sempre più rapide (“perché non mi hai risposto subito?..mi vuoi lasciare?…). Diventa difficile tollerare la frustrazione dell’assenza dell’altro perché magari impegnato nel suo quotidiano. Tutto diventa una misura di quanto l’altro tiene a noi, sembra quasi impossibile regolare le emozioni senza l’aiuto degli altri e, per di più, questo aiuto non sembra mai sufficiente.
  • oppure al contrario, mostrare comportamenti passivi, anticipando sempre i bisogni dell’altro e mettendo in secondo piano i propri (“Vengo subito da te anche se avrei dovuto finire delle cose di lavoro”..). Queste modalità finiscono per esaurire le energie mentali e fisiche, accumulando rabbia e risentimento. 

Qualsiasi sia la strategia, quello che si avverte è un profondo bisogno di contatto e protezione che fatica ad essere colmato. Nascono relazioni non equilibrate che inevitabilmente andranno a confermare l’idea che gli altri siano portati prima o poi a deluderci. A valle della solitudine ci sono molti schemi comportamentali disfunzionali che si ripetono, senza neanche esserne consapevoli.  L’agire per ripetizioni spesso ha a che fare con  la trasmissione intergenerazionale, viene passata da una generazione all’altra, da padre a figlio, da madre a figlia, e la relazione con l’altro riattiva vecchie ferite dell’infanzia (Benjamin 2004).

Spesso accade che le persone desiderano una relazione ma contemporaneamente la temono; questo comporta un’ipervigilanza rispetto alle minacce sociali, l’individuo tende a percepire il mondo in termini sempre più negativi isolandosi sempre di più. Chi si sente isolato e fuori dal giro delle relazioni sociali, inizia a sviluppare una serie di comportamenti negativi  che hanno lo scopo di non incontrare gli altri, per  evitare di essere rifiutati. Una sorta di atto di difesa che non fa altro che aggravare il malessere di partenza. 

Ecco alcune credenze in grado di perpetuare l’isolamento sociale:

  • nel corso della propria esistenza, alcune persone a seguito di ripetute critiche e svalutazioni potrebbero faticare a fidarsi degli altri, attribuendo a quest’ultimi intenzioni malevole. L’isolamento diventa così una strategia per prevenire ulteriori sofferenze o delusioni.
  • le relazioni sono pericolose. E’ meglio essere totalmente autosufficienti. In questi casi è possibile sperimentare un senso di minaccia, paura o pericolo all’interno delle relazioni. Sulla base di ciò ritirarsi dalle relazioni è una risposta comprensibile. 
  • “se vedessero i miei difetti, non potrebbero amarmi”. Quando ci si sente così, profondamente sbagliati, l’isolamento è quindi un modo per non incorrere nel rischio che gli altri scoprano chi si è realmente.

Queste sono alcune delle credenze che rinforzano la sensazione di non poter essere in sintonia con gli altri, di poter creare legami interpersonali basati sulla vicinanza empatica e sull’ascolto. In questo modo diventa difficoltoso accedere ad esperienze relazionali positive, fondamentali per modificare le credenze rigide e inflessibili che condizionano i nostri rapporti presenti. In questo modo il passato ritorna prepotente nel nostro presente, per sentirci al sicuro facciamo e ripetiamo quello che abbiamo visto fare dalle nostre figure di riferimento. Come dice la Benjamin il patto di lealtà con le figure di riferimento è un “dono d’amore”, è la ricerca di un’intimità  tanto desiderata e sognata e contemporaneamente è la perdita della propria differenziazione, del riconoscimento delle proprie idee, pensieri e atteggiamenti.

Alla luce delle considerazioni fatte, la solitudine ha origini lontane ed è espressione di un problema di differenziazione, di individuazione e d’amore: la sofferenza che genera il sentirsi soli, racconta sempre di un percorso di individuazione che è stato messo a repentaglio dal senso di mancanza, di assenza, di vuoto, che la distanza dall’altro suscita. L’atto di rinuncia alla propria identità si manifesta nelle diverse relazioni di dipendenza, sconfinando in un isolamento/solitudine che, seppur con differenti posizioni, asseconda il bisogno di protezione di non esposizione, accrescendo il proprio sentirsi insicuri ed inadeguati , incapaci per sé e per gli altri.

Dott.ssa. Angela Pia Giampalmo

Psicologa – Psicoterapeuta

 

Bibliografia

  1. Barles, A.; Zeki, S.(2004). The neural correlates of maternal and romantic love. Neuroimage, 21, 1155-1166.
  2. Bateson, G. (1977). Verso un’ecologia della mente. Adelphi, Milano.
  3. Benjamin, L.S.(2004). Terapia ricostruttiva interpersonale. Promuovere il cambiamento in coloro che non reagiscono.LAS, Roma.
  4. Boon, S.; Steele, K.; Van Der Hart, O. (2013). La dissociazione traumatica comprenderla e affrontarla. Mimesis Edizioni, Milano
  5. Bowlby, J. (1989). Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento. Milano: Raffaello Cortina Editore.
  6. Cacioppo, J. T.; William, P. (2009). Solitudine: l’essere umano e il bisogno dell’altro. Il Saggiatore, Milano.
  7. Cancrini, L., (2020). La sfida all’adozione. Cronaca di una terapia riuscita. Raffaello Cortina Editore Milano.
  8. Liotti G., (2010) Lo studio della motivazione in una prospettiva evoluzionistica: cenni storici e concetti di base. Raffaello Cortina Milano
  9. Liotti, G., Farina, B. (2011). Sviluppi Traumatici. Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione  dissociativa. Milano: Raffaello Cortina Editore.
  10. Mucci, C., (2014). Trauma e perdono. Una prospettiva psicoanalitica intergenerazionale. Raffaello Cortina Editore, Milano.

 

Gender non conformity: una guida ai nuovi termini dell’identità di genere

Sta diventando sempre più frequente sentire o leggere su media di vario tipo nuovi termini utilizzati per parlare di genere o sessualità. E non è facilissimo restare al passo e capire di che cosa si stia parlando senza farsi delle gaffe o rischiare di urtare la sensibilità di qualcuno.

È sempre più chiaro che l’identità sessuale, la percezione che le persone hanno di sé come individui sessuati, sta diventando un concetto più complesso di un tempo. In effetti, si tratta di un costrutto multidimensionale composto da sesso biologico, ruolo di genere, identità di genere, orientamento sessuale e affettivo e fare confusione è facile.

Proviamo a fare un po’ di chiarezza e a scoprire il significato di parole come “cisgender”, “agender”, “non-binary”, ecc., che stanno diventando molto comuni.

Nel vocabolario, il sesso biologico è “la categoria anatomo-biologica di appartenenza in base alla quale si può essere femmina, maschio, o intersessuali (cioè con caratteri maschili e femminili). Il sesso è determinato dall’interazione tra cromosomi e ormoni”.

Pertanto, il sesso è un carattere biologico che viene determinato alla nascita, ma non è solo binario. Oltre a maschile e femminile, ci sono decine di condizioni anatomiche per cui i genitali interni e esterni si presentano ambigui. Le persone intersessuali presentano questa condizione alla nascita: sono dotati di alcuni caratteri maschili o femminili non concordanti tra loro. L’intersessualità interessa l’1,9 % della popolazione ed una volta veniva identificata col termine ermafroditismo. Tuttavia, un ermafrodita dovrebbe possedere entrambi gli organi sessuali, maschili e femminili, perfettamente funzionanti e tale condizione è impossibile per gli umani. Il termine è stato dunque rivisto come pseudo-ermafroditismo e poi sostituito con intersessualità. Ad oggi, si sta ancora cercando un vocabolo migliore.

L’intersessualità talvolta comporta dei rischi per la salute del bambino, dunque si procede chirurgicamente ad assegnare un sesso cercando di mantenere lo sviluppo congruente al genere assegnato.

Anche in questi casi, pertanto, quando parliamo del sesso di una persona, intendiamo la categoria che gli è stata assegnata alla nascita dai medici rispetto ai genitali esterni.

Non sempre, però, il sesso assegnato corrisponde al genere a cui la persona sente di appartenere.

Recentemente, gli attivisti intersessuali combattono per richiedere che non si intervenga chirurgicamente quando non necessario e che si lasci alla persona la possibilità di autodeterminarsi in età adulta.

Il ruolo di genere viene definito come “il ruolo pubblico vissuto e generalmente riconosciuto dal punto di vista legale come bambina o bambino, ragazza o ragazzo, uomo o donna, frutto dell’interazione di fattori biologici, psicologici e sociali”.
In pratica è l’esternalizzazione della propria identità di genere (modo di vestire e atteggiarsi, ecc.) ed è un costrutto socioculturale: ogni società individua dei comportamenti, dei ruoli e delle attività che ritiene appropriati per maschi e femmine.

Al giorno d’oggi, si tenta di superare gli stereotipi sociali legati al genere maschile e femminile, affermando che entrambi vanno trattati allo stesso modo senza creare rigidità (ad esempio, vestire di rosa le femmine o vietare ai bambini maschi di giocare con le bambole) e si considera che alcuni si sentono una via di mezzo tra queste due categorie o non si identificano con nessuna delle due.

Solitamente, come dicevamo, viene dato per scontato che il senso interno e privato del genere esperito sia coerente al sesso biologico (condizione detta cisgender). Eppure, non è automatico che l’identità di genere sia cisgender, essa potrebbe, ad esempio, essere anche transgender o non-binary.

L’identità di genere è proprio la percezione profonda del proprio genere e risponde alla domanda: “Chi sono?” È il senso soggettivo di appartenenza alle categorie di maschile o di femminile o altro.
Esempi: sono una donna, sono un uomo, sono transgender, non-binary, ecc.

Dunque, se il ruolo di genere identifica un insieme di aspettative sociali e culturali rispetto a ciò che chi appartiene ad un determinato sesso biologico deve fare, l’identità di genere indica un modo di percepire sé stessi nel profondo che non può essere modificato da interventi esterni.

Parlando di identità di genere, è utile introdurre anche il concetto di disforia di genere. Il manuale diagnostico psichiatrico DSM-V la definisce come “la sofferenza che deriva dall’incongruenza tra il genere percepito e quello assegnato alla nascita”.

La disforia porta a vivere con un senso di estraneità e sofferenza la propria appartenenza sessuale anatomica e il ruolo di genere ad essa associato. La sensazione è quella di essere imprigionati in un corpo che non risponde al proprio sentire.

È da sottolineare che la disforia di genere, benché sia inserita nel DSM-V, non è considerata una malattia, bensì, appunto, una condizione di grande sofferenza conseguente ad una varianza di genere. Pertanto, le persone colpite dalla disforia, non vanno curate ma aiutate a modificare ciò che crea la loro sofferenza.

Le persone che hanno cominciato e non ancora portato a termine il loro percorso di transizione (ormonale/chirurgico), che le condurrà ad acquisire l’identità sociale/sessuale del proprio genere, si chiamano transessuali.

L’orientamento sessuale e affettivo si riferisce all’attrazione affettivo-sessuale di una persona nei confronti di un’altra. Gli orientamenti sessuali sono diversi e sono ad oggi considerati come normali varianti della sessualità.  Tra i più conosciuti troviamo l’orientamento eterosessuale, omosessuale e bisessuale ma ci sono anche persone asessuali e polisessuali, ecc.

Risponde alla domanda “Chi mi piace?” e viene definito come ciò che “indica il genere e le caratteristiche sessuali dell’oggetto dell’attrazione erotico-affettiva”.
È un concetto che non ha niente a che vedere con l’identità di genere e non si può quindi dare per scontato l’orientamento in base al genere (chi si identifica come donna, non è necessariamente eterosessuale; chi si identifica come transgender non è necessariamente omosessuale e così via).

A partire da questi concetti, si sono create nel tempo tutta una serie di parole per indicare l’esperienza multiforme e sfaccettata di ognuno.

Cerchiamo di spiegarne alcune.

Eterosessuale

L’individuo che sessualmente si sente attratto esclusivamente dall’altro sesso.

Omosessuale

L’individuo che sessualmente si sente attratto esclusivamente dal proprio stesso sesso.

Bisessuale

L’individuo che prova attrazione per persone di entrambi i sessi.

Asessuale

L’individuo che non prova attrazione verso nessun genere e/o verso la sessualità. L’asessualità viene definita anche come mancanza di orientamento sessuale. Gli individui asessuali possono o meno avvertire il desiderio sessuale e possono o meno attuare pratiche sessuali.

Polisessuale

La persona polisessuale può provare attrazione per più generi oltre a quello maschile e femminile, dunque anche generi non-binary, ma non per tutti.

Pansessuale

Persona che prova attrazione verso un altro individuo senza dare importanza al suo sesso o genere di appartenenza.

LGBT(QI)

È una sigla “cappello” che riunisce sotto di sé lesbiche, gay, bisessuali e transgender. Ultimamente è facile trovarla con in coda una q per queer (tutti coloro che non si riconoscono nell’identità “straight”, che indica gli eterosessuali) o una i per intersessuali (come abbiamo visto sopra, persone con alcuni caratteri sia maschili che femminili)

Cisgender

Indica le persone che si identificano nel loro genere di nascita: nei cisgender identità di genere e sesso biologico e ruolo sociale (come gli altri individui li considerano) corrispondono.

Transgender

Una persona che assume un’identità di genere diversa da quella attribuita alla nascita (è un concetto più ampio che include quello di transessuale).
Si oppone a cisgender.

Transessuale

Una persona che altera il proprio corpo chirurgicamente e sul piano ormonale per allinearlo alla sua identità di genere più profonda.

Ci si rivolge alle persone transgender e transessuali utilizzando il pronome corrispondente alla loro identità di genere e non al loro sesso biologico.

Inoltre, una transizione dal genere maschile a quello femminile si indica con MTF (male to female) e, viceversa, la transizione dal genere maschile a quello femminile si indica con FTM (female to male).

Non-binary

Indica una persona che non si riconosce nell’idea che esistano solo due generi, maschile o femminile. Le persone non-binary non si sentono nate nel corpo sbagliato (anche se potrebbero voler modificare alcuni aspetti), anzi, spesso armonizzano caratteri legati al genere maschile o femminile. Gender queer è un altro modo di indicare le persone non-binary e rende l’idea di un’identità di genere dinamica e in continua evoluzione. La comprensione che le persone maturano del proprio genere è complessa, può variare nel tempo e può includere infinite possibilità oltre al maschile e femminile.

Genderfluid

È un concetto che sta sotto al cappello non-binary e indica una persona che percepisce il suo genere in modo fluido, accettando che possa cambiare nel tempo o a seconda delle situazioni.

Una persona genderfluid può, in qualsiasi momento, identificarsi come maschio, femmina, genere neutro o qualsiasi altra identità non binaria.

Di solito, per indicare persone genderfluid si usano pronomi neutrali come they/them in inglese. In italiano non esiste il neutro e la questione è molto dibattuta. La cosa più comune per ora è che la persona interessata proponga da sé i pronomi dai quali si sente più rappresentata.

Agender

Indica una persona che non si identifica in nessun genere. Letteralmente, “senza genere”.

Fonte: pasionaria.it

Non ci ancora molti studi psicologici sulle persone non-binary ma, quelli che ci sono, indicano più alti livelli di sintomatologia ansiosa e depressiva, rispetto alle persone transessuali o cisgender.

Queste persone riportano più alti tassi di discriminazione e di molestie e anche un rischio suicidario molto più elevato rispetto alla popolazione generale.

Il disagio psicologico è dovuto proprio allo stress di subire lo stigma sociale ed esperienze di violenza, molestie o rifiuto che possono intaccare la sintonia con la propria identità e portare a nasconderla. Il rifiuto, percepito o temuto, da parte della famiglia è quello che ha il peso maggiore e può aumentare notevolmente il rischio suicidario.

A questo si aggiunge la difficoltà di trovare un riconoscimento all’interno di una società che fatica a lasciare spazio anche ad identità non binarie. Dai negozi, ai servizi pubblici, al linguaggio, la società odierna è impostata su una visione cisgender.
Sarà interessante notare che, nel mondo, ci sono sempre state altre culture che hanno abbracciato il non-binarismo (alcuni indigeni americani, i Chuckchi in Siberia, i Bakla nelle Filippine, i Hijra in India e i Quariwarmi in Perù).

La situazione tra gli adolescenti oggi è, però, in mutamento. Una ricerca condotta dal J. Walter Thompson Innovation Group ha rilevato che solo il 48% degli americani appartenenti alla Generazione Z (i nati tra il 1995 e il 2010) si identifica come esclusivamente eterosessuale (comparato al 65% dei Millennials, cioè i nati tra gli anni ’80 e la metà degli anni ‘90). Più di un terzo afferma, invece, che le differenze di genere non siano in grado di definire una persona.

Sempre più studi e sondaggi concordano nel sostenere che i giovani d’oggi sono più portati a interrogarsi sulla propria identità, si identificano come LGBTQI più frequentemente che in passato, accettano di meno una rigida dicotomia binary (eterosessuale/omosessuale, uomo/donna) e sono più sensibili e attenti verso le persone non-binary e la loro discriminazione.
Sicuramente, il fatto che queste tematiche vengano affrontate anche a livello mediatico, o a scuola, favorisce il dibattito e l’introspezione.

In parallelo si sta spostando anche il linguaggio, perché il rispetto e l’inclusione spesso passano anche di lì.

Se quando ci occupiamo di persone cisgender, il linguaggio da adottare risulta facilitato dalla presenza di nomi e pronomi altamente definiti in senso maschile o femminile, quando ci occupiamo di persone non-binary la situazione si complica.

Nei paesi anglofoni, come abbiamo visto, c’è l’opzione dei pronomi they/them che risolve in parte il problema essendo utilizzati come neutro, anche singolare. In italiano, come in altre lingue, questo non è praticabile.

Tra le soluzioni adottate nella lingua scritta c’è quella di troncare la parola terminandola con l’asterisco (“ieri sei uscit*?”) o con la lettera u (“ieri sei uscitu?”).

Per risolvere la resa del suono nel parlato, però, sta prendendo piede la proposta di utilizzare la schwa, un simbolo dell’Alfabeto Fonetico Internazionale che è rappresentato da una “e” minuscola rovesciata: “ə”. È un simbolo usato per indicare un suono neutro, senza accento o tono che ben si presta allo scopo (“ieri sei uscitǝ?”).

I promotori di un linguaggio inclusivo sostengono che non avere una parola per descriversi significhi, di fatto, essere discriminati.

Al di là di quale sia l’opinione di ciascuno in merito, va senz’altro considerato che come esseri umani fatichiamo a comprendere ciò a cui non diamo un nome. Inoltre, seppur con dei limiti, un nome che sia rappresentativo crea una categoria, un gruppo, e sentirci parte di un gruppo ci fa sentire meno soli e rafforza il senso di comunità. Questo, oltre ad aumentare il benessere dell’individuo, perpetua la coesione sociale e, dunque, va a beneficio della società stessa.
A convalida di quanto detto, si rileva che sono notevolmente aumentate anche le ricerche in rete sui termini che abbiamo descritto in questo articolo, così come il numero di adolescenti che si rivolgono ai consultori o alle associazioni del territorio per comprendere e per comprendersi meglio.

Se avete bisogno di trovare le parole per capirvi e sentirvi rappresentati o vi sentite confusi rispetto alla vostra identità di genere o orientamento sessuale, l’Associazione Eco può aiutarvi a rispondere alla domanda “Chi sono?”.

Dr.ssa Valeria Lussiana

SIBLINGS: DIFFICOLTA’ E POTENZIALITA’ DI PERSONE CON FRATELLI AFFETTI DA DISABILITA’

“La fratria, in effetti, può essere: un mezzo,

nel processo di costruzione e di sviluppo del

soggetto, un aiuto, nel confronto con situazioni

traumatiche, un rimedio, ad esempio di fronte alla

  solitudine.” (R. Scelles)   

 

 

 

Il tema della disabilità è  al centro dell’interesse della comunità scientifica da molti anni.

Esistono moltissimi gruppi di supporto e, anche in ambito pubblico, si trova ormai una grande varietà di attività rivolte a persone con bisogni speciali.

Solo nel corso degli ultimi anni la ricerca ha iniziato ad interessarsi ai sibligs, ma chi sono?

Il termine sibling significa letteralmente “fratello”, ma viene anche utilizzato per indicare una particolare categoria, ovvero i fratelli di persone con disabilità.

Per lungo tempo lo studio degli effetti della disabilità si è concentrato sui genitori e, in particolare, sulle madri, in quanto caregiver principali. Solo a partire dagli anni Ottanta la ricerca scientifica si è rivolta ai fratelli, individuando alcune caratteristiche comuni che prescindono dalla situazione specifica della persona affetta da disabilità.

E’ facile immaginare come, in una famiglia in cui è presente un figlio con disabilità, la maggior parte delle attenzioni  e delle risorse siano dedicate a lui, proprio in ragione dei suoi bisogni speciali. Cosa comporta però questo nella crescita e nel percorso di vita dei fratelli a sviluppo tipico? Sicuramente quello tra siblings e fratelli con disabilità è un rapporto complesso e ricco di difficoltà, ma sarebbe sbagliato e poco esaustivo, oltre che dannoso, considerarlo solo in termini negativi, in quanto tale rapporto può far emergere anche numerose risorse e potenzialità.

Essere fratelli significa confrontarsi, imparare ad entrare in relazione, litigare, fare pace, creare e rompere alleanze, essere amici e, talvolta, nemici. In famiglie con figli a sviluppo tipico, la relazione fraterna è qualcosa che si gestisce in autonomia, senza troppa interferenza da parte degli adulti. Ma cosa succede se uno dei fratelli è affetto da disabilità? Spesso il figlio vulnerabile viene descritto dai genitori come fragile, da proteggere in ogni caso, anche all’interno della relazione fraterna. Capita spesso che ai siblings venga passato il messaggio, da parte dei genitori, che il fratello con disabilità non possa e non debba essere trattato come “tutti gli altri”, e questo, in molti casi, limita l’interazione fraterna. L’iper-responsabilizzazione del fratello a sviluppo tipico potrebbe limitare e inibire l’interazione, e dunque anche l’esperienza positiva di essere fratelli. E’ certamente giusto e legittimo che i genitori proteggano il figlio più fragile, ma bisognerebbe fare attenzione a non limitare troppo o definire eccessivamente il rapporto fraterno.

In alcuni casi potrebbe capitare che il sibling, in virtù del ruolo da caregiver di cui viene investito, possa non sentirsi autorizzato ad esprimere dubbi, sofferenza e difficoltà esperite nella relazione con il fratello vulnerabile. Questo, oltre a limitare l’interazione fraterna, potrebbe portare il fratello a sviluppo tipico a non comprendere alcune dinamiche familiari e a sviluppare ostilità nei riguardi del fratello con disabilità. In molti casi i genitori chiedono ai figli di amare  il fratello fragile in virtù della sua condizione di disabilità e ciò non può che limitare e imbrigliare  l’esperienza emotiva, non consentendo di farne reale esperienza. Quando i timori dei genitori rispetto al futuro del figlio disabile sono troppo grandi, potrebbe capitare che il figlio a sviluppo tipico si dedichi alla cura del fratello vulnerabile per alleviare la loro preoccupazione e la loro sofferenza. L’accettazione di tale ruolo di adulto responsabile ha inevitabilmente dei costi psicologici e relazionali su entrambi i fratelli. Lasciare i fratelli liberi di scegliere il tipo di rapporto che vogliono avere ha un ruolo fondamentale nella costruzione della personalità degli individui.

La vita delle famiglie nelle quali è presente un figlio con disabilità comporta inevitabilmente problematiche, sia di ordine pratico sia di ordine emotivo. La vita del nucleo familiare ruoterà,  comprensibilmente, attorno ai bisogni speciali del membro più fragile e questo può, in molti casi, non lasciare troppo spazio all’esperienza del figlio con sviluppo tipico, che si troverà a confrontarsi con dubbi ed emozioni, talvolta molto complessi da gestire, in particolare nelle prime fasi della crescita.

Potrebbe accadere che, a causa delle poche informazioni sull’effettiva condizione del fratello vulnerabile, il sibling si identifichi con il fratello con disabilità, iniziando a credere di avere anche lui le stesse problematiche. Questo accade spesso nei fratelli minori o quando il fratello più fragile è affetto da patologie “invisibili”, come ad esempio un ritardo cognitivo. Tale preoccupazione può essere arginata fornendo informazioni chiare e precise sulla condizione del fratello con disabilità.

Un’emozione piuttosto comune è l’imbarazzo verso il fratello con disabilità. E’ importante riconoscere che, in particolare in alcune fasi della vita, come l’adolescenza, l’imbarazzo nello stare accanto ai membri della famiglia, come i genitori, è assolutamente normale e più che comune. Accade spesso che tale vissuto sia amplificato da alcuni comportamenti del fratello con disabilità ed è importante che il sibling abbia la possibilità, soprattutto nel contesto familiare, di potersi esprimere. Se i comportamenti della persona vulnerabile sono effettivamente inopportuni, potrebbe essere utile al sibling che i genitori lo riconoscano e condividano anche loro l’imbarazzo che provano, così da evitare che il figlio con sviluppo tipico possa sentirsi cattivo o sbagliato per quello che prova.

Altro vissuto comune nei siblings, soprattutto in età infantile, è il senso di colpa per aver causato la disabilità del fratello oppure il “senso di colpa del sopravvissuto” per non avere le stesse problematiche del fratello vulnerabile. Altre volte il senso di colpa nasce dall’aver litigato o essersi comportati in maniera aggressiva con il fratello con disabilità, cose che capitano in qualunque rapporto tra fratelli. E’ importante che i genitori accolgano anche la possibilità che i loro figli possano litigare: il confronto è un importante momento di crescita e negarlo sarebbe dannoso per entrambi i fratelli.

La vergogna è un altro vissuto che spesso caratterizza l’esperienza dei sibligs. Alcuni studi mostrano che tale sentimento è in qualche modo limitato in famiglie con più figli.

Capita di frequente che i sibligs di persone con disabilità di sentano soli o isolati o, talvolta, che si isolino volontariamente dal gruppo dei pari. Questo può accadere per diverse motivazioni, come la preoccupazione di condividere vissuti e problematiche legati al contesto familiare con il gruppo di pari o la  volontà di non creare ulteriore disturbo ai genitori. In quest’ultimo caso, è anche possibile che il figlio con sviluppo tipico possa cercare di arginare o alleviare il vissuto dei genitori legato alla disabilità iper-compensando con altissime prestazioni scolastiche e lavorative. In molti casi questo atteggiamento viene spiegato dai siblings come il desiderio di non arrecare ulteriori preoccupazioni oppure come un modo per essere riconosciuti e “visti” all’interno del contesto familiare.

Altro vissuto che spesso accomuna i siblings è il risentimento verso il fratello fragile o nei confronti dei genitori. E’ indubbio che, nella famiglie con un figlio con disabilità, molte risorse economiche, di tempo ma anche emotive vengano dedicate a quest’ultimo, e questo può essere fonte di rabbia nel figlio con sviluppo tipico. Un buon livello di comunicazione all’interno della famiglia e la possibilità di esprimere emozioni e vissuti negativi possono aiutare arginare e ad elaborare tale esperienza.

Abbiamo più volte spiegato come, in famiglie con un figlio affetto da disabilità, il carico dei genitori sia molto pesante. Non di rado ai figli con sviluppo tipico viene affidato il ruolo di genitore vicario; ciò comporta una precoce responsabilizzazione e, in molti casi, l’impossibilità a seguire le fasi normali di sviluppo, bruciando le tappe. Tale comportamento non può che avere delle ripercussioni come, ad esempio, un non riconoscimento nel gruppo dei pari: l’esperienza di essere un ragazzo adultizzato può portare ad avere la sensazione di non essere compreso dai coetanei, in quanto troppo maturo o con  priorità differenti rispetto agli altri.

 

Nell’affrontare il tema dei siblings di fratelli con disabilità è certamente doveroso parlare delle difficoltà con le quali queste persone si confrontano lungo il loro percorso di vita, ma è altrettanto importante mettere in risalto le possibilità che emergono dal vivere in un contesto familiare tanto particolare.

Numerosi sono gli studi che hanno ribaltato il paradigma per il quale le famiglie, e di conseguenza i fratelli, di persone con disabilità vivrebbero una realtà patogena e negativa e hanno puntato l’attenzione sulle potenzialità che possono derivare da tale contesto.

I fratelli di persone con disabilità risultano spesso più maturi dei coetanei, in particolare nelle varie fasi di sviluppo. Ciò è dato dal fatto che le loro esperienze di vita li hanno condotti a confrontarsi, sin dall’infanzia, con tematiche da adulti, dando loro la possibilità di avere un’idea della realtà più ricca e sfaccettata. Imparano fin da piccoli che la vita non sempre è giusta e sviluppano tendenzialmente una maggiore resilienza e una grande flessibilità, che consente loro di approcciarsi alle situazioni più disparate con una migliore capacità di adattamento.

Alcuni autori e ricercatori hanno notato come crescere in contesti familiari in cui è presente un membro con disabilità sia un fattore predittivo di maggiori competenze sociali. Tali studi dimostrano come i siblings abbiano atteggiamenti più accomodanti e meno aggressivi nei riguardi del prossimo, mostrino sensibilità e capacità di accoglimento verso l’altro e abbiano un buon grado di tolleranza. Tali caratteristiche sono il risultato del confronto con tematiche importanti come l’esclusione e la percezione negativa della diversità; aver vissuto sulla propria pelle queste esperienze, certamente spiacevoli, può favorire una maggiore accettazione dell’altro.

E’ stato inoltre dimostrato che i fratelli  di persone con disabilità hanno un forte senso di giustizia. In numerosi studi ed interviste emerge come queste persone, nel corso della loro vita, si siano purtroppo trovate a difendere il fratello fragile; questo, in molti casi, porta a valutare le persone e la possibilità di intraprendere con loro rapporti di amicizia o amorosi in base al senso morale e alla sensibilità dimostrate.

 

Da quando la comunità scientifica ha iniziato ad interessarsi al tema dei siblings è emersa la necessità di dare risalto ai loro bisogni e ai loro vissuti emotivi. Nel corso degli ultimi anni sono nati, anche sul territorio italiano, molti gruppi e interventi mirati a tale categoria, in modo da garantire uno spazio di espressione e crescita personale e individuale per aiutare i siblings a definirsi in quanto soggetti, e non come “fratelli di..”.

La psicoterapia può essere una grande risorsa per affrontare le difficoltà legate alla particolare condizione di queste persone, ma anche per evidenziare le risorse che li caratterizzano, in primis come individui.

Questo articolo, lungi dal voler essere esaustivo, ha come intento il fornire una panoramica sulla tematica dei siblings. E’ importante sottolineare che non tutte le situazioni sono uguali, che  l’esperienza di ogni individuo è influenzata da moltissimi fattori e che non tutti i fratelli di persone con disabilità avranno le stesse problematiche o svilupperanno le stesse risorse.

 

Dottoressa Rossella Totaro

 

BIBLIOGRAFIA:

 

  • Dondi A. (2018), Crescere fratelli e sorelle di bambini con disabilità, Cinisello Balsamo (Milano), Edizioni San Paolo
  • Farinella A. (2015), Essere fratelli di ragazzi con disabilità, Trento, Edizioni Centro Studi Erikson

                                          

TRAINING AUTOGENO SOMATICO O INFERIORE

Il training autogeno (d’ora in poi TA), tanto in voga nel XX secolo oggi sconta un po’ quel clamore che, se da un lato l’ha fatto conoscere a molti, dall’altro ha indotto qualche confusione.

Il TA nasce dall’intuito di uno psichiatra tedesco Johannes Heinrich Schultz nella prima metà del secolo scorso. Schultz si interessò sin da subito alla vita psichica, agli stati modificati di coscienza, accostandosi al metodo psicoanalitico prima e elaborando successivamente quella che chiamerà psicoterapia autogena. Il TA diventa quindi, nel pensiero di Schultz sia una tecnica di rilassamento, in grado di alleviare stati di ansia o tensione, che un vero e proprio modo di accedere a contenuti inconsci, attraverso le sensazioni che arrivano dal corpo.

Il TA prende il nome da due presupposti fondamentali: il “principio allenativo”, il training e quello di autogenicità. Con il principio allenativo si evidenzia come sia la ripetizione quotidiana degli esercizi, la base per un effettivo e reale cambiamento. Il concetto di autogenicità (letteralmente significa qualcosa che si genera da sé) ha a che vedere col fatto che attraverso la pratica del TA, i contenuti emergono e i cambiamenti si verificano spontaneamente, indipendentemente dalla volontà intenzionale del soggetto. Questo permette alla persona che pratica TA anche di sperimentarne gli effetti e i benefici senza la presenza costante di qualcuno che lo “alleni” e accompagni.

A livello neurofisiologico il training autogeno produce un’attivazione del sistema parasimpatico inducendo uno stato di trance superficiale detto stato autogeno. Contemporaneamente sul piano fisico si osservano una riduzione della frequenza cardiaca e respiratoria, l’abbassamento del tono muscolare, la diminuzione della pressione arteriosa e l’aumento di succhi gastrici e la secrezione di insulina.

Lo stato di rilassamento che viene quindi a crearsi, ha non solo l’effetto di scaricare le tensioni in eccesso e di recuperare lo stato di benessere, ma soprattutto di attivare la capacità di autoregolazione dell’organismo, sia rispetto alle funzioni psichiche che somatiche, migliorandone quindi lo stato generale.

La tecnica di cui si avvale è apparentemente semplice: la ripetuta rappresentazione mentale di alcune specifiche frasi, definite “formule standard” in una determinata sequenza.

Le formule standard, ed in particolare quelle del cosiddetto ciclo inferiore, mirano alla capacità di abbandonarsi all’ascolto passivo del corpo, fanno riferimento a sensazioni corporee come la pesantezza, il calore, il respiro regolare… E’ proprio attraverso il raggiungimento di uno stato di “concentrazione passiva”, “nell’aspettare qualche cosa, senza aspettarsi nulla” (Widman, 2005) che contenuti emotivi possono fluire e si attivano processi distensivi e rigenerativi.

I campi di applicazione del TA sono davvero molteplici, dall’ambito sportivo dove viene impiegato con successo da tempo a quello più strettamente clinico. In ambito sportivo si è visto che il TA può migliorare la resistenza fisica agli sforzi, il recupero delle energie psicofisiche, contrasta l’ansia da prestazione, i sentimenti di svalutazione e inferiorità. Favorendo poi il rilassamento muscolare riduce il rischio di contratture (Peresson, 1977 e 1990; Hoffmann 1980).

In ambito clinico si sono evidenziati benefici nel caso di emicrania (Seo, 2018), gastrite, balbuzie, asma, tachicardia (Wallnöfer, 1993; Linden, 1994; Sutera, 2002), nell’ansia e nel distress legati ad ospedalizzazione (Neeru, 2015), o alle prestazioni scolastiche (Holland, 2017), nella depressione lieve e moderata, in alcuni tipi di disturbi sessuali (Zuliani, 2003; Stanton, 2018) ed nei disturbi del sonno (Kim ML, 2009).

Infine, per dirla con Schultz il TA non è di per sé una tecnica per “guarire le persone”, ma per “aiutare le persone ad evolvere, così come fa il giardiniere quando scosta pietre e arbusti perché le piante possano crescere meglio”

Dr.ssa Chiara Delia

Perchè a casa dovremmo limitare ai bambini l’accesso alla tecnologia

Fonte pixabay

Alzati, controlla le notifiche, chatta, condividi, commenta, scrolla i feed, ripeti.

Il cellulare ci consente di connetterci alla rete e alle persone quando vogliamo, dove vogliamo e con chi vogliamo. Questi i benefici della portabilità e della mobilità a cui siamo ormai abituati. Negli ultimi dieci anni, l’utilizzo del cellulare ha completamente stravolto le nostre abitudini e, di conseguenza, anche il nostro modo di comunicare. Non è un caso che lo smartphone sia il dispositivo più usato nella comunicazione quotidiana.

Questa tecnologia è talmente intrinseca alle nostre abitudini che è difficile pensare sia possibile farne a meno. I vantaggi sono sotto gli occhi di tutti e durante il lockdown ne abbiamo avuto, se mai ce ne fosse stato bisogno, ennesima riprova.

Gli aspetti su cui mi soffermerò, invece, sono differenti e riguardano i danni e i problemi che possono insorgere utilizzando queste tecnologie fin dai primi mesi di vita. Il senso non è puntare il dito contro queste tecnologie, anzi. L’obiettivo è quello di rendere consapevoli i genitori sui possibili effetti negativi di una precoce, prolungata ed errata esposizione ai dispositivi tecnologici durante tutta l’infanzia. Questo perché spesso, travolti anch’essi dall’ondata della tecnologia, troviamo genitori inconsapevoli dei rischi e dei pericoli per la salute psicofisica dei loro figli se esposti così precocemente ai dispositivi tecnologici.

É evidente che i bambini nati in questa decade crescano in un ambiente pieno di stimoli digitali che catturano in maniera massiccia la loro attenzione. Servono un po’ di dati su cui riflettere, questi dati arrivano dalla pubblicazione delle linee guida della Società Italiana di Pediatria:

  • nel 2011 la percentuale di bambini (dagli 0 agli 8 anni) che utilizzava un device era del 38%, ovvero quasi 4 su 10;
  • nel 2013 la percentuale è salita al 72 %, ovvero 7 bambini su 10.

Altro dato allarmante riguarda i bambini di 2 anni: nel 2011 la percentuale di questi che usava un device era del 10%, nel 2013 è diventata del 38%.

Perché questi dati sono preoccupanti?

La risposta è duplice: in primo luogo, differenti studi hanno mostrato gli effetti negativi di una esposizione prolungata e precoce alla tecnologia digitale nei bambini prescolari (interferenza con lo sviluppo neurocognitivo, apprendimento, benessere, vista e udito, funzioni metaboliche e cardiache); l’altro aspetto da tenere in considerazione è il fatto che questi bambini sono autorizzati dai loro genitori a quest’uso incauto e inconsapevole e spesso sono lasciati da soli.

Cè di più, recenti studi hanno dimostrato che l’utilizzo dei dispositivi mobili da parte dei genitori ha una profonda influenza sulle interazioni familiari e sul benessere emotivo. Si tratta di un influenza così determinante poiché l’uso dei cellulari distrae dalle interazioni faccia a faccia (l’esperienza è immersiva nello schermo del dispositivo e non in relazione a chi si ha difronte) e quindi ha potenzialmente un grande effetto nello sviluppo emotivo, cognitivo e linguistico.

In Italia, secondo una recente ricerca, 1 neonato su 5 viene esposto allo schermo di uno smartphone nel suo primo anno di vita. L’80% dei bambini tra i 3 e 5 anni sa usare il cellulare dei genitorii e spesso, il cellulare, viene usato dai genitori stessi come strumento per tranquillizzare, calmare o semplicemente distrarre il bambino.

La domanda è legittima: gli strumenti tecnologici (tablet, smartphone, console, tv etc) ostacolano o favoriscono i compiti di sviluppo?

Vediamo i rischi riportati dalla Società Italiana di Pediatria:

  • Apprendimento: in accordo con recenti studi, l’utilizzo prolungato e/o esclusivo del touchscreen può interferire con lo sviluppo cognitivo e quindi dell’apprendimento. Questo perché i neonati e gli infanti hanno bisogno di fare costante esperienza diretta con gli oggetti per poter sviluppare il pensiero e le abilità di problem solving. I neonati e i bambini hanno bisogno per un buon sviluppo dell’interazione diretta con i genitori.
  • Sviluppo: un quantitativo elevato di tempo passato davanti ad uno schermo è collegato ad una diminuzione di attenzione, voti bassi in matematica ed anche a relazione tra pari poco significative.
  • Benessere: l’uso di dispositivi mobili durante la prima infanzia per un tempo superiore alle due ore è connesso a un incremento di peso e a problematiche comportamentali. In particolare, guardare la tv e giocare ai videogiochi è associato ad un aumento di obesità e comportamenti sedentari durante la gioventù. Alcuni studi mostrano, infatti, come ci sia un’associazione tra il malessere fisico e l’uso di tablet, in particolar modo collo e spalle, mal di testa e dolori articolari per la postura scorretta dovuta al cattivo ed eccessivo utilizzo di schermi.
  • Sonno: l’uso di schermi può interferire con la qualità del sonno per due motivi: guardare contenuti stimolanti produce un incremento dell’attivazione psicofisiologica e/o la luce dello schermo può interferire con il ritmo circadiano. Inoltre, il sonno potrebbe essere ostacolato anche dalle radiazioni elettromagnetiche emesse dai dispositivi. Infine, un recente studio conclude che nei bambini tra gli 1 e i 4 anni la presenza della televisione nella camera da letto è associata ad una carente qualità del sonno, alla presenza di terrori notturni, incubi e dialoghi nel sonno.
  • Vista: un uso protratto nel tempo di tablet e cellulari può causare secchezza oculare. In aggiunta, questi dispositivi sono usati a distanza ravvicinata per via dei loro schermi piccoli, questo modo di utilizzarli può far sviluppare fatica oculare, bagliore ed irritazione. Infine, un utilizzo eccessivo degli smartphone può influenzare lo sviluppo di alcuni difetti visivi.
  • Udito: l’esposizione precoce e prolungata dei timpani a livelli intensi di rumore è pericolosa. Infatti, lo sviluppo del linguaggio e della parola possono essere compromessi, altri effetti possono essere la difficoltà nella socializzaizone, nella comunicazione, nell’interazione con gli altri bambini.
  • Interazione genitore-bambino: una precoce e adeguata interazione genitore-bambino contribuisce allo sviluppo dei sistemi neurocognitivi e comportamentale. Il contatto oculare, lo sguardo reciproco e l’attenzione visiva congiunta tra i bambini e i genitori contribuiscono a sviluppare sane relazioni. L’uso di dispositivi tecnologici in tenera età, invece, sfavorisce le interazioni verbali e non verbali genitori-figlio mentre l’utilizzo di cellulari e tv di sottofondo nell’ambiente distolgono l’attenzione dalle interazioni e dal gioco con il bambino.

È indubbio che questi strumenti tecnologici consentano, nell’esperienza d’uso comune, quote di intrattenimento, supporto sociale e accesso a materiale educativo per i bambini, ma l’attenzione dovrebbe essere sempre posta sugli effetti di un utilizzo sconsiderato e improprio.

Vediamo cosa, in concreto, suggeriscono le linee guida della SIP.

Raccomandano di non utilizzare dispositivi mobili:

  • nei bambini fino ai 2 anni di età;
  • durante i pasti;
  • un’ora prima di andare a dormire;
  • con programmi rapidi e frenetici, con contenuti distraenti o violenti;
  • come pacificatore per tenere il bambino tranquillo in lughi pubblici.

Inoltre, suggeriscono di limitare l’esposizione ai media:

  • a meno di un ora al giorno con bambini tra i 2 e i 5 anni;
  • a meno di due ore al giorno con bambini tra i 5 e gli 8 anni;
  • a programmi di altà qualità;
  • solo in presenza di un adulto. I bambini dovrebbero condividere e usare i dispositivi mobili solo in presenza dei genitori, questi ultimi dovrebbero promuovere e tenere sempre in considerazione l’apprendimento e le interazioni del bambino. Questo perchè in un mondo dove i bambini sono “nativi digitali” i genitori giocano un ruolo fondamentale nell’insegnare loro come utilizzare la tecnologia in modo sicuro. In questo le famiglie dovrebbero monitorare i contenuti digitali, le app scaricate e usate dei loro figli.
  • Testare personalmente le app usate dai figli prima del loro effettivo utilizzo. Più di 80000 app sono etichettate come “educative”, ma solo pochissime ricerche hanno testato e dimostrato la loro effettiva qualità. I genitori dovrebbero contraollare che le app scaricate, i giochi e i videogiochi utilizzati siano adeguati all’età dei loro bambini.

Al di là di quanto detto, vorrei rimarcare un concetto importante: sono i genitori a dover fornire il buon esempio perché, ricordiamolo, i piccoli sono dei grandissimi imitatori ed è proprio per questa ragione che se si vuole educare i propri figli all’utilizzo della tecnologia siamo noi i primi a doverne fare un uso regolato, sano e intelligente.

Una maggiore connessione con i propri figli si ottiene interagendo, abbracciando e giocando con loro. Il miglior scambio genitore-figlio è quello che consente una interazione proattiva che permetterà uno sviluppo sano ed una regolazione emotiva del proprio bambino.

Pensa a questo la prossima volta che consegnerai il cellulare a tuo figlio.

Per chi lo stai facendo? Per te stesso o per tuo figlio?

Dott. Ghil Kalman

Psicologo-Psicoterapeuta

Bibliografia

  • Billieux J., Maurage P., Lopez-Fernandez O., Kuss D.J., Griffiths M.D. (2015). Can Disordered Mobile Phone Use Be Considered a Behavioral Addiction? An Update on Current Evidence and a Comprehensive Model for Future Research. Curr Addict Rep 2:156–162
  • Bozzola E., Spina G., Ruggiero M., Memo L., Agostiniani R., Bozzola M., Corsello G., and Villani A. (2018). Media devices in pre-school children: the recommendations of the Italian pediatric society. Italian Journal of Pediatrics 44:69
  • Chóliz M. (2012). Mobile-phone addiction in adolescence: The Test of Mobile Phone Dependence (TMD). Prog Health Sci, Vol 2 , No1 Test Mobile Phone Addiction 33-44
  • Kabali H.K., Irigoyen M.M., Nunez-Davis R., Budacki J.G., Mohanty S.H., Leister K.P. (2015). Exposure and Use of Mobile Media Devices by Young Children. Pediatrics;136:1044-1053
  • Reid Chassiakos Y.L., Radesky J., Christakis D., Moreno M.A., Cross C. (2016). Children and Adolescents and Digital Media. Pediatrics; 138:1-18.

L’ Assertività, di cosa si tratta?

Fonte: pixabay free

Essere assertivi è una condizione dell’essere liberi,

dove per essere liberi non si intende

un affrancarsi dai condizionamenti,

ma un poter scegliere responsabilmente.

(Franco Nanetti, La forza di ritrovarsi, 2002)

 

                                                                                       Comunicare assertivamente è… dire la verità

(Robert E. Alberti, Essere assertivi, 1977)

 

La parola “assertività” deriva dal latino ad serere, e significa «asserire» o anche affermare se stessi. L’ assertività è la capacità di esprimere i propri sentimenti, di scegliere come comportarsi in un determinato momento/contesto, di difendere i propri diritti, di esprimere serenamente un’opinione di disaccordo quando lo si ritiene opportuno, di portare avanti le proprie idee e convinzioni, rispettando, contemporaneamente, quelle degli altri.

Sviluppare un comportamento assertivo permette di gestire le relazioni professionali e sociali con fermezza, evitando sia la risposta aggressiva, sia quella passiva. Infatti quando si parla di assertività ci si riferisce ad uno stile di comportamento che si colloca in un’area intermedia tra gli altri stili di comportamento definiti passivo e aggressivo e rappresenta la modalità più efficace di interazione dal punto di vista sociale. Ciascuno di noi è caratterizzato da una particolare tendenza di comportamento, tuttavia lo stile adottato può variare a seconda delle circostanze in cui ci troviamo: “non esistono persone sempre assertive, ma solo comportamenti assertivi, che possono essere manifestati da tutti. Ciononostante, è vero che esistono persone che tendono ad essere aggressive, passive o assertive nella maggior parte delle situazioni” (Giannantonio, Boldorini, 2005).

Una caratteristica dello stile assertivo è riuscire a esprimere in modo autentico se stessi, a creare rapporti interpersonali basati sul rispetto reciproco e su modalità comunicative efficaci e, al tempo stesso, affrontare con efficacia anche le situazioni stressanti e problematiche.

 

Cenni storici del concetto di Assertività

Nel 1949 lo psichiatra statunitense Andrew Salter fu il primo che parlò di “personalità eccitatoria” ovvero in grado di esprimere i propri punti di vista e le proprie emozioni apertamente, in modo entusiasta e spontaneo.

Al contrario, una personalità “inibita” veniva descritta dall’Autore come schiava della logica e del pensiero, incapace di riconoscere ed esprimere i suoi sentimenti più intimi e di assecondare i suoi impulsi naturali.

Salter ipotizzò anche che la maggior parte degli scompensi psicopatologici fosse riconducibile a tratti di personalità inibiti, cioè a tratti che si formavano nella relazione precoce con figure parentali che tendevano ad inibire, spesso anche con modalità punitive, alcuni comportamenti sociali.

Salter intese così l’assertività come un modello di comportamento interpersonale, capace di garantire non soltanto un livello di civiltà nei rapporti tra gli uomini ma contemporaneamente uno stato di benessere emotivo a chi la mette in pratica.

Salter getta le prime basi per lo sviluppo delle tecniche di quello che oggi, in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale, viene chiamato Training Assertivo ovvero quell’insieme di procedure utili a migliorare la competenza sociale delle persone.

Dieci anni dopo, nel 1959 Joseph Wolpe introdusse il termine assertiveness e, riprendendo Salter, evidenziò l’importanza di esprimere apertamente i propri sentimenti come comportamento sano.

Robert E. Alberti e Michael L. Emmons nel 1974 idearono il primo Training Assertivo rivolto all’attivazione di potenziale e non al trattamento clinico di disturbi psichiatrici. Essi enfatizzarono l’importanza dei diritti di ciascun essere umano, a prescindere dal suo status sociale.

Secondo gli autori, ognuno ha il diritto di essere padrone della propria vita e di agire secondo il suo personale interesse e secondo le sue credenze, nonché di esprimere liberamente il suo punto di vista e i suoi sentimenti.

Il principale obiettivo del training era quello di aiutare le persone ad agire sulla base dei propri irrevocabili diritti personali. Lo sviluppo dell’autostima e di uno stile comportamentale assertivo non erano considerati, dunque, solo desiderabili, ma anche necessari per tutti i soggetti.

Nel 1981 Arnold P. Goldstein sviluppò una serie di esercizi volti ad acquisire certe competenze sociali. Questi esercizi erano rivolti a soggetti con difficoltà di apprendimento che venivano erroneamente ricondotte a deficit intellettivi, invece che a difficoltà relazionali. Tra gli esercizi ideati vi erano: osservare l’interlocutore, esprimere disaccordo, fare richieste, rispondere alle critiche, relazionarsi con persone insistenti, parlare in pubblico, etc.
Ad oggi si intende l’assertività come un concetto multidimensionale, che si correla a diversi concetti: immagine di sé, autostima, autoefficacia, abilità sociali, regolazione emotiva, gestione dei conflitti, tolleranza allo stress. La difficoltà ad essere assertivi si collega spesso a scarsa autostima, difficoltà nelle relazioni interpersonali, impulsività, carenze nella gestione delle emozioni e dello stress. Inoltre numerose ricerche mostrano come l’anassertività sia uno dei fattori che sovente si associano a problemi clinici quali l’ansia (specialmente l’ansia sociale) e la depressione.

Da ciò è derivata la diffusione di numerosi training di assertività, cui si è accennato in precedenza,  intesi come attività trasversale e autonoma che permette di allenare, appunto, lo stile di comportamento assertivo, con benefici sia sul piano soggettivo, emotivo che sociale.
Un presupposto importante da considerare, quando si parla di comportamenti adeguati e efficaci, riguarda la consapevolezza di se stessi, dei propri pensieri, sentimenti e atteggiamenti, del proprio modo di relazionarsi con gli altri e l’ambiente esterno. La consapevolezza è ciò che ci permette di conoscere e di scegliere quale comportamento mettere in atto in una particolare circostanza e in maniera responsabile. È importante dire che, attraverso un training di assertività, non si imparerà ad essere sempre assertivi ma si lavorerà su di sé, sulla conoscenza e consapevolezza di se stessi al fine di avere in mente le possibili alternative e poter attuare scelte responsabili e autonome, con l’auspicato obiettivo di imparare a mettere in atto comportamenti efficaci e funzionali.

Come già anticipato, la competenza assertiva non è intesa quindi come un’abilità innata ma come un’abilità che può essere appresa e potenziata, attraverso la conoscenza teorica e l’allenamento pratico. Proprio questo è lo scopo del prossimo “Corso online di Assertività” organizzato dalla Dott. Ssa Katia Querin e dalla Dott. Ssa Maria Grazia Esposito dell’Associazione Eco, che partirà il 30 Novembre 2020 attraverso la piattaforma Zoom.

Dr.sse Esposito e Querin

Bibliografia

– Anchisi R., Gambotto Dessy M., (2013) “Manuale di assertività, Franco Angeli, Milano;

– Boldorini A., Giannantonio M., (2005) “Autostima, assertività e atteggiamento positivo”, Ecomind;

– Faiella A., “Toglimi quel piede dalla testa per favore. Migliorare le relazioni con l’assertività: farsi rispettare senza prevaricare”, (2010) Gruppo24ore.

 

QUANTO CONOSCIAMO LA NOSTRA SESSUALITA’? Uno sguardo agli elementi che caratterizzano il sesso e le relazioni

Il sesso è un incidente: ciò che ne ricaviamo è momentaneo e casuale;

noi miriamo a qualcosa di più riposto e misterioso di cui il sesso è solo un segno, un simbolo”

Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, 1935/50 (postumo, 1952)

In psicoterapia di cosa si parla? Direi di tutto…. Di tutto ciò che occupa un interesse per il paziente. E in questo “tutto” una buona fetta è rappresentata dal sesso.

Molti varcano la soglia dello studio di un professionista proprio quando compare un “problema” nella camera da letto. Quando si inizia a percepire una propria mancanza di desiderio sessuale, o in quella del partner, emerge, infatti, anche una preoccupazione.

La tematica del sesso viene affrontata in seduta più frequentemente di quanto si immagini; e a dire il vero, racchiudere il contenuto che emerge solo con la parola “Sesso” è anche riduttivo.

Quando si parla di Sesso, in realtà, si sta parlando di come si decide di stabilire o evitare legami emotivi; come si esprime o si nega la propria mascolinità o femminilità; come si alleviano le ansie e le tensioni quotidiane; quali bisogni, desideri, piaceri si intrecciano; quali fantasie si utilizzano per ricercare l’eccitazione e come essa viene mantenuta.

Dare attenzione alla nostra sessualità, in poche parole, significa dare attenzione alla nostra persona e comprenderla permette di comprendere meglio noi stessi.

Come anticipato, nella sessualità troviamo tantissimi elementi intrecciati, spesso aggrovigliati, che rendono la “matassa” difficile da districare, ma un primo bandolo di essa è rappresentato dal senso di sicurezza.

Tutti noi siamo alla ricerca di un senso di sicurezza, sia fisica che emotiva. Così come cerchiamo di evitare situazioni pericolose fisicamente, tendiamo anche ad evitare quello che potrebbe minare la nostra sicurezza psicologica. Perché il senso di sicurezza venga percepito dall’individuo bisogna sperimentare un attaccamento sicuro: fin da piccoli si attiva questa ricerca e un attaccamento insicuro ci farebbe sentire in pericolo.

Un altro bandolo è rappresentato da colpa e preoccupazione che spesso compaiono insieme. Si è costantemente preoccupati di ferire gli altri e quando questo accade emerge il senso di colpa.

Colpa e preoccupazione compaiono già nei primi anni della nostra vita: un bambino non riesce a comprendere che un genitore ha una vita separata da lui e che non è lui ad esserne responsabile (pensiero onnipotente o egocentrico).

Un genitore se si ammalerà, divorzierà o morirà, il bambino si sentirà regolarmente in colpa, come se la causa fosse lui.

Ovviamente durante lo sviluppo, il bambino imparerà a differenziare le proprie motivazioni da quelle altrui, ma il senso di colpa per molti rimane radicato ed esso andrà ad influenzare negativamente l’eccitazione sessuale.

Altro elemento che cogliamo nella sessualità è la vergogna che con essa comporta sentimenti di inadeguatezza, rifiuto e impotenza. Se la colpa riguardava la convinzione che stiamo ferendo gli altri e di conseguenza li rifiutiamo, la vergogna si attiva quando ci sentiamo vulnerabili e indegni agli occhi degli altri e, di conseguenza, ci sentiamo rifiutati.

Tutti noi ci siamo sentiti respinti nella nostra vita, fin da piccoli accade, quando i genitori ci sgridano e/o ci criticano; a volte vergogna e rifiuto sono lievi, altre volte traumatici.

Proverò, ora, a guidarvi nel cogliere meglio tali aspetti: per tanto cerchiamo di comprendere come il senso di sicurezza, la colpa, la preoccupazione e la vergogna si manifestino nella sessualità.

Senso di sicurezza. Come precedentemente anticipato, la famiglia in tal senso gioca un ruolo cruciale. Essa è la prima finestra che ci permette di affacciarsi al mondo sociale.

Nella nostra famiglia acquisiamo forze e virtù ma anche credenze patogene che modellano le nostre esperienze di femminilità e mascolinità.

Le bambine crescono idealizzando l’amore romantico, ricercando una relazione stabile perché essa rappresenta una sicurezza sia oggettiva che soggettiva, evitando in questo modo la possibilità dell’abbandono.

I bambini, d’altro canto, devono crescere manifestando costantemente la loro virilità, crescono dovendosi separare dalle madri e rafforzare la loro mascolinità.

Il ruolo del padre è fondamentale poiché deve essere in grado di accogliere l’indipendenza del figlio e la sua mascolinità che si va a definire man mano che cresce, senza però svalutare e allontanare troppo la madre. Tutto questo si complica quando la figura paterna è emotivamente o fisicamente assente.

Negli uomini, quindi, l’oggettivazione delle donne e dei loro corpi permette di dividere il sesso dall’intimità, evitando di rimanere invischiati nei sentimenti e nei bisogni delle loro partner sessuali, garantendo un senso di sicurezza (momentaneo) tale da permettere l’eccitazione.

Colpa e preoccupazione. Sebbene il senso di colpa sia universale, le donne sembrano essere più inclini. Vengono educate fin da piccole a essere sensibili ai bisogni dei propri partner, ad essere gratificate nel dare e non nel ricevere, ad essere oggetto del desiderio piuttosto che desiderare qualcuno.

Per quanto la donna abbia lottato negli anni alla ricerca di un’emancipazione, ci portiamo tutt’ora dietro gli strascichi di una società maschilista: alcune donne sentono che una volta impegnate (l’impegno viene percepito maggiore quando c’è il matrimonio e i figli) si deve abbandonare la vita sessuale, il piacere che ha caratterizzato gli anni in cui si era single. Si da quasi per scontato che una donna dopo essere diventata madre perda automaticamente la propria passione, la propria energia sessuale, il proprio desiderio.

Tutto questo rende difficile far sì che si segua il principio del piacere e si manifesti la propria eccitazione. Ci si trova a preferire un ruolo sottomesso, mentre il ruolo dominante attrae maggiormente gli uomini.

Neanche gli uomini, però, sono esclusi dal senso di colpa e preoccupazione. Fin da piccoli si insegna loro a non mostrare emozioni perché “la sensibilità diventa debolezza”.

Ed ecco che l’approccio educativo a cui siamo sottoposti da bambini genera una conseguenza anche nella nostra sessualità da adulti: le donne tenderanno a ricercare Amore, ricercando l’eccitazione sessuale all’interno di una relazione, mentre gli uomini tenderanno a scindere il piacere sessuale dalla gratificazione emotiva.

Queste dinamiche sono così radicate nella nostra cultura al punto che le nostre menti diventano terreno fertile in cui portarle avanti. È visibile, infatti, nei messaggi pubblicitari, nel mondo della moda, nella pornografia, nei film, nei fumetti ecc.: le donne sono gli oggetti di sguardi maschili.

La donna, con la sua abilità seduttiva, attira l’attenzione dell’uomo ma non può esprimere un desiderio attivo autonomo.

Vergogna e senso di rifiuto. Pensiamo a come la sessualità spesso venga utilizzata per fornire un sollievo, temporaneo, dal disgusto che proviamo per noi stessi. Una persona eccitata non si sentirà né inadeguata, né imbarazzata per il proprio corpo, ma vien da sé che queste sensazioni quando sono presenti minano la sensazione di piacere, ostacolando eccitazione e sessualità.

Se si prova vergogna si crede che gli altri ci possano rifiutare; se si è eccitati si ricerca l’altro e ci si sente forti: in pratica, sono agli antipodi.

Ed ecco che crescendo si delineano le fantasie sessuali come soluzioni delicate al senso di colpa e preoccupazione, ma anche alla vergogna e alla sensazione di rifiuto che l’essere umano prova.

Il sadomasochismo, il piacere nel farsi legare e bloccare, il feticismo, il voyeurismo sono solo alcune delle fantasie sessuali che si attivano inconsciamente per tranquillizzare le ansie relative alle nostre credenze patogene. Credenze che fin da piccoli si sono rinforzate su quanto i nostri bisogni e desideri potessero determinare un danno ai nostri caregiver, di essere un pericolo magari per una mamma debole e depressa e per tanto di esserlo per tutte le donne, o di non meritare di ricevere cure da quella madre che era troppo assorbita dalla propria sofferenza da non riuscire a sintonizzarsi con i bisogni del proprio figlio.

Si utilizzano scenari in cui si prende o si cede il controllo, si scambiano i ruoli psicologici che nella realtà si sono vissuti per sentirsi momentaneamente sollevati e permettersi di sentirsi abbastanza sicuri per eccitarsi.

L’intento di questo articolo non è sicuramente quello di avanzare una “spiegazione” delle nostre fantasie sessuali, anche perché inevitabilmente otterremo il risultato opposto: lo spegnersi dell’eccitazione. Apportare, però, uno sguardo alle relazioni in senso più ampio e agli elementi che inconsciamente ricerchiamo, ci rende più consapevoli, anche sulla nostra sessualità.

Dott.ssa Sonia Allegro

Psicologa-Psicoterapeuta

Bibliografia:

Michael Bader “Eccitazione. La logica segreta delle fantasie sessuali” , Raffaello Cortina Editore, 2018.