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Genitorialità al tempo del Covid-19

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Come è noto, l’11 marzo 2020, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato la pandemia per il COVID-19. In una condizione pandemica si rendono necessarie misure drastiche e restrittive al fine di contenere la diffusione del virus. Queste misure ci hanno portato in un lasso di tempo brevissimo a stravolgere completamente i nostri schemi di azioni e relazioni. Separati dagli affetti e dalla normale routine quotidiana ci si è trovati a fare i conti con un senso di isolamento e di solitudine. Le domande e le paure provate, pensate, percepite in questo momento possono essere molte e anche profondamente angoscianti poiché non è chiaro quando finirà tutto questo, quando si potrà ritornare a condurre una vita senza restrizioni e, infine, non è possibile individuare in modo univoco quali saranno le ripercussioni sul piano economico, sociale, sanitarie e psicologico. Ciò nonostante, all’adulto rimane l’oneroso compito di cercare un equilibrio tra lo stato di emergenza e la routine quotidiana, anche quando quest’ultima viene stravolta. Quando l’adulto è anche genitore sicuramente il carico si moltiplica, proviamo quindi a fare un po’ di luce sugli aspetti della genitorialità ponendo riflessioni e suggerimenti dando qualche punto fermo verso cui indirizzare il proprio agire.

Cosa dicono le ricerche (1,2) sugli episodi di quarantene avvenuti precedentemente la comparsa del Covid-19? Insonnia, sintomi depressivi, irritabilità, ansia e la comparsa di sintomi da stress post traumatico sono tra i più frequenti a comparire assieme al senso di isolamento e di solitudine. Vediamo ciascuno stressor e cosa si può fare per evitare di far nascere o ridurre al minimo il malessere psicologico:

  • durata della quarantena: maggiore è la durata della quarantena e maggiore è il rischio di non godere di una buona salute psicofisica

Fermi, lo so quello che state pensando, il lockdown italiano perdura dal 9 marzo, quindi è praticamente un mese. L’isolamento e la coabitazione forzata hanno un costo enorme, l’attività sportiva è praticamente azzerata (se non è praticata indoor), le attività ludiche, le passeggiate familiari, i contatti sociali annullati. Siamo tutti alla frutta? Ovviamente no, per riuscire a stare bene con se stessi e far star bene i propri figli sono sufficienti poche e chiare regole. Un primo esempio è la gestione dei conflitti, si sa che vivere, in tempi di pace, sotto lo stesso tetto può creare attriti molto forti e litigi anche accessi, figuriamoci in un momento così instabile come questo cosa può produrre a livello di conflitto. Bisogna però tenere a mente che litigare in famiglia, se resta entro soglie tollerabili, è il modo migliore per sperimentare il conflitto in modo sicuro e portarlo poi all’esterno della famiglia, come proprio bagaglio personale. Sullo stesso livello si pone anche il poter far sperimentare al figlio che i genitori si possono trovare su due posizioni opposte, ma che attraverso il dialogo sanno trovare una sintesi alle loro posizioni di partenza. Bisogna poter verbalizzare ciò che crea questa tensione in modo da creare la base narrativa su cui costruire un dialogo familiare.

Uno spunto che può essere utile per sentire maggiore equilibrio è un cambio di prospettiva rispetto alla quarantena che si sta vivendo anche troppo coattamente, forse. Da “rinchiusi in casa” (che si porta tutta una serie di connotazioni negative) a “al sicuro in casa” (in questo cambio di visuale la cognizione su di sé e sui propri figli si pone con una connotazione di protezione e di sicurezza di sé stessi, per sé stessi e verso gli altri).

Restando in tema di equilibrio il genitore deve avere, e mantenere, una posizione che sia realistica rispetto a quello che sta succedendo (ad esempio non facendo finta che sia tutto normale o facendo finta di non essere minimamente preoccupati quando magari si è spaventati), scientificamente informata (più avanti vediamo nel dettaglio questo punto), emotivamente equilibrata (cioè in contatto con le proprie emozioni e nella consapevolezza di quello che succede), infine, tenendo una posizione né svalutante nè sottovalutante degli altri e dei pericoli che possono essere presenti. In altre parole i genitori rappresentano per i propri figli una vera e propria finestra sul mondo, cioè fanno da cassa di risonanza di quello che avviene fuori dalla porta di casa. Ecco che, allora, risulta importantissimo (in qualsiasi fascia di età) saper introdurre il mondo senza personali distorsioni (magari angosciose, ansiose o peggio ancora persecutorie) ma consentendo al proprio figlio di trovare nella sua figura di riferimento un punto saldo a cui identificarsi. Lo strumento d’elezione per fare ciò è la narrazione: ?

Tema contiguo alla narrazione è la scelta con cui questa viene fatta e lo stile adottato poiché come genitori si ha una grandissima responsabilità comunicativa (attenzione questo vale sempre, ma in questo momento ancora di più): non solo conta il cosa diciamo, ma soprattutto come lo diciamo! Questo perché è facile che le bugie raccontate (immagino per loro protezione perché magari non si sa come raccontare che si ha paura, si è preoccupati etc…) vengono riconosciute in fretta con conseguente perdita di credibilità. Bisogna raccontare sempre la verità ai propri figli, ma adeguando la terminologia utilizzata in modo che si adatti alla comprensione e al mondo dell’infante, del bambino o dell’adolescente.

Un altro punto essenziale su cui interrogarsi è come gestire la quotidianità, come tutte le cose il compito più arduo spetta proprio ai genitori, i quali devono suddividersi tra lavoro (nel caso si stia ancora andando), smartworking, gestione domestica e homeschooling (didattica a distanza e video lezioni, compiti etc). Sarà quindi l’adulto a cadenzare la giornata mantenendo, per quanto possibile ovviamente, delle regolarità. A seconda dell’età del/dei figlio/i ci sarà una strutturazione differente, ma bisognerebbe rispettarla sempre: ad esempio, mantenere una regolarità sugli orari di sveglia e andata a dormire; al mattino dedicare parte delle ore a disposizione a studiare e//o a seguire le lezioni a distanza. Nel pomeriggio ritagliarsi degli spazi di gioco/svago e a seconda dell’età meglio non eccedere con tablet, cellulari, console etc (al di sotto dei tre anni non ci deve proprio essere accesso, nella fascia materne sarebbe meglio evitare, ma se ciò non è possibile limitare a 2/3 volte a settimana per una ventina di minuti massimo a volta; per la fascia di età 6-11 mantenere 2/3 volte a settimana con un tempo di utilizzo che non supera i 45 minuti, un’ora).

In questo contesto è molto facile che possa avvenire una regressione (a livello comportamentale e/o linguistico) soprattutto dei bambini al di sotto degli 11/12 anni. Questa va assecondata la maggior parte delle volte, va capita, compresa per dare spazio a ciò che il/la figlio/a sta provando e sperimentando, per questo motivo risulta fondamentale dare una routine che aiuti nel contenere le ansie e le angosce che attraversano il bambino o l’adolescente. Perché può avvenire questa regressione? Perché non c’è lo spazio, il contenitore, dove rovesciare tutto questo, o meglio, precedentemente veniva riversato su altri livelli (scuola, amici, sport etc…), ma adesso sono solo i genitori i contenitori presenti h24. Bisogna armarsi di tanta pazienza perché non bisogna sgridarli o rimproverarli!

  • Paura del contagio/ di contagiare: la preoccupazione maggiore risulta quella appunto di essere contagiati e/o contagiare, soprattutto i propri familiari e i propri figli. Sottostante a questa paura è presente la preoccupazione connessa con la morte. L’intensità di queste sensazioni proviene dalle risorse personali che sono spendibili sul versante emotivo e psicologico, dal lavoro che viene svolto e dalla percezione che si ha del rischio.

Come fare? Anche in questo caso è fondamentale ammettere quello che si sta provando, ad esempio paura, perché si sta provando quel tipo di sensazione e in questo modo dotarlo di senso, narrarlo. Fare lo stesso con i propri figli che magari chiedono o non si osano farlo come sta il proprio punto di riferimento. Quale migliore occasione viene presentata per far vedere come si fa? Per trasmettere come si diventa grandi e forti, forte, infatti, è colui che ha la possibilità di sentire tutte le emozioni che esperisce dandosi la possibilità che queste arrivino così come sono in modo da conoscerle e gestirle. Può essere un canale, con i bambini della materna e delle elementari, ad esempio passare dal disegno rispetto alle paure che hanno per sé o per i propri genitori, con gli adolescenti può essere utile passare da canzoni che ascoltano o domandando loro cosa ne pensano dell’influencer che seguono, o youtuber etc. L’aspetto importante è che ci sentano disponibili, vicini, sinceri, autentici ricordando di lasciare loro spazio rispetto a quello che pensano o temono.

Una facilitazione delle comunicazioni è data dall’accesso ai dispositivi tecnologici che permettono di annullare distanze, ma anche far sentire più vicini in questo momento di pesante limitazione delle libertà personali. In questo senso può aiutare a gestire le angosce di contagio e di morte lasciare che i tempi passati davanti ai device (stiamo parlando di adolescenti) per video chiamate (singole o di gruppo) sia superiore rispetto alla norma; caso differente per i bambini al di sotto degli 11 anni, qui il lavoro deve essere fatto dai genitori (vedi sopra) senza escludere videochiamate agli amici o ai parenti (ma il tempo e la gestione di questo deve essere sempre in mano all’adulto cercando di non superare le 3 volte a settimana). Al di sotto dei 6 anni sarebbe preferibile interazioni con le videochiamate se non eccezionalmente e sporadicamente, ricordando che sotto i due anni non si hanno gli strumenti per capire e gestire cosa sta avvenendo e fondamentalmente l’unico legame di cui si ha necessità in quella fascia d’età è quello genitoriale.

Infine, per fronteggiare la minaccia della morte stiamo osservando come l’impotenza che ci ha colpiti si trasformi nella migliore occasione cioè creare condivisione tra le persone in quarantena (questo è il senso dell’appuntamento sui balconi e dei flash-mob) ma da soli non sono sufficienti a dare continuità a tutto questo, c’è bisogno di senso e di narrazione.

  • frustrazione e noia.

Il confinamento coatto ha fatto perdere la routine quotidiana e ha fatto perdere quei piccoli gesti che davano un senso e senza i quali ci sentiamo persi, vuoti, annoiati noi adulti figuriamoci le piccole creature che si aggirano per casa. Aiuto cosa faccio? Lascio mio figlio giocare tutto il tempo alla play o lo riempio di cose da fare? Fermi tutti! La noia è uno strumento importantissimo per un bambino nella sua crescita per poter imparare a connetterci con quello che siamo nella nostra personalità e intimità. Nella vita pre-Covid-19 credo che l’agenda di vostro figlio fosse scandita quasi al secondo tante le cose che aveva da fare (scuola, compiti, allenamenti, feste, appuntamenti, parenti etc), bene ma mancava, forse, una cosa importantissima: uno spazio lento che permettesse di stare ed esplorare le emozioni. Ora c’è, volenti o nolenti, sfruttiamolo! Partiamo dalle fake news: lasciarli annoiare non equivale a trascurarli, la noia non è depressione, vanno però accompagnati in questo percorso e non lasciati da soli. La noia permette di cercare all’interno di sé stessi, di impegnarsi attivamente, di scoprire cosa gli piace veramente e di trovare soluzioni a compiti creativi, insomma tutt’altro che una mente sonnecchiante. Imparare, bene, a stare con la noia dà la possibilità di sentire cosa si prova e quindi connettersi con le proprie emozioni e imparando a gestirle e, invece, a rifuggirle o a gettarle all’esterno senza sapere cosa farne. Se, da genitore che ha paura di questo vuoto perché magari è la mia paura di rimanere con la mia noia, propongo subito qualcosa, una soluzione implicitamente sto svalutando mio figlio dicendogli che ha bisogno subito di qualcosa perché da solo non si basta, che con sé stessi non si sta bene e c’è necessariamente bisogno di qualcosa che li intrattenga. Nulla di più sbagliato, se stessi è un bel posto dove stare, ci si può fare domande, capire cosa si può fare. Vanno accompagnati in questo poiché da soli non lo sanno fare bene, allora può essere utile programmare momenti di vuoto, e quale momento migliore se non questo dove è più semplice trovare questo vuoto e magari non riempiendolo subito…

In tema di momenti lenti può essere utile proporre (ad un pubblico di adolescenti e perché no ai genitori) di ascoltare, prima di andare a letto per esempio, storie in podcast. Questo genere di attività consente di affascinarsi alla lettura fatta da una voce esterna che guida nel testo e porta la mente a focalizzarsi meglio su quello che provano a livello emotivo. Per i bambini sotto gli 11 anni questo discorso non vale, la lettura deve essere fatta dall’adulto a fianco a lui, magari nel rituale della buonanotte in cui raccontarsi anche la giornata e cosa si è provato a livello emotivo. Da tutto questo (per i bambini under 11) sarebbe meglio togliere la tv (soprattutto prima di andare a dormire) e lasciare al rituale della lettura e della narrazione emotiva la conclusione intima e calda della giornata.

Alcune indicazioni che possono risultare utili a coloro i quali non hanno la possibilità di avere un controllo su quello che avviene nel corso della giornata:

1) per le ricerche che si effettuano online si può mettere un filtro partendo dalle impostazioni di google (si chiama SafeSearch), questo filtro consente di bloccare temi considerati problematici o scabrosi, pertanto nella ricerca non vengono trovati.

2) Youtube, soprattutto tra i più giovani, spesso sostituisce la tv e si possono cercare no contenuti video che possono risultare problematici, scabrosi, violenti. Il problema in questo caso deriva dai video correlati che Youtube apre in automatico, come per google citato sopra, anche qui è possibile impostare una “modalità sicura” dalle impostazioni. Una valida scelta per gli under 10 è Youtube kids che offre contenuti adatti per i più piccoli dato che sono vagliati attentamente.

  • informazioni inadeguate e percezione del rischio. Meno sono e più frammentate e caotiche sono e maggiore è la probabilità di trasformare le informazioni relative al Covid-19 uno stressor ma anche un predittore significativo di sintomi da disturbo post traumatico da stress.

Le comunicazioni riguardanti la diffusione del virus devono essere chiare e tempestive (non solo come informazioni da reperire, ma anche quella da portare all’interno della propria famiglia). Ricordo che le informazioni servono a trasmettere quello che sta accadendo. Se il proprio figlio dovesse sentirsi agitato o in ansia dalle notizie ricevute non va minimizzato né dirgli: “Non andare in panico” poiché questa comunicazione ha un effetto boomerang paranoico: intende di stare tranquillo ma sottointende che nella realtà non viene raccontata tutta la verità e tiene qualche informazione nascosta. La cosa migliore da fare è farsi sentire emotivamente saldi, che non si va in pezzi e offrire questo supporto.

Sempre rispetto alle informazioni ricordo che questi sono i canali ufficiali a cui far riferimento (Istituto Superiore di Sanità: https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/; Organizzazione Mondiale della Sanità: https://www.who.int/health-topics/coronavirus#tab=tab_1; Ministero della Salute: http://www.salute.gov.it/nuovocoronavirus) e che il pluralismo di voci rischia di generare caos e confusione a valanga per cui ciascuno si sente libero e autorevole di dare i dire la sua versione, quando è tutt’altro che auspicabile. Questo però consente di mantenere una mente critica e autorevole ed è un messaggio niente affatto scontato ed è ciò di cui i nostri figli han bisogno. Inoltre, permette di non cadere nel tranello di improbabili (ma assolutamente veritiere come non credervi!!!) catene su whatsapp del cugino della panettiera amico del chirurgo che ha contatti con i vertici e che dirama un messaggio che nessuno ha ancora avuto modo di avere!

Questa pandemia ci spaventa e terrorizza perché ci ha reso consapevoli che è il legame umano che diffonde il virus, ma l’attaccamento umano promuove non solo benessere, ma soprattutto calore e fiducia. Utilizziamo questo tempo per imparare a stare con ciò che abbiamo, a stare bene nelle relazioni che ci nutrono e sfruttare il progresso tecnologico per dare un senso a quanto accade.

Dottor Kalman

1) S.K. Brooks, R.K. Webster, L.E. Smith, L. Woodland, S. Wessely, N. Greenberg, G. James Rubin, The psychological impact of quarantine and how to reduce it: rapid review of the evidence, «Lancet», 395, 2020 pp. 912–20 Published Online February 26, 2020

2) Y.T. Xiang, Y. Yang, W. Li, L. Zhang, Q. Zhang, T. Cheung, Chee H Ng, Timely mental health care for the 2019 novel coronavirus outbreak is urgently needed, «Lancet», 7, 2020 p. 228-229 Published Online February 4, 2020 https://doi.org/10.1016/ S2215-0366(20)30046-8

SETTING 2.0

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L’avvento di internet ha modificato profondamente la nostra quotidianità e, spesso anche il nostro modo di costruire ed intrattenere relazioni. Questo fenomeno è stato un percorso graduale che, quasi per tutti, è andato di pari passo con lo sviluppo tecnologico e la disponibilità di apparecchiature di utilizzo sempre più intuitivo e prezzi sempre più accessibili. Il cambiamento, tuttavia, è avvenuto dunque gradatamente, passando da connessioni inizialmente lente che rendevano spesso complessa la condivisione di immagini e video, o dalla necessità di doversi necessariamente da uno specifico luogo fisico (il computer di casa o gli internet point), etc. per poi diventare, letteralmente, a portata di mano. Oggi, infatti, grazie agli smartphone siamo potenzialmente connessi 24/7/365. Ciò ha indubbiamente contribuito ad accorciare le distanze (pensiamo ad esempio a membri della stessa famiglia che vivono in città diverse), ha reso fruibile molto materiale, ha consentito di avvicinarsi a mondi altrimenti inaccessibili (oggi è possibile, ad esempio, visitare il MOMA comodamente dal proprio divano di casa o tradurre qualsiasi frase in qualsiasi lingua del mondo).

In un periodo come quello attuale in cui la quarantena ha inevitabilmente costretto a (ri)ereggere muri
concreti tra le persone, la rete ci ha comunque permesso di attraversarli, addirittura permettendoci di
sfruttarla in maniera non convenzionale, magari permettendoci di avvicinarci a nuove attività come i
corsi di yoga o il fitness in casa, corsi di inglese, cucina, “video-cene”, … superando la necessità di spostarci fisicamente da un luogo all’altro.
Tuttavia, questo periodo storico, ha anche messo alcune persone di fronte alla perdita, al trauma, allo
stress; ha impedito quei contatti sociali diretti che prima erano di vitale importanza, contribuendo a
generare, o ad acuire, la sofferenza psicologica.
Con il termine e-Health si intende l’utilizzo di strumenti basati sulle tecnologie dell’informazione e della comunicazione per sostenere e promuovere la prevenzione, la diagnosi, il trattamento e il monitoraggio delle malattie e la gestione della salute e dello stile di vita.
Già nel 2012 il CNOP (Consiglio Nazionale Ordine Psicologi) aveva condotto una ricerca per indagare la presenza di psicologi e psicoterapeuti che svolgevano la propria professione anche “online”, cioè utilizzando quelle piattaforme per chiamata, videochiamata o messaggistica che ovviano alla presenza vis-à-vis riscontrandone una discreta diffusione. Di qui era nata l’esigenza di redigere delle linee guida per la gestione di questi nuovi canali: se infatti l’avanzamento tecnologico prosegue ad una certa velocità, l’adeguamento delle norme di privacy e/o le connesse peculiarità burocratiche non sempre riescono a stare al passo e ad evolversi alla stessa velocità e, per questo, richiedono un monitoraggio costante.
Come è noto, l’alleanza terapeutica è fondamentale per gli esiti del trattamento psicoterapeutico, uno
studio del 2002 ha rilevato che non ci sono differenze significative tra chi svolge le sedute vis-à-vis e chi on line; in particolare, non sono state rilevate differenze per quanto riguarda la modalità di comunicazione e la presentazione delle problematiche. Inoltre, in alcuni casi, la presenza di un medium tecnologico ha persino avuto un positivo effetto disinibitorio. Il livello di alleanza terapeutica non varia né con gli adulti né con gli adolescenti, ma può esserci un minor investimento con i più piccoli in quanto occorre tenere in considerazione che spesso, in questi casi, la terapia prevede il gioco simbolico purtroppo non proponibile esclusivamente attraverso il pc.
Tra gli aspetti indubbiamente positivi, tuttavia, va tenuto in considerazione anche il fatto che la tecnologia ha anche permesso di offrire più facilmente la psicoterapia ad una fetta di popolazione altrimenti difficilmente raggiungibile, come ad esempio chi vive ancora con stigma la sofferenza psicologica, chi nutre forte resistenza, chi abita in luoghi isolati, chi ha una mobilità fisica ridotta, chi è in lista di attesa per una presa in carico, …
Nell’ambito dell’età evolutiva, per esempio, questa nuova modalità ha permesso di raggiungere con più facilità i ragazzi che stanno attraversando un periodo di ritiro sociale o una fobia scolare in maniera più semplice ed efficace.
Scorrendo la letteratura, si evince che la e-therapy risulta efficace in una varietà di disturbi, come ad
esempio: disturbi post traumatici da stress, lutto, disturbi di panico e disturbi alimentari, ansia e depressione.
Un incoraggiante studio del 2013, condotto da alcuni ricercatori di Zurigo, ha osservato una remissione della depressione nel 53% dei pazienti trattati con e-therapy e nel 50% dei pazienti con terapia face to face; uno studio del 2001, analizzando il lavoro di alcune coppie in terapia via webcam, non ha rilevato differenze significative in termini di efficacia rispetto alla terapia in setting tradizionale.
Questo è possibile perché nella stanza di analisi, o di terapia in generale, l’incontro avviene sì tra le persone fisicamente, ma, soprattutto, tra le loro menti. Il setting terapeutico, quindi, non è solo il luogo fisico, ma è quello spazio relazionale che il terapeuta ed il paziente creano e che, nonostante abbia delle peculiarità (orario, durata, cadenza, regole per il pagamento, etc.), non per questo è sterilmente rigido.

Certamente la nuova prospettiva, la nuova metodologia, i nuovi canali e i linguaggi che queste nuove
modalità portano con sé sono da tenere in considerazione ed è compito del clinico gestirli in maniera
appropriata e dare senso a ciò che accade in questo nuovo condiviso spazio virtuale.
Concludendo, la tecnologia oggi ha offerto uno strumento in più da mettere nella “valigia degli attrezzi” dello psicoterapeuta, l’e-therapy non è certamente l’unica strada percorribile, ma può comunque rivelarsi efficace in determinati contesti in cui l’unicità della coppia di lavoro terapeuta-paziente è di fatto il nocciolo della relazione, indipendentemente dal canale attraverso il quale viene realizzata.

 

Dr.ssa Debora Tonello

Quale libro ha uno psicoterapeuta sul suo comodino?

 

Lo psicologo per i suoi pazienti è qualcuno avvolto da un alone di mistero. Talvolta appare come il depositario di un sapere sconosciuto a chi non è del suo mestiere, altre volte sembra colui che ha le risposte, altre volte ancora sembra un essere umano diverso dagli altri e quando ci accorgiamo che è umano anche lui ne rimaniamo un po’ delusi, o un po’ rassicurati.

In questo periodo dove prevalgono le cattive notizie e barlumi di speranza, ho pensato di rendere meno oscuro questo individuo chiedendo ai colleghi e a me: “che libro hai in questo momento sul comodino?”.

Perché i libri, per chi è riuscito a farseli amici, sono come canta il topo con gli occhiali nella omonima canzone ” amici, che fanno compagnia. I libri sono ali che aiutano a volare. I libri sono vele che fanno navigare. I libri sono inviti, a straordinari viaggi …” .

Allora cominciamo il viaggio sui comodini dei nostri psicoterapeuti tra libri tecnici, letteratura e fumetti!

Dr.ssa Allegro: Perché lo leggo? Perché il sesso (e l’eccitazione) fa parte delle nostre vite e di quelle dei pazienti.

 

 

 

 

 

 

 

 

Dr.ssa Meloni Ho deciso di avvicinarmi alla lettura di questo libro, incuriosita dal titolo: Resisto dunque sono.

Oggi come non mai torna attuale il concetto di resilienza, ossia la capacità di portare avanti i nostri obiettivi, nonostante le difficoltà che si dovranno affrontare lungo il cammino.

In questi giorni le difficoltà sono rappresentate anche dai cambiamenti che ci troviamo a vivere e questo libro racconta di quanto sia funzionale vedere i cambiamenti come una sfida e un’opportunità e non come una minaccia. Fondamentale per me è riuscire a trasferire e trasmettere l’importanza di mantenere viva la motivazione ed essere regolati nelle nostre azioni da ciò che per noi è significativo, da quei valori che rappresentano la nostra bussola per il cammino.

Ho deciso di fare un piccolo atto di gentilezza nei miei confronti, regalandomi la lettura di questo libro che parla proprio di resilienza, declinata in ambito sportivo, ambito a me lontano, ma perché non darsi questa opportunità?

Dr.ssa Tonello “La bambina con i sandali bianchi” è un testo di resilienza  che offre uno spunto per

coltivare la speranza e la determinazione. Le ferite possono diventare energia per il cambiamento?

“Zerocalcare”. La riflessione sociopolitica in chiave leggera mi apre la mente senza appesantirmi.
Dr.ssa Pugno. Io non leggo in camera da letto, ma in bagno. Quello nella foto è il mio “comodino”. Sto leggendo Volevo solo pedalare di Alex Zanardi. Devo dire che lo stile colloquiale rende molto godibile la lettura. Racconta la storia di come da un incontro fortuito in un parcheggio sia cominciata la sua avventura verso l’oro paraolimpico. E’ bello vedere/sapere che dalle difficoltà, dalle crisi, si può far nascere un’occasione per una vita differente. Leggendolo fa venire anche a me l’idea balzana di poter partecipare alle paraolimpiadi. Ma per fortuna non posso farlo 🙂
Dr.ssa Aringhieri. Il mio comodino non prevede un libro, poiché in questo periodo sarebbe un obiettivo troppo performante rispetto al tempo a disposizione!
La lettura di un articolo prima di addormentarmi è qualcosa di più accessibile!
Dr.ssa Esposito. Regalatomi da un caro amico tempo fa, ho potuto finalmente iniziare a leggerlo…Mi appassiona molto perché riesce a trasmettermi emozioni forti e adrenaliniche attraverso una trama intricata che lascia di stucco in modo costante e imprevedibile!
Dr. Carbonetti. Sto rileggendo in questo periodo Kafka sulla spiaggia di Murakami. Un modo per viaggiare oltre le limitazioni.

Dr.ssa Lussiana. Un insieme di aneddoti, storie, esperimenti ci accompagnano alla scoperta delle domande più intriganti sul comportamento umano e sul modo in cui pensiamo. Sigman, premiato neuroscienziato argentino, riesce ad essere anche un divulgatore appassionato, leggero e ironico. 
Un libro assolutamente non tecnico, adatto a tutti coloro che, come me, vogliono curiosare nei meccanismi della mente e trovare risposta a molti “perché?”.
Gli argomenti di questo libro li trovate anche in un TED che Sigman ha tenuto nel 2016! 
https://youtu.be/uTL9tm7S1Io

 

Dr.ssa Totaro. La vera storia di Billy S. Milligan, uno dei casi più affascinanti di Disturbo Dissociativo dell’Identità.
Il libro è stato scritto da Daniel Keyes con la collaborazione del “Mastro”, una delle 24 identità di Billy.
Dr. Lagona. Quando romanzo storico, letteratura di genere e fumetto si incontrano ne nasce una trilogia accattivante e coinvolgente. Consigliatissimo per “evadere”.
Dr.ssa Delia. Sto leggendo Il Colibrì di Sandro Veronesi. Affronta un tema che in qualche modo richiama l’esperienza della quarantena, ovvero il significato dello stare fermi. Nel caso del libro, riuscire a stare fermi quando la vita ti dà delle “spallate terribili” è prova di una grande capacità di resistenza e resilienza.
Dr.ssa Calabrese. Sul comodino ho un libro fotografico. Mi piace il graphic design e trovo che il mondo della pubblicità offra un sacco di spunti per riflettere su vizi (e virtù?) dell’uomo. Qui si tratta del boom economico post-bellico negli U.S.A.”
Dr. Kalman. “Non c’è niente che abbia senso, è tanto tempo che lo so. Perciò non vale la pena di far niente, lo vedo solo adesso.”
Inizia così questa novella che narra la vicenda di un gruppo di giovani adolescenti. Al primo giorno di ripresa dell’anno scolastico, uno di questi ragazzi proclama questa verità: nulla ha senso e lascia la scuola per passare le sue giornate su un albero. I compagni infastiditi dal dubbio che lui possa avere ragione cercano di dimostrargli e forse ancor più dimostrarsi che si sbaglia. Parte in questo modo una ricerca di senso e significato in un’età fragile e al contempo creduta forte che è l’adolescenza. In una spirale nauseante vengono man mano fuori follia, paura, ma soprattutto l’essere abbandonati a se stessi. Il pugno allo stomaco arriva dritto a far riflettere l’adulto che un tempo è passato da quella spirale.
Dr.ssa Di Pierro. Il viaggio di un ragazzo nel passato che rappresenta in realtà, un viaggio dentro di sé attraverso la ricerca di una maggiore autoconsapevolezza. Emozioni, sensazioni e convinzioni permetteranno a Tazaki l’incolore, di trovare i suoi colori e quindi, di trovare un po’ di più se stesso.
Dr.ssa Querin. “Ho cominciato a leggere questo libro alcune settimane fa, prima dell’emergenza Coronavirus, in relazione al mio desiderio di approfondire una situazione clinica che incontriamo spesso nei nostri studi di psicoterapeuti, quella del trauma appunto. E ora, in concomitanza con l’emergenza internazionale che ci troviamo a vivere, ahimè, questo testo risulta fin troppo calzante…. Esso mette in luce le caratteristiche dell’evento traumatico, estremo,improvviso, soverchiante, sia che si tratti di eventi “straordinari”, (guerre, attacchi terroristici, disastri naturali), sia che si tratti di eventi, purtroppo, “ordinari” (abusi, maltrattamenti). Attraverso l’intreccio di teoria e testimonianza di persone sopravvissute a diverse esperienze traumatiche, il libro illustra le principali fasi del processo di guarigione: la creazione di un saldo senso di sicurezza, l’elaborazione e l’integrazione della storia del trauma, la ricostruzione dei legami tra la persona sopravvissuta e la comunità. È un libro del ‘97, ma, a mio parere, assolutamente attuale ed efficace nell’affrontare ciò che è impensabile e indicibile, aprendo nel contempo alla speranza e alla fiducia: i concetti espressi rimandano a aspetti essenziali, la dignità, il coraggio, libertà, il valore personale, ma anche l’umanità, l’altruismo, il senso di appartenenza e la solidarietà …. temi che risuonano in modo particolare nella situazione attuale, costituendo risorse importantissime che abbiamo e dobbiamo imparare ad utilizzare se vogliamo ri-cominciare a vivere.”

Osservazioni poco cliniche di una psicologa clinica, ovvero storia di un animaletto

Fonte: pixabay free

E un giorno credi questa guerra finirà
ritornerà la pace ed il burro abbonderà
e andremo a pranzo la domenica fuori porta a Cinecittà

San Lorenzo F. De Gregori

Quella che voglio raccontarvi è la storia di un animaletto piccolissimo tanto da non poter essere visto se non al microscopio, dall’aspetto carino, assomiglia ad una pallina da mettere sull’albero di Natale. Questa, apparentemente insignificante, “bestiolina” sta mettendo in ginocchio il mondo intero: lo temono persino i banchieri, i più potenti politici del mondo, grandi finanzieri e i magnati dell’industria. Colpisce indifferentemente il cosiddetto uomo della strada, il grande campione di calcio e perfino i divi di Hollywood! Fa tremare anziani e giovani, chi può fugge, cercando di mettersi in salvo.

Va detto che questo animaletto è riuscito laddove anche i più grandi statisti hanno fallito: è riuscito a ridurre l’inquinamento, la delinquenza, l’attacco degli hater, il cyberbullismo, perfino lo spaccio! Insomma da qualunque parte la si guardi sta riuscendo a cambiare irrimediabilmente la vita del mondo intero.

Stiamo già adesso assistendo ad un cambiamento epocale delle nostre vite, totalmente stravolte nella loro quotidianità e, anche per questo, con più o meno rilevanti contraccolpi emotivi.

Ci scopriamo estremamente fragili e vulnerabili; la medicina si mostra in tutta la sua fallibilità. Ma è proprio in questo momento che scopriamo che medici e infermieri – esseri umani in camice bianco – sono loro, il nostro riferimento e il nostro aiuto. E’ l’uomo che aiuta l’uomo.

Ci sentiamo allo stesso tempo esposti al contagio, ma anche possibili untori; io sono la vittima o il pericolo per gli altri? Impariamo che possiamo essere, in tutte le circostanze della vita, entrambe le cose, a tenere a mente che dobbiamo proteggere noi stessi, ma qualche volta dobbiamo fare attenzione agli altri, a proteggerli da ferite che involontariamente potremmo inferire.

Abbiamo imparato a tenere “almeno un metro di distanza”, e mai, come in questo momento ci chiediamo qual è per noi la “giusta” distanza? Scopriamo talvolta le nostre case troppo strette per contenere tutta la famiglia, ma scopriamo anche che quelle meteore che talvolta vedevamo attraversare velocemente il salotto di casa erano quei figli che ora ci guardano, ci parlano e si confrontano con noi.

È come se dal 9 marzo le nostre vite avessero subìto una brusca frenata, ma in fondo non si sono mai fermate davvero. È allora cos’era quell’incessante correre di prima? E di cosa ho paura adesso? È la paura di ammalarmi, la paura del vuoto, della noia che mi portano a correre come un criceto in gabbia? Forse possiamo finalmente, semplicemente rallentare, per scoprirci più vivi e più vicini.

Ed infine, i nostri balconi si stanno riempiendo di scritte “tutto andrà bene”. In fondo abbiamo imparato proprio in questo momento di forzata solitudine a rassicurarci gli uni con gli altri, con la frase che la mamma dice al bambino per proteggerlo dalle sue paure…dalla nostra paura della malattia e di ciò che non controlliamo.

Anche il lavoro è cambiato: non si condividono più gli spazi con i colleghi, non si incontrano più fisicamente i pazienti. La distanza è un ostacolo da superare, la tecnologia ci aiuta, ma non è la stessa cosa. Anche le regole del setting sono stravolte, si entra rispettivamente l’uno nella casa dell’altro, viene a mancare il limite e il contenimento dati dal contesto conosciuto. Ci si muove, trovo, tra la paura di potersi perdere nell’eccessiva distanza e la paura di condividere una eccessiva intimità: è nell’oscillazione tra queste due paure che alla fine sorge l’incontro tra la mente del terapeuta e quella del suo paziente. Ma in fondo non è così sempre, anche senza coronavirus?

Ebbene in conclusione, di cosa ho paura io? Ho paura che quando questo finirà il personale sanitario non sarà più un angelo custode, ma il protagonista della malasanità, che torneremo a vedere il pericolo solo nell’altro e possibilmente nello sconosciuto e nel diverso, che i balconi torneranno ad essere quegli spazi da proteggere dagli sguardi indiscreti dei “vicini”, che torneremo a sentirci i padroni del mondo e governatori della Natura, che una stretta di mano tornerà ad essere un gesto rituale e se ne perderà il suo reale valore simbolico, che ci sentiremo di nuovo invincibili e per questo meno uomini e meno umani.

Dr.ssa Chiara Delia

COSA ACCADE DIETRO LA PORTA DELLO STUDIO DI UNO PSICOTERAPEUTA

Fonte: dr.ssa Allegro

Capita spesso di assistere a numerose svalutazioni e ammirazioni sulla professione dello Psicologo e Psicoterapeuta. C’è gente che teme e svaluta la categoria, spesso senza motivi razionali, e persone che sopravvalutano al punto di ritenere il professionista in grado di leggere nel pensiero o produrre soluzioni a richieste più disparate.
Credo che tutto questo accada perché, per molti, risulta ancora un “mistero” cosa si manifesti dietro quella porta, dentro quelle quattro mura che tanto meravigliano e tanto spaventano contemporanea-mente.
Chiarisco subito che l’intento di questo articolo non è avvicinare le persone ad intraprendere possibili percorsi psicoterapeutici, ma essenzialmente a diffondere più conoscenza sulla nostra professione, avvolta ancora da un’aura di incredulità e mistero.
Si è creduto in passato che il plagio o il condizionamento psicologico fosse l’intento principale della nostra categoria: attraverso tecniche di suggestione e persuasione il professionista avrebbe apportato modifiche strutturali alla personalità del soggetto. Purtroppo, ogni tanto, i fatti di cronaca portano a galla queste credenze, ma per fortuna siamo ben lontani dalla dittatura comunista cinese che trattava i prigionieri americani riducendoli in uno stato di schiavitù fisica e psicologica e sottoponendoli a tecniche volte a sostituire le loro personali convinzioni con i valori coerenti con l’ideologia del regime.
E allora, se abbandoniamo l’idea del “lavaggio del cervello” quale potrebbe essere il vero scopo del professionista quando dalla sua porta varca un probabile paziente?
“Puoi costruire qualcosa di bello anche con le pietre che trovi sul tuo cammino” (Goethe).
Ritengo che questa frase detenga l’essenza della Psicoterapia: un delicato messaggio che vorrei tramandare a coloro che non sanno bene cosa accada in quello studio.

Perché dico questo? Perché ogni essere umano ha la propensione innata di raggiungere la propria realizzazione e il lavoro di noi psicoterapeuti è sostanzialmente questo: facilitare la propensione naturale, aiutando ad eliminare, o a sfruttare, gli ostacoli che si possono incontrare lungo la strada e che possono bloccare l’autorealizzazione.

E qual è lo strumento migliore per ottenere tale obiettivo? Ovviamente i numerosi approcci e orientamenti della nostra categoria rendono il tutto molto variegato, ma se ci addentriamo tra le numerose teorie di riferimento, passando da quelle più psicodinamiche a quelle più comportamentiste, uno strumento comune a tutte è rappresentato dalla relazione terapeutica.
Perché il professionista possa essere d’aiuto a chi si rivolge a lui, è indispensabile stabilire un rapporto i cui ingredienti principali siano autenticità, accettazione positiva incondizionata e spontaneità.
Attraverso la sperimentazione di questi aspetti sarà possibile raggiungere l’obbiettivo che forse accomuna tutte le terapie dei pazienti che abbiamo incontrato, fino ad ora, e che incontreremo: aumentare l’esame di realtà e aiutare il paziente a vedersi con gli stessi occhi con cui ci guardano gli altri.
Se auspichiamo al raggiungimento del cambiamento terapeutico sarà necessario mostrare al paziente la sua parte di responsabilità riguardo le proprie scelte, cioè di quella “componente” che inconsciamente è stata messa in gioco contribuendo alla propria sofferenza , per poi condurlo all’accettazione di questa.
Chi si avvicina alla Psicoterapia con scetticismo, probabilmente, riterrà che tutto questo sia un’argomentazione inconsistente, la classica fuffa o luogo comune, ma ricordiamo che la Psicologia è una Scienza e le numerose scoperte nel campo delle Neuroscienze ci hanno permesso di acquisire importanti conquiste.
È ormai scientifico che la Psicoterapia influenzi il metabolismo e il flusso di sangue verso regioni specifiche del cervello, così come l’assorbimento della serotonina e i livelli degli ormoni tiroidei. Per non dimenticare del numero e del tipo di connessioni sinaptiche (connessioni tra i neuroni) che vengono notevolmente modificati quando si verifica un apprendimento ben riuscito e questo include anche l’apprendimento che avviene in Psicoterapia.
Magari i più coraggiosi che hanno proseguito la lettura dell’articolo fin qui penseranno a quanto sia affascinante e gratificante essere uno Psicoterapeuta, ma i rischi del mestiere sono vari e di molteplici forme.
Non è facile sotto più punti di vista, c’è chi la definisce una vocazione impegnativa segnata spesso da ansia, frustrazione e solitudine che sono inevitabili in questo lavoro.
Allora anche lo psicoterapeuta piange, si arrabbia, si sente solo e prova ansia? Direi proprio di sì. Il terapeuta è un essere umano e come tale, oltre a viversi tutte le sfumature emotive che caratterizzano l’esistenza umana, sperimenta il senso di colpa, la vergogna, il desiderio di essere amati e di essere destinatari di affetto, la sensazione di essere vulnerabile, le insicurezze e le paure. Proprio come i nostri pazienti, proprio come qualunque altro essere umano.
Ed ecco che il rischio più grande per ogni professionista in questa categoria è quello di dedicare una vita al servizio del benessere dell’altro, rischiando di trascurare i propri bisogni e desideri; ci rivolgiamo alle necessità e alla crescita dell’altro al punto da tralasciare spesso le nostre esigenze.
“Moderare” l’immagine del terapeuta e renderla semplicemente umana permette di avvicinare maggiormente il paziente al professionista, pensarli come “compagni di viaggio, un termine che abolisce le distinzioni tra <<loro>> (coloro che soffrono) e <<noi>> (i guaritori)” – Il dono della terapia, Irvin D. Yalom.

Dott.ssa Sonia Allegro
Psicologa – Psicoterapeuta

Bibliografia:
“Il dono della terapia” , Irvin D. Yalom

CORONAVIRUS: suggerimenti per gli studenti

La proroga della chiusura delle scuole, la chiusura degli oratori e l’interruzione delle attività sportive a loro dedicate ha portato i bambini ed i ragazzi a lunghe ore di noia a casa, nonché a funanboliche organizzazioni da parte dei genitori per non lasciare i propri figli da soli.

Le scuole si sono e si stanno organizzando con le classroom virtuali Studiare da soli e organizzare i compiti da svolgere da soli e con la paura del coronavirus non è cosa semplice.

Questa emergenza sanitaria passerà e al ritortorno a scuola ci saranno le verifiche ad attendere gli studenti.

Ecco i consigli del nostro collaboratore, il dott Lagona, per affrontare al meglio questo periodo.

Dr.ssa Pugno – Presidente Ass. Eco

 

Se senti di avere una sproporzionata pura del virus, o che la paura del virus ti stia ostacolando nella gestione emotiva della vita quotidiana, contattaci via mail a ecoassociazione@gmail.com. Qualche colloquio può bastare per tornare in carreggiata!

Le 30 domande sul Papilloma Virus che avreste sempre voluto fare (e alle quali forse non avevate trovato risposta)

Fonte: Shutterstock free

Perché una Psicoterapeuta decide di scrivere un articolo sul Papilloma virus?

Perché sempre più di frequente mi capita, tra le mie pazienti, di riscontrare stati di forte ansia e paure, accompagnati da molti dubbi, legati sia al Papilloma virus che ai test effettuati per diagnosticarlo.

Va specificato che la mia fascia principe di pazienti va dai 25 ai 35 anni, pertanto è più facile che si presenti il problema del Papilloma virus nel loro percorso di vita (vedremo perché alla domanda 4).

Ascoltando le mie pazienti avevo, tuttavia, la sensazione che molte delle loro paure fossero ingigantite e probabilmente ingiustificate e mi è sembrato che una buona informazione potesse già ridurre di molto il loro stato emotivo.

Approfondendo l’argomento mi sono ritrovata però, come molte, a ricevere da internet tante informazioni discordanti, a riceverne poche dal Servizio di Prevenzione Serena della Regione Piemonte e a faticare nel trovare un numero verde o un front office che rispondesse alle mie domande. A questo punto mi era chiaro lo stato di confusione e allarme delle mie pazienti (e, spesso, dei loro compagni).

Ho deciso perciò di rivolgermi a dei professionisti, cercando un Ginecologo preparato sul tema e disponibile ad addentrarvisi insieme a me, rispondendo in modo esaustivo alle mie domande (che poi sono le domande che più spesso mi sento rivolgere in seduta), per cercare di fare un po’ di chiarezza.

Questo articolo è frutto, quindi, della preziosa collaborazione della Dott.ssa Chiara Perono Biacchiardi, classe 1973, Ginecologa specializzata in senologia chirurgica e patologia pre-neoplastica del basso tratto genitale.

Dirigente medico dell’Unità Operativa di Ginecologia Mini Invasiva dell’Ospedale Evangelico Valdese di Torino fino al 2012, ha poi frequentato il Servizio di colposcopia dell’Ospedale di Asti ed, attualmente, è dipendente dell’Ospedale Martini presso la Struttura complessa di Ginecologia e Ostetricia. Come libera professionista, opera presso lo studio Gin&Co di Torino. E’ inoltre accreditata presso la Società italiana di colposcopia e partecipa regolarmente ai Congressi di formazione sull’HPV, ai Congressi nazionali di colposcopia e a quelli annuali sullo Screening del cervicocarcinoma a Torino.

Quello che segue è un corpus di informazioni con un buon grado di dettaglio che, speriamo, possa rispondere ad alcune delle domande (e delle ansie) più comuni.

Per semplificare la consultazione ho pensato di ideare una piccola mappa:

  • se sei giovane e non hai mai sentito parlare dell’Hpv, clicca qui e troverai tutte le informazioni di base

  • se hai già effettuato un pap test, clicca qui e avrai informazioni sull’iter di screening

  • se sei in coppia, clicca qui e riceverai informazioni sul virus nella vita a due

  • se sei un genitore o se sei interessato a vaccinarti, clicca qui e saprai di più sui vaccini

  •  se sei un uomo, clicca qui e saprai se il virus può contagiare anche te
  • se vuoi saperne di più sulla situazione ad oggi e sulle problematiche psicologiche legate all’Hpv, clicca qui.

Senza ulteriori indugi, ecco quindi le 30 domande sul Papilloma Virus che avreste sempre voluto fare (e alle quali forse non avevate trovato risposta)!

Vuoi sostenere la creazione di uno Sportello  di counseling su questo tema?

Puoi farlo comprando il nostro libro sull’HPV, clicca qui

Senti di aver bisogno di parlare con uno psicologo di questo tema?

Puoi chiederci una consulenza scrivendo a ecoassociazione@gmail.com e ti verrà fissato un appuntamento di persona o via skype se non sei di Torino.

Dr.ssa Valeria Lussiana

All’origine del linguaggio: il pettegolezzo

Fonte: pixabay

Un bambino impara in media 10 parole ogni giorno, l’equivalente di una nuova parola ogni 90 minuti della sua vita considerando le sole ore di veglia, raggiungendo a 18 anni un vocabolario di circa 60.000 parole.

Questa è un’impresa straordinaria che nessun altro animale sa compiere. Neppure le scimmie, benché siano i nostri parenti più stretti e quelli con cui condividiamo gran parte del nostro Dna. Come è dunque possibile che noi, discendenti dalle scimmie, abbiamo questo straordinario potere che esse non hanno?

Secondo alcune teorie, la soluzione di questo enigma sta nel modo in cui usiamo la nostra capacità di comunicare: sembra che la domanda più giusta per scoprire come si sia sviluppato il linguaggio sia chiedersi per cosa lo usiamo. Per rispondere dobbiamo considerare che siamo esseri sociali e il nostro mondo, non meno di quello delle scimmie, è tutto racchiuso nella vita sociale quotidiana.

La prossima volta che andate in un bar, se ascoltate per un istante le persone che vi sono vicine, scoprirete che la loro conversazione riguarda per 2/3 argomenti come chi fa cosa, con chi la fa, se sia opportuno o meno, ecc. Ma quand’anche si ascoltassero conversazioni nelle sale di ritrovo dell’università o di società multinazionali, ossia al centro stesso della nostra vita intellettuale e commerciale, la situazione non sarebbe affatto diversa.

Consideriamo anche il mondo della carta stampata: fra tutti i tipi di libri che si pubblicano ogni anno è la narrativa a prevalere come volume di vendita e ai primi posti delle vendite non ci sono i romanzi degli scrittori migliori bensì i romanzi Rosa.

Infine, anche nei quotidiani, la maggior parte delle colonne di testo (più del 70%) è dedicato ad articoli di interesse umano, articoli il cui unico scopo sembra essere quello di permettere al lettore di diventare una sorta di voyeur della vita intima di altri individui.

La nostra capacità linguistica tanto celebrata pare, quindi, che venga usata principalmente per scambiarci informazioni su questioni sociali; pare che siamo interessati soprattutto a parlare gli uni degli altri.

Persino la struttura della nostra mente sembra rafforzare questa impressione.

Il linguaggio è stato spesso considerato un epifenomeno, cioè qualcosa che è apparso come prodotto secondario di altri processi biologici, in particolare come conseguenza delle dimensioni eccezionalmente grandi del nostro cervello che hanno consentito l’insorgenza di questa abilità, e non si è cercata altra spiegazione.

L’ipotesi che Dunbar propone nel suo libro “Dalla nascita del linguaggio alla Babele delle lingue” deriva, invece, dall’idea che vi sia un’origine più complessa e, per capirla, dobbiamo tornare a quando eravamo ancora scimmie piuttosto comuni.

Scimmie

Osservando i primati salta subito all’occhio che essi vivono in gruppi e lo fanno perché il gruppo è una forma di difesa contro i predatori. La socialità è in effetti al cuore stesso dell’esistenza dei primati ed è la loro principale strategia evoluzionistica perché gli permette di coalizzarsi contro il pericolo.

Dunbar, osservò che, curiosamente, al centro della vita dei primati c’è la pulizia sociale della pelle, comunemente detta “spulciarsi a vicenda”. Nella maggior parte delle scimmie più sociali, questo impegno porta via il 20% della giornata. Un tempo enorme se si pensa che l’animale deve anche pensare a procacciarsi il cibo. Quindi perché sprecare così tanto tempo?

Pare che la pulizia della pelle sia intimamente connessa alla disponibilità di un animale ad agire in seguito come alleato di un altro individuo. Fra le scimmie antropomorfe il tempo dedicato a questa operazione nel corso della giornata è grosso modo correlato con le dimensioni del gruppo. Questo fatto ha un senso ben preciso: se la pulizia sociale della pelle è il collante che assicura la salvezza delle alleanze, quanto più tempo si dedica alla cura del proprio alleato tanto più efficace sarà l’alleanza. E quanto più grande diventa il gruppo, tanto più ha senso investire più tempo a coltivare i propri alleati.

Ma c’è un secondo aspetto. I biologi sottolineano che qualsiasi specie altamente sociale è soggetta a un rischio considerevole di sfruttamento da parte di imbroglioni: individui che riescono a ottenere un beneficio a tue spese promettendo di ricambiare in futuro, cosa che però non faranno mai. E’ stato dimostrato matematicamente che lo “scrocco” diventa una strategia tanto più efficace quanto più crescono le dimensioni dei gruppi: in gruppi grandi e dispersi l’imbroglione può sempre anticipare di un passo la scoperta delle sue malefatte e il problema è che le scimmie non possono avvertire i compagni dell’inganno.

La loro comunicazione, infatti, sembra esser limitata alla capacità di associare dei suoni a dei predatori per dare l’allarme.

Alla luce di tutto ciò, si può dire che le scimmie abbiano al massimo posato un piede sulla scala del linguaggio. Com’è possibile quindi che i nostri antenati abbiano invece compiuto un balzo in avanti? Per capirlo, dobbiamo dare un’occhiata alla struttura del nostro cervello.

Umani

Il cervello dei mammiferi risulta composto da tre sezioni principali: il cervello primitivo o rettiliano, il cervello medio e altre aree subcorticali e infine la corteccia, lo strato esterno, che è praticamente esclusivo dei mammiferi. All’interno di questa architettura generale, però, il cervello dei primati ha un carattere insolito: la neocorteccia, che potremmo definire la parte pensante del cervello, la regione in cui ha luogo il pensiero cosciente.

Alla fine degli anni ’90, Dunbar, incontrò una correlazione, e anche notevolmente buona, fra la grandezza della neocorteccia e quella dei gruppi sociali. Cioè, egli scoprì che la neocorteccia cresce all’aumentare della complessità sociale perché aumenta all’aumentare della quantità di informazione che un animale sociale deve elaborare.

Sembra quindi che l’evoluzione avesse necessità di assicurare la coesione di grandi gruppi e spinse quindi per la selezione di un encefalo più grande.

Se questo è vero, dovremmo trovare una relazione tra la grandezza della neocorteccia e quella dei gruppi sociali. Cioè, se le scimmie con la loro neocorteccia sono in grado di tenere a bada un gruppo di 55 individui circa (la grandezza media dei gruppi di primati), la misura della neocorteccia negli umani dovrebbe, mantenendo il rapporto, indicarci qual è il numero massimo di persone che possiamo gestire in un gruppo.

Con i dovuti calcoli troviamo che per gli esseri umani si potrebbe prevedere una grandezza massima dei gruppi di circa 150 individui.

Cercando tra i vari tipi di gruppi umani, i clan risultano essere i maggiori fra i raggruppamenti in cui ognuno conosce non solo l’identità di tutti gli altri ma anche in che modo ognuno è imparentato con gli altri. E risulta, in effetti, che i clan si attestino sulle 150 persone.

Questo e altri risultati della ricerca di Dunbar, considerati globalmente, suggeriscono che le società umane contengono, sepolto in sé, un raggruppamento naturale di circa 150 persone. Questi gruppi non hanno una funzione specifica ma sono conseguenza del fatto che il cervello umano non può sostenere in ogni tempo dato più di un certo numero di relazioni di una data intensità.

A questo punto però i nostri antenati hanno dovuto affrontare un problema.

Se gli esseri umani usassero la pulizia vicendevole della pelle come unico mezzo per rinforzare i loro legami sociali, come fanno altri primati, secondo l’equazione che si usa per le scimmie, dovrebbero dedicare a questa attività il 40% circa del loro tempo. Ma nessuna specie che debba procurarsi il cibo nel mondo reale potrebbe sostenere tale attività per per più del 30% del tempo o sarebbe condannata alla morte per fame.

Pertanto, quando la grandezza dei gruppi cominciò a superare i livelli critici per assicurare la coesione sociale con la sola pulizia della pelle, cioè con la comparsa dei Sapiens 250.000 anni fa, si ebbe la spinta necessaria al passaggio definitivo al linguaggio.

A questo punto è possibile che il linguaggio si sia evoluto per permettere di tenere insieme gruppi maggiori di quelli sostenibili nei primati con la sola pulizia della pelle.

Il linguaggio ha, infatti, due caratteri chiave che gli permetterebbero di funzionare in questo modo.

Uno è la possibilità di parlare nello stesso tempo a varie persone. Se la conversazione assolve la stessa funzione della pulizia sociale, gli esseri umani moderni vengono ad avere la possibilità di praticarla con varie persone simultaneamente risparmiando tempo.

Un secondo carattere è che esso ci permette di scambiarci informazioni su altre persone, rendendo quindi molto più veloce il riconoscimento di come si comportano.

Per le scimmie il conseguimento di tutte queste informazioni dipende dall’osservazione diretta: io potrei non sapere mai che tu sei inattendibile fino a quando non ti vedo in azione con un alleato, un’opportunità che potrebbe presentarsi molto di rado. Come umani, però, un conoscente comune potrebbe riferirmi quanto ha appreso per esperienza diretta sui tuoi comportamenti e mettermi quindi in guardia contro di te.

Il linguaggio, quindi, come dispositivo per assicurare la stabilità di grandi gruppi, ci aiuta a mantenere la coesione in vari modi diversi. Ci permette di essere al corrente di ciò che fanno i nostri amici e alleati, ci consente di scambiarci informazioni sugli imbroglioni. Una terza qualità è che il linguaggio ci fornisce uno strumento per influire su ciò che la gente pensa di noi, cioè gestire la reputazione e farci pubblicità.

Il linguaggio sembra quindi idealmente adatto sotto vari aspetti a svolgere in modo economico e molto efficiente il ruolo svolto in precedenza dalla pulizia sociale della pelle.

Secondo la concezione convenzionale, il linguaggio si sarebbe evoluto per indicarci le risorse sul territorio e permettere ai maschi di compiere con maggiore efficienza attività coordinate come la caccia. Questa è la concezione del linguaggio che si potrebbe condensare in una frase come: “Guarda i bisonti, là vicino al lago, andiamo a cacciare!”. L’ipotesi che Dunbar formulò alla soglia del 2000, invece, è che linguaggio si sia evoluto per permetterci di chiacchierare e, nel corso delle sue ricerche, egli trovò numerose osservazioni a sostegno dell’ipotesi che il linguaggio facilita la coesione dei gruppi sociali soprattutto permettendo lo scambio di informazioni socialmente rilevanti: i pettegolezzi.

Oggi

Quali implicazioni hanno queste scoperte sul modo in cui viviamo nelle società moderne?

Sarebbe esagerato dire che noi siamo menti dell’era spaziale racchiuse in corpi del Pleistocene, ma nel nostro comportamento persistono senza dubbio elementi che riflettono il nostro passato evoluzionistico. Possiamo trovarne delle tracce nella nostra passione per le serie tv, nell’invenzione di Tinder o di sistemi di recensione come TripAdvisor.

Se volete scoprire cosa ha a che fare tutto questo con lo sviluppo del linguaggio o approfondire i passaggi della sua evoluzione, trovate l’intervento completo della Dott.ssa Valeria Lussiana su questo argomento qui

https://www.facebook.com/associazioneeco/videos/vl.1981767201907652/1404313963080519/?type=1

Bibliografia

Dunbar R., (1998), Dalla nascita del linguaggio alla babele delle lingue, Longanesi, Milano

Harari Y.H, (2018), Sapens. Da animali a dei, Giunti, Firenze

Sigman M, (2017), La vita segreta della mente, Utet, Torino

de Waal F., La scimmia che siamo. Il passato e il futuro della natura umana, Riverhead Books, NY

DALLA STORIA INDIVIDUALE ALLA STORIA FAMILIARE. IL GENOGRAMMA IN TERAPIA

Foto: pixabay

Come le radici di un albero costituiscono le fondamenta da cui esso si genera e si sviluppa, allo stesso modo le persone non possono crescere, svilupparsi, individuarsi, a prescindere dalla famiglia che dà loro la vita. Non possiamo comprendere appieno noi stessi se non conosciamo il mondo da cui proveniamo, le persone, le relazioni che ci hanno preceduti e di cui siamo il frutto, nel bene e nel male. Nel contesto familiare di appartenenza si trovano risorse e limiti, possibilità e vincoli, lealtà e libertà.

In terapia sistemica partiamo dal concetto dell’individuo come “essere in relazione” (Cigoli, 1997) e dall’assunto che la patologia non è mai esclusivamente nel singolo soggetto, ma sempre chiama in causa processi e dinamiche relazionali. Al di là dei diversi orientamenti teorici che possiamo trovare in psicoterapia, l’esperienza clinica dimostra quanto sia importante all’interno del contesto terapeutico poter esplorare la storia familiare e personale della persona che ci porta una sofferenza. Ciò non si traduce in alcun modo nella ricerca di relazioni causali dirette o, ancora peggio, nella ricerca di ‘colpevoli’: come sostiene Virginia Satir, ciò che è avvenuto ad un dato momento in un dato sistema familiare rappresenta il meglio che ciascuno, in quel sistema e in quel momento poteva fare, e se qualcosa è andato per il verso sbagliato è perché in quel momento non si poteva fare diversamente. La buona notizia è che, ad un certo punto, da adulti, si ha la possibilità di riconoscere e accettare ciò che è stato, dare valore e significato a ciò che si è vissuto, accogliendo le emozioni talora intense e disturbanti e imparando ad agire diversamente per riprendere in mano la propria vita (Satir, 2005). Questo significa cominciare a ri-conoscere la realtà, chiamare le cose con il loro nome, assumersi la responsabilità di cambiare ciò che non si ritiene adeguato per sé, riconoscendo e prendendo quanto di buono ci è stato dato e lasciando andare ciò che invece sentiamo non appartenerci.

Rispetto all’esplorazione delle matrici familiari, in psicoterapia sistemica si assume che l’influenza familiare non si limiti a quella esercitata dalla famiglia d’origine della persona, ma abbia radici ben più lontane, realizzandosi attraverso forze intergenerazionali e transgenerazionali che a livello inconsapevole, transitano attraverso le generazioni e incidono sulle relazioni e sugli accadimenti attuali: queste forze si estrinsecano attraverso modelli, ruoli, valori, credenze, aspettative, modalità di interpretazione della realtà e di comportamento, condivisi implicitamente all’interno della famiglia e tramandati attraverso gli scambi generazionali.

Come accedere a questo vasto e sconosciuto mondo fatto di trame e intrecci sottili e impliciti?

In terapia ci viene in aiuto un potente strumento che ha valore sia diagnostico che clinico, il Genogramma Familiare, introdotto da Murray Bowen: in prima analisi si tratta della rappresentazione grafica del proprio albero genealogico, realizzata tuttavia basandosi sul vissuto personale relativo a eventi, persone, relazioni e contenuti narrati, cercando di risalire indietro nel tempo di almeno tre generazioni. Normalmente il genogramma viene realizzato durante una seduta di terapia, può essere fatto all’inizio oppure più avanti, a seconda delle esigenze e degli obiettivi condivisi con il paziente. Esso richiede alla persona di annotare, attraverso simboli convenzionali, i componenti della propria famiglia e i legami reciproci, specificando, se possibile, date di nascita, morte, matrimoni ed altri eventi significativi (trasferimenti, traslochi, separazioni, divorzi, lutti, incidenti, aborti, adozioni). Si esplorano le relazioni tra le persone, sia in senso verticale (relazione genitore figlio) che in senso orizzontale (relazioni tra fratelli), nonché i legami di coppia coniugali (come le persone si sono conosciute , se e come si sono scelte, come hanno deciso di sposarsi e/o di costruire una famiglia); si cerca se possibile anche di rilevare il contesto socio-culturale e storico di appartenenza che può influire sul modo di prendersi cura della famiglia e dei figli. Il genogramma rappresenta una sorta di ‘mappa’ del sistema familiare, che non soltanto racchiude concreti dati anamnestici, ma soprattutto, consente la narrazione della storia e della trama familiare, così come si è costruita attraverso i passaggi generazionali.

Attraverso questo strumento, diventa possibile mettere in luce modelli, regole, valori del sistema familiare, che sono stati tramandati di generazione in generazione. Si possono cogliere connessioni, ridondanze, ossia eventi che si ripetono, talora anche cronologicamente (pensiamo alle ripetizioni di nomi, ad esempio dare ad un figlio il nome di un antenato, per onorarlo, ricordarlo); si possono portare alla luce i segreti familiari, i “non detti”, evidenziare i miti e i cosiddetti mandati familiari, che si concretizzano sotto forma di regole, prescrizioni e doveri (“si deve studiare, ci si deve laureare” oppure “bisogna sposarsi”, “avere figli”, ecc…). Dinnanzi a tutto questo si può avviare una riflessione congiunta tra il terapeuta e il paziente su molteplici aspetti: quale significato ha per il paziente il tema emerso? Quanto di tutto questo il paziente sente che gli appartiene? Quanto ci crede? Quanto lo vincola?
Attraverso la narrazione emergente, viene sollecitata la presa di consapevolezza delle più ampie dinamiche familiari e della propria collocazione nelle stesse da parte del paziente: questo può favorire una diversa lettura e una più profonda comprensione degli eventi, generando una maggiore assunzione di responsabilità rispetto al proprio ruolo nella storia familiare, elaborando e mitigando, al contempo la sofferenza per eventuali situazioni tossiche e negative.
Il paziente viene incoraggiato a focalizzare l’attenzione sul significato rispetto al proprio e altrui modo di percepirsi, relazionarsi, comportarsi nonché sull’importanza di assumere un ruolo attivo nel riconoscere e cambiare ciò che non funziona. La riflessione sui propri vissuti e su ciò che accade nelle interazioni accresce la competenza relazionale della persona ampliando il campo di osservazione, stimolando una ri-narrazione della propria storia, in cui ri-scoprirsi finalmente protagonisti con nuove e diverse possibilità dinnanzi a sé.

Il lavoro svolto attraverso il genogramma implica un profondo e impegnativo lavoro di consapevolezza, non scevro da dolore e fatica. Consente al paziente di riappropriarsi e ricongiungersi con la propria storia e le proprie radici, riconoscendo e portando alla luce dolori non elaborati, ma che finalmente possono essere visti, sentiti, detti, riconosciuti: finalmente diventa possibile dar loro nome e significato, stemperando in questo modo la carica distruttiva che eventi traumatici e dolorosi portano con sé, attraverso il tempo e generazioni diverse.

Concludo riportando le parole di Vittorio Cigoli, terapeuta familiare:

Farsi consapevoli e rendersi responsabili: ecco svelato il metodo, vale a dire la via per la trasformazione possibile dei legami familiari operata dai suoi membri grazie all’intervento clinico”(Cigoli, 1997), includendo nella responsabilità anche e soprattutto l’apertura alla comprensione, alla speranza e al perdono, ove possibile, accogliendo le zone d’ombra della nostra esistenza per vivere nel qui e ora, come protagonisti in grado di dirigere con intenzione e consapevolezza il proprio percorso di vita.

Dr.ssa Katia Querin

Bibliografia

Bowen M., “La valutazione della famiglia”, Casa Editrice Astrolabio 1990.

Cigoli V., “Intrecci familiari”, Rffaello Cortina Editore, 1997.

Satir V., “ In famiglia come va? Vivere le relazioni in modo significativo” Editrice Impressioni Grafiche, 2005.

Il burnout a scuola: quando lo stress colpisce gli insegnanti

Il termine burnout è di derivazione anglofona, ma oramai viene ampiamente utilizzato anche nella lingua italiana senza la sua traduzione che è: esaurimento. Tale condizione di stress prolungata nel tempo prosciuga ed esaurisce tutte le energie della persona colpita portandola, così a perdere pian piano interesse nell’ambito lavorativo con conseguente inefficacia lavorativa e, spesso, una diminuzione di forze da investire nei contesti extra-professionali che, invece, dovrebbero sorreggere l’individuo. Questo esaurimento o logorio, è causato dallo stress che agisce sull’individuo in uno o più ambiti della vita di una persona, le componenti determinanti sono tre: i fattori professionali (il lavoro, l’ambiente lavorativo, i colleghi); i fattori extra-professionali (le relazioni, la famiglia) ed, infine, i fattori ereditari-familiari (le condizioni di salute personale o di qualche familiare, patologie presenti etc).

Tutti gli insegnanti, appartenenti a qualsiasi ordine di scuola ed indipendentemente dall’anzianità di servizio o dalla tipologia di contratto (insegnanti di ruolo, insegnanti precari, Messe a Disposizione etc), possono arrivare al burnout; anche se a livello epidemiologico l’età anagrafica avanzata, un’età di servizio consistente e l’essere donna nel periodo perimenopausale (il quale aumenta di molto la possibilità di sviluppare una depressione) porta ad una maggiore predisposizione a sviluppare burnout. Tutti gli insegnanti possono essere colpiti da burnout poiché facenti parte delle cosiddette “professioni d’aiuto”, ovvero tutte quelle professioni che prendono o hanno in cura una o più persone (medici, infermieri, educatori, psicologi e, per l’appunto, insegnanti!) con grande possibilità di usura psicofisica.

Come si manifesta il burnout? Spesso risulta silente e si manifesta senza preavviso: attacchi di panico, manifestazioni di ansia, tristezza, sentimenti di vuoto, affaticabilità e annesso senso di colpa per non essere più performanti rispetto agli anni precedenti, insofferenza verso gli alunni, i colleghi, sentimenti di disperazione, somatizzazioni, insonnia, inappetenza, manie di persecuzione, aggressività, abuso di farmaci (antidepressivi, tranquillanti e ipnoinducenti), violenza auto o etero-diretta, senso di fallimento e di frustrazione, dissimulazione.

Tutte queste manifestazioni portano l’insegnante a provare un senso di vergogna per la situazione che sta vivendo e producono isolamento e solitudine qualora non si riesca a condividere (e viene fatto molto poco) il proprio malessere con i colleghi e con la dirigenza.

Quali possono essere, allora, i passi da compiere per fronteggiare un male così eterogeneo?

Innanzitutto è di fondamentale importanza riconoscere la professione del docente tra le categorie a maggior rischio di sviluppare burnout proprio perché facente parte delle “professioni d’aiuto” che per loro natura hanno un alto impatto stressogeno. In secondo luogo, la formazione dei docenti: essere a conoscenza e consapevoli delle malattie professionali e dei rischi che si corrono e degli strumenti a disposizione degli insegnanti e della dirigenza per tutelare la salute dei lavoratori (Collegio Medico di Verifica, Accertamento Medico d’Ufficio). Il terzo passo consiste nel non dissimulare il proprio malessere fisico e/o psichico e condividere con i colleghi il proprio status poiché è così facendo che si combatte contro un nemico silente ed invisibile agli occhi dei colleghi; infine consentono all’insegnante di evitare di rimanere intrappolati nelle 4s: stress, stigma, stereotipo e solitudine.

Il quarto, ed ultimo, step è quello di evitare il fai da te: appare banale e scontato ma spesso non lo è. Quando ci si rende conto di stare male è di fondamentale importanza rivolgersi ad uno specialista per affrontare in modo più attrezzato un periodo di vita costellato da sofferenze, in questo caso un supporto terapeutico risulta di fondamentale importanza, assieme ai passi precedentemente citati, per risolvere la situazione di malessere che colpisce l’insegnante. Infine, sempre nell’ambito di questo intervento risulta efficace la meditazione mindfulness: tecnica di meditazione che consente di contrastare pensieri ed emozioni negative attraverso la consapevolezza delle sensazioni presenti accettandole senza valutazioni e senza giudizi permettendo di vivere meglio nel presente e osservando benefici sui disturbi emotivi e fisici.