Tag: <span>Smartphone</span>

SMARTPHONE E SOCIAL: I TERZI INCOMODI NELLA RELAZIONE CON I GENITORI

I vostri figli non sono figli vostri…

sono i figli e le figlie della forza stessa della Vita.
Nascono per mezzo di voi, ma non da voi.
Dimorano con voi, tuttavia non vi appartengono.
Potete dar loro il vostro amore, ma non le vostre idee.

Kahlil Gibran

Il libro Il vaso di pandoro. Ascesa e caduta dei Ferragnez, scritto dalla giornalista Selvaggia Lucarelli e uscito nel mese di maggio del 2024 dalla casa editrice PaperFIRST, ci ha offerto l’occasione per riflettere e parlare delle conseguenze sullo sviluppo emotivo che ha l’uso che i genitori fanno degli smartphone e dei social, mentre si relazionano con i figli.

Il libro è un’inchiesta svolta dall’autrice sulle cause che hanno portato Chiara Ferragni e suo marito Fedez a diventare, prima lei da sola e poi come coppia, un fe­nomeno sui social da più di 28 milioni di follower e successivamente sulle cause che li hanno portati ad avere problemi legali, multe da 1 milione di euro per pub­blicità ingannevole e a perdere “l’amore” del loro pubblico. Per chi, come la scrivente, li conosceva solo di nome è stata una lettura interessante, soprattutto per le spiegazioni sul funzionamento dei social rispetto all’acquisizione o perdita di popolarità.

Come ci rende noto l’autrice del libro, gran parte della popolarità della coppia è derivata dalla pubblicazione di stories che hanno visto come protagonisti, inconsapevoli, i loro figli. Molto interessante si è rivelato il capitolo Quando i bambini fanno like.

Il fenomeno dei baby influencer è stato lanciato sul social Tik Tok, ma i Ferragnez hanno sempre preferito Instagram.

Nonostante Fedez abbia affermato che loro non monetizzano attraverso i figli, perché non li coinvolgono in campagne pubblicitarie, cito Lucarelli, “è evidente che non solo ne facciano parte, ma che siano il nucleo principale del brand. Anzi, l’elemento di maggior successo. I contenuti con i figli Vittoria e Leone ottengono più like degli altri post legati al loro lavoro e molte persone confessano senza alcuna re­mora di seguire la coppia più per la tenerezza dei bambini che per i beni di lusso mo­strati dai genitori.” Infatti il 60% delle storie pubblicate riguarda i loro figli e i primi cinque video per numero di interazioni sono quelli con i figli.

Ciò su cui si interroga Lucarelli, e anche noi come psicoterapeuti, è l’impatto che questi comportamenti dei genitori e l’esposizione sui social possono avere sulla salute mentale dei minori. La giornalista si domanda: “Che benefici traggono i minori dal vedersi puntato un telefono in faccia e nel non sapere che quello che fanno diventerà un contenuto? [i genitori non pensano] che se un giorno avranno da lamentarsi di questa loro scelta, sarà troppo tardi per poter rimediare, visto che esisteranno milioni di contenuti non rimovibili e una loro biografia digitale infinita?”

Abbiamo coinvolto due psicoterapeute dell’Associazione Eco, le dottoresse Federica Ariani e Tatiana Giunta, che si occupano di età evolutiva per provare a riflettere insieme su tale quesito e abbiamo posto loro qualche domanda.

“Dottoressa Giunta esiste una definizione per il comportamento messo in luce dalla giornalista Lucarelli?”

Si tratta di un fenomeno definibile con l’espressione britannica sharenting, che deriva dall’unione delle parole share, condividere, e parenting, essere genitori ed è l’esposizione costante dei bambini sui social media da parte dei loro genitori o di altri adulti che ne sono responsabili.

“I protagonisti dello sharenting sono solo personaggi celebri e i loro figli?”

Assolutamente no. Potremmo pensare che si tratti di un fenomeno legato principalmente agli influencer, tuttavia è molto diffuso anche tra genitori non celebri. Secondo un sondaggio contenuto in uno studio presentato sulla Rivista italiana di educazione familiare (Cino, Demozzi, 2017), il 68% delle persone intervistate – prevalentemente madri con figli di età compresa tra 0 e 11 anni – disse di pubblicare con una certa frequenza foto dei propri figli online, attraverso i profili social e il 30% di farlo anche su gruppi con un pubblico più ampio di quello di un profilo personale. Da questo sondaggio emerge la tendenza, da parte dei genitori, a diminuire la condivisione di foto dei figli con l’aumentare della loro età, mentre nei primi cinque anni percepiscono questa pratica come un loro diritto di genitori, senza tenere in considerazione il diritto alla privacy dei figli.

“Qual è lo scopo di condividere contenuti legati all’immagine dei propri figli?”

Alcuni sostengono che lo sharenting sia l’evoluzione digitale del mostrare gli album di famiglia e del parlare dei successi dei propri figli. La differenza da non sottovalutare consiste nel pubblico, che è più ampio e composto anche da sconosciuti. Inoltre lo sharenting ha una funzione sociale: i genitori si sentono supportati dalla rete, condividono le loro difficoltà, ricevono apprezzamenti. Diciamo che risponde a un bisogno narcisistico. E talvolta guadagnano denaro.

“Anche in passato i bambini sono stati esposti mediaticamente attraverso TV e cinema, che differenza c’è rispetto allo sharenting?”

Le implicazioni sono diverse, più complesse e ancora in fase di studio. A differenza degli spot, dei film o dei programmi televisivi nei quali i bambini erano/sono consapevoli di essere ripresi da una telecamera, lo sharenting introduce una riflessione importante rispetto alla (non) consapevolezza di essere ripresi, che ha importanti implicazioni sulla costruzione della fiducia reciproca, sulla privacy, oltre a possibili effetti sullo sviluppo psicologico.

“Sembrano dunque esserci implicazioni a diversi livelli. Quali riflessioni possiamo fare rispetto al tema del rispetto della privacy?”

È chiaro come non essendoci il consenso, il diritto alla privacy non venga rispettato. La diffusione di dettagli legati al minore – come i posti che frequenta, i nomi di famigliari – potrebbe sembrare innocua, tuttavia lo espone al rischio di venire avvicinato da estranei con intenzioni negative. Inoltre in diversi casi, come testimoniato dal dipartimento australiano Children’s eSafety, le immagini di minori condivise dai loro genitori sono state ripostate da sconosciuti o “rubate” e pubblicate su siti pedopornografici.

Oggi il patrimonio digitale rimane a disposizione di tutti e cosa ne sarà del futuro di questi kidfluencer quando avranno una vita adulta e una carriera? Cosa rimarrà dell’eredità virtuale lasciata loro dai genitori?

“Cosa possiamo dire delle implicazioni a livello psicologico?”

Si tratta di un fenomeno ancora in fase di studio, tuttavia gli interrogativi su come lo sharenting influisca a livello psicologico meritano una riflessione attenta e puntuale.

Secondo Leah Plunkett (2019), docente alla Harvard Law School, il problema riguarda il mancato consenso dei bambini nell’utilizzo della loro immagine. Chi vorrebbe che la propria immagine venisse catturata e poi diffusa, ad esempio in momenti di fragilità, senza aver dato il consenso? È proprio ciò che è successo a Leone e Vittoria, come riporta Lucarelli, ripresi durante i loro momenti di difficoltà e tristezza per il trasloco o all’ospedale con una flebo, con l’intento di ricevere le attenzioni dei follower e di monetizzare. La tendenza a lucrare sui propri figli è una “mercificazione” di questi in nome del denaro e del successo.

Come evidenzia la psichiatra Adelia Lucattini su Repubblica “i social ci hanno portato alla sovraesposizione mediatica, ma un conto è sovraesporre sé stessi, un altro è farlo con terzi. I bambini spesso non sanno che loro immagini riservate sono state postate dai genitori, quando poi ne diventano consapevoli potrebbero sentire violata la loro intimità. Occhi indiscreti hanno la possibilità di scrutare nel loro privato, e non è difficile immaginare che possano provare vergogna. Questo potrebbe influire sulla relazione coi genitori stessi e rendere difficile un rapporto sereno ed equilibrato con loro. Ed è la migliore delle ipotesi perché significa che il processo di differenziazione dai genitori, necessario per lo sviluppo dei bambini, sta avvenendo, stanno crescendo e diventando adolescenti consapevoli, sufficientemente strutturati e forti da potersi opporre e ribellare.”

Talvolta le angosce dei bambini vengono condivise dai genitori per cercare supporto e strappare una risata al loro pubblico, tuttavia come sottolineano Willingham ed Hershbergnel loro studio del 2019, le loro angosce non dovrebbero essere recepite come «un segnale per tirare fuori lo smartphone cercando di ottenere “Mi piace”». I bambini cercano nei genitori il rispetto e la compassione e un contesto familiare ed intimo nel quale imparare a ridere di sé, che non può avvenire se vengono derisi dai loro genitori.

Rispetto allo sviluppo dell’identità il rischio è quello di costruire un’immagine di sé come di “oggetto di scena”, come fonte di denaro. L’immagine di sé assume un’importanza predominante in un mondo virtuale dove l’apparenza è tutto e può tradursi nello sviluppo di aspetti legati alla ricerca di un sorta di “consenso pubblico”, come riportato in un articolo del Post che intervista Brunella Greco, esperta in materia di tutela dei minori online per la ONG Save the Children: “cominciano a fare i conti da piccoli col fatto di essere esposti al giudizio e ai “mi piace” degli altri, e questo interagisce con la formazione della personalità e della propria immagine pubblica”.

Sempre Lucattini ci ricorda come “la vetrinizzazione dei figli può dar vita allo sviluppo di un Falso Sé, ovvero una personalità difensiva, da offrire agli altri. Non nel senso di ingannevole, ma di personalità non propriamente autentica, che il bambino crea inconsciamente per proteggere il vero Sé. Il Falso Sé è una difesa della mente per proteggere l’intimità, gli aspetti emotivi inconsci. Ma spesso chi ce l’ha non lo sa. Prima era un fenomeno legato a dinamiche famigliari o traumi, ora è causato anche dalla perdita del confine tra intra ed extra famigliare, tra pubblico e privato. Questi ragazzi saranno adulti che avranno prima o poi bisogno di andare in analisi.”

In conclusione possiamo dire che pubblicare le immagini dei figli minori, oltre ad agevolare atti di cyberbullismo, furti d’identità, truffe online o ancor peggio atti legati alla pedopornografia, trasmette un messaggio educativo distorto e può avere influenze negative sullo sviluppo del senso di Sé e sulla relazionalità.

“Ci sono degli studi con le testimonianze dei figli dello sharenting?”

Trattandosi di un fenomeno nuovo sono ancora pochi gli studi in letteratura che possano cogliere gli effetti dello sharenting.

Un gruppo di ricercatori belgi (Ouvrein e Verswijvel, 2019) ha condotto un focus group con adolescenti tra i 12 e i 14 anni dimostrando che, sebbene alcuni hanno affermato di comprendere le ragioni del comportamento genitoriale, in molti si sono definiti preoccupati. Ciò che ha suscitato maggiore imbarazzo sono le foto buffe o di nudità. Gli adolescenti vorrebbero controllare ciò che i genitori pubblicano potendo quindi scegliere e dando il consenso o il dissenso. Come conseguenze dello sharenting gli adolescenti fanno riferimento all’accettazione dei pari, alla paura di essere valutati negativamente, all’essere vittima di bullismo o cyberbullismo, o sul lungo termine alla presenza di foto imbarazzanti che potrebbero influenzare la scelta del recruiter di fronte a una candidatura lavorativa.

In un secondo studio della stessa università (Verswijvel et al., 2019), attraverso la somministrazione di questionari a 817 adolescenti, è emersa la loro tendenza a disapprovare largamente lo sharenting, considerandolo imbarazzante e inutile. Gli adolescenti che valutano in modo maggiormente positivo lo sharenting sono quelli che tendono a condividere numerose informazioni personali o che prestano meno attenzione e sono meno preoccupati nei riguardi della loro privacy.

“Un’ultima domanda. È chiaro come ci sia un problema da risolvere inerente il tema della tutela dei minori, soprattutto rispetto al consenso e alla privacy. Quali sono attualmente le tutele in Italia?”

Attualmente l’unica legge a cui poter fare riferimento è il GDPR con le successive modifiche. Trattandosi di un’emergenza, in Italia, come precedentemente in Francia, a marzo 2024 è stata presentata una proposta di legge che tuteli i minori protagonisti dei social dei loro genitori. In tale proposta sono contenuti aspetti interessanti, come la conservazione dei guadagni prodotti dal kidfluencer (il minore esposto dai genitori sui social) in un conto a lui intestato (attualmente però un minore non può avere un conto a lui intestato), vincolato e accessibile solo alla maggiore età, o la possibilità di richiedere l’oblio digitale al compimento dei 14 anni, ovvero la cancellazione di tutti i contenuti che lo ritraggono.

“Dottoressa Ariani, sempre di più fin dall’allattamento i figli devono “condividere” le attenzioni dei genitori con uno strumento inanimato quale è lo smartphone. Questo comportamento genitoriale che conseguenze può avere sullo sviluppo dei figli?”

Rispondo con uno studio che rappresenta una pietra miliare della psicologia dello sviluppo con la sua versione aggiornata alla nostra realtà digitale.

Fin dai primi mesi di vita i caregivers rappresentano per i loro figli il principale stru­mento di regolazione e autoregolazione emotiva. A differenza delle convinzioni le­gate all’idea che il bambino alla nascita sia una tabula rasa, privo quindi di iniziative, richieste o capacità, le recenti ricerche dimostrano quanto fin dai primi giorni di vita il neonato possieda delle competenze relazionali e dunque quanto la relazione sia per lui fondante e necessaria per poter esprimere e riconoscere se stesso. Si tratta di un discorso di riconoscimento e di auto­regolazione: attraverso il contatto fisico e lo scambio di interazioni il neonato impara a rico­noscere l’adulto di riferimento e a re­golare il proprio funzionamento emotivo e affettivo.

Un interessante esperimento svoltosi negli anni ‘70 da parte dell’équipe del dott. Tro­nickesprime con maggiore chiarezza questo assunto: si tratta dell’esperimento dello Still Faceed è stato applicato su delle diadi madri-bambino nell’età compresa tra i 3 e i 6 mesi, un pe­riodo dunque in cui il bambino ha imparato ad esprimersi attraverso suoni e vocalizzi. L’esperimento era suddiviso in tre fasi: in una prima fase veniva chiesto alla madre di porsi vis à vis con il suo bambino e di avviare con lui un dialogo attraverso vocalizzi e suoni vo­cali, “facendo delle domande” e rispondendo al pic­colo, lasciando a lui il proprio tempo di latenza per partecipare attivamente all’interazione. Il bambino partecipava in modo sereno, sorrideva alla madre, vocaliz­zava, esprimeva dei suoni e si muoveva eccitato sul seggiolone, indicando oggetti e rispondendo alle richieste materne.

Successivamente, nella seconda fase dell’esperimento, veniva richiesto alla madre di inter­rompere l’interazione non solo vocale ma anche mimica, di non partecipare più attivamente e con lo sguardo alla relazione con il piccolo, mantenendo un’espressione facciale neutra. La reazione del bambino era da subito attribuibile a una condizione di stress: coglieva subito che qualcosa non andava, provava a ripetere la sequenza mi­mica e le interazioni che prece­dentemente funzionavano nel vivificare la madre (in­dica, fa delle facce, si muove in un certo modo) ma, permanendo la neutralità, il bambino incominciava a essere infastidito, aumentavano i livelli di stress, si modifi­cava la postura, iniziava a muoversi e divincolarsi finché non iniziava a piangere di­speratamente.

La terza parte dell’esperimento consisteva in un’esperienza di riparazione, dunque nel rista­bilire la connessione emotiva e la regolazione: la madre interrompeva la neutra­lità dello sguardo e della mimica e ricominciava a interagire con il piccolo. Da subito il bambino si calmava e smetteva di piangere, ma era necessario del tempo prima che riuscisse a ricolle­garsi emotivamente alla madre in modo sereno: l’esperienza dell’assenza materna era stata molto impattante ed era necessario del tempo per po­terla recuperare.

Questo esperimento effettuato negli anni Settanta ci racconta quanto sia importante la rela­zione per e con il bambino molto piccolo e anche attraverso quali canali essa si strutturi: lo sguardo, la responsività visiva, la voce e la continuità della relazione. Questi elementi sono centrali affinché  il bambino possa riconoscere l’Altro e se stesso. Attraverso la presenza at­tiva, partecipe e vivace della madre, il bambino ap­prende a regolare le emozioni e a mante­nere la continuità di Sé; nel momento in cui la madre si assenta emotivamente (questo è il caso anche della depressione post par­tum) il bambino percepisce vividamente lo stress e lo esperisce attraverso il corpo, il pianto. Il pianto ha proprio la funzione di riattivare la madre, di chiederne la presenza e di ristabilire la relazione.

La reazione più estrema a un fattore stressogeno presente nell’ambiente relazionale circo­stante è il riflesso vasovagale, cioè l’utilizzo, attraverso lo svenimento e la per­dita di co­scienza, di difese psicologiche come quella della dissociazione.

“La relazione con i genitori, dunque, è necessaria al bambino per dare un senso alla propria esistenza e per favorire il proprio sviluppo psichico e psicologico, tramite l’autoregolazione. Che funzione acquisisce quindi lo smartphone in questa interazione quando viene inserito da parte del genitore?”

Nel marzo 2021 è stato pubblicato, anche in rete, un aggiornamento dell’esperimento dello Still Face di Tronick, attualizzato alla modernità: veniva cioè inserito all’interno della rela­zione madre-bambino lo smartphone.

In questo esperimento veniva chiesto alle madri di porsi in una posizione vis à vis con il loro bambino e di avviare una conversazione, fatta di sguardi, sorrisi, suoni e voca­lizzi, come nell’esperimento originario. Il bambino è da subito un soggetto attivo della relazione e con­tribuisce a mantenere attivo il dialogo.

Nella seconda fase dell’esperimento veniva richiesto alla madre di iniziare a utiliz­zare il cellulare, dunque di interrompere la conversazione con il piccolo e di farsi as­sorbire dallo smartphone. La reazione del bambino a questo comportamento materno equivale a quello dell’esperimento originario: il piccolo prova inizialmente a riatti­vare la madre, muovendosi sulla sedia, vocalizzando, emettendo suoni spiritosi e/o standardizzati; permanendo l’assenza materna, il bambino inizia a manifestare com­portamenti stressogeni, fino a esplo­dere in un pianto disperato. Nel momento in cui la madre “riallaccia” la relazione, il bam­bino si calma e torna nell’assetto relazionale e comunicativo iniziale.

Cosa possiamo concludere?

Lo smartphone dunque, e la sua presenza all’interno della relazione con i bambini molto piccoli, non fa altro che minare la connessione della diade, causando in loro un’interruzione dello scambio caldo, empatico e strutturante, che occorre al piccolo per co­stituirsi e per autoregolarsi. La presenza del cellulare interrompe la continuità relazionale e il contatto emotivo, fondamentale per un sano sviluppo psicologico e cognitivo del bambino.

Dr.sse Federica Ariani, Tatiana Giunta e Luigina Pugno

BIBLIOGRAFIA

Cino, D., Demozzi, S. (2017) Figli “in vetrina”. Il fenomeno dello sharenting in un’indagine esplorativa. Rivista Italiana Di Educazione Familiare, 12(2), 153–184.

https://doi.org/10.13128/RIEF-22398

Gibran, K. (1923) Il profeta. Feltrinelli, 2013.

Lucarelli, S. (2024) Il vaso di Pandoro. Ascesa e caduta dei Ferragnez. PaperFirst.

Ouvrein, G., Verswijvel, K. (2019). Sharenting: Parental adoration or public humiliation? A focus group study on adolescents’ experiences with sharenting against the background of their own impression management. Children and Youth Services Review, 99, 319-327.

Plunkett, L. (2019) Sharenthood: why we should think before we talk about our kids online. The MIT Press.

Verswijvel, K., Walrave, M., Hardies, K., & Heirman, W. (2019). Sharenting, is it a good or a bad thing? Understanding how adolescents think and feel about sharenting on social network sites. Children and Youth Services Review, 104, 401-411.

Willingham, V.D.T., Hershberg, R.S. (2019) Stop posting your child’s tantrum on Insta­gram. The New York Post.

SITOGRAFIA

https://www.repubblica.it/moda-e-beauty/2024/03/22/news/sharenting_proposta_legge_foto_minori_social-422358811/

https://www.ilpost.it/2024/03/21/social-network-foto-bambini/

https://www.cesda.net/2022/12/09/sovraesposizione-mediatica-dei-bambini-e-conseguenze-a-livello-individuale/

https://www.ilpost.it/2022/09/10/sharenting-bambini-social/

NOMOFOBIA: LA PAURA DI ESSERE “DISCONNESSI”

Nel corso degli ultimi 20 anni i telefoni cellulari sono diventati una presenza sempre più importante nella vita di ciascuno di noi. Se negli anni 2000 i cellulari ci permettevano unicamente di telefonare e scambiare qualche sms, ad oggi sono dei veri e propri computer in cui ognuno di noi racchiude la propria vita. Sullo smartphone abbiamo l’agenda, la carta di credito, la mail e, non ultimi i social, tanto che sembra diventato impossibile farne a meno. Per tutti i motivi sopraelencati, sarà capitato a chiunque di sentire una vena di paura all’idea di non trovare il cellulare, con conseguente apertura di scenari sulla perdita, o magari il furto, di dati, contatti, account, ecc.

Quando però questa paura diventa qualcosa di più profondo, prende il nome di nomofobia (No Mobile Phobia). Recentemente questo termine è stato aggiunto anche al dizionario della lingua italiana Zingarelli, ad indicare che tale fenomeno è in grande espansione.

Ma come si riconosce la nomofobia? Questo termine indica una vera e propria dipendenza da smartphone e si caratterizza con sintomi simili a quelli dell’attacco di panico ogni qualvolta il soggetto non ha a disposizione il cellulare, oppure non ha credito o la possibilità di accedere ad internet. Le manifestazioni sintomatiche possono comprendere:

tachicardia

affanno

mancanza di respiro

sudorazione

tremori

nausea

dolore toracico.

Le persone affette da nomofobia vivono in uno stato di costante allerta e, per evitare di non avere il telefono a disposizione, mettono in atto una serie di comportamenti compensativi, come controllare continuamente lo stato della batteria, il credito e la disponibilità di dati, portare con sé caricabatterie o powerbank o girare con un telefono “di scorta”; se ci pensiamo questo atteggiamento ricorda ad esempio quello di un fumatore incallito, che farà sempre attenzione a non restare senza sigarette onde evitare di sperimentare una forte ansia.

In chi soffre di nomofobia si possono inoltre riscontrare le seguenti caratteristiche comportamentali:

Utilizzo dello smartphone in luoghi o momenti poco appropriati;
Passare una quantità eccessiva di tempo al telefono (social, video, giochi, ecc.);
Monitoraggio costante del telefono per controllare l’arrivo di eventuali notifiche;
Andare a dormire col telefono o il tablet;
Tenere lo smartphone acceso 24/24 h;
Tenere sempre sotto controllo il credito e lo stato della batteria.

In definitiva, la nomofobia si caratterizza per il terrore di essere disconnessi.

Per quanto tale fenomeno possa sembrare recentissimo, già nel 2008 uno studio commissionato dal governo britannico tra i cittadini in possesso di un telefono cellulare rilevava dati allarmanti: circa il 58% degli uomini e il 47% delle donne manifestavano una forte ansia all’idea di essere “disconnessi” dai propri dispositivi.

Nonostante tale dipendenza sia ormai dilagante, attualmente non esistono molti trattamenti specifici e i pochi a disposizione comprendono la psicoterapia ad orientamento cognitivo comportamentale e, in casi gravi, il ricorso a terapie farmacologiche.

L’obiettivo dei trattamenti è specificamente il riavvicinare il soggetto alla vita reale e ai contatti faccia a faccia, distogliendo per quanto possibile l’attenzione dalla realtà virtuale in cui il soggetto è costantemente immerso.

Le persone affette da nomofobia dovrebbero dedicare tempo, ogni giorno, ad attività che non richiedano l’uso di supporti tecnologici, come leggere un libro o fare attività fisica. E’ importante che ci siano dei momenti della giornata in cui non è concesso l’uso del cellulare, come l’orario dei pasti o prima di andare a dormire.

Può essere utile disattivare le notifiche delle applicazioni meno importanti, così da limitare lo stato di allerta e l’ansia da mancata risposta.

Dott.ssa Rossella Totaro

Psicologa e Psicoterapeuta

AMI PIU’ ME O IL TUO SMARTPHONE?: LA TECNOFERENZA E IL RUOLO DEGLI SMARTPHONE NELLA RELAZIONE GENITORI E FIGLI

Da alcuni anni i genitori, specie di ragazzi adolescenti, si trovano ad affrontare una nuova sfida: la regolamentazione dell’uso dello smartphone. Molto si discute sull’uso sempre più precoce e pervasivo di smartphone e tablet tra bambini e adolescenti e sull’impatto che questi hanno sulle capacità relazionali e attentive dei giovani. Meno si parla di come, un uso non consapevole della tecnologia mobile da parte degli adulti può avere effetto sui bambini. Questo non solo nei termini di essere un cattivo esempio o impartire abitudini errate, ma dell’effetto che un uso pervasivo degli smartphone può avere sul proprio ruolo genitoriale e sulla relazione con i propri figli.

Non si vuole qui certo demonizzare la tecnologia mobile, strumento riconosciuto come utile ed a tratti indispensabile, ma porre l’attenzione su quanto possa essere un richiamo costante, che induce a rimanere “sempre connessi” con il mondo, assorbiti dall’online, che può fungere da fuga e allontanamento dal presente fisico e più prossimo.

Da decenni si sa quanto la qualità delle relazioni precoci del bambino contribuiscano allo sviluppo di un attaccamento sicuro e di un buon sviluppo emotivo e quanto la qualità delle relazioni passi attraverso la capacità di sintonizzarsi col bambino prevalentemente grazie alla reciprocità dello sguardo. Gli esseri umani infatti sono gli unici in grado di sintonizzarsi, collaborare e condividere obiettivi attraverso il coordinamento dello sguardo. Sin dai primi mesi si pensi al momento dell’allattamento lo sguardo del bambino e quello della madre “si parlano”, comunicano bisogni ed emozioni. Attraverso lo sguardo i genitori riescono a percepire i segnali che arrivano dal bambino, interpretarli correttamente e rispondere alle sue esigenze e questo contribuisce nel bambino allo sviluppo di un sistema di attaccamento sicuro. Sempre attraverso lo sguardo il bambino si rispecchia emozionalmente nel genitore, imparando a conoscere se stesso.

L’utilizzo ripetuto e continuativo dello smartphone da parte degli adulti in presenza di un bambino, anche piccolo, può determinare una diminuzione della capacità di sintonizzarsi con i suoi bisogni,proprio interrompendo il contatto visivo, la coordinazione dello sguardo e l’attenzione condivisa. Come spesso notiamo lo strumento tecnologico stesso, il suo richiamo sonoro di mail e messaggi, la prossimità continua induce facilmente una sorta di assorbimento che Gergen (2002) ha definito come “presenza assente”. McDaniel (2015) ha coniato il termine “tecnoferenza” per indicare proprio quanto le ripetute interruzioni nelle interazioni interpersonali, a causa di dispositivi tecnologici digitali, determini una interferenza relazionale e comunicativa tra caregiver e bambino, correlando ad alcuni esiti negativi sullo sviluppo precoce.

Alcuni studi osservazionali che rimandano al paradigma dello still face registrano le reazioni dei bambini nel momento in cui il caregiver cessa di interagire con loro, rivolgendo lo sguardo allo smartphone. Le reazioni sono simili a quelle che sono state registrate nelle interazioni con mamme depresse, che manifestano una mimica facciale fissa ed inespressiva, con un aumento, anche in bambini di 5/6 mesi, di reazioni negative, di stress e frustrazione anche intensi, di ritiro dell’attenzione e dell’attività di esplorazione. Da notare che, anche dopo la ripresa dell’interazione la qualità e quantità di segnali di benessere del bambino non tornavano in linea con i valori precedenti all’interruzione ed anzi i bambini sembravano acquisire una minor capacità di essere calmati e rassicurati anche dopo che l’attenzione tornava su di loro.

Le ricerche segnalano che anche bambini di età maggiore manifestano od esprimono sentimenti negativi di fronte a momenti di tecnoferenza, in particolare durante di momenti di convivialità o durante il gioco, evidenziando stress e irrequietezza e innescando talvolta veri e propri meccanismi di competizione con lo strumento tecnologico….almeno fino a quando non ne avranno uno proprio da cui lasciarsi ugualmente assorbire.

La reazione dell’adulto in risposta a comportamenti di richiamo, specie se questi sono particolarmente evidenti, è spesso di rabbia e fastidio cosa che determina nel bambino ancora più confusione e frustrazione ed un senso di fallimento di fronte ad un “avversario” contro cui teme di non poter competere.

È comprensibile e per certi aspetti doveroso che gli adulti possano ritagliarsi spazi di svago e socializzazione – perché no – anche attraverso device mobili, ma è importante che questo vada fatto in modo consapevole, coscienti che “i bambini ci guardano”, anche quando non ce ne accorgiamo, anche quando ci sembrano distratti o dediti ad altro. Altrettanto importante è preservare alcunimomenti che possono essere particolarmente significativi, come quello del gioco, dell’addormentamento, dell’allattamento ed in generale dei pasti. Tutto questo non soltanto permetterà lo sviluppo di una miglior relazione genitori/figli e di un stile di attaccamento sicuro, ma insegnerà ai futuri ragazzi un uso più attento e consapevole di smartphone e tablet, limitando – si spera – successivi conflitti in adolescenza.

Dott.ssa  Chiara Delia

Psicologa – Psicoterapeuta

Bibliografia

Konrad C, Hillmann M, Rispler J, Niehaus L, Neuhoff L, Barr R. Quality of Mother-Child Interaction Before, During, and After Smartphone Use. Front Psychol. 2021 Mar 29
Vik FN, Grasaas E, Polspoel MEM, Røed M, Hillesund ER, Øverby NC. Parental phone use during mealtimes with toddlers and the associations with feeding practices and shared family meals: a cross-sectional study. BMC Public Health. 2021 Apr 20;21(1):756
Radesky JS, Kistin CJ, Zuckerman B, Nitzberg K, Gross J, Kaplan-Sanoff M, Augustyn M, Silverstein M. Patterns of mobile device use by caregivers and children during meals in fast food restaurants. Pediatrics. 2014 Apr;133(4):e843-9
Myruski S, Gulyayeva O, Birk S, Pérez-Edgar K, Buss KA, Dennis-Tiwary TA. Digital disruption? Maternal mobile device use is related to infant social-emotional functioning. Dev Sci. 2018 Jul;21(4)
Stockdale LA, Porter CL, Coyne SM, Essig LW, Booth M, Keenan-Kroff S, Schvaneveldt E. Infants’ response to a mobile phone modified still-face paradigm: Links to maternal behaviors and beliefs regarding technoference. Infancy. 2020 Sep;25(5):571-592
Wiltshire CA, Troller-Renfree SV, Giebler MA, Noble KG. Associations among average parental educational attainment, maternal stress, and infant screen exposure at 6 months of age. Infant Behav Dev. 2021 Nov;65
Braune-Krickau K, Schneebeli L, Pehlke-Milde J, Gemperle M, Koch R, von Wyl A. Smartphones in the nursery: Parental smartphone use and parental sensitivity and responsiveness within parent-child interaction in early childhood (0-5 years): A scoping review. Infant Ment Health J. 2021 Mar;42(2):161-175
Nomkin LG, Gordon I. The relationship between maternal smartphone use, physiological responses, and gaze patterns during breastfeeding and face-to-face interactions with infant. PLoS One. 2021 Oct 8;16(10)
McDaniel BT, Radesky JS. Technoference: Parent Distraction With Technology and Associations With Child Behavior Problems. Child Dev. 2018 Jan;89(1):100-109
Gergen, K. (2002). The challenge of absent presence. In Katz J. E. & Aakhus M. A. (Eds.), Perpetual contact: Mobile communication, private talk, public performance (pp. 227–241). Cambridge, UK: Cambridge University Press

AMI PIU’ ME O IL TUO SMATPHONE? Il fenomeno del phubbing: l’influenza degli smartphone sulle relazioni.

E’ sufficiente andare a prendere un caffè, restare seduti al tavolino di un bar e guardarsi attorno per qualche minuto per osservare come molti dei nostri vicini di tavolo non stanno parlando con i loro commensali ma hanno gli occhi rivolti al proprio telefono: qualcuno fa una foto alla schiumetta del cappuccino, qualcuno legge le mail, qualcuno risponde ad una chat, una persona si sta facendo un selfie, un bambino guarda un cartone animato o gioca in modo avvincente.

E’ sempre più raro vedere persone che si parlano senza un telefono in mano o sul tavolo e frequentemente parliamo con persone che mentre conversano con noi (o così pare) utilizzano contemporaneamente il proprio smartphone. Il cellulare è ormai come un capo d’abbigliamento indispensabile, un oggetto costantemente presente nelle nostre vite e molti di noi hanno l’abitudine di tenerlo fra le mani e di interagirci continuamente: questo avviene non solo quando ad esempio siamo in coda alle poste o sui mezzi pubblici e, soli e annoiati, controlliamo i social o navighiamo sul web, ma anche quando siamo immersi in relazioni sociali, in famiglia, con i colleghi, tra amici e in coppia.

Abitudini come ad esempio quella di fotografare piatti che si stanno per mangiare sono un pretesto per postare su Instagram l’immagine della prima pizza napoletana assaggiata nella propria vita, del primo poke, del migliore vino assaggiato, e, dopo la condivisione, venire risucchiati dal vortice di notifiche, commenti conseguenti, che distraggono da quanto sta succedendo intorno a sé, al tavolo, tra i propri commensali. Il risultato è che la qualità del momento conviviale che si sta vivendo ne risulta danneggiata e, più in generale, si percepisce spesso anche un senso di minore soddisfazione per quanto riguarda il pasto consumato.

Sarà capitato a tutti, almeno una volta nella vita, di trovarsi ad interagire con qualcuno che invece di prestare attenzione alla conversazione che sta avendo con noi è sprofondato con occhi e mente dentro lo schermo del suo telefono: facilmente possiamo reperire la sensazione di fastidio o frustrazione del non essere ascoltati o di non ricevere la sufficiente attenzione desiderata dall’altra persona. Ci stiamo abituando a tollerare questi tipi di atteggiamenti nelle nostre situazioni sociali e spesso ci capita di ritrovarli anche nelle nostre relazioni personali più intime: che effetto fa alla famiglia vivere immersa in relazioni mediate dal telefono?

Chi ha un figlio preadolescente o adolescente conosce bene la sensazione di essere trasparente o parlare da solo mentre l’interlocutore è al telefono, spesso con auricolari inclusi nelle orecchie. Ma se a comportarsi così è il nostro partner, che cosa succede alla coppia?

Non ci sono tantissime ricerche su questo fenomeno, piuttosto recente, che prende il nome di Phubbing.

L’uso di un telefono cellulare durante una conversazione è chiamato phubbing (Ugur & Koc, 2015). Il termine phubbing (una crasi tra ‘phone’ e ‘snubbing’) si riferisce all’atto di concentrarsi sul proprio cellulare durante una conversazione invece di prestare attenzione all’interlocutore. Se questo atto si verifica all’interno delle relazioni, prende la definizione di partner-phubbing (Roberts & David, 2016). Nel partner-phubbing si può distinguere un phubber, ovvero la persona che, durante un’interazione sociale co-presente, concentra tutta o parte della sua attenzione sul suo cellulare, e un phubbee cioè la persona che non viene considerata (o “snobbata”) dal partner che usa il telefono.

La letteratura ci dimostra che il partner-phubbing è negativamente correlato alla soddisfazione delle relazioni (David & Roberts, 2021), proprio perché l’uso di un telefono durante le interazioni co-presenti crea una situazione in cui si è fisicamente presenti, ma non lo si è mentalmente. Questo fenomeno infatti provoca delle sensazioni di “assenza-presenza” o di stare “soli insieme”.

Ma cosa si intende per soddisfazione relazionale? La soddisfazione relazionale è il grado in cui il partner soddisfa i desideri e i bisogni dell’altro: in questo la qualità della comunicazione tra i partner svolge un ruolo di primo piano e sembra essere più importante del tempo che i partner trascorrono insieme (Guldner & Swensen, 1995).

Anche se negli ultimi anni sono state condotte diverse ricerche sul phubbing (Vanden Abeele, 2020), il numero di studi che si sono concentrati sul phubbing nelle relazioni intime, analizzando i meccanismi sottostanti alla correlazione tra utilizzo del telefono e scarsa soddisfazione, è limitato.

Tuttavia Beukeboom & Pollmann (2021) hanno tentato di comprendere più approfonditamente gli effetti negativi del phubbing sulle relazioni sentimentali, in particolare in relazione all’insoddisfazione relazionale e un altro studio, condotto da un’équipe di psicologi dell’Università del Kent, e pubblicato sulla rivista Journal of Applied Social Psychology, ne hanno confermato le prevedibili implicazioni negative: il phubbing andrebbe a peggiorare in maniera significativa la comunicazione e la relazione tra persone

I partecipanti allo studio, 153 studenti universitari, hanno assistito a una scena di 3 minuti che coinvolgeva l’interazione tra due persone, con la richiesta di identificarsi con uno dei due protagonisti. Ogni partecipante veniva assegnato a una fra 3 condizioni sperimentali: nessun phubbing, phubbing leggero o phubbing massiccio. I risultati? Più il livello di phubbingaumentava, più i soggetti percepivano che la qualità della relazione era peggiore e la relazione insoddisfacente. 

Gli autori dello studio hanno caratterizzato il phubbing come una vera e propria “forma di esclusione sociale”, capace, quando lo si subisce, di “minacciare alcuni bisogni umani fondamentali, come l’appartenenza, l’autostima, il senso di realizzazione e il controllo”.

Ma perché ci sentiamo così insoddisfatti se il nostro partner utilizza in modo continuativo il telefono?

Un vissuto tipico è quello di sentirsi non visti: non sentirsi prioritari ed importanti per la persona che dovrebbe essere quella che ci sceglie proprio perché si è innamorata di come siamo. Il sentimento di svalutazione personale risulta frequente e innesca crisi, soprattutto in partner con qualche fragilità sulla propria autostima.

In altre persone il vissuto maggiormente riportato è la rabbia, il fastidio e il sentirsi mancati di rispetto e di non essere percepiti come attraenti ed interessanti. Questi vissuti portano le coppie a discussioni molto accese spesso o viceversa a passivi silenzi rabbiosi che influiscono negativamente sulla complicità della coppia e sull’intimità. Le battaglie, spesso anche silenziose creano tra i partner una distanza emotiva che porta a ricadute importanti anche su un piano fisico. La qualità delle conversazioni e l’empatia percepita sono un fattore importante per la qualità della relazione (Gonzales & Wu, 2016; Misra et al., 2016).

Ci si potrebbe domandare perché soffermarsi ad analizzare così dettagliatamente un fenomeno di questo tipo: venire a conoscenza di quanto disagio possa suscitare un atteggiamento apparentemente banale nella persona che amiamo, potrebbe portarci a prestare maggiore attenzione alla nostra quotidianità, affinchè ognuno di noi possa diventare maggiormente consapevole e possa tentare il più possibile di “stare” nelle relazioni che sta vivendo, mettendo in atto, di fatto, un atto di prevenzione. E’ piuttosto evidente e condiviso che ci siano situazioni o chiamate dalle quali diventa difficile esimersi, ma tenere a mente la percezione del nostro partner e ciò che sta provando può esserci utile a mettere in atto un comportamento conciso e circostanziato relativamente ad una chiamata o a un messaggio, dedicando a tali interruzioni il più breve tempo possibile. 

Bisogna tuttavia evidenziare che dallo studio emerge come la misura in cui un partner usa il proprio telefono durante le interazioni co-presenti, correlata negativamente alla soddisfazione della relazione, sia un dato rilevato di natura correlazionale, pertanto a livello di nesso di causalità il partner-phubbing potrebbe causare una riduzione della soddisfazione relazionale, ma è altrettanto possibile l’effetto opposto, cioè che una scarsa qualità della relazione potrebbe indurre le persone ad un utilizzo maggiore del telefono. Pertanto il  phubbing potrebbe giocare un ruolo avverso generando un circolo vizioso sulla qualità della comunicazione e sulla soddisfazione della relazione.

Ma come si può contrastare questo fenomeno? Come possiamo mettere queste considerazioni emerse dalle ricerche a servizio di un miglioramento della nostra relazione?

Si è rilevato che l’utilizzo congiunto del telefono, che implica l’essere coinvolto nelle attività dell’altra persona, venire informato su ciò che sta facendo potrebbe limitare gli effetti dannosi sulla relazione e sulla comunicazione, riducendo il senso di esclusione percepito, mantenendo più reattività e intimità nella conversazione  e attenuando il senso di insoddisfazione relazionale.

Ma davvero il contenimento del comportamento o la condivisione dell’utilizzo dello strumento possono rappresentare le uniche soluzioni per arginare questo fenomeno?

Il fenomeno del phubbing potrebbe meritare un’ulteriore riflessione da parte di entrambi i membri della coppia:

forse l’insoddisfazione relazionale generata da questo fenomeno potrebbe generare in entrambi i partner lo stimolo a porsi delle domande: come mi sentirei io al posto del mio compagno? Che cosa proverei? Che cosa penserei? Che idea mi farei dell’interesse che il mio compagno prova per me al posto suo?

E viceversa è importante forse provare a chiedersi anche perché il nostro compagno sta sempre al telefono? A quale suo bisogno risponde questo strumento, come lo fa sentire, come si sentirebbe senza utilizzarlo.

Per molte persone è difficile resistere alla tentazione dei social media e di altre app che soddisfano il bisogno di attenzione ottenuto attraverso il proprio smartphone. La paura che i rapporti si allentino (Rozgonjuk et al.,  2020), l’aspettativa di una disponibilità costante da parte degli amici (Miller-Ott & Kelly, 2017), o anche la semplice presenza di un telefono (Misra et al., 2016) possono distogliere l’attenzione da un’interazione che sta avendo luogo con il proprio partner, o comunque con gli attori reali della propria vita, senza che la persona se ne renda neanche conto. Spesso mettiamo in atto comportamenti, soprattutto se socialmente considerati accettabili, senza chiederci la motivazione o la causa di quanto messo in atto. Facciamo raramente lo sforzo empatico di provare a metterci nei panni dell’altro, nelle sue sensazioni ed emozioni, spesso poiché siamo troppo presi da esigenze individualiste socialmente sostenute.

Ma il problema è davvero la sola presenza costante del telefono? Che cosa succederebbe se ci fosse un blackout generale della rete per una settimana? Le persone tornerebbero a parlarsi, a scriversi, a condividere realmente esperienze o si troverebbero perse, motivate soltanto al cercare una soluzione per ripristinare la rete?

Ci dobbiamo inevitabilmente chiedere quanta vita reale ci perdiamo con gli occhi sullo schermo.

La tecnologia non è da demonizzare, per molte relazioni è infatti stata l’incontro, l’inizio, la risorsa per mantenere vivi i rapporti quando si deve vivere distanti, ma siamo ancora capaci di utilizzare lo smartphone come uno strumento per migliorare le nostre vite e non come una zavorra in cui veicolare le nostre frustrazioni e distrazioni?

Forse analizzare il fenomento del phubbing ci fornisce l’occasione per fare alcune riflessioni: ma si può tornare indietro? Alcune persone hanno iniziato a mettere in pratica una sorta di graduale distacco dall’onnipresenza del telefono con una metafora indicata come “JOMO” (joy of missingout), ossia riscoprendo il piacere di rischiare di perdersi qualcosa che stia avvenendo online pur di godere al meglio della compagnia reale e fisica delle persone che si hanno vicino o delle situazioni sociali offline in cui si è coinvolti. Rinunciare al mito del multitasking e utilizzare in maniera più consapevole e cosciente tecnologie e servizi digitali sono, nella pratica, due importanti punti di partenza per riuscirci.

Ma come fare?

Potrebbe essere utile, ad esempio, iniziare con il concedersi del tempo per l’autoriflessione: per la propria salute mentale è fondamentale passare regolarmente del tempo da soli, preferibilmente senza smartphone, Internet e TV. Concedersi il tempo di porsi delle domande e riflettere sui problemi e le paure, dare spazio ai propri desideri e sogni.

Il tempo della riflessione aiuta anche a fare chiarezza sulle priorità cercando di diventare consapevoli di cosa è veramente importante per noi. A volte bisogna sfoltire l’agenda e anche eliminare ciò che facciamo per abitudine e non per reale interesse, questo ci aiuta a dedicare tempo alle persone e alle esperienze che realmente ci interessano, imparando a declinare inviti inutili o richieste differibili nel tempo, seppur poste con urgenza. Imparare a vivere concentrandosi sul qui e ora, con un atteggiamento “mindful.

Dott.ssa Consuelo Aringhieri

Psicologa – Psicoterapeuta

 

 

Bibliografia

Beukeboom, C. J., & Pollmann, M. (2021). Partner phubbing: why using your phone duringinteractions with yourpartner can be detrimental for your relationship. Computers in HumanBehavior, 124, 106932.
Chotpitayasunondh, V., & Douglas, K. M. (2016). Howphubbingbecomes the norm: The antecedents and consequences of snubbing via smartphone. Computers in Human Behavior, 63, 9-18.
David, M. E., & Roberts, J. A. (2021). Investigating the impact of partner phubbing on romanticjealousy and relationship satisfaction: The moderating role of attachment anxiety. Journal of Social and Personal Relationships, 38(12), 3590-3609.
Du, J., Kerkhof, P., & van Koningsbruggen, G. M. (2019). Predictors of social media self-control failure: Immediate gratifications, habitual checking, ubiquity, and notifications. Cyberpsychology, Behavior, and Social Networking, 22(7), 477-485.
Dwyer, R. J., Kushlev, K., & Dunn, E. W. (2018). Smartphone use undermines enjoyment of face-to-face social interactions. Journal of Experimental Social Psychology, 78, 233-239.
Gergen, K. J. (2002). The challenge of absent presence.
Gonzales, A. L., & Wu, Y. (2016). Public cellphone use does not activate negative responses in others… Unless theyhate cellphones. Journal of Computer-Mediated Communication, 21(5), 384-398.
Guldner, G. T., & Swensen, C. H. (1995). Time spent together and relationship quality: Long-distance relationships as a test case. Journal of social and Personal Relationships, 12(2), 313-320.
McDaniel, B. T., Galovan, A. M., & Drouin, M. (2021). Daily technoference, technology use duringcouple leisure time, and relationship quality. Media Psychology, 24(5), 637-665.
Miller-Ott, A. E., & Kelly, L. (2017). A politeness theory analysis of cell-phone usage in the presence of friends. Communication Studies, 68(2), 190-207.
Misra, S., Cheng, L., Genevie, J., & Yuan, M. (2016). The iPhone effect: The quality of in-personsocial interactions in the presence of mobile devices. Environment and Behavior, 48(2), 275-298.
Pollmann, M. M., Norman, T. J., & Crockett, E. E. (2021). A daily-diary study on the effects of face-to-facecommunication, texting, and their interplay on understanding and relationshipsatisfaction. Computers in Human BehaviorReports, 3, 100088.
Roberts, J. A., & David, M. E. (2016). My life has become a major distraction from my cell phone: Partner phubbingand relationship satisfaction among romantic partners. Computers in humanbehavior, 54, 134-141.
Turkle, S. (2011). Alone together: Why we expect more from technology and less from ourselves. New York: BasicBooks.
Ugur, N. G., & Koc, T. (2015). Time for digital detox: Misuse of mobile technology and phubbing. Procedia-Social and Behavioral Sciences, 195, 1022-1031.