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​​TU CHIAMALE SE VUOI, EMOZIONI… 2.0: Inside out 2 e l’avvento delle emozioni secondarie in Adolescenza.

Nel nuovo sequel della pixar Inside out 2, ritroviamo la giovane protagonista Ryle, ormai 13enne alle prese con nuove emozioni che proprio caratterizzano l’avvento dell’adolescenza: Ansia, Imbarazzo, Invidia, Noia/Ennuie Nostalgia.

Nel primo film, Inside out, avevamo lasciato la protagonista 12enne che, a seguito del traumatico evento del trasferimento in una nuova città, aveva dovuto fare i conti con tutte le emozioni primarie: Gioia, Paura, Disgusto, Rabbia e soprattutto Tristezza.

Si è visto, dunque, in Inside Out, che solo accettando la tristezza per la separazione da ciò che non aveva più e che era nel passato, che la giovane Ryle, ha potuto accogliere la gioia per tutto quanto di nuovo stava capitando nella sua vita, nel presente; è solo accettando il cambiamento, il passaggio dall’infanzia alla preadolescenza; accettando l’importanza di ogni emozione, che ha potuto riequilibrarle, ed essere di nuovo serena, d’altronde, come abbiamo ben visto: “Non c’è Gioia senza Tristezza”!

Nel sequel della Pixar, ritroviamo Ryle, alle prese con l’ormai imminente adolescenza e con il caos e la confusione che quest’ultima comporta, momento, che per l’età in cui avviene, si congiunge con un altro momento di transizione decisamente importante che è la fine del sicuro contesto delle scuole medie e l’inizio dell’incerto e sconosciuto periodo delle scuole superiori.

Vediamo, dunque, la protagonista alle prese con l’insidioso periodo definito Pubertà, che racchiude un momento di cambiamento, crescita e ridefinizione del senso di Sé che spesso può risultare davvero “cringe”.

La parola cardine di Inside out 2, sembra allora proprio essere Crescita, ed è proprio con la crescita e la confusione del periodo puberale che fanno l’avvento nella consolle amigdaliana altre emozioni quali appunto l’Ansia, l’Imbarazzo, l’Invidia e l’Ennui/Noia, e qualche comparsa qui e là di Nostalgia, definite anche emozioni secondarie.

Come sappiamo dagli studi di Ekman (2008) le emozioni si dividono in primarie e secondarie: sono emozioni primarie quelle che si esprimono con la stessa espressione facciale in qualsiasi popolazione e definite, pertanto, innate e universali: paura, rabbia, tristezza, gioia, disgusto e sorpresa (come appunto visto anche in Inside out).

Le emozioni secondarie, invece, sono quelle che originano dalla combinazione delle emozioni primarie e si sviluppano con la crescita dell’individuo e con l’interazione sociale.

 A quanto pare, però, per quanto riguarda queste ultime, la nostra varietà emotiva sarebbe molto più ampia di quello che aveva riscontrato Ekman (2008) con i suoi studi sulle espressioni facciali; infatti, un recente studio della University of California, diretto da Alan S. Cowen e Dacher  Keltner (2017) e pubblicato su Pnas, aggiorna e amplia le emozioni fondamentali nell’essere umano, aggiungendo alle classiche  6 tipologie di emozioni, altre 21, per un totale di 27 tipologie distinte di emozioni: ammirazione, adorazione, apprezzamento estetico, divertimento, ansia, soggezione, imbarazzo, noia, calma, confusione, desiderio, disgusto, dolore empatico, estasi, invidia, eccitazione, paura, orrore, interessamento, gioia, nostalgia, amore, tristezza, soddisfazione, desiderio sessuale, simpatia, trionfo.

Si può comprendere, dunque, perché con una varietà così ampia di emozioni, nel periodo adolescenziale, ci si possa sentire in qualche modo confusi e turbati, e vada a modificarsi quello che finora era stato il Senso di Sé, mettendo in discussione molti valori che fino a quel momento erano stati di riferimento: la famiglia, gli amici, i progetti, i desideri; vengono stravolti e ridimensionati, concentrandosi solo su quella spasmodica ricerca del senso di Sé smarrito, che spesso può far risultare l’adolescente egoista e concentrato solo su sé stesso.

Ma, in realtà è un periodo, come ben espresso in Inside out 2, in cui, in questo sentiero smarrito della pubertà, l’Ansia prende il sopravvento sulle altre emozioni al punto da chiuderle in una teca, e relegarle negli sperduti meandri dell’inconscio.

Così, come Ryle nel weekend in cui dovrà mostrare tutto il suo valore sul campo per farsi accettare dalla nuova squadra di Hockey del liceo, l’adolescente, tra una storia su Instagram, un Tiktok e un BeReal, cerca di farsi accettare e mostrarsi più forte di quanto non sia; cerca dunque di nascondere la sua fragilità provando a reprimere le emozioni.

Ma, come diceva Freud (1886-1899) : “le emozioni inespresse non moriranno mai, restano sepolte vive e usciranno più tardi in un modo peggiore”!

Ed è qui che, infatti, come ben colto dalla Pixar, subentra lui, il famoso “Attacco di Panico”, dove tutte le emozioni cercano di prendere il sopravvento nella costruzione del senso di Sé, facendo sentire chi lo vive come in un vortice senza via di fuga.

Ma la via d’uscita c’è, e di fatto è solo nel momento in cui ogni emozione si placa per dare spazio all’altra che riescono ad equilibrarsi e l’attacco di panico va esaurendosi.

Ovviamente c’è dell’altro dietro all’attacco di panico, legato ai vissuti individuali, così come quello che Ryle vive in weekend, nella realtà dura anni, ma ben semplifica quanto accade in adolescenza e soprattutto negli adolescenti dell’attuale generazione Z che sembrano ben identificarsi in Ryle.

Un aspetto forse un po’ trascurato, In Inside Out 2 è il tipico rapporto conflittuale con i genitori che è molto importante, insieme al rapporto con i pari e la società nell’edificare quel famoso Senso di Sé e la futura personalità dell’adolescente che poi diviene un giovane adulto.

È importante, infatti, soprattutto in questa fase della vita, che l’adolescente possa avere la possibilità di essere accompagnato, con una distanza sufficientemente buona, da adulti che lo guidino e lo aiutino a leggere e capire cosa sta provando.

Questo perché come abbiamo visto, le emozioni vanno espresse, ma soprattutto vanno riconosciute, perché è solo attraverso il loro riconoscimento che siamo in grado di affrontarle e di gestirle: non è possibile gestire ciò che non si conosce.

È solo quindi attraverso un percorso di conoscenza di sé che è possibile vivere in armonia ed equilibrare le nostre emozioni.

Inside Out 2, come il primo film, offre una rappresentazione semplice ma efficace del complesso mondo emotivo degli adolescenti. Aiuta a comprendere l’importanza di riconoscere e accettare tutte le emozioni per vivere in armonia.

Questo è un messaggio fondamentale per psicoterapeuti, genitori e insegnanti, poiché il supporto emotivo e la guida sono essenziali per aiutare gli adolescenti a navigare in questo periodo di transizione.

 

Dott.ssa Monica Iuliano

Psicologa – Psicoterapeuta

 

Bibliografia

 Ekman, P. (2008). Emotions Revealed: Recognizing Faces and Feelings to Improve Communication and Emotional Life. Henry Holt and Company.

 Cowen, A. S., & Keltner, D. (2017). Self-report captures 27 distinct categories of emotion bridged by continuous gradients. Proceedings of the National Academy of Sciences, 114(38), E7900-E7909.

 Freud, S. Citazione da: The Standard Edition of the Complete Psychological Works of Sigmund Freud.

STRESS, ANSIA E CONCENTRAZIONE: SAI CHE I GIOCHI SENSORIALI POSSONO AIUTARTI?

Hai mai avuto bisogno di calmarti manipolando un oggetto, come una pallina antistress o un pop it? Gli stimming toys, ormai diffusi tra adulti e bambini, non sono semplicemente giochi, ma veri alleati per il benessere emotivo e sensoriale. Questi strumenti si stanno facendo strada anche nella psicoterapia, dimostrandosi utili in situazioni di stress, ansia e difficoltà di concentrazione. Ma cosa sono esattamente e perché funzionano così bene?

Cosa sono gli Stimming Toys?

Gli stimming toys sono dispositivi progettati per stimolare i sensi attraverso il movimento, il tatto o il suono. Tra i più noti troviamo:

fidget spinner, pop it e cubi antistress,
palline sensoriali, slime o pasta modellabile,
oggetti con texture particolari, come tappetini tattili o tessuti.

Il termine “stimming” deriva da “self-stimulatory behavior” (comportamento auto-stimolatorio) ed è stato originariamente associato all’autismo. Oggi, il loro utilizzo si è esteso anche a persone neurotipiche per affrontare momenti di stress, ansia o difficoltà di concentrazione.

Perché funzionano?

Gli stimming toys aiutano a:

1. Ridurre stress e ansia, offrendo uno sfogo fisico per l’energia nervosa.
2. Migliorare la concentrazione, mantenendo l’attenzione su uno stimolo leggero e costante.
3. Favorire il grounding (ancoraggio al presente), aiutando a rimanere nel “qui e ora” attraverso stimoli concreti e sensoriali.

Ma cosa rende questi strumenti così efficaci? La loro azione si basa su meccanismi neurologici profondi che influenzano il nostro stato emotivo.

I Meccanismi Neurologici
1. Attivazione del Sistema Somatosensoriale:
La manipolazione di oggetti tattili stimola il sistema somatosensoriale, che aiuta il cervello a rilasciare serotonina e dopamina, neurotrasmettitori legati al benessere. Questo tipo di stimolazione riduce l’attivazione del sistema nervoso simpatico (responsabile della risposta “attacco o fuga”) e promuove il rilassamento.
2. Grounding sensoriale:
Stimoli concreti e prevedibili, come la sensazione di pressione o movimento, ancorano la mente al presente. Questo processo coinvolge il talamo, che filtra le informazioni sensoriali, distogliendo l’attenzione da pensieri intrusivi o stati dissociativi.
3. Regolazione del Sistema Limbico:
Gli stimoli ripetitivi degli stimming toys riducono l’attività dell’amigdala, il centro delle emozioni, spesso iperattiva in stati di stress, ansia o emozioni intense come rabbia e frustrazione. Questo effetto calmante può aiutare a modulare anche impulsi legati a comportamenti disfunzionali, come la fame emotiva. L’ancoraggio al presente, inoltre, stimola l’ippocampo, favorendo un migliore equilibrio cognitivo ed emotivo, contribuendo a gestire sensazioni di tristezza o sopraffazione.
4. Stimolazione del Cervelletto e del Sistema Vestibolare:
Movimenti ritmici o compressivi attivano il cervelletto e il sistema vestibolare, migliorando il senso di equilibrio interno ed esterno e favorendo una sensazione di calma e stabilità.
5. Attivazione dei Circuiti Dopaminergici:
Gli stimming toys attivano i circuiti della dopamina, offrendo una gratificazione immediata che migliora l’umore e aumenta il senso di controllo.
6. Modulazione del Nervo Vago:
Attraverso la stimolazione tattile, gli stimming toys agiscono sul nervo vago, promuovendo rilassamento, sicurezza e un ritmo respiratorio regolare.
Utilizzo in Psicoterapia

Gli stimming toys possono essere integrati in diversi modi nel setting terapeutico, ad esempio come:

Strumento di autoregolazione: durante una seduta, un paziente in preda ad una forte emozione come ansia, agitazione, rabbia, tristezza ecc. può manipolare un oggetto per calmarsi e sentirsi più a proprio agio.
Promozione del grounding: in momenti di intensa attivazione emotiva, toccare o manipolare un oggetto può aiutare il paziente a rientrare in contatto con il presente.
Facilitazione del dialogo: spesso, il semplice gesto di manipolare un oggetto durante una conversazione può abbassare le difese e favorire un dialogo più aperto e spontaneo.
Per chi sono indicati?
Adulti e bambini con difficoltà di regolazione emotiva: persone con ansia, ADHD, o difficoltà di gestione dello stress possono trovare grande beneficio.
Persone in terapia per trauma: gli stimming toys possono aiutare a gestire flashback o stati di dissociazione.
Chiunque cerchi uno strumento pratico per rilassarsi: gli stimming toys non hanno controindicazioni e sono facilmente accessibili!

In conclusione, gli stimming toys non sono solo giochi: sono strumenti semplici ma potenti per migliorare la qualità della vita, aiutandoci a gestire momenti di difficoltà e a riconnetterci con il presente. Esplorarli significa scoprire un nuovo modo di prendersi cura di sé, trovando il proprio equilibrio con un gesto tanto piccolo quanto efficace.

Dott.ssa Valeria Lussiana

Psicologa Psicoterapeuta

Bibliografia
1. Brand, B. L., Schielke, H. J., & Lanius, R. A. (2022). Finding Solid Ground: Overcoming Obstacles in Trauma Treatment. Oxford University Press.
2. Schaaf, R. C., & Davies, P. L. (2010). Evolution of the Sensory Integration Frame of Reference. American Journal of Occupational Therapy, 64(3), 363-367.
3. Porges, S. W. (2011). The Polyvagal Theory: Neurophysiological Foundations of Emotions, Attachment, Communication, and Self-regulation. W.W. Norton & Company.
4. Cozolino, L. (2014). The Neuroscience of Human Relationships: Attachment and the Developing Social Brain. W.W. Norton & Company.
5. Siegel, D. J. (2012). The Developing Mind: How Relationships and the Brain Interact to Shape Who We Are. Guilford Press.

Ansia Sociale 2020: un altro possibile “disturbo post-Covid-19”?

A seguito dell’isolamento dettato dalla pandemia da Covid-19 (e non solo) si sente spesso, nell’ultimo periodo parlare, propriamente o impropriamente di “Fobia o Ansia sociale”, come una sorta di “reazione” a seguito degli ultimi eventi stressanti a cui gli individui sono stati sottoposti.

Ciò che viene perlopiù riportato, nella pratica clinica, è che sembra quasi che nei momenti in cui è consentito dalle attuali condizioni sanitarie e quindi politico-sociali (vedi zona gialla, zona bianca), non si riesca più a ritornare ad una vita sociale “normale”, in quanto comunque bloccati dallo stare con gli altri, in quanto ci si sente, alle volte infastiditi dalla loro semplice presenza, alle altre ci sente osservati o giudicati da questi ultimi.

Viene dunque lecito chiedersi: Che cos’è realmente l’Ansia Sociale? Che possibile correlazione ha con gli ultimi eventi storici?

 Per rispondere a questi quesiti e provare a fare un po’ di chiarezza, risulta necessario approfondire in primis, con quanto si conosce in letteratura, circa l’epidemiologia, i criteri diagnostici, la comorbilità e l’eventuale trattamento dell’Ansia Sociale.

I primi a descrivere l’Ansia o Fobia sociale furono Marks e Gelder, nel 1966 riferendosi a essa come a “una paura di mangiare, bere, parlare, scrivere… in presenza di altre persone” che aveva come caratteristica principale “la paura di apparire ridicolo agli occhi degli altri”[1].

Venne attribuita all’Ansia sociale, un’autonomia nei sistemi diagnostici internazionali solo alcuni più tardi, con la sua introduzione come entità a sé stante nel DSM III. Nel DSM III- R furono introdotti come sottotipi l’ansia sociale generalizzata e la fobia sociale specifica. Successivamente con il DSM IV per attenuare le discordanze con l’ICD-10 è stata mantenuta la sotto classificazione che prevedeva la forma “generalizzata”. (Pietrini et al., 2009).

Infine, stando al DSM V, il Disturbo d’ansia sociale (DAS) anche nota come Fobia Sociale, è una condizione caratterizzata da una marcata, o intensa, paura o ansia relative a situazioni sociali in cui l’individuo può essere esaminato dagli altri. Nei bambini, la paura o l’ansia devono però manifestarsi in contesti in cui vi sono coetanei e non solamente durante le interazioni con gli adulti.[2]

Alla base del disturbo sembra esserci quindi la paura di un giudizio negativo diventata così pervasiva, da non consentire all’individuo una normale integrazione nel suo ambiente relazionale e sociale.

Secondo uno studio condotto da Pietrini et al (2009), l’esordio della Fobia Sociale tende ad essere generalmente graduale o può avvenire in seguito a un’esperienza stressante o umiliante (es essere vittima di bullismo, vomitare durante un discorso in pubblico) con un età media di insorgenza nel 75% degli individui tra gli 8 e i 15anni. (DSM V), a cui fa seguito un decorso tipicamente cronico e invalidante.

Per quanto riguarda invece, la remissione spontanea del disturbo, quest’ultima tende ad essere bassa e anzi vi si possono aggiungere importanti complicazioni, quali la depressione secondaria, l’abuso di sostanze (a scopo auto-terapeutico) e le condotte suicidarie.

Risulta, inoltre, nonostante diversi studi, difficile ottenere dati epidemiologici precisi sulla fobia sociale, in quanto la diagnosi viene spesso applicata a schemi interpersonali di timidezza e di evitamento del sesso opposto per paura di un rifiuto.

Ma in realtà vi è un continuum che va da un estremo, costituito dalla fobia sociale, a uno stile caratteriale generalizzato di mettersi in rapporto con gli altri, meglio identificato come disturbo evitante di personalità, posto all’altro estremo (Gabbard, 2015).

Potrebbe essere utile in tal senso, riportare alcuni tra i criteri diagnostici riportati nel DSM 5, quali:

  • La presenza di una paura o ansia marcate relative a una o più situazioni sociali nelle quali l’individuo è esposto al possibile esame degli altri;
  • Il timore da parte dell’individuo che agirà in modo tale o manifesterà sintomi di ansia che saranno valutati negativamente;
  • Le situazioni sociali temute provocano quasi invariabilmente paura e ansia.
  • La paura o l’ansia sono sproporzionate rispetto alla reale minaccia posta dalla situazione sociale e al contesto socioculturale.
  • La paura, l’ansia o l’evitamento sono persistenti e durano tipicamente 6 mesi o più.
  • Le situazioni sociali temute sono evitate oppure sopportate con paura o ansia intense.
  • La paura, l’ansia o l’evitamento causano disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti (Etc). [3]

Tali criteri sono fondamentali anche nel differenziare il disturbo da altri disturbi d’ansia quali la timidezza non patologica, l’agorafobia, il disturbo da panico, l’ansia generalizzata, le fobie specifiche, il mutismo selettivo, isolamento sociale e/o sindrome di hikikomori,  etc..

Per quanto riguarda invece la comorbilità, purtroppo, la fobia sociale è una condizione con un alto tasso di comorbilità: secondo uno studio condotto da Schneier et al (1992), una comorbilità con disturbi cronici importanti era presente nel 69% dei soggetti affetti da fobia sociale. Tali autori hanno anche segnalato come in assenza di comorbilità raramente la fobia sociale viene trattata dai professionisti della salute mentale, infatti, in uno studio condotto negli Stati Uniti da Grant et al, (2005) nonostante l’alta incidenza del disturbo, più dell’80% degli individui non aveva ricevuto un trattamento per questa condizione (Gabbard, 2015).

Stando al DSM V, l’Ansia sociale è spesso in comorbilità con altri disturbi d’ansia, il disturbo depressivo maggiore e disturbi da uso di sostanze, e tendenzialmente l’esordio di tale disturbo precede gli altri, tranne che per la fobia specifica e il disturbo d’ansia da separazione.

Sulla base di quanto fin qui riportato, viene dunque lecito chiedersi, anche in funzione di un’eventuale correlazione con quello che verrà, da qui in poi, riportato come evento stressante “covid-19”, quali siano i possibili fattori di rischio che portano allo sviluppo dell’Ansia Sociale.

Secondo diversi studi, pare che le fobie si inseriscano in un modello di diatesi genetico-costituzionale che interagisce con stressor ambientali (Gabbard 2015), tra cui:

  • Disposizione ereditaria alla fobia che richiede specifici fattori eziologici ambientali per produrre una sindrome fobica conclamata;
  • Esposizione a stress materno durante la prima e seconda infanzia;
  • Specifici stili parentali: genitori particolarmente ansiosi, iperprotettivi o con una o più psicopatologie;
  • Esposizione a eventi stressanti come umiliazioni e critiche da parte di un fratello maggiore, liti tra i genitori, morte di un familiare o separazione da una figura importante.

In un’ottica psicodinamica dunque i pazienti socialmente fobici sembrano aver interiorizzato rappresentazioni di genitori, caregiver o fratelli che inducono vergogna o imbarazzo, criticano, ridicolizzano, umiliano e abbandonano. Questi introietti, uniti a una predisposizione genetica a percepire gli altri come minacciosi, si stabiliscono precocemente nella vita e vengono poi ripetutamente proiettati in persone dell’ambiente esterno che vengono quindi evitate. Ciò non toglie che, tali effetti possano essere mitigati se invece, nonostante la predisposizione genetica, le relazioni significative siano sufficientemente buone.

Per quanto riguarda il trattamento, alcuni pazienti sono particolarmente resistenti, in quanto temono ogni situazione in cui possano sentirsi giudicati o criticati. L’imbarazzo e la vergogna sono però gli stati affettivi predominanti e il terapeuta che si sintonizza con questi affetti può avere una migliore possibilità di formare un’alleanza terapeutica nelle sedute iniziali con il paziente (Gabbard, 2015).

In conclusione e ritornando al motivo del nostra indagine, da quanto fin qui esposto si evince come in realtà, tale disturbo, anche se forse (proprio per quanto su detto) meno trattato, rispetto ad altri, sia presente da molto tempo e possegga un’alta incidenza tra la popolazione mondiale, quindi preesistente all’evento stressante covid-19. Ciò non toglie che un evento così stressante, unito a tutti i fattori di rischio su elencati, tra cui la maggior incidenza dei casi nei giovani di età compresa tra gli 8 e i 15anni,  e a una buona predisposizione genetica, non abbia contribuito a “slatentizzare”, ovvero a gettar luce,  in molti su un disturbo che forse era giunto il momento di trattare!

Val comunque la pena ricordare, per quel che concerne tutti i disturbi sorti in seguito alla pandemia, che l’Ansia sociale seppur a volte in comorbilità, si differenza nettamente dall’isolamento sociale!.

Dott.Ssa Monica Iuliano

 

[1] Pietrini F. et al (2009)”, Epidemiologia della fobia sociale”, rivista di psichiatria, 44,4 p.205

[2] Diagnostical and Statistical Manual of Mental Disorder (DSM), 5th  – pag.234

[3] Diagnostical and Statistical Manual of Mental Disorder (DSM), 5th  – pag.233

 

Bibliografia e Sitografia: