ARTICOLI

Qui di seguito trovate gli articoli che i nostri soci hanno pubblicato su diverse testate. Buona lettura.

LE COPPIE FELICI

Cosa si intende per coppia? Esistono davvero coppie felici?

Partendo dalla riflessione su cosa si intenda per Coppia, si può cominciare dal presupposto che una coppia non è semplicemente la somma di due persone, ma qualcosa di più. In una coppia troviamo un io, un tu e un noi, una terza parte che origina nel momento in cui si costituisce la coppia: un incontro di due persone, due vissuti, due storie, che nel momento cui si scelgono danno origine a un Noi, simboleggiato dal legame, e la cura di questo legame rappresenta il compito di cui la coppia dovrà occuparsi per sempre.

L’essere coppia implica una progettualità, significa impegno in un progetto comune da coltivare giorno per giorno, in un percorso che si snoda attraverso diversi passaggi. Tutte le coppie attraversano, durante il loro sviluppo, delle fasi caratteristiche: dall’innamoramento, alla disillusione, alla definizione di una propria identità di coppia, alla costituzione di un nucleo familiare. Tali fasi scandiscono l’evoluzione della coppia comportando la gestione di cosiddetti eventi critici o crisi, che stimolano processi di cambiamento e il cui superamento permette il passaggio da una fase all’altra: in tali circostanze è importante che la coppia possa affrontare e gestire le trasformazioni in atto, affrontandole in maniera efficace e propositiva. A tutto ciò, si aggiungono le problematiche attorno a cui sovente possono sorgere discussioni o conflitti, che riguardano la gestione del budget familiare, i rapporti con le rispettive famiglie d’origine, l’organizzazione delle incombenze domestiche, la capacità di conciliare la vita familiare con quella professionale, la vita intima e sessuale, questioni riguardanti i figli.

Tutte questo riguarda tutte le coppie, felici e non felici.

Ma cosa caratterizza la coppia felice? Al di là della felicità, concetto dalla valenza prettamente soggettiva, è possibile che le coppie felici si caratterizzino per la loro capacità di gestire e affrontare le inevitabili crisi in modo costruttivo e sano, attraverso l’ascolto, il confronto e il rispetto reciproco, uscendone rinforzati, preservando la qualità della loro relazione, utilizzando le proprie risorse, accogliendo e valorizzando anche le reciproche differenze. Così descritta, sembra un’impresa di difficile realizzazione!

Quindi… Come diventare una coppia felice? Come curarsi di sé e dell’altro in una relazione affettiva profonda e significativa?

Innanzitutto è utile partire dalla riflessione sul livello di conoscenza reciproca, seguita dalla presa di consapevolezza del proprio grado di felicità nella coppia: quanto conosco il mio partner? Quanto sono felice e soddisfatto in questa relazione? E’ poi importante considerare e valutare le strategie utilizzate da entrambi i partner per affrontare le difficoltà, quanto sono pensate e condivise all’interno della coppia. Ancora, si può passare a riflettere su quale contributo ciascuno porta nella coppia e come poter cambiare per aumentare il livello di soddisfazione reciproco, prendere in esame aspettative, speranze, paure, passate, presenti e future. Infine un’attenta considerazione andrà rivolta alle modalità comunicative utilizzate, al fine di modificare quelle disfunzionali, poiché una comunicazione chiara, onesta e sincera, basata su un attento contatto visivo, è fondamentale per preservare la qualità del legame.

Per chi sentisse bisogno di un supporto nell’affrontare questo percorso, il nostro workshop sulle Coppie felici è finalizzato ad offrire alle coppie le competenze necessarie per favorire la buona riuscita della relazione. Lo sviluppo di tali riflessioni sarà reso possibile dall’uso di strumenti pratici e tecniche simboliche ed esperienziali che consentiranno di ri-scoprire la coppia, valorizzandone l’evoluzione e il percorso nel tempo, offrendo spunti di riflessione e opportunità di presa di consapevolezza e cambiamento.

COME TRASFORMARE LE “CRISI” PERSONALI IN UN’OCCASIONE

Il termine crisi in greco indica il momento di scelta, decisione, quindi non ha una valenza negativa come generalmente gli attribuiamo: sono in crisi (sto male, non so che fare, aiuto). Ritornando al significato originario è invece un’occasione di rivalutazione, svolta, cambiamento, non è necessariamente un problema.

Considerando poi gli eventi di vita che possono mandare in crisi alcuni hanno una valenza prettamente negativa quali la malattia fisica, i disturbi psicologici, la perdita del lavoro, il rapporto di coppia che non funziona, altri un valore positivo o neutro: matrimonio o nuova convivenza, nascita di un figlio, laurea, viaggio, promozione, trasferimento. Quello che accomuna questi eventi di vita è che viene destabilizzato un equilibrio individuale e/o di coppia raggiunto fino a quel momento.

Come possiamo porci in modo utile in una crisi? Ignorarla, contrastarla, rifiutarla, affrontarla, gestirla, sfruttarla..……

La strategia metto la testa sotto la sabbia e aspetto che la tempesta passi non ci permette un ruolo attivo di scelta, si rischia che gli altri decidano al posto nostro e quello che viene deciso dagli altri può non piacerci ed andare incontro ai nostri bisogni.

Contrastare e rifiutare la crisi è come lottare contro i mulini a vento, cioè inutile e dispendioso di energie, le nostre energie canalizziamole nel cercare un cambiamento che ci faccia star bene.

Affrontare la crisi, gestire le nostre paure dell’ignoto e la sofferenza del momento (anche semplicemente accettando di avere paura, che è naturale essere spaventati da una situazione nuova e che il malessere del presente non significa star male anche in futuro), sfruttare l’occasione per cercare nuovi equilibri e apportare cambiamenti utili al nostro benessere individuale e/o di coppia.

Come affrontare la crisi, gestire la paura del cambiamento e sfruttare l’occasione al meglio?                 Il nostro workshop sul “Trasformare la crisi in un’occasione” aiuta a trovare le strategie personali per non farsi sommergere dalle crisi ed eventi di vita e cercare di andare verso i cambiamenti desiderati.

“NON HO TEMPO” E’ SEGNO DI INEFFICIENZA

Credo che lo sappiate perché ve l’hanno già detto. E vi siete ripromessi più volte di cambiare, organizzarvi e gestire meglio le vostre attività per trovare (anche) quel tempo che serve a voi, per pensare, per leggere o per scrivere e per dedicarvi a quella piccola attività che avete sempre desiderato. Per non parlare di quel libro che avete cominciato, avete letto fino a pagina 40 e poi siete rimasti fermi. E magari sono passati più di sei mesi.

 

Quando hanno chiesto a Woody Allen come riuscisse a scrivere così tanto, lui ha risposto semplicemente: “Mi metto alla scrivania e scrivo”. E non è una presa in giro, è un dato di fatto. Ci si mette a lavorare, concentrati e si finisce e poi si passa ad altro, ci si organizza nel senso che le proprie attività vanno pianificate sulla base degli obiettivi e delle priorità. Insomma, in poche parole l’efficienza si può apprendere ed applicare.

 

Innanzitutto l’efficienza va definita come l’insieme delle risorse utilizzate per realizzare un dato compito, nel senso che magari riesco comunque a leggere un libro, ma ci metto un anno, e non mi ricordo neanche più l’inizio e sono comunque efficace, perché ho fatto ciò che volevo fare. Ma ho utilizzato troppe risorse oppure le ho usate male e mi sento come una macchina vecchia che rende poco e consuma un sacco di carburante.

 

L’efficienza si può apprendere in diversi ambiti, ad esempio in quello economico, nel controllo di gestione, con l’utilizzo di software e nella gestione del personale, ma si tratta di pratiche che possono poi essere applicate anche nella vita quotidiana, nella vostra vita.

 

Cos’è che ci rende inefficienti? Siamo noi stessi l’ostacolo alla nostra efficienza.

Come e perché? La nostra emotività ci può paralizzare, mandarci nel pallone, confonderci sul cosa fare prima e quando, rendendoci improduttivi e frustrati.

Come possiamo migliorare la nostra efficienza? Imparando a gestire le nostre risposte emotive così poi da organizzarci, darci delle priorità, perseguire gli obiettivi.

 

Quando? Partecipando al nostro workshop inizierete a trovare la vostra via all’efficienza.

 

CHI SONO I CONDUTTORI?

Dott.ssa Lorena Ferrero, psicologa e psicoterapeuta

Dott. Walter Caputo, docente di Controllo di Gestione

L’AMORE CHE FA MALE

                                                           “Noi non siamo le nostre ferite. Noi siamo degli esseri feriti.”

 

L’amore può ferire davvero chiunque! Indistintamente dall’essere un uomo o una donna quasi tutti, infatti, ci siamo trovati ad un certo punto della nostra vita a vivere il trauma della perdita del proprio partner.

La fine di un amore ci porta ad attraversare un periodo di lutto vero e proprio, sperimentando una serie di sintomi depressivi che caratterizzano tale momento: malinconia, insonnia, inappetenza, pensieri negativi ricorrenti, perdita di entusiasmo in tutto ciò che si vive. Si ha la sensazione di un mondo che ci crolla addosso e ci si sente incapaci a rialzarsi.

La sensazione più comune è quella di vuoto interiore e ci si convince di non essere in grado di ritrovare un nuovo amore.

Ma come si può superare il dolore? Come imparare a vivere di nuovo?

Le ferite che ci portiamo dietro dalla fine della relazione, risvegliano una serie di emozioni dolorose che comportano una sofferenza, così insopportabile, che potrebbe portarci nell’abisso della morte (suicidio) o della follia (psicosi), ma, che di fatto, decidiamo di non farlo avvenire.

L’istinto alla vita è, infatti, più forte di quello che ci conduce alla morte e inconsciamente decidiamo di difenderci per sopravvivere al dolore.

Riuscire a riconoscere il meccanismo di difesa che mettiamo in atto per evitare la sofferenza (es. respingere chi ci ha causato sofferenza, nutrire risentimento o pensieri negativi, augurare sofferenza a chi ci ha impartito dolore, aver coltivato il desiderio di vendetta, aver soffocato le altre emozioni ecc.) e riuscirlo ad accettare come un atteggiamento normale, è il primo passo per la “via della liberazione dal mal d’amore”.

Dopo aver riconosciuto il meccanismo di difesa che attiviamo e che ha permesso alla nostra psiche di evitare l’emozione dolorosa, è necessario innestare un meccanismo di protezione, che permetta di accogliere tale emozione e di prendervi cura del bambino ferito che c’è in noi. Perchè tale meccanismo di protezione si avvii, è necessario allontanarsi da chi può alimentare questa ferita, quindi da colui che ha causato tale sofferenza. L’intento sottostante non è quello di respingere queste persone, ma di proteggerci perché la psiche, indebolita dalla ferita, possa rinforzarsi nuovamente.

Bisogna riuscire ad uscire dal ruolo di vittima e ad accettarsi per quello che si è riusciti a fare, evitando di rivolgere critiche a chi ci ha fatto soffrire e di ricercare degli “alleati” nella battaglia contro di lui. L’accettazione profonda ed autentica della nostra condizione potrà essere raggiunta solo quando si abbandona la resistenza e la rassegnazione che generano sempre tensioni, stanchezza e confusione emotiva.

Ciò a cui resisti persiste” (N. D. Walsh) e per questo invece di trovare pace e serenità, si contribuirà ad impedire il corso naturale della vita, coltivando tormento interiore ed infelicità.

Rassegnarsi dà tristezza, accettare dà gioia” (Jalenques).

Arrendersi e adottare un atteggiamento di sconfitta non fa altro che alimentare rancore e la sensazione di essere stati schiacciati, ci si sente impotenti e passivi e si continua a rivestire il ruolo di vittima.

Quale altra soluzione si può avere in questi casi? La pace e la serenità tanto ambita potrà essere raggiunta solo se riusciamo a rivolgerci verso l’accettazione. Si riuscirà a diventare artefici della propria vita se si riesce ad accettare la situazione, a riuscire ad accogliere le cose “così come sono” senza approvarle necessariamente, ad arrestare la lotta contro noi stessi e a sospendere la guerra con gli altri, a trasformare l’energia contenuta nella sofferenza in forza interiore, a non cercare più di controllare e a dire di Sì alla vita.

Le fragilità ci rendono umani e come tale non vanno condannate, ma riconosciute ed accettate. Il potere decisionale è nelle nostre mani: siamo noi che possiamo decidere se rimanere sul fondo alimentando la autocommiserazione e il vittimismo, o orientare le energie per risalire e riprendere il potere sulla nostra vita.

Per tutti questi motivi, l’intento del workshop che proponiamo vuole essere quello di presentare un percorso che possa aiutarvi ad uscire dalla “bufera” e alleviare la sofferenza psichica causata da ferite del cuore, vedere chiaro dentro di voi e riuscire a riprendersi il potere sulla vostra vita. Il seminario vuole portare a guardarvi con occhi diversi, perché possiate riconoscervi delle risorse che possano essere punti di partenza per uscire dall’”abisso”; che possiate prendervi cura del vostro bambino ferito, amare i vostri sentimenti positivi e negativi, i vostri bisogni e i vostri meccanismi di difesa, poiché solo così si potrà ritornare ad amare gli altri e la vita.

ALLENA LA TUA AUTOSTIMA!

L’autostima è un sentimento che proviamo riguardo a noi stessi generato da diversi fattori; non è un’entità definita una volta per tutte, ma ha una natura variabile. Infatti, deriva dall’equilibrio tra molteplici aspetti di sé, per citarne alcuni: l’aspetto fisico e il rapporto col proprio corpo, il contatto con le emozioni e pensieri, la percezione delle proprie capacità, la soddisfazione personale, relazionale e professionale.

Da un lato, la stabilità dell’autostima è considerata quasi sinonimo di salute mentale, così come eccessive fluttuazioni del suo livello sono sperimentate soggettivamente con disagio; dall’altro, sapere che l’autostima non è una proprietà invariabile dell’individuo, suggerisce che esista un margine di azione e intervento per migliorare il rapporto con se stessi.

Ecco i presupposti (o gli obiettivi a cui tendere) per un’autostima sufficientemente equilibrata e flessibile:

  • riuscire ad accettare se stessi e la realtà;
  • avere fiducia in se stessi: saper valutare obiettivamente le propria abilità di affrontare una situazione;
  • saper affermarsi: poter comunicare, affrontare i conflitti, accettare, rifiutare;
  • convivere proficuamente con la distanza tra immagine di sé e sé ideale;
  • riconoscersi le proprie capacità

Inoltre, l’autostima si basa sulla convinzione di avere un valore intrinseco come persona e aumenta quando agiamo rispettando noi stessi e i nostri principi, diminuisce quando non lo facciamo.

Il lavoro psicologico su di sé e sulla propria autostima richiede di riflettere su due fronti.

Il primo sono le dinamiche in cui l’amor proprio affonda o da cui trae le sue radici, il suo nucleo più antico: i messaggi su noi stessi trasmessi dalle figure significative della nostra infanzia. Essi restano impressi nella mente, hanno plasmato la nostra immagine e si trasformano nel nostro dialogo interiore. Perciò è necessario avere il coraggio di ammetterli e riconoscerli.

L’autostima non si costruisce solo grazie a manifestazioni d’amore, apprezzamento e approvazione ricevute durante l’infanzia, ma anche dall’imposizione di limiti e regole che hanno favorito lo sviluppo di autocontrollo e disciplina.

Questa prima fase di lavoro può evidenziare che alcuni insegnamenti ed esperienze del passato hanno interferito con la costruzione di una visione equilibrata di sé; la fase successiva consiste nel capire che cosa ne abbiamo fatto di queste convinzioni nel corso della vita e come hanno influenzato la percezione di noi stessi e degli eventi, in particolare quelli di natura interpersonale.

Questo passaggio ci traghetta verso il secondo fronte di lavoro: la riflessione sulle modalità con cui manteniamo (o ci sforziamo di mantenere) in equilibrio l’autostima nel presente.

Fermarsi col pensiero sul passato potrebbe farci cristallizzare in una posizione vittimistica, bloccati nel biasimo di se stessi o degli altri; viceversa, riconoscere il proprio contributo attivo all’andamento dell’autostima è faticoso, ma è l’unico modo per intervenire su di essa.

Come possiamo, quindi, migliorare attivamente il nostro rapporto con noi stessi?

Ci sono almeno cinque talenti attraverso i quali si può imparare a volersi bene:

  • essere presenti a sé stessi: troppo spesso pensiamo e agiamo direttamente bypassando quelli che sono i nostri sentimenti e desideri. Prestare attenzione ai propri bisogni e alle proprie emozioni, ma anche al proprio corpo, ci aiuta a essere presenti a noi stessi e a capire meglio quale bisogno è sotteso al nostro agire, a cosa aspiriamo, che cosa vogliamo. Si tratta di sviluppare l’”autoempatia”, cioè prendersi del tempo per ascoltarci e dedicare attenzione a ciò che sentiamo, accogliendolo e non respingendolo. In questo modo la situazione si chiarisce e la tensione si allenta, consentendoci di recuperare energie e finalizzarle a dirigere al meglio le nostre azioni.
  • avere il coraggio di prendersi cura di sé, anche a costo di non piacere: sapersi occupare di sé stessi, gratificarsi, saper distinguere ciò che è buono per noi da ciò che non lo è, ma anche porre attenzione a stabilire i propri limiti e a “dare” in modo sano. Sono tutti elementi che possono indicarci se stiamo vivendo pienamente, se c’è qualcosa che possiamo migliorare per fare più cose buone per noi stessi o per proteggerci da abitudini dannose o da persone distruttive. Allo stesso modo va compreso fino a che punto è “sano” prendersi cura di sé e quando invece si trasforma in egoismo! Su questo può venirci in aiuto il punto successivo.
  • coltivare un dialogo umano: saper esprimere sé stessi in modo sincero e assertivo, autorizzandosi a esprimere ciò che abbiamo dentro senza aggredire, giudicare o criticare l’altro; esercitarsi ad ascoltare l’altro in modo empatico e rispettoso; manifestare gratitudine o saper ringraziare, anche se stessi! Tutto questo ci aiuta a costruire delle relazioni restando in armonia con noi stessi, in una costante ricerca di un equilibrio sano tra i nostri bisogni e quelli degli altri. Coltivare la gratitudine per qualche minuto al giorno, invece, ci mette in contatto con elementi positivi e riesce ad infonderci energia e benessere: possiamo scegliere con cura i pensieri con cui nutrire la nostra mente, ogni giorno!
  • vivere in accordo con ciò che siamo veramente: accettarsi e conoscersi per come siamo è una delle cose più di difficili (e a volte richiede l’aiuto di un esperto) ma è l’unico modo di avvicinarsi un passo di più a ciò che vogliamo diventare. Quando ci liberiamo di ciò che non ci appartiene più, o smettiamo di dare eccessiva importanza alle opinioni e ai desideri altrui invece di ascoltare la nostra voce, liberiamo spazio mentale ed energia per interrogarci su ciò che vogliamo realizzare e offrirci i mezzi per concretizzarlo. Si tratta di domandarsi se si è soddisfatti della propria vita ed ascoltare onestamente la risposta. Potete cambiare qualcosa? Se si, che cosa cambiereste?
  • educare la propria mente: troppo spesso siamo il primo ostacolo verso noi stessi! Se pensiamo sempre in termini di giudizi creiamo dentro di noi un’energia negativa che avvelena il nostro umore e la nostra energia e scoraggia chi si sta vicino. E’ importante imparare ad abbandonare i giudizi e trasformarli invece in sentimenti/bisogni. Questa ginnastica mentale ci mette in contatto con ciò che vogliamo (anziché con ciò che non va) e ci libera dall’impotenza: conoscere i nostri bisogni ci permette di utilizzare la nostra creatività per cercare il modo di rispondervi.

Come abbiamo visto, quindi, l’autostima è un muscolo e come tale va allenato con costanza. Imparare a volersi bene e apprezzarsi è una scelta che possiamo fare ogni giorno “ri-programmando” la nostra mente verso stili di vita più adattivi e pensieri più funzionali che si possono imparare esercitandosi. Dedicarsi del tempo per lavorare in questa direzione significa prendersi cura di sé, in modo da stare bene con se stessi e da avere, di conseguenza, molto da dare agli altri provando il desiderio di farlo.

Il nostro workshop offrirà spunti di riflessione su questo tema e, attraverso semplici esercizi, vi avvierà sulla strada per migliorare la vostra autostima.

(RI)CONOSCI LA RABBIA?

Ognuno di noi, in base alle proprie esperienze, vive e sperimenta ogni giorno una gamma consistente di emozioni e sensazioni; qualche volta non prestiamo loro attenzione, altre volte ne veniamo travolti positivamente, in altri casi percepiamo sensazioni meno piacevoli. Nelle nostre relazioni personali e lavorative, spesso, un sentimento che emerge in modo per noi soggettivamente fastidioso è la rabbia. La rabbia, o collera, viene comunemente considerata un sentimento negativo, una sensazione disturbante, un effetto collaterale sgradevole ma, di fatto, si annovera tra le nostre emozioni primarie, cioè quelle emozioni che provano tutti gli esseri umani fin dalla nascita.

La rabbia prende forma attraverso moltissime sensazioni corporee facilmente riconoscibili (calore, contrazione muscolare, irrigidimento, ecc…) e a seconda dell’intensità con la quale la manifestiamo possiamo ricorrere a sfumature comportamentali differenti che vanno dal fastidio e distacco, alla collera e furia.

Riconoscere quando ci si sente arrabbiati, però, non è affatto semplice, sebbene si tratti di un’emozione comune. La rabbia, infatti, cresce in modo rapido ed intenso e non sempre diventa possibile esprimerla “in modo razionale”: spesso la esprimiamo attraverso reazioni violente ed esplosive con significative conseguenze per noi e per gli altri.

Tutti ci arrabbiamo, e in questo non c’è di per sé nulla di male. Quello che è davvero importante, e su cui merita soffermarsi, è come agiamo quando lo siamo. Arrabbiarsi ci dovrebbe aiutare a canalizzare l’energia per riuscire a farci rispettare, per essere più assertivi, per non subire passivamente dei torti immotivati, tuttavia, quando la rabbia conduce all’aggressività ci si incanala verso un percorso non propositivo, che può scivolare nella violenza e in conflitti difficili da gestire, comportando talvolta sensi di colpa per le nostre azioni più impulsive.

Gli atti violenti sono la dimostrazione di come una persona possa non essere in grado di controllare ed elaborare le proprie emozioni e di esprimerle in modo costruttivo.

Tuttavia ci sono persone che trattengono la collera e sebbene si tratti di un’aggressività meno esplicita e quindi passiva, risulta essere ugualmente corrosiva. Un atteggiamento rimuginatorio, tipico di questa modalità, comporta ugualmente conseguenze negative, quali sensazioni di irritabilità, ansia, tristezza, impotenza e frustrazione.

Non esprimere apertamente la propria rabbia, magari per il timore di esporsi alle critiche altrui, o semplicemente come tentativo di negazione del conflitto e/o disagio può comportare, a lungo andare, manifestazioni psicosomatiche di vario genere. Ne consegue, quindi, l’importanza di elaborare e canalizzare tutte le emozioni che siamo soggetti a provare, anche quelle che nello scenario comune vengono connotate negativamente.

Nelle situazioni conflittuali capita spesso che entrambe le parti pensino di avere un punto di vista ragionevole da difendere e sostenere e che vivano come un attacco personale, o una profonda ingiustizia/sopruso, il permettere all’altro di prevaricarlo. Proprio per queste ragioni personali, che nascono da sensazioni di fastidio viscerale, capita sovente che anche conflitti inerenti tematiche superficiali diventino delle vere e proprie guerre di principio, anche senza accorgercene, innescando una rapida escalation di emozioni, parole e comportamenti distruttivi. Ognuno di noi ha una soglia oltre la quale non si sente più in grado di gestire i propri comportamenti e quando la raggiungiamo ci lasciamo andare a reazioni incontrollate, supportate, più o meno consapevolmente, da una sorta di pensiero sottostante di “legittima difesa” che ci autorizza ad agire con parole o gesti aggressivi: “… è troppo … questa volta ha davvero esagerato … c’è un limite a tutto … è chiaramente una provocazione..”.

Questo ci porta a perdere il controllo: accade quando non siamo stati in grado di percepire precedentemente i segnali che il nostro corpo e la nostra mente ci stavano inviando, ignorando la nostra soglia di percezione e impedendoci così di poter canalizzare, dopo averle riconosciute, quelle sensazioni ed emozioni sgradevoli. Noi non siamo, però, destinati a vivere in balia delle nostre emozioni e sensazioni, possiamo imparare a riconoscerle, a gestirle, a canalizzarle in modo propositivo e a convogliarle in comportamenti maggiormente costruttivi.

Qualche volta tendiamo a giustificare o spiegare la nostra aggressività, o quella mostrata dalle persone a cui vogliamo bene, cercando di attribuirla a qualcosa che sta al di “fuori di sé”, tentando di minimizzare la gravità di una momentanea perdita di controllo, come un qualcosa che sta al di fuori della nostra volontà e delle nostre intenzioni, cercando così di deresponsabilizzare l’aggressività dimostrata.

Se ci osservassimo dall’esterno spesso potremmo riconoscere nei nostri atteggiamenti e comportamenti dei chiari segnali dell’attivazione di questa emozione: il nostro viso cambia espressione, iniziamo ad alzare il tono e il volume della voce, la nostra muscolatura inizia a irrigidirsi creando involontarie contrazioni, spesso visibili attraverso la chiusura dei pugni o il serrare i denti, il nostro battito cardiaco accelera e le nostre parole diventano pungenti, veloci e talvolta volgari, possiamo anche arrivare a compiere gesti piuttosto forti come minacciare o rompere oggetti, fino per alcune persone all’aggredire fisicamente qualcuno. Per cercare di imparare a controllare queste ed altre emozioni e reazioni abbiamo bisogno di iniziar innanzitutto a diventare consapevoli di ciò che proviamo e sentiamo.

Non prestare sufficiente attenzione a come ci sentiamo ci impedisce, infatti, di riconoscere cosa ci sta accadendo e di non controllare le nostre parole e i nostri comportamenti: l’automatismo, così, può diventare un boomerang che ci si ritorce contro. Diventare consapevoli significa diventare presenti a se stessi: per superare stati d’animo spiacevoli ed evitare inutili conflitti dobbiamo abituarci a coltivare consapevolezza delle nostre sensazioni, sentimenti, pensieri, azioni e parole.

Non è impossibile imparare a farlo!

Il workshop che proponiamo vuole darvi la possibilità di guardare con occhi diversi la propria rabbia: non più come un’emozione negativa da reprimere, non più una manifestazione distruttiva e violenta, ma bensì un’importante espressione della propria affermazione verso gli altri, un’emozione costruttiva ed una strategia comunicativa per esprimere, efficacemente, le proprie esigenze.

Mollare la presa. Lasciar andare.

Non ce la faccio, non posso, è tutta colpa mia, mi sento in dovere di…
Quante volte abbiamo pronunciato queste frasi? E quante volte questi pensieri ci hanno impedito di fare quello che avremmo voluto, di raggiungere un obiettivo, di vivere con maggior serenità un momento di difficoltà o di crisi?
Basiamo la nostra vita su delle convinzioni, che ci accompagnano e ci definiscono. Ma se le convinzioni che abbiamo su di noi fossero limitanti?
Forse siamo convinti di essere timidi, insicuri, inadeguati nel lavoro o nello studio, incapaci di gestire una relazione di coppia o piuttosto ci colpevolizziamo eccessivamente per ciò che accade.
Alcune delle nostre convinzioni, trasmesseci da genitori, insegnanti, compagni di classe o colleghi di lavoro, rappresentano una vera e propria prigione da cui sembra difficile poter uscire; abbiamo ereditato delle idee in cui abbiamo creduto, che sono cresciute in noi e che oggi sono divenute convinzioni che ci auto-limitano.
La “perseveranza della credenza” è il principio psicologico secondo il quale, una volta che crediamo in qualcosa (ad esempio: sono una persona noiosa e per questo non ho amici) tendiamo a cercare conferme a tale credenza e a rigettare le situazioni che rispetto a tale credenza si mostrano in contrasto.
Talvolta capita di aderire all’etichetta che il mondo ci attribuisce e di comportarci secondo quanto previsto da quell’etichetta, ma prendendo consapevolezza del fatto che le nostre convinzioni si sono basate su eventi che un tempo ci hanno scosso, ma che oggi hanno una rilevanza relativa, possiamo cambiarle.
Il workshop “mollare la presa dai pensieri auto sabotanti” insegna ad abbandonare le vecchie convinzioni che ci limitano, le abitudini mentali nocive, i sensi di colpa, gli obblighi inutili e ad accettare la realtà per vivere la nostra vita nel qui e ora.

Imparare ad accettare il proprio corpo 2018

Quanto ciascuno di noi può dire di essere davvero consapevole del proprio corpo? Quanto possiamo dire di conoscerlo, di sentirlo, di saper ascoltare e rispondere ai segnali che esso ci invia? Quanto siamo consapevoli dell’influenza che il rapporto con il nostro corpo esercita sulla nostra autostima, sul nostro stato d’animo, sulle relazioni sociali?

Il corpo è una parte essenziale della persona, è una delle componenti principali del nostro Sé. Esso ci contiene, ci accoglie, spesso si fa portavoce di malesseri psicologici che nel fisico trovano sovente una via d’espressione privilegiata. Il corpo non mente, comunica il nostro stato interiore, ci mette in comunicazione con il mondo esterno diventando il tramite di ogni nostra esperienza.

Da ciò deriva l’importanza di curare il rapporto con il nostro corpo, di prendere coscienza di eventuali difficoltà ad accettare parti di sé, difficoltà che se non adeguatamente accolte e gestite, possono generare importanti disagi e sofferenze.

In una società dominata dall’apparenza, dall’esteriorità, dai cosiddetti selfie che serpeggiano sui social network, e che ci portano spessissimo a confrontarci con immagini corporee perfette e prive di qualsivoglia difetto, può essere davvero utile fermarsi a riflettere, dedicare del tempo a se stessi per migliorare la relazione con quest’importante parte di sé, meritevole di ascolto e attenzione.

Durante questo lavoro su di sé, è importante innanzitutto prendere coscienza dell’immagine che si ha del proprio corpo e del grado d’insoddisfazione ad essa associata. Successivamente è utile rilevare i pensieri e i giudizi sul nostro aspetto, che spesso sono i nostri giudici più spietati, e imparare a sostituirli con pensieri più efficaci e funzionali; parallelamente è fondamentale individuare e modificare i comportamenti inadeguati e limitanti, che riflettono il vissuto relativo all’immagine esteriore alimentando l’insoddisfazione corporea.

Questo workshop si propone di portare l’attenzione al corpo e ai vissuti collegati, mira alla presa di coscienza del proprio grado di insoddisfazione corporea e all’acquisizione di strumenti utili a favorire pensieri più realistici nonché l’adozione di comportamenti coerenti con i valori di ciascuno, al fine di favorire un rapporto più sano, autentico e realistico con il proprio corpo.

Destinatari:

  • Chi sente di avere difficoltà ad accettare del tutto o in parte il proprio corpo

  • Chi, guardandosi di fronte allo specchio, prova fastidio o aperto disagio

  • Chi ha pensieri negativi su di sé in relazione al proprio corpo

  • Chi ritiene che spesso il suo comportamento sia influenzato dalla propria immagine corporea

  • Chi insegue il perfezionismo

  • Chi ricerca la propria immagine riflessa per controllare il proprio aspetto

Metodo didattico

Il workshop sarà realizzato all’interno di un piccolo gruppo condotto da due psicoterapeute; i partecipanti saranno coinvolti attivamente attraverso esercitazioni pratiche, avranno modo di sperimentarsi e apprendere strumenti concreti per sviluppare e mantenere una migliore relazione con se stessi e il proprio corpo.

Conduttori

Dott.ssa Pugno Luigina, psicoterapeuta

Dott.ssa Querin Katia, psicoterapeuta

Costo

offerta libera a persona iscritti Ass. Eco 

10,00 euro tutti gli altri e  convenzionati

Data, ora, luogo di svolgimento

sabato 29 settembre 2018 dalle ore 16.30 alle ore 18.00 in Via Giaglione 7- Torino

Come posso iscrivermi?

Per informazioni e iscrizioni contattare i seguenti recapiti:

info@ecoassociazione.it

Dr.ssa Querin 3396711781

Compilare il form di contatto qui sotto, specificando il workshop

    IMPARARE AD ACCETTARE IL PROPRIO CORPO

    Tutti abbiamo qualcosa del nostro corpo che non ci piace. L’elenco delle “imperfezioni” che una persona può trovarsi può andare dai capelli diradati e dal soprappeso fino alle ciglia corte.

    L’immagine corporea si compone di 3 aspetti:

    • la componente percettiva (o distorsione corporea), ovvero come si percepisce il proprio fisico;
    • la componente attitudinale (o insoddisfazione corporea) costituita dall’insoddisfazione, preoccupazione e/o ansia che si prova per il proprio corpo;
    • la componente comportamentale, ovvero quei comportamenti volti ad “aggiustare” l’imperfezione o a non confrontarsi con essa.

    L’immagine corporea si forma durante l’infanzia attraverso il contatto fisico con le figure di attaccamento, i rimandi che si ricevono e la percezione delle differenze tra noi e gli altri (ad esempio “A 9 anni avevo già il seno, nessuna delle altre bambine ce l’aveva. Questo mi rendeva diversa da tutte e mi faceva stare male”). Poi ci sono le influenze del presente: i pensieri, le emozioni e i comportamenti che si attuano in relazione al proprio corpo.

    Quando l’immagine corporea è negativa, questa può avere effetti:

    • sull’autostima
    • nelle relazioni sociali
    • nei rapporti sessuali
    • sul tono dell’umore
    • sull’alimentazione
    • sul portafoglio

    L’insoddisfazione corporea è ciò che si prova a livello emotivo per il corpo e si manifesta quando c’è una discrepanza tra la realtà del proprio fisico e il come lo si vorrebbe. Ha quindi un’origine psichica.

    Innanzitutto è importante essere consapevoli dell’ampiezza della propria insoddisfazione e se è di grado marcato, farsi aiutare da uno psicologo.

    Per esserne consapevoli si possono scrivere le emozioni, i pensieri e i comportamenti che si hanno verso il proprio aspetto, si possono scrivere anche le parole che si usano per descrivere le parti che non piacciono.

    Successivamente bisogna lavorare sul non far coincidere i pensieri e le emozioni con sé stessi. I pensieri influenzano lo stato emotivo, come lo stato emotivo influenza i pensieri. Non si può avere un controllo sull’emergere di pensieri ed emozioni, ma si può lavorare per modificarli una volta che si sono presentati.

    Pensieri ed emozioni influenzano poi il comportamento (ad esempio stare in spiaggia sempre con il pareo e toglierlo solo per entrare in acqua o quando si è sdraiati supini, oppure truccandosi tutti giorni, oppure indossando abiti un po’ più larghi per nascondere la magrezza o mancanza di muscoli). È importante individuare i comportamenti che sono conseguenza dell’insoddisfazione corporea e che, una volta attuati, contribuiscono a mantenere una visione negativa di sé, e sostituirli con altri più costruttivi.

    Se fare tutto ciò da soli vi sembra difficile potete prendere parte al nostro workshop Imparare ad accettare il nostro corpo.

    Per saperne di più clicca qui.

     

    Dr.sse Pugno e Querin

    La sindrome di Ulisse: quando vivere all’estero è dura

    In totale, in questo istante un miliardo

    di abitanti del pianeta vive l’esperienza dell’emigrazione.

    Un terzo dell’umanità si sente psicologicamente sul piede di partenza,

    disponibile o costretto, attirato o rassegnato

    a doversi rifare una vita “altrove”. 

    (Federico Ramponi, 2012)

    L’Associazione Eco propone ormai da 7 anni il Progetto “Psicoterapia low cost” con lo scopo di dare a tutti coloro che ne fanno richiesta, in difficoltà economica o meno, la possibilità di effettuare una psicoterapia di qualità a costi contenuti.

    L’iniziativa ha avuto molto successo diffondendosi soprattutto tra gli studenti e i giovani lavoratori di Torino e Provincia. Negli ultimi due anni però ci siamo accorti che sono aumentate le richieste da parte di pazienti di origini estere nonché quelle di coloro che si sono spostati dall’Italia per motivi di studio e lavoro.

    In particolare abbiamo lavorato, in studio o via Skype, con persone provenienti da o residenti in diverse parti del mondo: Marocco, Iran, Gran Bretagna, Madagascar, Turchia, Romania, Perù, Germania, Austria, Olanda, Portogallo, Gran Bretagna, USA, Cina.

    Il lavoro con questa fascia di persone ci ha permesso di approfondire i vissuti di chi si trasferisce in una terra straniera e sono emerse alcune criticità che accomunano coloro che si trovano ad affrontare un così grosso cambiamento.

    La decisione di partire può essere dettata dal desiderio di fare nuove esperienze, di conoscere nuove persone, di imparare una lingua e di immergersi in un contesto diverso dal proprio anche per mettersi alla prova; in altri casi invece può non esser frutto di una libera scelta ma della necessità di trovare lavoro o di venire incontro alle esigenze della propria azienda, o ancora, alle esigenze di un partner costretto a trasferirsi.

    Qualunque sia il motivo alla base, partire è un’esperienza psicologica complessa per tutti. Essa comporta una fase di crisi fisiologica, perché costringe ad una riorganizzazione radicale della propria vita che influisce, almeno momentaneamente, sul proprio senso di identità. Infatti, i legami con le persone significative, le proprie cose, la propria lingua, il clima e le abitudini sono perduti e inizialmente può prendere il sopravvento un forte sentimento di estraneità verso il nuovo ambiente di vita.

    Questa situazione va sotto il nome di Sindrome di Ulisse, o sindrome dell’emigrante, e può portare ad idealizzare il proprio paese di origine, nel quale tutto era bello ed idilliaco e a svalutare il paese di arrivo, come fonte di disagio o sofferenza. Allo stesso modo, si può verificare anche l’esatto opposto, elevando il paese ospitante come terra promessa per la risoluzione di tutti i propri problemi e denigrando il proprio paese come luogo dal quale è stato necessario fuggire, causa di tutti i mali.

    Entrambi questi comportamenti, se portati all’estremo, possono essere considerati dei disturbi emotivi, in cui l’esaltazione o la svalutazione eccessiva di un posto o dell’altro sono il risultato di una distorsione della realtà sull’onda dell’emotività.

    Questo perché ritrovarsi in un terreno inesplorato può causare un certo disequilibrio emotivo e portare a sensazioni di disagio, se non di paura, nel dover affrontare una situazione di cambiamento con il conseguente timore del fallimento o della solitudine o, più semplicemente, sentimenti di ansia per la rottura degli equilibri precedenti e le incognite che verranno.

    Ecco che i punti di tensione che possono insorgere solitamente ruotano intorno a questi 4 cardini:

    • La solitudine: all’inizio può non essere facile trovarsi lontano dai propri affetti e circondati da persone, anche piacevoli e simpatiche, ma con le quali si condivide ancora poco. Costruire rapporti solidi e profondi richiede tempo e si può provare nostalgia per le proprie amicizie più strette e faticare per l’assenza di momenti di condivisione e sfogo.

    • La paura: questa emozione, normale in ogni fase di passaggio, può riguardare il timore del cambiamento, il timore di non farcela, di non riuscire ad adattarsi, di non riuscire ad inserirsi oppure di fallire e di deludere. Quando le cose non vanno come sperato o ci si trova ad affrontare più ostacoli del previsto possono affiorare vissuti di depressione, di ansia, di insicurezza e di insoddisfazione verso se stessi.

    • L’estraneità e lo spaesamento: ricominciare la propria vita in un altro paese mette in discussione tutti i propri punti di riferimento. Le sicurezze e le abitudini che si avevano prima di partire si scontrano con un nuovo contesto, una nuova casa, nuovi ritmi ed usanze, cibi diversi, ma anche nuove convinzioni, nuove passioni o obiettivi. Cambiare è certamente positivo sotto il profilo della crescita personale ma comporta una sorta di sradicamento dal proprio passato quando però il background di destinazione è ancora in costruzione.

    In questa fase ci si può sentire divisi a metà tra due mondi: lasciarsi contaminare dalla cultura “adottiva” è necessario affinché l’inserimento vada a buon fine ma è allo stesso tempo importante non rinunciare del tutto alla propria! L’identità, infatti, è una struttura che si plasma continuamente in funzione delle nostre interazioni, dei rapporti che instauriamo con gli altri e della nostra cultura di appartenenza. Mantenere la capacità di percepirsi costanti pur in questo continuo fluttuare delle situazioni e degli incontri che si vivono può non essere semplice e causare sentimenti di estraneità.

    • La gestione delle relazioni: solitamente, la scelta di trasferirsi riguarda la persona che decide o si trova costretta a fare il salto ed è volta esclusivamente al bene della stessa. I famigliari, i compagni o gli amici, per quanto possano dissimulare la tristezza e cercare di essere contenti e supportivi, subiranno un allontanamento che può non essere facilissimo da affrontare. Questa consapevolezza può determinare sentimenti di colpa in chi parte o preoccupazione verso chi resta.

    Inoltre, benché oggi spostarsi sia diventato più semplice e più rapido, non sarà comunque possibile rientrare ogni volta che lo si desidera. Fare delle scelte, quindi, diventa necessario ma anche molto difficile: tornare per il matrimonio della migliore amica o per la festa dei 90 anni del nonno?

    Inoltre, benché desiderati, i ricongiungimenti dopo lunghe separazioni sono momenti delicati che possono causare anche tensioni: si tratta di ri-conoscere gli altri, anche i parenti stretti, e ricostruire ogni volta il contatto e la relazione. Per tutti questi motivi, i rapporti possono soffrire della distanza e finire col deteriorarsi o interrompersi se non si trovano delle modalità efficaci di gestione dei vissuti emotivi.

    Tutti questi elementi possono influenzare la nostra psiche e il nostro corpo attraverso sintomi quali:

    • Difficoltà respiratorie

    • Disturbi dell’alimentazione o del sonno

    • Disorientamento e sintomi dissociativi

    • Apatia o depressione

    • Isolamento e difficoltà a relazionarsi

    • Ansia e attacchi di panico

    • Pianto improvviso o incontrollabile

    • Nervosismo

    • Preoccupazioni eccessive e pensieri ricorsivi

    • Mal di testa, nausea e altri disturbi psicosomatici

    Tuttavia, nonostante la condizione di “migrante” riguardi ormai più di un terzo dell’umanità, il disagio psicologico di queste persone viene poco pensato e riconosciuto. Vivendo in un epoca in cui, grazie agli smartphone e alla tecnologia, è possibile accorciare moltissimo le distanze fisiche e superare le barriere spaziali si sta costruendo un’idea comune di “cittadini del mondo”, in grado di muoversi e adattarsi senza limiti e senza alcun tipo di ripercussione emotiva; come se i normali sentimenti di disagio o di nostalgia fossero ormai un intralcio alla produttività e al progresso.

    Nell’esercizio della nostra attività professionale è capitato anche di imbattersi in persone che dopo il rientro da esperienze di lavoro o di studio all’estero, presentano problematiche psicologiche ormai cronicizzate poiché vissute in solitudine e senza un adeguato supporto. La loro sofferenza sarebbe stata sicuramente più contenuta se avessero potuto trovare già all’estero qualcuno a cui rivolgersi per trattare il malessere nel momento stesso in cui si era manifestato. Spesso ciò accade per l’assenza di una lingua comune che permetta di esprimere i propri pensieri ed emozioni anche in terra straniera.

    Per questo, l’Associazione Eco, ha pensato alla necessità di offrire una dimensione empatica e di dialogo per chi vive in terra straniera in modo da creare uno spazio psicologico dove sentirsi riconosciuti, dove collocarsi e ricostruire un filo conduttore della propria esistenza e dove superare i momenti di “scollamento” in cui l’individuo si sente spaesato e rischia di sviluppare modalità di sopravvivenza inefficaci, con ripercussioni sul successo lavorativo o scolastico.

    Non potendo offrire un servizio in tutte le lingue del mondo abbiamo pensato all’Inglese come mezzo efficace per abbattere le barriere nell’ambito di una seduta psicologica, essendo ormai la lingua più importante per gli scambi e parte del bagaglio delle nuove generazioni!

    Da qui nasce il nuovo progetto di Terapia Psicologica in Inglese per rispondere alle crescenti richieste provenienti dai numerosi stranieri che abitano il nostro territorio e che non padroneggiano abbastanza bene l’italiano da intraprendere un percorso nella nostra lingua.

    Il percorso previsto dal Progetto Psychological Therapy in English prevede pacchetti di 10 sedute ad un prezzo agevolato per gli studenti e lavoratori in difficoltà, a partire da 250€. Il primo colloquio, conoscitivo e informativo, ha un costo di 10 €.

    Per avere maggiori informazioni contattaci!

    Associazione Eco 

    http://ecoassociazione.it/

    Dott.ssa Valeria Lussiana

    3402248813