Tag: <span>covid</span>

Ansia Sociale 2020: un altro possibile “disturbo post-Covid-19”?

A seguito dell’isolamento dettato dalla pandemia da Covid-19 (e non solo) si sente spesso, nell’ultimo periodo parlare, propriamente o impropriamente di “Fobia o Ansia sociale”, come una sorta di “reazione” a seguito degli ultimi eventi stressanti a cui gli individui sono stati sottoposti.

Ciò che viene perlopiù riportato, nella pratica clinica, è che sembra quasi che nei momenti in cui è consentito dalle attuali condizioni sanitarie e quindi politico-sociali (vedi zona gialla, zona bianca), non si riesca più a ritornare ad una vita sociale “normale”, in quanto comunque bloccati dallo stare con gli altri, in quanto ci si sente, alle volte infastiditi dalla loro semplice presenza, alle altre ci sente osservati o giudicati da questi ultimi.

Viene dunque lecito chiedersi: Che cos’è realmente l’Ansia Sociale? Che possibile correlazione ha con gli ultimi eventi storici?

 Per rispondere a questi quesiti e provare a fare un po’ di chiarezza, risulta necessario approfondire in primis, con quanto si conosce in letteratura, circa l’epidemiologia, i criteri diagnostici, la comorbilità e l’eventuale trattamento dell’Ansia Sociale.

I primi a descrivere l’Ansia o Fobia sociale furono Marks e Gelder, nel 1966 riferendosi a essa come a “una paura di mangiare, bere, parlare, scrivere… in presenza di altre persone” che aveva come caratteristica principale “la paura di apparire ridicolo agli occhi degli altri”[1].

Venne attribuita all’Ansia sociale, un’autonomia nei sistemi diagnostici internazionali solo alcuni più tardi, con la sua introduzione come entità a sé stante nel DSM III. Nel DSM III- R furono introdotti come sottotipi l’ansia sociale generalizzata e la fobia sociale specifica. Successivamente con il DSM IV per attenuare le discordanze con l’ICD-10 è stata mantenuta la sotto classificazione che prevedeva la forma “generalizzata”. (Pietrini et al., 2009).

Infine, stando al DSM V, il Disturbo d’ansia sociale (DAS) anche nota come Fobia Sociale, è una condizione caratterizzata da una marcata, o intensa, paura o ansia relative a situazioni sociali in cui l’individuo può essere esaminato dagli altri. Nei bambini, la paura o l’ansia devono però manifestarsi in contesti in cui vi sono coetanei e non solamente durante le interazioni con gli adulti.[2]

Alla base del disturbo sembra esserci quindi la paura di un giudizio negativo diventata così pervasiva, da non consentire all’individuo una normale integrazione nel suo ambiente relazionale e sociale.

Secondo uno studio condotto da Pietrini et al (2009), l’esordio della Fobia Sociale tende ad essere generalmente graduale o può avvenire in seguito a un’esperienza stressante o umiliante (es essere vittima di bullismo, vomitare durante un discorso in pubblico) con un età media di insorgenza nel 75% degli individui tra gli 8 e i 15anni. (DSM V), a cui fa seguito un decorso tipicamente cronico e invalidante.

Per quanto riguarda invece, la remissione spontanea del disturbo, quest’ultima tende ad essere bassa e anzi vi si possono aggiungere importanti complicazioni, quali la depressione secondaria, l’abuso di sostanze (a scopo auto-terapeutico) e le condotte suicidarie.

Risulta, inoltre, nonostante diversi studi, difficile ottenere dati epidemiologici precisi sulla fobia sociale, in quanto la diagnosi viene spesso applicata a schemi interpersonali di timidezza e di evitamento del sesso opposto per paura di un rifiuto.

Ma in realtà vi è un continuum che va da un estremo, costituito dalla fobia sociale, a uno stile caratteriale generalizzato di mettersi in rapporto con gli altri, meglio identificato come disturbo evitante di personalità, posto all’altro estremo (Gabbard, 2015).

Potrebbe essere utile in tal senso, riportare alcuni tra i criteri diagnostici riportati nel DSM 5, quali:

  • La presenza di una paura o ansia marcate relative a una o più situazioni sociali nelle quali l’individuo è esposto al possibile esame degli altri;
  • Il timore da parte dell’individuo che agirà in modo tale o manifesterà sintomi di ansia che saranno valutati negativamente;
  • Le situazioni sociali temute provocano quasi invariabilmente paura e ansia.
  • La paura o l’ansia sono sproporzionate rispetto alla reale minaccia posta dalla situazione sociale e al contesto socioculturale.
  • La paura, l’ansia o l’evitamento sono persistenti e durano tipicamente 6 mesi o più.
  • Le situazioni sociali temute sono evitate oppure sopportate con paura o ansia intense.
  • La paura, l’ansia o l’evitamento causano disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti (Etc). [3]

Tali criteri sono fondamentali anche nel differenziare il disturbo da altri disturbi d’ansia quali la timidezza non patologica, l’agorafobia, il disturbo da panico, l’ansia generalizzata, le fobie specifiche, il mutismo selettivo, isolamento sociale e/o sindrome di hikikomori,  etc..

Per quanto riguarda invece la comorbilità, purtroppo, la fobia sociale è una condizione con un alto tasso di comorbilità: secondo uno studio condotto da Schneier et al (1992), una comorbilità con disturbi cronici importanti era presente nel 69% dei soggetti affetti da fobia sociale. Tali autori hanno anche segnalato come in assenza di comorbilità raramente la fobia sociale viene trattata dai professionisti della salute mentale, infatti, in uno studio condotto negli Stati Uniti da Grant et al, (2005) nonostante l’alta incidenza del disturbo, più dell’80% degli individui non aveva ricevuto un trattamento per questa condizione (Gabbard, 2015).

Stando al DSM V, l’Ansia sociale è spesso in comorbilità con altri disturbi d’ansia, il disturbo depressivo maggiore e disturbi da uso di sostanze, e tendenzialmente l’esordio di tale disturbo precede gli altri, tranne che per la fobia specifica e il disturbo d’ansia da separazione.

Sulla base di quanto fin qui riportato, viene dunque lecito chiedersi, anche in funzione di un’eventuale correlazione con quello che verrà, da qui in poi, riportato come evento stressante “covid-19”, quali siano i possibili fattori di rischio che portano allo sviluppo dell’Ansia Sociale.

Secondo diversi studi, pare che le fobie si inseriscano in un modello di diatesi genetico-costituzionale che interagisce con stressor ambientali (Gabbard 2015), tra cui:

  • Disposizione ereditaria alla fobia che richiede specifici fattori eziologici ambientali per produrre una sindrome fobica conclamata;
  • Esposizione a stress materno durante la prima e seconda infanzia;
  • Specifici stili parentali: genitori particolarmente ansiosi, iperprotettivi o con una o più psicopatologie;
  • Esposizione a eventi stressanti come umiliazioni e critiche da parte di un fratello maggiore, liti tra i genitori, morte di un familiare o separazione da una figura importante.

In un’ottica psicodinamica dunque i pazienti socialmente fobici sembrano aver interiorizzato rappresentazioni di genitori, caregiver o fratelli che inducono vergogna o imbarazzo, criticano, ridicolizzano, umiliano e abbandonano. Questi introietti, uniti a una predisposizione genetica a percepire gli altri come minacciosi, si stabiliscono precocemente nella vita e vengono poi ripetutamente proiettati in persone dell’ambiente esterno che vengono quindi evitate. Ciò non toglie che, tali effetti possano essere mitigati se invece, nonostante la predisposizione genetica, le relazioni significative siano sufficientemente buone.

Per quanto riguarda il trattamento, alcuni pazienti sono particolarmente resistenti, in quanto temono ogni situazione in cui possano sentirsi giudicati o criticati. L’imbarazzo e la vergogna sono però gli stati affettivi predominanti e il terapeuta che si sintonizza con questi affetti può avere una migliore possibilità di formare un’alleanza terapeutica nelle sedute iniziali con il paziente (Gabbard, 2015).

In conclusione e ritornando al motivo del nostra indagine, da quanto fin qui esposto si evince come in realtà, tale disturbo, anche se forse (proprio per quanto su detto) meno trattato, rispetto ad altri, sia presente da molto tempo e possegga un’alta incidenza tra la popolazione mondiale, quindi preesistente all’evento stressante covid-19. Ciò non toglie che un evento così stressante, unito a tutti i fattori di rischio su elencati, tra cui la maggior incidenza dei casi nei giovani di età compresa tra gli 8 e i 15anni,  e a una buona predisposizione genetica, non abbia contribuito a “slatentizzare”, ovvero a gettar luce,  in molti su un disturbo che forse era giunto il momento di trattare!

Val comunque la pena ricordare, per quel che concerne tutti i disturbi sorti in seguito alla pandemia, che l’Ansia sociale seppur a volte in comorbilità, si differenza nettamente dall’isolamento sociale!.

Dott.Ssa Monica Iuliano

 

[1] Pietrini F. et al (2009)”, Epidemiologia della fobia sociale”, rivista di psichiatria, 44,4 p.205

[2] Diagnostical and Statistical Manual of Mental Disorder (DSM), 5th  – pag.234

[3] Diagnostical and Statistical Manual of Mental Disorder (DSM), 5th  – pag.233

 

Bibliografia e Sitografia:

 

Vaccini: il contributo della psicologia del rischio

“…é lecito esporre un uomo a minor pericolo di morire, per salvarlo da un altro senza paragone maggiore? Niun dirà, cred’io di no; troppo sarebbe irragionevole”     

Genovesi, 1765

 

Da qualche mese assistiamo ad un dibattito sempre più acceso tra “si vax” e “no vax”. I rappresentanti delle due posizioni si incontrano, sempre più spesso si scontrano, quasi mai si capiscono.

Il risultato è che il dibattito diventa qualcosa di più simile a quello tra tifoserie.

Consapevoli che non è possibile esaurire nello spazio di un articolo un problema così complesso, vogliamo cercare di capire quali sono alcuni degli aspetti psicologici che sostengono la diffidenza e sfiducia, fino ad una vera e propria fobia, nei confronti dei vaccini.

I primi movimenti di scetticismo/ostilità nei confronti dei vaccini sono sorti già ad inizio ‘800, pochi anni dopo la loro scoperta. Questo avveniva prima dei Big Pharma, quando la realizzazione dei vaccini prevedeva anni di studi e sperimentazioni, prima dell’esistenza dei social network, quando il termine autismo ancora nemmeno esisteva. Questo ci può forse far ipotizzare che ci siano delle resistenze che esulano dal contesto specifico e fanno riferimento a variabili più emotive e cognitive.

Come spesso accade come reazione di fronte ad un rischio temuto, insorge forte il bisogno di una normalizzazione, di ritrovare sicurezze che si temevano perdute. Questo in parte spiega la radicalizzazione di certe opinioni: se da un lato c’è chi invoca il vaccino come strumento per poter ripartire in “totale” sicurezza, dall’altro c’è chi, proprio in reazione al senso di smarrimento ed insicurezza, attiva procedimenti cognitivi che, se da un lato rassicurano, semplificando la realtà dall’altro possono condurre a conclusioni fallaci, fino a chi a forza di doversi difendere da un nemico microscopico, finisce per vedere nemici dappertutto.

L’atteggiamento critico nei confronti dei vaccini si dispone su un continuum di intensità che va da posizioni più radicali ed assolute ad altre non necessariamente contrarie ai vaccini in sé, ma più dubbiose e preoccupate. Diverse quindi sono le posizioni rispetto ai vaccini così come diverse sono i possibili processi psicologici e sociali che ne stanno alla base. La psicologia del rischio ha evidenziato come, quando dobbiamo prendere decisioni percepite come rischiose, tendiamo a farlo non sempre su base razionale, ma su processi più automatici che semplificano la realtà; questo ci porta involontariamente a sovrastimare il rischio di alcuni comportamenti (prendere un aereo) e a sottostimarne altri (fumare). Non sempre alla fine fa più paura quello che è realmente più rischioso.

Sono proprio questi bias cognitivi che possono portare a ritenere più pericoloso un evento nuovo, che conosciamo poco, rispetto ad uno, magari statisticamente più rischioso, ma al quale siamo già abituati o a ritenere meno tollerabili rischi derivanti da una azione volontaria, quale il vaccinarsi ad esempio, piuttosto che quelli dovuti a un evento casuale o ancora dalla conseguenza di una mancata azione, quali ad esempio l’insorgere di una malattia o rischi legati al non essersi vaccinati. Un po’ come se ci fosse il pensiero di fondo di “essersela andata a cercare” che altera la valutazione oggettiva del rischio.

Altro bias cognitivo che influenza la percezione dei rischi è quello sintetizzato dalla locuzione “post hoc, ergo propter hoc”, che porta a confondere la causalità con la consequenzialità temporale, ovvero che tende a considerare un evento accaduto dopo un altro come sicuramente ed inevitabilmente da questo causato. Anche il cosiddetto effetto Dunning-Kruger porta ad una distorsione cognitiva, inducendo, almeno in un primo momento, a sovrastimare le proprie conoscenze in modo inversamente proporzionale alle reali competenze. Nel momento quindi in cui, “da profano” mi accosto ad un certo argomento, posso sopravvalutare la mia competenza, sottovalutando quella di studiosi più esperti e non riuscendo correttamente a discernere la validità effettiva delle fonti da cui traggo informazioni.

Si aggiungono variabili sociali e di personalità. Hornsey et al. fanno riferimento ad “attitudini profonde” inconsapevoli che sostengono atteggiamenti di ostilità e scetticismo nei confronti di evidenze scientifiche. Non può essere infatti, secondo gli autori, solo la mancanza di informazioni o una non corretta elaborazione di queste, che può determinare una tale resistenza ad assimilare e comprendere messaggi evidence based.

Sono state evidenziate persistenti credenze in teorie cospirative o complottiste, una tendenza individuale ad immaginare che vi siano reti di interessi che, per trarre benefici propri, sono disposti a creare danni, scatenare epidemie, manipolare le informazioni, mantenere soggiogata la popolazione generale. A questo si lega una tendenza ad avere sfiducia nelle istituzioni sanitarie e scientifiche e contemporaneamente un elevato livello di reattanza psicologica. Con questo si intende la resistenza a eseguire ordini che provengono sia da persone vicine che da organismi che possano esercitare una qualunque forma di controllo o norma, anche a scapito del proprio stesso interesse.

Si viene quindi a creare una narrazione di sé e del gruppo a cui si sente di appartenere, come detentore di un pensiero libero, indipendente anticonformista, non manipolato né manipolabile. Questa modalità di pensiero sostiene una certa tendenza all’individualismo, ovvero a ritenere che sia preferibile prendere decisioni per se stessi e che qualunque provvedimento derivi da un governo o da altra autorità sia eccessivamente intrusiva ed errata. Si collega a questo il pensiero di non poter essere efficacemente coinvolti nel percorso di cura, né essere parte di un contesto più ampio in cui essere attori di prevenzione e tutela della comunità.

Gli autori si riferiscono poi ad aspetti riconducibili a tematiche ansiose e inerenti al controllo. La fobia o anche solo il timore nei confronti di aghi, ospedali o sangue può determinare strategie di evitamento tra cui potrebbe esserci un atteggiamento contrario al vaccino. Va aggiunto anche che, nel caso specifico, i vaccini possono generare un’opposizione ancor più forte sia perché implicano letteralmente una penetrazione forzata nel corpo che perché possono attivare fantasie di contaminazione con l’idea che si “introduca” una malattia in un corpo sano.

Queste considerazioni portano a ritenere che un approccio simmetrico, intransigente nei confronti dei cosiddetti “no vax”, non solo non permette un confronto né un’azione trasformativa, ma anzi attiva meccanismi di reattanza, sostenendo la credenza di essere parte di una piccola nicchia di persone che coltivano il libero pensiero e incrementando tematiche ansiose e vissuti di isolamento.

Al contrario l’ascolto empatico di quelle che possono essere le motivazioni profonde che sostengono atteggiamenti più rigidamente avversi ai vaccini può aiutare sia la comunicazione che le relazioni, contribuendo poi, salvo contesti più francamente patologici, a limitare atteggiamenti più inflessibili e intransigenti.

Lo stesso può accadere anche in riferimento a coloro che hanno profondamente creduto nei vaccini come opportunità per uscire dalla fase di incertezza e isolamento scatenate dalla pandemia. L’atteggiamento favorevole al vaccino, può essere sì in linea con il sapere scientifico, ma talvolta fondare le radici in credenze non necessariamente logiche e razionali. Può essere primariamente una risposta all’ansia derivante dalla possibilità di ammalarsi e in generale dal bisogno di controllo e sicurezza. Anche in questo caso ci si trova di fronte a credenze immodificabili, che mal si adattano ad esempio al cambiamento di direzione dato dall’indicazione alla terza dose che potrebbe davvero “far crollare le certezze” che si avevano finora.

Vediamo quindi come ogniqualvolta ci troviamo di fronte a pensieri o comportamenti rigidi e pervasivi, di qualunque natura e direzione, può valere la pena domandarsi se derivano da bias cognitivi o da paure irrazionali che ci condizionano e guidano ed eventualmente rivolgerci ad uno psicoterapeuta che ci può aiutare ad affrontarli. Perché alcune volte è il nostro stesso inconscio che ci influenza più di qualunque possibile “dittatura sanitaria”.

Dott.ssa Chiara Delia – Psicologa Psicoterapeuta

Biografia

· Goldberg JF. (2021) – How Should Psychiatry Respond to COVID-19 Anti-Vax Attitudes? J Clin Psychiatry. Aug 24;82(5)

· Hornsey MJ, Fielding KS. (2017) – Attitude roots and Jiu Jitsu persuasion: Understanding and overcoming the motivated rejection of science. Am Psychol. Jul-Aug;72(5):459-473

· Hornsey, M. J., Harris, E. A., & Fielding, K. S. (2018) – The psychological roots of anti-vaccination attitudes: A 24-nation investigation. Health Psychology, 37(4), 307–315.

· Hornsey, M.J., Harris, E.A. Fielding, K.S. (2018) – Relationships among conspiratorial beliefs, conservatism and climate scepticism across nations. Nature Climate Change, 8 (7), 614-620.

· Martin LR, Petrie KJ. (2017) Understanding the Dimensions of Anti-Vaccination Attitudes: the Vaccination Attitudes Examination (VAX) Scale. Ann Behav Med. Oct;51(5):652-660.

· Motta, M., Callaghan,T., Sylvester, S. (2018). Knowing less but presuming more: Dunning-Kruger effects and the endorsement of anti-vaccine policy attitudes. Soc Sci Med, 211:274-281.

· Pandolfi F, Franza L, Todi L, Carusi V, Centrone M, Buonomo A, Chini R, Newton EE, Schiavino D, Nucera E. (2018) – The Importance of Complying with Vaccination Protocols in Developed Countries: “Anti-Vax” Hysteria and the Spread of Severe Preventable Diseases. Curr Med Chem. 25(42):6070-6081

· Pappas S. (2021). Social science and the COVID-19 vaccines. Am Psychol Ass 52(2).

· Pastorino R, Villani L, Mariani M, Ricciardi W, Graffigna G, Boccia S. (2021) – Impact of COVID-19 Pandemic on Flu and COVID-19 Vaccination Intentions among University Students. Vaccines (Basel). Jan 20;9(2):70.

· White SJ, Barello S, Cao di San Marco E, Colombo C, Eeckman E, Gilligan C, Graffigna G, Jirasevijinda T, Mosconi P, Mullan J, Rehman SU, Rubinelli S, Vegni E, Krystallidou D. (2021) – Critical observations on and suggested ways forward for healthcare communication during COVID-19: pEACH position paper. Patient Educ Couns. Feb;104(2):217-222